Soluzione dei due Stati e razzismo israeliano

Il sostegno israeliano ad una soluzione dei due stati basata sul razzismo

Ben White

 

Middle East Eye – Lunedì 19 settembre 2016

 

Quello che unisce i sostenitori irriducibili del colonialismo di insediamento sionista è semplice: il razzismo contro i palestinesi.

La scorsa settimana “The Guardian” [giornale inglese di centro-sinistra. Ndtr.] ha pubblicato la recensione scritta da Nick Cohen di un nuovo libro intitolato “Il problema della sinistra con gli ebrei”. La recensione di Cohen era abbastanza prevedibile, e il libro in sé, scritto da Dave Rich del  “Community Security Trust” [gruppo di autodifesa ebraico sospettato di rapporti con i servizi di sicurezza israeliani. Ndtr.] non è il fulcro di questo editoriale.

Piuttosto, voglio richiamare l’attenzione su una breve citazione della recensione di Cohen, che è istruttiva per quello che evidenzia dell’attuale dibattito su antisemitismo e sinistra, così come su domande più generali su  sionismo, anti- sionismo e sulla continua lotta dei palestinesi per l’autodeterminazione.

In un articolo breve, Cohen dedica parecchio spazio a una definizione parodistica dell’anti-sionismo. Egli scrive:

A partire dagli anni ’70, gli oppositori di Israele hanno dovuto decidere se l’anti-sionismo significasse una realizzazione dei diritti nazionali dei palestinesi attraverso la soluzione dei due Stati, che riconosce che la Palestina era il fulcro dei nazionalismi ebreo ed arabo in conflitto, o se gli richiedesse un appoggio a una guerra mortale, che avrebbe portato ad uno Stato puro dal punto di vista etnico e (con il sorgere del fondamentalismo sunnita) religioso.

Qui Cohen elabora la sua fondamentale alternativa falsa tra una soluzione dei due Stati che preservi Israele come “Stato ebraico” o un unico Stato “puramente sunnita”.

Che dire allora di uno Stato unico, democratico e decolonizzato? Sembrerebbe che Nick Cohen non pensi che i palestinesi siano abbastanza “civilizzati” per questo.

Nessun diritto al ritorno

Naturalmente, come ha sempre scritto, Cohen è assolutamente contrario al ritorno dei profughi palestinesi a casa. Perché? Sulla base del fatto che “distruggerebbero (Israele) in quanto Stato ebraico.” Il che ci porta alla domanda: chi sta effettivamente difendendo qui l’idea di uno “Stato etnicamente…puro”?

Questo tipo di proiezione da parte dei sostenitori di Israele è particolarmente evidente quando il discorso verte sull’idea di una soluzione di uno Stato unico democratico.

“I palestinesi vorrebbero buttare fuori gli ebrei!” sostengono i sostenitori di uno Stato creato attraverso la pulizia etnica, e che continua a praticarla anche adesso.

“Gli ebrei sarebbero cittadini di serie B!” dicono i sostenitori di uno Stato in cui i cittadini palestinesi affrontano una disuguaglianza sistematica, e le cui forze armate tengono milioni di palestinesi senza Stato sotto un regime militare ancora più esplicitamente discriminatorio.

L’argomentazione di Cohen mi ha ricordato le obiezioni di Yiftah Curiel, portavoce dell’ambasciata israeliana, durante un dibattito dell’inizio di quest’anno all’università di Oxford: “L’obiettivo di uno Stato unico,” ha detto, “è già stato sperimentato, e si chiama Siria.”

Da dove cominciare a descrivere le differenze che rendono un simile paragone quanto meno superficiale e semplicistico? Al peggio, si tratta di semplice razzismo: l’assunto implicito – o non tanto implicito, nel caso di Cohen – è che gli arabi sono incompatibili con una democrazia.

Una compagnia preoccupante

La difesa da parte di Cohen dell’attuale pulizia etnica con l’evocazione di un’ipotetica, futura pulizia etnica non è l’unico esempio di proiezione. Forse il suo prediletto argomento centrale da demolire è quello che vede una causa comune tra “sinistra”, o “progressisti”, e “sostenitori della “Fratellanza Musulmana”.

Eppure è  Cohen, in quanto si autodefinisce “liberal”, che si ritrova in allarmante compagnia quando arriva a difendere l’etnocrazia di Israele.

Per esempio, la scorsa settimana il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, residente in una colonia e capo del partito ultra-nazionalista Yisrael Beiteinu, ha parlato agli studenti nell’università di Ariel (situata all’interno della Cisgiordania) ed ha ripetuto il suo ben noto sostegno ad uno scambio di popolazione e terra tra coloni e cittadini palestinesi di Israele.

Perché? Bene, come lo ha definito Lieberman, è inaccettabile per i coloni ebrei essere spostati dalla Cisgiordania con un accordo di pace, per poi lasciare Israele con tutti quei cittadini palestinesi che distruggono la demografia di uno “Stato ebraico”.

“Abbas non vuole neanche un ebreo sul suo territorio mentre da noi ci si aspetta che diventiamo uno Stato bi-nazionale,” ha detto.

Questa avversione per il “bi-nazionalismo”, o anche per ogni soluzione in cui la “maggioranza ebraica” artificialmente e violentemente creata non sia protetta da un muro (gioco di parole) e garantita per sempre, è un punto di vista condiviso da tutti, da Lieberman fino a gente come la politica dell’opposizione israeliana Tzipi Livni.

Per Livni “pace e due Stati per due popoli” è “un imperativo”, in modo da  “evitare il problema statistico demografico che i palestinesi superino il numero degli israeliani,” e per “preservare l’ebraicità del modello di Israele come Stato ebraico e democratico.”

O, come Livni ha detto una volta agli studenti di una scuola di Tel Aviv, “una volta creato uno Stato palestinese”,  lei potrebbe guardarsi in giro e dire ai cittadini palestinesi di Israele: “La soluzione nazionale per voi è altrove.”

Nick Cohen annuirebbe in segno di approvazione. Perché quello che unisce i difensori incondizionali del colonialismo di insediamento sionista, che siano “liberal” o “falchi”, e indipendentemente dalle loro opinioni su qualunque altra questione, è semplice:  il razzismo anti-palestinese.

Ben White è l’autore di “Aparthied israeliano: una guida per principianti” e “Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia.” Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I media devono verificare i fatti

L’uccisione di palestinesi da parte israeliana: i media devono verificare i fatti

Ben White

Middle East Eye – 11 settembre 2016

 

 

Che cosa ci vuole perché i media occidentali smettano di prendere per buona la versione dei fatti delle autorità israeliane?

Persino per gli standard che siamo abituati d aspettarci dalle forze armate di Israele, le circostanze e quanto è seguito all’uccisione di Mustafa Nimr da parte della polizia di frontiera israeliana nel campo profughi di Shuafat lo scorso lunedì [5 settembre. Ndtr] suscitano aspre critiche per la loro assoluta crudeltà e sfrontatezza.

Alla fine di un’incursione notturna a Shuafat lunedì mattina presto, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un veicolo in quello che le autorità hanno immediatamente descritto come un tentativo sventato di investimento con un’auto. Il passeggero, Mustafà Nimr, è rimasto ucciso, mentre il conducente, suo cugino Alì, è stato ferito ed arrestato.

Per essere chiari: la versione consegnata ai media dalla portavoce della polizia israeliana sostiene che la macchina  è piombata contro i poliziotti di frontiera ed ha tentato di investirli. Gli agenti hanno aperto il fuoco, ha detto, solo dopo aver intimato al veicolo di fermarsi.

Tuttavia la famiglia di Mustafà, distrutta dal dolore, ha insistito che non c’era stato nessun tentativo di investimento, una versione sostenuta da testimoni oculari. Fotografie hanno  mostrato pane e vestiti per bambini sul sedile posteriore dell’auto, coperti di vetri rotti e di sangue.

“Ucciso per sbaglio”?

Il giorno dopo, fonti ufficiali israeliane hanno informato la famiglia che Mustafà era stato “ucciso per sbaglio”. Martedì notte, la TV israeliana ha mandato in onda brani di un video amatoriale della scena in cui si possono sentire spari dopo che la macchina si era già  fermata e Alì era steso al suolo.

Ma la storia non è finita. Allora è emerso che la polizia israeliana stava pensando di incolpare Alì, il ferito sopravvissuto agli spari, per aver provocato la morte di suo cugino. La ragione era che con il suo modo di guidare “spericolato” egli aveva causato il fatto che gli agenti aprissero il fuoco.

Queste accuse di “omicidio colposo” a quanto pare sono state rigettate da un tribunale israeliano. Tuttavia ci sono precedenti di ciò: nel 2012 le forze di sicurezza israeliane hanno sparato ed ucciso un lavoratore a un checkpoint, per cui è stato accusato solo il conducente della camionetta palestinese per “comportamento negligente”.

Al momento della stesura di questo articolo, gli ispettori del ministero della Giustizia stanno ancora valutando se “citare in giudizio gli agenti di polizia coinvolti nell’incidente per essere interrogati come possibili sospettati di un reato penale”.

 

In attesa che rendano conto delle loro responsabilità

I precedenti suggeriscono che nessuno dovrebbe trattenere il respiro aspettando che rendano conto delle loro responsabilità.

Non è la prima volta, anche durante lo scorso anno, che la causa delle autorità israeliane per l’uccisione di un palestinese viene insabbiata. Il 21 giugno l’esercito israeliano ha affermato che ha “preso di mira terroristi” quando, in effetti, ha ucciso il 15enne Mahmoud Badran mentre viaggiava con i suoi amici.

Il 13 luglio le forze israeliane hanno sparato ed ucciso Anwar al-Salaymeh durante un’operazione notturna a al-Ram, sostenendo di nuovo che si era trattato di un tentativo di investirli con l’auto. I sopravvissuti hanno detto che stavano semplicemente andando verso una panetteria.

La questione è: quanto ci vorrà perché i media occidentali smettano di prendere per buona la versione dei fatti delle autorità israeliane? E perché è addirittura un problema cominciare a farlo?

Dall’ottobre 2015 i media occidentali di lingua inglese, nel loro complesso, non hanno mai trattato le affermazioni delle autorità israeliane con lo scetticismo che evidentemente meriterebbero.

C’è un pregiudizio dietro la fiducia accordata a un’affermazione della polizia o dell’esercito? E’ La mancanza di tempo – o un preconcetto – ad impedire che la spiegazione fornita da un portavoce militare sia messa a confronto con, o citata insieme a, resoconti dei media palestinesi, di testimoni oculari o amici e parenti dei morti? Non è difficile da fare.

E sì, come ho scritto sopra, dall’ottobre 2015 i media occidentali di lingua inglese, nel loro complesso, non hanno mai trattato le affermazioni delle autorità israeliane con lo scetticismo- o persino con la semplice verifica dei fatti – che evidentemente meriterebbero.

Gli articoli di contesto spesso assomigliano a questo recente esempio dell’Associated Press [agenzia di stampa degli USA. Ndtr.]: “Dal settembre 2015, i palestinesi hanno ucciso durante attacchi 34 israeliani e due turisti americani. In questo periodo circa 209 palestinesi sono stati uccisi, la maggior parte dei quali identificati da Israele come aggressori.”

Tuttavia in quest’occasione l’AP ha aggiunto quanto segue nel suo reportage sulla sparatoria di Shuafat: “I palestinesi hanno spesso accusato gli israeliani dell’ uso eccessivo della forza contro aggressori e affermato in molti casi che i supposti assalitori non lo fossero affatto.”

Questa è un’aggiunta auspicabile, e si può solo sperare che altre agenzie di stampa e mezzi di comunicazione ne tengano conto. Però non basta ancora: non ci sono tracce, per esempio, del fatto che il bilancio dei morti palestinesi include civili disarmati uccisi durante proteste e scontri con le forze israeliane.

Formulazione standard

E’ evidente perché simili dettagli importano da un punto di vista israeliano. Il gruppo di pressione filo-israeliano “Camera” [gruppo statunitense che controlla e critica l’informazione sul conflitto israelo-palestinese. Ndtr.] si è lamentato del reportage di AFP sull’incidente di Shuafat, nonostante l’articolo riproduca, indubitabilmente, la versione dei fatti delle autorità israeliane – ora chiaramente smentita.

Qual è stata la contestazione di “Camera”? Che l’AFP “ha deviato dalla sua formula standard riguardo alle vittime palestinesi” omettendo “la questione fondamentale che la maggioranza di questi palestinesi uccisi stavano commettendo attacchi contro israeliani.”

Commentando la sparatoria mortale a Shuafat, l’avvocato di Ali Nimr ha detto: “Questo è un ulteriore esempio del caso di un poliziotto con il grilletto facile. Dopo aver visto i risultati (della sua azione), la cosa più facile è stata di dire che si trattava di un tentativo di aggressione con la macchina.”

Davvero facile – e non da ultimo perché sanno quanti giornalisti, sia israeliani che internazionali, continuano a volergli credere sulla parola.

– Ben White is the author of  Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide and Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy. He is a writer for Middle East Monitor, and his articles have been published by Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free, and more. 

Ben White è l’autore di “Apartheid israeliano: una guida per principianti” e “Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia.” Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian’s Comment is free ed altri.

The views expressed in this article belong to the author and do not necessarily reflect the editorial policy of Middle East Eye.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza assetata

Gaza assetata

di Sami Abu Salem – Newsweek, 17 agosto 2016

Inquinamento, salinizzazione e razionamento stanno minacciando la fornitura di acqua a Gaza

Nel campo di rifugiati di Jabalia, al nord di Gaza, i bambini e le donne anziane trasportano bottiglie di plastica raccolte vicino a rubinetti per riempirle di acqua potabile da un recente pozzo artesiano costruito dal Comune.

Dalal Awwad, un’anziana donna palestinese che vive da sola in una casa vicina, dice di usare regolarmente il pozzo per rifornirsi quotidianamente di acqua potabile.

“Non ho figli che mi aiutino e questa per me è la principale fonte di acqua potabile,” racconta a Newsweek Middle East.
Mentre Awwad riempie il suo contenitore, Abboud Masoud, di 6 anni, e sua sorella Noura, di 8, stanno con altri bambini vicino ai rubinetti, aspettando il loro turno.

“Veniamo qui perchè quest’acqua è gratis. Non abbiamo acqua potabile in casa,” dice, mentre sta per andarsene sulla sua piccola bicicletta, già carica di contenitori pieni d’acqua.

A causa del decennale blocco israeliano, circa due milioni di persone nella Striscia di Gaza stanno affrontando una crisi idrica che ha colpito la qualità e quantità dell’acqua nella piccola area geografica lungo al mare, di non più di 360 km².

Benché negli ultimi anni organizzazioni internazionali abbiano messo in guardia sulla gravissima situazione a Gaza a causa della scarsità di acqua, le cose sembrano peggiorare senza alcuna soluzione a disposizione.

Nel 2012 l’ONU ha avvertito che la fornitura di acqua a Gaza “potrebbe diventare insostenibile entro il 2016″, ed i danni causati potrebbero essere irreversibili entro il 2020.”

Ad aggiungere disgrazia a disgrazia, la maggior parte dell’acqua potabile di Gaza è diventata salata.

Monther Shoblaq, direttore generale dell’azienda municipale per le forniture idriche costiere, dice a Newsweek Middle East che “il 95% dell’acqua di Gaza non è adatta all’uso domestico a causa degli alti livelli di inquinamento e di salinità.”

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) la percentuale di cloruri non dovrebbe superare i 250 mg al litro. Tuttavia a Gaza è di 1.500 mg/l, racconta Shoblaq a Newsweek Middle East.

Aggiunge che anche la concentrazione di nitrati è ben al di sopra dei 50 mg/l raccomandati dall’OMS.

“A Gaza è di 150 mg/l. Se la situazione idrica non cambia entro il 2020, Gaza non avrà più acqua potabile,” aggiunge.
L’inquinamento, insieme all’alta percentuale di sale nell’acqua di Gaza ha provocato malattie letali tra la popolazione locale.

“Questi fattori sono la principale ragione delle malattie renali ed infezioni delle vie urinarie a Gaza,” dichiara a Newsweek Middle East il dottor Abdallah Al Qishawi, primario del reparto di disturbi renali e dialisi all’ospedale Shifa di Gaza.

“Nitrati e cloruri provocano calcolosi renali così come infiammazioni, che portano a insufficienze renali.. .e causano malattie tra le donne incinte ed i bambini piccoli,” dice Al Qishawi.

Secondo quanto afferma, ci sono 550 pazienti in dialisi e circa lo stesso numero soffre di infezioni croniche.

Shoblaq accusa l’occupazione israeliana di Gaza come la principale ragione della crisi, oltre al comportamento irresponsabile delle persone.

Egli sostiene che Israele ha tagliato le risorse idriche trans-frontaliere installando pozzi di bonifica e bacini artificiali non lontano dalle falde acquifere sotterranee di Gaza. Così facendo, secondo Shoblaq, Gaza perde tra i 10 ed i 20 milioni di litri ogni anno.

“Questo modo di procedere impedisce il flusso naturale di acqua a Gaza…è totalmente illegale e viola le leggi internazionali,” aggiunge.

Le necessità di consumo della Striscia di Gaza sono circa dai 180 ai 200 milioni di m³ d’acqua all’anno, ma riceve meno di un terzo di questa quantità – da 55 a 60 milioni di m³ circa all’anno -, il che dimostra una gravissima carenza nell’approvvigionamento.

Nonostante  il ritiro ufficiale dalla Striscia nel 2006, Israele ha continuato a bloccare lo spazio terrestre e marittimo di Gaza.

I palestinesi si lamentano del fatto che, prima del ritiro di Israele, quest’ultimo ha fatto in modo di inquinare il luogo per la popolazione assediata.

“Una delle principali cause di inquinamento sono le vasche di acque reflue costruite da Israele in due zone, a sud e a nord di Gaza…quando si tratta di acqua, l’occupazione israeliana ha lasciato Gaza in condizioni disastrose,” dice Shoblaq. Il blocco israeliano ha avuto anche un impatto sulla fauna e la flora della Striscia, che aggrava ulteriomente il problema.

Rebhi Al Sheikh, vicedirettore dell’Autorità Palestinese per le Acque, dice che gli israeliani hanno messo i bastoni tra le ruote, sia sul campo che a livello politico, ostacolando ogni sforzo di risolvere la crisi idrica di Gaza.

Richiesto di fare un commento sul problema, il portavoce dell’esercito israeliano si è rifiutato di rispondere alle domande di Newsweek Middle East.

“Israele fornisce a Gaza 10 milioni di m³ d’acqua all’anno, così come offre assistenza per lo sviluppo delle infrastrutture idriche,” dice a Newsweek Middle East un portavoce del Coordinamento delle Attività di Governo di Israele nei Territori Palestinesi (COGAT).

“In base all’articolo 40 dell’accordo del 1995 [tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina] Israele dovrebbe consentire ai palestinesi di avere un supplemento di 70-80 milioni di m³ d’acqua all’anno, di cui 5 milioni sono per Gaza,” dice Al Sheikh.

E’ stato dopo 20 anni di negoziati che gli israeliani hanno consentito ai palestinesi di comprare 5 milioni di m³.

“Ma non possiamo comprarli integralmente perché i jet israeliani hanno distrutto il serbatoio per l’acqua in cemento ed altri impianti durante l’ultima aggressione [nel 2014],” racconta Al Shiekh a Newsweek Middle East.

“In uno dei progetti abbiamo perso circa un anno solo nell’attesa che gli israeliani autorizzassero l’attrezzatura,” afferma.

Ma gli israeliani negano l’ingresso di materiale da costruzione a Gaza, sostenendo che potrebbe essere usato per scopi terroristici.

“L’ingresso di materiale a doppio uso, che potrebbe servire a propositi terroristici, richiede un controllo di sicurezza per determinare la destinazione e l’utilizzo dei materiali per fini civili,” ha detto il portavoce del COGAT in una risposta via mail a Newsweek Middle East.

I palestinesi dicono che le affermazioni israeliano sono assurde.

“Immagina, in uno dei progetti in corso gli israeliani ci hanno chiesto di cambiare la ditta contrattata, che ha bloccato i lavori per parecchi mesi,” dice Al Sheikh.

Egli sostiene che Gaza sta costruendo tre impianti temporanei di desalinizzazione dell’acqua di mare di modesta entità per produrre 13 milioni di  m³ all’anno.

A peggiorare ulteriormente la situazione di Gaza, in seguito alla travolgente vittoria di Hamas nelle elezioni del 2006, i donatori internazionali hanno scelto di interrompere i finanziamenti dei principali progetti a Gaza, compresi gli impianti di desalinizzazione,  dice Shoblaq a Newsweek Middle East.

Ciò, oltre ai danni e alle disfunzioni della rete fognaria dovuti alle ripetute aggressioni israeliane, ha provocato l’infiltrazione di acque reflue nell’acquifero della Striscia.

Va rilevato che l’ONU ha dichiarato che, senza trattamento, il 90% dell’acqua di Gaza proveniente dall’acquifero non è potabile.
Se la situazione non viene risolta, anche l’acqua di mare si infiltrerà completamente nell’acquifero, prevede Al Sheikh.

Nel contempo anche comportamenti irresponsabili da parte della gente sta minacciando quello che rimane delle forniture idriche a Gaza.

Shoblaq dice che almeno 4.000 pozzi illegali sono stati costruiti dai gazawi e che questi costituiscono un vero depauperamento delle fonti naturali della Striscia.

“Un sacco di gente ha costruito alberghetti, villette e persino pozzi artigianali illegali che provocano una perdita di 150.000 litri al giorno.”

Allo stesso tempo, la maggioranza del milione 800mila abitanti di Gaza continua a comprare l’acqua dalle autobotti di acqua potabile del settore privato, che si riforniscono dai pozzi scavati lungo tutta la Striscia.

Assef Mousa, proprietario di un camion che vende acqua potabile, afferma che la maggior parte della gente compra “acqua filtrata” dalle autocisterne.

E apparentemente secondo Mousa, che progetta di espandere il suo giro di affari, questa attività sta andando molto bene.

“Sto pensando di comprare un nuovo camion. Abbiamo molte richieste. I nostri clienti sono in aumento,” aggiunge con un sorriso.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La Palestina nei testi scolastici di Israele.

Peled-Elhanan N.,

La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda nell’istruzione, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2015.  

A scuola di razzismo

di Laura Forcella Iascone

Come si educa nella scuola israeliana? Come vengono presentati la Palestina e i palestinesi nei più popolari manuali di storia, geografia, educazione civica attualmente in uso? Qual è la finalità dell’educazione in uno stato come Israele in cui l’identità nazionale e personale si fondano su quella che viene definita la grande narrazione sionista, capace di orientare scelte e coscienze? E ancora: come l’insegnamento può divenire un’arma per garantire la legittimità di uno stato?

A queste domande risponde, in dense 286 pagine, il lucido saggio di Nurit Peled-Elhanan, docente presso la facoltà di Scienze dell’educazione linguistica dell’Università ebraica di Gerusalemme che, insignita nel 2001 dal Parlamento europeo del premio Sacharov per la libertà di pensiero e i diritti umani, è tra i fondatori del Tribunale Russel sulla Palestina istituito nel 2009. Il libro, Palestine in Israeli School Books. Ideology and Propaganda in Education, è stato pubblicato a New York nel 2012 e tradotto in italiano per le Edizioni Gruppo Abele nel 2015. In Israele, dove “la lettura critica della narrazione ufficiale è considerata tuttora un atto non patriottico, se non addirittura di puro tradimento”, il libro non ha trovato editori.

L’interesse del saggio è almeno duplice perché, oltre a consentire di inquadrare il discorso in un contesto storico che dà ragione della natura di particolare “etnocrazia” o “democrazia etnica” dello Stato ebraico, svela, secondo i principi della teoria socio-semiotica, i meccanismi di costruzione del consenso messi in atto, attraverso raffinate strategie di comunicazione, anche in altri Paesi. L’autrice, con un linguaggio specialistico ma di facile comprensione, aiuta a decodificare messaggi apparentemente neutri e oggettivi per rintracciarne la matrice ideologica e mettere in guardia il lettore dai possibili inganni di un’educazione formale finalizzata a produrre e riprodurre memoria collettiva e non a fornire strumenti di indagine storica.

Attorno all’illuminante distinzione tra storia  e memoria si fonda la premessa della ricerca che dimostra come la costruzione di una memoria mitica e dittatoriale, che mette nell’oblio duemila anni di civiltà palestinese, sia in contraddizione con le esigenze della storia che dovrebbe interpretare, con disinteresse e innocenza, i fatti del passato. Il sionismo, nei testi scolastici analizzati, è un assunto indiscutibile, anche in quelli considerati progressisti. L’obiettivo è chiaro: preparare giovani soldati che, a diciotto anni, a conclusione della scuola, possano attuare con determinazione la politica israeliana di occupazione dei territori palestinesi.

Il comune sentire “antiarabo” è diffuso in Israele, dove “l’appellativo arabo richiama masse sporche di gente esagitata, terrorismo, primitività, oppressione delle donne, sovracrescita demografica e fondamentalismo”: le sue radici stanno anche negli stereotipi diffusi dai libri di testo, il canale privilegiato attraverso cui gli studenti ebrei acquisiscono informazioni sui palestinesi che vivono accanto a loro senza avere con loro contatti dal momento che costituiscono un out group connotato negativamente e discriminato. Si tratta di un razzismo che viene alimentato da élite culturali come insegnanti, giornalisti, accademici, scrittori, uomini politici che aboliscono qualsiasi emotività nel racconto delle sofferenze dei palestinesi, percepiti come problema da risolvere, non come cittadini, o semplicemente esseri umani, portatori di diritti.

Anche l’iconografia dei libri di testo, con un uso sapiente anche dell’inquadratura solitamente al di sotto della nostra vista, o la stessa cartografia, che veicola il principio dell’esclusione, o il layout della pagina contribuiscono a radicalizzare la percezione dei palestinesi come problematici, distanti, inferiori, spesso ridotti alla stregua di oggetti da porre sotto controllo: l’emarginazione politica, sociale e culturale di cui sono vittime si riflette nell’emarginazione che subiscono nei libri di testo e i massacri subiti, che il saggio presenta con puntualità in una raccapricciante sintesi di quelli principali, sono giustificati e resi inoffensivi alla coscienza.

La conclusione è sconfortante e inequivocabile: le pratiche razziste e discriminatorie sono trasmesse dalla scuola e, più in generale, dall’apparato statale di Israele che meriterebbe, secondo l’autrice,  l’inclusione nella lista dei Paesi razzisti da parte della Commissione delle Nazioni Unite. L’immagine scontata e tradizionale in Israele che vede ogni arabo seduto a fumare il narghilé o pronto ad abbracciare un’arma va cancellata. La scuola che dovrebbe insegnare la complessità del giudizio e la diffidenza nei confronti delle semplificazioni identitarie in Israele fallisce il suo obiettivo. Purtroppo non solo lì.

 

Laura Forcella Iascone insegna italiano e latino in un liceo scientifico di Brescia, per il quale è responsabile delle iniziative culturali.

Laureata in Lettere con una tesi di argomento geografico, ha collaborato con riviste, enciclopedie e libri di testo ed è coautrice di manuali scolastici di latino per la casa editrice “La Spiga”.

 

 

 

 

 




Netanyahu se ne andrà, ma il “Bibismo” resterà

Anche se il primo ministro fosse rimosso, i suoi principi ispiratori si sono radicati nell’opinione pubblica israeliana e nei media.

Haaretz

Di Rogel Alpher, 9 luglio 2016

Anche se i più profondi desideri delle vecchie elite diventassero realtà e la loro nemesi, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, venisse esautorato, Israele non cambierebbe strada. I “Bibisti” – Yair Lapid, Naftali Bennet, Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Moshe Ya’alon e Gideon Sa’ar –  resterebbero al comando. Il “Bibismo” continuerebbe a governare lo Stato. I principi del Bibismo godono di un ampio consenso tra gli ebrei israeliani e nei mezzi di informazione importanti – canali 2 e 10, Israel Hayom, Yedioth Aaronoth, la radio dell’esercito e la radio di Israele. 

Non è stato “Bibi” a creare questo movimento, che è antico quanto lo Stato stesso. Lui ne è solo  la  somma espressione, il più grande ideologo, e colui che lo ha gestito con maggior successo. Questo movimento esiste indipendentemente da lui, ed il suo destino non è intrecciato con quello di  costui. Il Bibismo si fonda su tre principi base:

  1. L’Olocausto non è mai terminato. Come un tumore in fase di remissione, è sempre suscettibile di recidivare. Gli ebrei israeliani non possono ottenere una completa guarigione dalla maligna ed eterna Shoah e lasciarsela alle spalle. Le aggressive metastasi dell’antisemitismo compaiono in tutto il mondo, continuamente. Ogni critica alla politica del governo israeliano scaturisce da questo antisemitismo. Il movimento nazionale palestinese è la continuazione dell’Olocausto con altri mezzi. Insieme al terrorismo estremista islamico e all’Islam hitleriano, cerca di eliminare gli ebrei israeliani.

Lo scopo della vita degli ebrei israeliani è di garantire che l’Olocausto non si ripeta. Ma la Shoah non è solamente la nostra ragione di vita: è anche la conseguenza della nostra esistenza in Israele. Ne è la prova il fatto che siamo in un perenne stato di minaccia alla nostra esistenza. Gli ebrei quindi sono le eterne vittime della storia: se non ci fossero ebrei in Israele, le forze dell’Olocausto sarebbero riuscite a distruggere gli ebrei. D’altro lato, l’esistenza degli ebrei in Israele incentiva ancor di più  le forze dell’Olocausto a distruggere gli ebrei.

E’ una trappola, e la soluzione è che gli ebrei non hanno altra scelta che vivere sempre con la spada sguainata. Questo è il destino degli ebrei. Non è necessariamente una brutta cosa. Di fatto dà un senso alla nostra vita comunitaria. E’ la nostra fiamma vitale.

Dato che l’Olocausto è solo in remissione, gli ebrei israeliani si identificano anzitutto e soprattutto come ebrei, non come israeliani. Non sono una componente della nazione israeliana – il 20% dei cui membri sono arabi – ma piuttosto una parte della nazione ebraica nella Diaspora. Sono perseguitati da un perpetuo antisemitismo perché sono ebrei. Sono massacrati dai terroristi palestinesi perché sono ebrei. E questa è la prova che non vi è occupazione né apartheid. Non sono le azioni degli ebrei a scatenare il terrorismo palestinese. Le cosiddette occupazione ed apartheid altro non sono che misure preventive che hanno lo scopo di difendersi contro il terrorismo.

  1. L’Esercito Israeliano è sacro. Per impedire un’altra Shoah, Israele deve essere forte. La ragion d’essere di ogni ebreo israeliano è proteggere lo Stato. Al di sopra di ogni altra cosa, egli è un anello dell’infinita catena ebraica. L’ebreo israeliano deve essere disposto a sacrificare sé stesso per il popolo ebraico. La sua più alta aspirazione è morire da eroe, in combattimento. Ecco perché l’esercito è sacro. Esso ci protegge. E’ la sola cosa che si erge tra noi e un altro Olocausto. Ma è difficile per la gente morire per il proprio Paese se non può credere che l’esercito israeliano è, effettivamente, il braccio teso di Dio.

Dio ha promesso questa terra agli ebrei e ci ha prescelti tra tutti i popoli. L’Esercito ha realizzato la “Sua” politica. L’Esercito è la continuazione di Dio con altri mezzi.

  1. E’ un gioco a somma zero. Loro o noi. Perciò, credere totalmente o parzialmente che la narrazione palestinese sia giusta è tradimento. Il “Bibismo” è la narrazione nazionale degli ebrei di Israele.                                (traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Omicidi efferati da ambo le parti del conflitto israelo-palestinese

Si sono versate lacrime a Kiryat Arba, Sa’ir e altrove. Le ragioni sono diverse, ma i risultati sono identici ed orrendi

Haaretz

di Gideon Levy – 3 luglio 2016

“Hubb”, lo chiamavano, “Amore”, e lo portavano con loro ovunque. Era il loro figlio e fratello e lo mostravano con affetto. Era indifeso. Era nato con la sindrome di Down.

Il soldato gli ha sparato da breve distanza allo stomaco, poi se n’è andato con i suoi compagni senza controllare le condizioni di Hubb o chiamare aiuto. Lo hanno lasciato sanguinante sul terreno pietroso. Poche settimane dopo è morto in seguito alle ferite.  Arif Jaradat, del villaggio di Sa’ir, è morto a 23 anni.

Il portavoce dell’IDF [l’esercito israeliano. Ndtr.] ha detto che “i soldati hanno avvistato un palestinese che stava lanciando una bottiglia molotov” e hanno sparato “per eliminare la minaccia”. Questa affermazione è vergognosamente falsa.

Innanzitutto, i testimoni oculari hanno affermato che Arif ha solo gridato ai soldati per paura, come faceva sempre quando incontrava dei militari. E, indipendentemente dal fatto che i soldati potessero vedere o meno che si trovavano davanti un giovane affetto da sindrome di Down, era chiaro che se si fosse trattato di una bomba incendiaria, i soldati avrebbero arrestato Arif dopo averlo ferito. Ma gli hanno sparato e se ne sono andati.

A pochi kilometri da Sa’ir, a Kiryat Arba, durante il fine settimana è stato commesso lo sconvolgente omicidio di Hallel Yaffa Ariel mentre stava dormendo. Anche lei era indifesa, anche lei era giovane ed innocente. “Come puoi uccidere una tredicenne?” ha gridato sua madre. Ha ragione. E come puoi uccidere un giovane con la sindrome di Down? I cuori sono scossi, le lacrime scorrono e le gole si chiudono, sia a Kiryat Arba che a Sa’ir.

Pochi giorni fa Mahmoud Rafat Badran, un ragazzo di 15 anni, se ne stava tornando a casa con alcuni amici dopo essere stato in un parco acquatico. I soldati israeliani hanno crivellato la sua auto con 15 proiettili, pensando che i passeggeri avessero lanciato delle pietre sulla Strada 443. Rafat è rimasto ucciso e quattro suoi amici sono stati gravemente feriti dal fuoco indiscriminato. L’esercito ha affermato che si è sparato per “errore”.

Venerdì la famiglia Mark stava viaggiando a sud del monte Hebron, in Cisgiordania. Alcuni palestinesi hanno crivellato la loro auto con 19 proiettili, uccidendo il padre, Michael, e ferendo gravemente sua moglie e due figli. I primi a correre in loro aiuto sono stati dei passanti palestinesi, uno dei quali era un medico, che ha rianimato la madre, e un’ambulanza della Mezzaluna Rossa. Di nuovo una vita stroncata, di nuovo lacrime che scorrono.

Tutte queste uccisioni sono diverse, eppure simili. Per la maggior parte degli israeliani questi episodi non si possono confrontare. Il solo fatto di parlare di somiglianza  li fa infuriare. Ma la verità è che una persona indifesa è una persona indifesa, che si tratti di una ragazzina che dorme nel suo letto o di un giovane con la sindrome di Down. Ucciderli è un atto efferato.

Anche crivellare di proiettili un’auto è efferato. E’ vero, i palestinesi che hanno sparato alla macchina di Otniel volevano uccidere i passeggeri, mentre i soldati che hanno sparato contro l’auto di Beit Ur al-Tahta hanno detto di aver ucciso per sbaglio, ma il loro errore risulta inaccettabile.

Quindici proiettili per sbaglio? Hanno sparato indiscriminatamente ad un’auto senza l’intenzione di ucciderne i passeggeri? I palestinesi sparano come parte della loro resistenza all’occupazione. Gli israeliani sparano come parte della loro resistenza contro la resistenza. I motivi sono diversi, i risultati sono identici e orrendi, anche se vengono uccisi molti più palestinesi.

La maggior parte degli israeliani vive negando la realtà  in conseguenza del lavaggio del cervello a cui sono sottoposti. Il terrorismo esiste solo dalla parte dei palestinesi, solo loro agiscono con brutalità e disumanità. La realtà parallela rimane nascosta ai loro occhi – chi mai ha sentito parlare dell’uccisione di un giovane indifeso di Sa’ir? Ciò che è peggio, non c’è la volontà di prendere in considerazione l’episodio dal punto di vista palestinese.

Dietro a tutto ciò si nasconde il concetto più profondamente radicato in Israele – che i palestinesi non sono esseri umani come noi. Il loro sangue non è il nostro, versarlo non è malvagio come spargere il nostro.

Il giorno in cui più israeliani vorranno paragonare l’uccisione di Arif Jaradat a quella di Hallel Yaffa Ariel, il giorno in cui più israeliani riconosceranno l’ingiustizia ed i crimini commessi dal loro Paese, si farà il primo passo per ridurre lo spargimento di sangue. Fino ad allora continuerà. Niente lo fermerà.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La Corte Penale Internazionale e la Palestina

La CPI e la Palestina: un esempio di dubbia giustizia

Al-Shabaka

di Sarah Kanbar – 1 luglio 2016

 

E’ passato più di un anno da quando la Palestina è diventata membro della Corte Penale Internazionale (CPI) e l’Ufficio della Procura Generale della CPI (UPG) ha iniziato l’indagine preliminare della “situazione in Palestina”. Anche se il rifiuto pressoché assoluto di Israele di collaborare con la CPI in questioni relative alla Palestina l’ha ostacolata, Israele non è l’unico intralcio al fatto che la giustizia faccia il suo corso: anche lo stesso UPG ha giocato un ruolo fondamentale nel bloccare di fatto il procedimento. 1

Nel novembre 2015 il rapporto annuale della procuratrice generale Fatou Bensouda sulle attività di indagine preliminare ha fornito un aggiornamento sulla situazione dell’indagine preliminare. In base alle informazioni del rapporto non risulta chiaro come l’UPG procederà in funzione del suo scopo generale di mettere in pratica “i due principali obiettivi dello Statuto di Roma: porre fine all’impunità, incoraggiando corretti procedimenti nazionali, e prevenire i reati” riguardo alla Palestina. Inoltre due elementi del rapporto – l’affermazione dell’UPG riguardante la condizione di Stato sovrano della Palestina ed i possibili crimini che sono stati identificati in via preliminare – inducono ulteriori critiche all’UPG, in particolare le preoccupazioni riguardo alla sua imparzialità e il suo fallimento nel rispondere alle speranze di giustizia delle vittime.

Queste lacune dell’UPG potrebbero far fallire  l’obiettivo della CPI in quanto sede per  valutare e giudicare le atrocità che avvengono in Palestina. La società civile deve esaminare attentamente il lavoro della CPI per garantire che continui ad essere un’istituzione imparziale ed apolitica. Una simile vigilanza aiuterà a ottenere l’attribuzione di responsabilità e a fare un passo avanti nel caso della Palestina.

Palestina: un banco di prova per la CPI

La CPI, che ha iniziato ad operare nel 2002, è un’istituzione giudiziaria giovane ed in evoluzione. Finora quasi tutti i casi aperti davanti alla Corte sono situazioni che riguardano Stati africani. La CPI sta solo iniziando a impegnarsi in altre regioni attraverso indagini preliminari e inchieste. Ciò si riflette nell’incremento del numero di situazioni deferite all’UPG e nell’inizio di inchieste dopo il completamento delle indagini preliminari che durano anni.

La CPI affronta la sfida dovuta a finanziamenti limitati, che la mette nella condizione di aver bisogno del sostegno finanziario degli Stati membri. La CPI non può contare sempre su questi finanziamenti e, anche quando li riceve, lo stesso fatto di averne bisogno la rende soggetta ai progetti politici di alcuni Stati. La CPI è quindi in un momento critico in cui deve dimostrare di essere un’istituzione imparziale.

Durante un recente riunione dell’assemblea degli Stati membri della CPI, il responsabile della gestione e della supervisione della CPI, membri della delegazione palestinese e rappresentanti della società civile hanno espresso l’opinione che il fatto che la CPI si occupi del caso palestinese sarà un banco di prova particolarmente significativo per la Corte. Hanno citato molte ragioni della necessità che la CPI giudichi i crimini in Palestina, compresa la vicenda dei  conflitti regionali che dura da oltre 60 anni, i negoziati falliti e la documentazione della violazione dei diritti umani – dai continui rapporti sul campo delle ONG (organizzazioni non governative) all’opinione consultiva sul Muro israeliano espressa dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

Delegati e rappresentanti della società civile hanno anche affermato che l’UPG ha una grande quantità di informazioni che potrebbero portare a concludere efficacemente la sua indagine, benché abbiano  riconosciuto che Israele ha reso difficile l’accesso a informazioni relative all’attacco del 2014 contro la Striscia di Gaza. Inoltre hanno espresso il proprio timore che l’UPG possa cedere alla sua abitudine di perdere il sostegno delle vittime – in questo caso, palestinesi –  prolungando l’indagine.

La CPI è stata frequentemente criticata per il fatto che le vittime, che sono spesso vulnerabili e si aspettano molto dalla Corte, sono state deluse dall’incapacità della CPI di prendere provvedimenti.  Dopo aver aspettato lungo tutto il procedimento estremamente lento e non aver ricevuto una risposta, le vittime di atrocità si sentono abbandonate, e ciò provoca in loro un’ulteriore disillusione in merito al sistema giudiziario che opera sotto l’egida dei suoi Stati membri.

Durante un’indagine preliminare, l’UPG studia le comunicazioni e le informazioni per decidere se un’inchiesta e un processo possono avere luogo. Il rapporto del procuratore generale include materiale come la fase dell’indagine e i dati che sono stati analizzati. 2 L’UPG non conduce inchieste quando effettua un’indagine preliminare. Procede a un  esame e decide semplicemente se una situazione rientra nei parametri dell’articolo 53 dello Statuto di Roma, che dà luogo a un’inchiesta, salvo che il procuratore generale decida che non ci sono “basi ragionevoli” per procedere. 3 Lo Statuto di Roma non stabilisce un periodo di tempo entro il quale l’UPG debba completare un’indagine preliminare, e può essere presa in considerazione un’ ulteriore informazione dopo che un’indagine è iniziata. Quindi ci possono volere degli anni prima che un’inchiesta sia raccomandata o che l’UPG rinunci a procedere.

Ci sono due critiche che si possono fare alla CPI in base al rapporto. La prima è che la preoccupazione dell’UPG di apparire imparziale ha solo ritardato l’indagine preliminare e ha provocato il fatto che l’UPG sia andato oltre l’ambito delle proprie competenze riguardo alla questione della condizione di Stato sovrano della Palestina, un problema su cui si era concentrato il precedente procuratore generale. Secondo, prendendo in esame i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra israeliani, la CPI potrebbe rivelarsi solo un’ennesima organizzazione internazionale che deluderà i palestinesi perché non agirebbe contro Israele e non lo obbligherebbe a rendere conto [dei propri crimini].

Il rapporto dell’UPG e la questione della condizione di Stato sovrano

Vale la pena ricordare che, dopo il 2009, quando l’Autorità Nazionale Palestinese per la prima volta ha sottoposto alla CPI una denuncia relativa all’articolo 12 (3), in cui si dichiara l’accettazione della giurisdizione della Corte, l’UPG ha eluso un’indagine preliminare sulla Palestina perché non la considerava uno “Stato”. Nel primissimo rapporto sulle attività di indagine preliminare del 2011 l’UPG ha scritto che era necessaria una definizione sulla condizione di Stato sovrano della Palestina perché potesse presentare una denuncia. Nel rapporto dell’anno successivo l’UPG ha concluso che solo un’organizzazione internazionale come le Nazioni Unite potrebbe stabilire se la Palestina è uno Stato. Pertanto si è di nuovo rifiutata di procedere con un’indagine preliminare finché questa determinazione non fosse stata fatta.

Questo rinvio è stato duramente criticato, soprattutto perché tra i compiti affidati all’UPG non è compreso il fatto di porre questioni legali in merito alla statualità ai fini della denuncia. Inoltre c’erano altre opzioni a disposizione per decidere se la Palestina potesse presentare una denuncia o persino aderire allo Statuto di Roma, come un rinvio alla Camera Preliminare d’Indagine [che valuta le richieste a procedere dell’Ufficio del procuratore. Ndtr.], che ha l’autorità di emettere una decisione. 4

Una posizione diversa riguardante la condizione di Stato sovrano della Palestina è allora comparsa nel rapporto del 2015. Il procuratore generale Bensouda ha affermato che fosse necessaria una decisione da parte delle Nazioni Unite riguardo allo status della Palestina all’ONU per decidere se potesse aderire allo Statuto di Roma. Ma poi ha scritto che l’UPG aveva deciso che la Palestina poteva presentare una denuncia in base all’articolo 12(3), utilizzando la risoluzione 67/19 dell’assemblea generale dell’ONU come base della decisione. (La risoluzione del 2012 ha elevato lo status della Palestina a livello di osservatore non membro). Tuttavia Bensouda ha anche indicato che la CPI potrebbe ancora discutere della condizione di Stato sovrano sulla base della giurisdizione territoriale o personale.

Tuttavia, come hanno sostenuto molti studiosi ed esperti, l’UPG non ha la potestà di prendere una decisione tale come definire la condizione di Stato sovrano. Invece di proclamare che la Palestina è uno Stato e di conseguenza può presentare una denuncia in base all’articolo 12(3) o aderire allo Statuto di Roma, l’UPG avrebbe potuto arrivare alle conclusione che la Palestina può presentare una denuncia perché riunisce i prerequisiti stabiliti dall’articolo 12 dello Statuto di Roma. Quest’articolo consente a un membro non statale di autorizzare la CPI ad esercitare la propria giurisdizione per un crimine che ricade sotto la materia di competenza della CPI. In sostanza, sostenere che la Palestina possa agire come se fosse uno Stato ai fini di una denuncia ex art. 12(3) va oltre la limitata competenza dell’UPG.

E’ possibile che il pronunciamento dell’UPG sulla condizione di Stato sovrano della Palestina sia stato un tentativo in buona fede di Bensouda per rimediare all’inutile operazione iniziata dal precedente procuratore generale. Tuttavia tale pronunciamento indica anche una debolezza dell’UPG, soprattutto una preoccupazione di apparire imparziale. Facendo questa dichiarazione, l’UPG ha operato una compensazione eccessiva ed è andato oltre le sue competenze, piuttosto che accettare che la Palestina potesse presentare una denuncia in base all’articolo 12(3) perché risponde ai criteri richiesti dall’articolo 12. Questa preoccupazione probabilmente continuerà a impedire che l’UPG possa completare efficacemente un’indagine.

I crimini israeliani e la giurisdizione dell’UPG

Il rapporto del 2015 è comunque un passo positivo in quanto i materiali che documentano vari crimini in Palestina sono finalmente oggetto di considerazione. L’UPG si trova attualmente nella seconda fase dell’esame, durante la quale deve stabilire se ci sono crimini che ricadono sotto la competenza giurisdizionale della CPI – specificamente crimini di guerra e contro l’umanità.

I crimini contro l’umanità sono definiti dall’articolo 7 dello Statuto di Roma. Molte tipologie di fatti sono incluse in questa definizione, però la descrizione delle intenzioni in base alle quali vengono commessi è specifica. Mentre la definizione può includere molte violazioni da parte di Israele, la loro definizione è lasciata all’UPG. I crimini di guerra, in base all’articolo 8, sono delineati in modo più ampio e riguardano un conflitto armato, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra o violazioni delle leggi e delle consuetudini di guerra.

L’UPG ha indicato nel rapporto che sta rivedendo informazioni concernenti eventuali crimini commessi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est sia dai gruppi armati palestinesi che dalle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano. Ndtr.]. Sta prendendo in considerazione l’indiscriminato lancio di razzi e proiettili di mortaio verso Israele da parte di gruppi armati palestinesi, attacchi lanciati da aree civili, l’uso di luoghi civili per fini militari e l’esecuzione di palestinesi che avrebbero collaborato con Israele. L’UPG sta anche esaminando materiale riguardante crimini commessi dalle Forze di Difesa Israeliane a Gaza durante l’attacco del 2014 contro la Striscia, come attacchi diretti contro edifici residenziali civili e infrastrutture, così come contro edifici dell’ONU, ospedali e scuole. Queste accuse includono bombardamenti contro aree civili assai densamente abitate come Ash-Shuja‘iyeh e Khaza’a.

Non si sa se l’UPG arriverà alla conclusione che questi crimini – in particolare crimini contro l’umanità –  ricadono sotto la sua competenza giurisdizionale. Per esempio, alcuni dei crimini contro l’umanità in questione, come l’apartheid, sono problemi inediti, cioè questioni legali senza precedenti per la CPI. Ciò significa che la CPI non ha precedenti a cui attingere, rendendo l’esito imprevedibile.

Il procuratore capo Bensouda ha anche indicato che l’UPG ha informazioni riguardanti la violenza dei coloni, il trattamento dei palestinesi nelle prigioni israeliane e i tribunali militari. Questi non necessariamente potrebbero costituire crimini contro l’umanità e quindi non ricadrebbero sotto la giurisdizione della CPI. Peraltro le informazioni riguardo al sistema giudiziario israeliano potrebbero sia dare un impulso a un intervento della CPI, sia portare a un giudizio secondo cui il sistema giudiziario israeliano è in grado di condurre correttamente dei processi. Poiché la CPI è un tribunale di ultima istanza, uno dei suoi obiettivi è incoraggiare i procedimenti giudiziari nazionali. Se l’UPG decidesse che Israele può giudicare in modo corretto questi crimini, allora  potrebbe anche concludere che l’UPG non  ha bisogno di procedere con un’inchiesta – e Israele non sarà di nuovo chiamato a risponderne. 5

La stessa CPI a giudizio

Il vantaggio di avere un’istituzione giudiziaria come la CPI è che garantisce alle vittime di crimini atroci di lunga durata la possibilità di presentare una denuncia. La condanna dell’ex dirigente politico serbo bosniaco Radovan Karadžić nel marzo 2016 per crimini di guerra commessi contro i musulmani bosniaci è un monito circa le potenzialità dei tribunali penali internazionali. La Palestina sembra essere la prova definitiva per stabilire se la CPI deve continuare ad essere una sede per evitare l’impunità e rendere responsabili i colpevoli ai più alti livelli, o se è destinata a fallire perché si piega alle ingerenze politiche.

Benché meno della metà dei rifugiati palestinesi creda che la CPI rappresenterà una soluzione durevole, l’UPG è tenuto a continuare la sua indagine preliminare sulla Palestina. Se identificherà crimini potenziali come l’apartheid o persino il trattamento dei minori nei tribunali militari, ma non gli darà seguito, i palestinesi rimarranno senza risorse e gli verrà ricordato quanto le organizzazioni internazionali siano inefficaci nel trovare una giusta soluzione al conflitto. Ciò che è peggio, Israele continuerà ad agire impunemente. Ma se la CPI utilizzerà la legge come strumento per cambiare e metterà in pratica il principio della responsabilità nazionale, non sarà solo un importante successo per i palestinesi. Sarà anche un successo per la CPI in quanto sarà la prova delle sue prerogative e capacità di non essere influenzata da pressioni esterne.

Le organizzazioni palestinesi e della giustizia internazionale dovrebbero continuare a controllare il lavoro della CPI e dell’UPG, tendendo sotto osservazione come vengono prese le decisioni. I funzionari palestinesi devono anche continuare a considerare la CPI come un’istituzione non politicizzata ed evitare la tentazione di utilizzarla come un mezzo per riaffermare la propria condizione di Stato sovrano. 6  Nonostante la sua attitudine a farsi condizionare dalla politica, c’è ancora la speranza che la Corte possa chiedere conto ai dirigenti israeliani dei loro crimini – benché un simile risultato potrebbe richiedere molti anni. Essendo  la Palestina impegnata in un lungo viaggio con la CPI, si spera che sia verso una giusta meta.

Notes:

  1. L’autrice intende ringraziare Valentina Azarova per la sua competenza e assistenza in questo lavoro, così come Linda Carter e Osamah Khalil per il loro tutoraggio e appoggio.
  2. Ci sono quattro fasi in un’indagine preliminare: esame delle informazioni ricevute; decisione se i crimini identificati ricadano o meno sotto la competenza giurisdizionale della CPI; decisione se un caso è ammissibile; conclusione se debba essere avviata un’inchiesta “nell’interesse della giustizia”.
  3. L’articolo 53 (1) (dalla a alla c) dello Statuto di Roma dispone il contesto giuridico delle indagini preliminari. Per maggiori informazioni sul quadro legale e sulle limitazioni riguardo alle indagini preliminari, vedere l’articolo di politica di Valentina Azarova “Giorno della Palestina alla Corte? Gli effetti imprevisti dell’azione della CPI,” su Al-Shabaka, 1 aprile 2015.
  4. La denuncia ex articolo 12(3) è una concessione di giurisdizione che si applica al crimine in questione e non richiede la condizione di Stato sovrano per aderito allo Statuto di Roma.
  5. Un esempio recente della decisione di un tribunale israeliano è la mancata incriminazione di un colonnello che aveva dato istruzioni alla sua unità di bombardare una clinica  a Ash-Shuja‘iyeh [nella Striscia di Gaza, durante “Margine protettivo”. Ndtr.] come rappresaglia per la morte di un membro del suo reparto.
  6. Come ha scritto Valentina Azarova, “gli interessi della Palestina sono meglio tutelati se non si fraintende la CPI come se fogge uno strumento politico, ma piuttosto tentando di depoliticizzare l’esame della situazione della Palestina da parte della CPI. Si dovrebbe definire una posizione comune, informata e pubblica sul significato della CPI in quanto meccanismo imparziale il cui scopo è assicurare il servizio fondamentale della giustizia.”

Sarah Kanbar

Sarah Kanbar ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nel 2016 presso l’università del Pacifico,  alla Scuola di Diritto McGeorge, con una specializzazione in studi di diritto internazionale. Nella facoltà di legge Sarah ha fatto il praticantato presso l’ufficio del Consiglio Legislativo della California e nell’ufficio del Difensore d’Ufficio federale. Ha ottenuto la laurea in Storia presso l’università della California, Berkeley, concentrandosi sul rapporto tra gli Stati Uniti e il Medio Oriente. Sarah aveva pubblicato in precedenza “Rooted in Our Homeland: The Construction of Syrian American Identity” [Radicati nella nostra patria: la costruzione dell’identità siro-americana. Ndtr.] nella rivista American Multicultural Studies (Sage, 2012) [“Studi multiculturali americani”. Ndtr.] e articoli su Muftah e Kalimat Magazine.

 




Perché le donne palestinesi attaccano i checkpoint israeliani ?

 

Che cosa spinge le donne palestinesi ad attaccare i checkpoint israeliani rischiando la morte?

I palestinesi temono che parlare delle motivazioni personali possa sollevare Israele dalla responsabilità di uccidere le donne che si avvicinano ai checkpoints armate di coltelli.

Di Amira Hass – Haaretz, 12 giugno 2016

 

La figura di una donna avvolta in una veste nera con il viso coperto da un velo ha attirato l’attenzione degli automobilisti. Il suo vestito sembrava ancora più nero sullo sfondo grigio degli alberi di ulivo impolverati dalle vicine pietraie.

Giovedì 2 giugno camminava verso ovest, in direzione del checkpoint di Einav, in un tratto di strada dove raramente si vedono passanti (eccetto i residenti dei villaggi vicini diretti ai loro uliveti) – certo non nelle ore più torride della giornata.

Questo checkpoint, che separa l’enclave di Tul Karm verso est dalle colonie della zona, non consente il passaggio di pedoni, ma solo di veicoli.

Almeno un automobilista, che trasportava bombole del gas, si è fermato per chiedere alla donna se avesse bisogno di aiuto. Lei ha detto che stava aspettando qualcuno che la venisse a prendere. Questo accadeva a circa 200 metri di distanza dal checkpoint.

Un’altra persona si trovava sul lato ovest ed ha visto con spavento quando la donna ha raggiunto le lastre di cemento intorno al posto di blocco. Ha raccontato ad Haaretz di aver diretto velocemente la vettura verso di lei. Si è fermato e l’ ha avvertita che le sarebbe accaduto qualcosa, che i soldati l’ avrebbero uccisa se fosse rimasta là.

“Non mi ha risposto,” ha raccontato. Non si potevano vedere i soldati tra i blocchi di cemento o lungo la corsia delle auto. Ha sentito uno di loro gridare dalla cima della torretta intimandogli di proseguire, e che se non lo avesse fatto gli avrebbero sparato.

“Sono andato avanti, non volevo morire”, ha detto. E’ convinto che gli automobilisti che la oltrepassavano erano giunti alla conclusione, come lui, che lei avesse deciso di morire. L’opinione diffusa è che i soldati israeliani oggi sparano per uccidere.

Una terza persona l’ha vista e gli ha fatto ricordare Maram Hassouna, che il primo dicembre si presentò allo stesso checkpoint con un coltello e fu uccisa dai soldati. Questa volta i soldati gli hanno permesso di avvicinarsi a piedi e di parlare con la donna.

“I soldati ti spareranno, vieni con me,” le ha detto la terza persona. “Allahu Akhbar,” ha risposto lei, ed ha estratto dalla borsa un lungo coltello, puntando la lama contro di lui in modo minaccioso. Si è spaventato ed è corso via.

Il primo automobilista, quello con le bombole del gas, è tornato indietro. Ha detto che, quando si è fermato davanti al checkpoint, ha notato la donna che usciva dai blocchi di cemento e stava in piedi di fronte a due soldati.

Stavano a due o tre metri da lei, forse un po’ di più. Lei ha alzato le braccia, ha riferito al ricercatore di B’Tselem Abed al-Karim Saadi, che ha rintracciato anche gli altri testimoni ed ha parlato con loro. E allora sono stati esplosi i colpi.

Le parole “voleva morire” non sono state dette chiaramente a Qaffin, il villaggio da dove proveniva la venticinquenne Ansar Hirsha, la donna che i soldati hanno ucciso. La sua famiglia e l’amministrazione locale erano preoccupati in merito a quando le autorità israeliane avrebbero restituito il corpo per poterlo seppellire. Poiché fino a sabato [11 giugno, ndt.] il suo cadavere non era ancora stato consegnato, non si sa ancora quante pallottole l’hanno colpita e dove.

Un figlio e una figlia  

L’Ufficio del portavoce dell’esercito israeliano non ha risposto alla domanda di Haaretz, che è anche la domanda posta dalla famiglia: perché non era possibile arrestare Hirsha o al limite soltanto ferirla? Dopotutto, era già rimasta alcuni minuti al checkpoint e la sua presenza là non aveva preso di sorpresa i soldati, che l’hanno vista dalla torretta da cui sono poi scesi.

Il portavoce dell’esercito non ha neanche risposto su come tre o quattro soldati non siano stati in grado di aver ragione di una donna senza doverla ammazzare. Il giorno dopo l’uccisione, il sito web Sikha Mekomit (della rivista +972) ha pubblicato quattro fotografie tratte dal filmato della telecamera di sicurezza, che mostrano che i soldati si tenevano ad una distanza da Hirsha tale da non poter essere feriti.

Un’altra domanda rimasta senza risposta è se l’esercito intenda pubblicare il filmato come prova della sua versione dei fatti, secondo cui i soldati erano in pericolo.

Il portavoce dell’esercito ha solamente detto che “in base all’esame preliminare eseguito giovedì scorso, 2 giugno 2016, le forze dell’esercito israeliano al checkpoint di Einav hanno identificato una persona sospetta che si avvicinava al checkpoint ed hanno iniziato la procedura prevista per l’arresto di un sospetto. La terrorista era armata di un coltello ed ha cercato di accoltellare i soldati. Per impedire la minaccia questi hanno risposto con colpi di arma da fuoco, dai quali la terrorista è stata uccisa.”

Ansar Hirsha lascia il marito Shadi e due bambini. Nei primi due giorni dopo la sua morte, Yaman, di quattro anni, ha continuato a chiedere dove fosse sua mamma e non voleva credere che lei fosse a Tul Karm, come gli hanno detto gli adulti.

Quando la casa ed il cortile del nonno si sono riempiti di visitatori, lui ha chiesto con rabbia chi fossero e che cosa ci facessero lì. Poi ha detto: “La mamma è morta, vero?”

“Capisce quello che è successo meglio di un ragazzo di vent’anni”, dice il nonno, Mohammed Hirsha. Mohammed e suo figlio Shadi hanno cercato invano di calmare il bambino, con gelato, pizza, una macchina giocattolo.

La sua sorellina Talia di due anni ancora non capisce. Quando hanno appeso dei poster in memoria di sua mamma nella casa e sui muri del villaggio, Talia è corsa verso il ritratto sul poster chiamando “Mamma, mamma” ed ha cercato di abbracciare il suo viso con le mani.

Ansar Hirsha non ha lasciato alcuna lettera o post su Facebook, ha detto Shadi Hirsha, di 28 anni, che lavora nel settore edilizio in Israele. Sia a lui che a suo padre è stato ora vietato di lasciare la Cisgiordania per andare a lavorare. Suo padre ha lavorato in Israele per decenni ed ora il suo permesso è stato revocato, come i permessi di una dozzina di altri parenti.

Shadi ha detto che Ansar ha cominciato a coprirsi il volto circa sette mesi fa. Gli ha detto che era la sua volontà; lui non sa perché. Nel poster, il suo volto è scoperto. La fotografia risale ad un anno e mezzo fa, alla cerimonia di laurea dell’Università Aperta di Al-Quds (Gerusalemme, ndt.), dove studiava amministrazione aziendale.

Nel poster, che il movimento giovanile di Qaffin si è affrettato a stampare, lei viene definita una shahida, una martire. Dei versetti del Corano ed una poesia proclamano che la morte di un martire è fonte di orgoglio. Ma nei discorsi del villaggio nessuno ipotizza che lei sia andata verso il checkpoint in quanto membro della lotta contro l’occupazione. E’ l’unica persona del villaggio ad essere stata uccisa durante l’ultima ondata di violenza.

Secondo l’associazione per i diritti B’Tselem il numero dei palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme che sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane (e dai civili) da settembre è di 171. Alcuni hanno compiuto attacchi terroristici letali, alcuni hanno provocato feriti, altri hanno minacciato persone o erano sospettati di prepararsi ad attaccare un israeliano.

Parole d’ordine

Hirsha è una delle 16 donne uccise, la maggior parte ai checkpoint. La prima è stata Hadeel al-Hashlamoun, che come Hirsha aveva il volto coperto ed era vestita di nero. E’ arrivata ad un checkpoint di Hebron con un coltello, e l’inchiesta dell’esercito israeliano ha rivelato che i soldati avrebbero semplicemente potuto arrestarla.

Una giovane donna, Samah Abdallah, è stata uccisa a fucilate dai soldati dell’esercito mentre si trovava nell’auto di suo padre. Neppure l’esercito sostiene che abbia cercato di attaccare i soldati. Riguardo ad un’altra madre, Mahdia Hammad, è stato sostenuto che aveva cercato di investire dei soldati. Un’inchiesta di B’Tselem solleva dubbi su questa tesi.

Riguardo alle donne che hanno cercato di accoltellare israeliani o che brandivano coltelli, c’è un forte divario tra ciò che la gente pensa e dice in privato ed il modo in cui i media e le autorità palestinesi presentano il fenomeno. Fino alla morte di Hadeel al-Hashlamoun l’opinione comune era che le donne che si recavano ai checkpoint e minacciavano i soldati con un coltello volessero essere arrestate – ed in tal modo fuggire dai problemi che avevano in casa: diverse forme di violenza, una lite con il padre o il fratello, una depressione non curata.

Le parole d’ordine erano “motivazioni sociali”, contrapposte a “ragioni nazionaliste”. A livello ufficiale e pubblico, attraverso l’arresto, il processo e il rilascio, le donne erano dipinte come persone che lottavano contro l’occupazione.

Negli scorsi anni, a causa del numero crescente di incidenti in cui i soldati israeliani hanno ucciso i palestinesi ai checkpoint, il “ desiderio di essere arrestate per motivi sociali” è stato sostituito dalla “volontà di suicidarsi”.

In una società tradizionale e religiosa che non vede di buon occhio il suicidio, è possibile che la morte per mano di un soldato appaia come una valida via d’uscita. Se la morte è una via d’uscita, significa che le donne non sanno come e a chi chiedere aiuto. La discussione sul pericolo di questo fenomeno in crescita esiste – soprattutto tra le attiviste femministe ed in diversi gruppi della società civile – ma non pubblicamente.

Alla domanda sul perché, le attiviste femministe hanno dato ad Haaretz diverse risposte. Soprattutto all’inizio dell’attuale rivolta individuale, le donne erano arrabbiate per il fatto che la gente sospettava che una giovane donna che si univa alla sollevazione e cercava di aggredire un soldato fosse spinta da motivi non “nazionalisti”. Vedevano questo come un ulteriore elemento di denigrazione delle donne.

Inoltre, come ha detto una militante di una storica organizzazione femminista, “come tutta la popolazione, noi rifiutiamo le pretese israeliane che ogni palestinese, uomo o donna, ucciso ad un checkpoint intendesse veramente aggredire un soldato o un civile israeliano. In ogni caso, siamo convinte che non ci fosse bisogno di uccidere. I soldati adesso ci terrorizzano più di prima, sono più violenti che mai.”

I palestinesi temono che la discussione sulle motivazioni personali possa contribuire ad esonerare Israele dalla responsabilità delle uccisioni. Ma le donne attiviste di varie organizzazioni ora vogliono fare distinzione tra le due cose e concentrare l’attenzione sul loro ruolo sociale, ma lontano dai riflettori dei media.

“Non sono solo donne ad andare ai checkpoint in modo sospetto e per disperazione, ma anche giovani uomini.”, ha detto un’attivista.

“E indipendentemente dal fatto che la disperazione dipenda da motivi personali, come è possibile distinguerla dalla generale disperazione della giovane generazione, che proviene direttamente dalla dominazione israeliana, che non consente di guadagnarsi da vivere e di produrre un cambiamento, dall’umiliazione quotidiana, dalla paura costante?”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




In Israele, ci muoviamo in mezzo agli assassini e ai torturatori

L’atto di censura nei confronti del Teatro Al-Midan [cfr. A.Hass su Internazionale ]scaturisce dall’invidia della capacità dei nostri assoggettati di vincere l’oppressione, di pensare e creare, sfidando la nostra immagine di loro come inferiori.

di Amira Hass | 22 giugno 2015 |

Haaretz

 

 

Nelle nostre case, nelle nostre strade e nei nostri luoghi di lavoro e divertimento ci sono migliaia di persone che hanno ucciso e torturato migliaia di altre persone o hanno diretto la loro uccisione e la loro tortura. Scrivo “migliaia” invece del più vago “innumerevoli” – un’espressione relativa a qualcosa che non si può misurare.

La grande maggioranza di coloro che uccidono e torturano (anche adesso) vanno fieri delle proprie gesta e la loro società e le loro famiglie sono orgogliose delle loro gesta – benché normalmente sia impossibile trovare un collegamento diretto tra i nomi dei morti e torturati ed i nomi di coloro che uccidono e torturano, e anche quando è possibile,[ciò] è proibito. E’ proibito anche dire “assassini”. Ed è proibito scrivere “malviventi” o “persone crudeli”.

Io, crudele? Dopo tutto, le nostre mani non sono coperte di sangue quando schiacciamo il bottone che sgancia una bomba su un edificio che ospita 30 membri di una famiglia. Malvivente? Come potremmo usare questo termine per designare un soldato di 19 anni che uccide un ragazzo di 14 anni che è uscito per raccogliere piante commestibili?

I killer e i torturatori ebrei e i loro diretti superiori agiscono come se avessero un’autorizzazione ufficiale. I palestinesi morti e torturati che si sono lasciati alle spalle negli scorsi 67 anni hanno anche dei nipoti e delle famiglie in lutto per i quali la perdita è una costante presenza. Nei corridoi universitari, nei centri commerciali, negli autobus, nei distributori di carburante e nei ministeri governativi, i palestinesi non sanno chi, tra la gente che incrociano, ha ucciso, o quali e quanti membri delle loro famiglie e del loro popolo ha ucciso.

Ma ciò che è certo è che i loro assassini e torturatori vanno in giro liberamente. Come eroi.

In questa malsana situazione in cui i palestinesi soffrono lutto e angoscia, noi, gli ebrei israeliani, non possiamo vincere. Con la nostra aviazione e le nostre forze armate e la nostra Brigata Givati e le nostre celebri unità di commando d’elite, siamo dei perdenti in questo contesto. Ma poiché siamo i dominatori indiscussi, falsifichiamo il contesto e ci appropriamo del lutto.

Non ci accontentiamo dei terreni, delle case e delle vie di comunicazione dirette che abbiamo rubato loro e di cui ci siamo impadroniti ed abbiamo distrutto, e che continuiamo a distruggere e a rubare. No. Noi in più neghiamo ogni ragione, ogni contesto storico e sociale delle espulsioni, spossessamenti e discriminazioni che hanno costretto un piccolissimo manipolo di quei palestinesi che sono cittadini di Israele a cercare di imitarci prendendo le armi. Si sono ingannati pensando che le armi fossero lo strumento giusto di resistenza, o hanno raggiunto il colmo della rabbia e dell’impotenza e deciso di uccidere.

Che se ne pentano o no, la loro delusione non cancella il fatto che avevano ed hanno tutte le ragioni di resistere all’oppressione e alla discriminazione e malvagità che sono parte del dominio di Israele su di loro. Condannarli come assassini non ci trasforma in vittima collettiva in questa equazione. Invece di indebolire le ragioni della resistenza, noi stiamo soltanto intensificando e migliorando gli strumenti di oppressione. E un mezzo di oppressione è l’insaziabile desiderio di vendetta.

L’attacco al Teatro Al-Midan e lo spettacolo “Un tempo parallelo” sono parte di questa sete di vendetta. E comprende anche tantissima invidia. Invidia per la capacità di coloro che opprimiamo di vincere l’oppressione e il dolore, di pensare, di creare e di agire, sfidando la nostra immagine che li dipinge inferiori. Loro non ballano la nostra musica come poveri smidollati.

Come in una caricatura antisemita, per noi tutto si concentra nelle finanze, nel denaro. Noi non stiamo zitti, noi ci vantiamo. Siamo felici se solo togliamo loro i finanziamenti. Li abbiamo trasformati in una minoranza nella nostra terra quando li abbiamo espulsi e non abbiamo concesso loro il ritorno, ed ora il 20% che è rimasto qui dovrebbe dirci grazie e pagare con le tasse degli spettacoli che esaltano lo Stato e la sua politica. Questa è democrazia.

Non è una guerra culturale, o una guerra sulla cultura. E’ un’altra battaglia – probabilmente una causa persa, come quelle precedenti – per un futuro sano per questo paese. I cittadini palestinesi di Israele erano una forma di assicurazione per la possibilità di un futuro sano: si può dire un ponte, bilingue, pragmatico, anche se contrario alla loro volontà. Ma dobbiamo attuare dei cambiamenti, dobbiamo imparare come ascoltarli, perché questa assicurazione sia valida. Ma noi, gli indiscussi dominatori, non prevediamo di ascoltarli e non conosciamo il significato di cambiamento.

Una nota finale: I rapporti sull’omicidio di un residente di Lod, Danny Gonen, alla sorgente di Ein Bubin vicino al villaggio di Dir Ibzi’a erano accompagnati da collegamenti a recenti precedenti attacchi: la persona ferita in un attacco terroristico vicino alla colonia di Alon Shvut, il poliziotto di frontiera accoltellato vicino alla Tomba dei Patriarchi a Hebron. E che cosa si ometteva di menzionare? Ovviamente, due giovani palestinesi recentemente uccisi dai soldati israeliani: Izz al-Din Gharra, di 21 anni, colpito a morte il 10 giugno nel campo profughi di Jenin e Abdullah Ghneimat, 22 anni, schiacciato il 14 giugno a Kafr Malik da una jeep dell’esercito israeliano.

In media ogni notte l’esercito israeliano compie 12 raid di routine. Per i palestinesi, ogni raid notturno, che spesso comporta l’uso di granate stordenti e di gas e sparatorie, è un mini attacco terroristico.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




Bruciate chiese e moschee in Israele

Fino a quando Israele permetterà che vengano bruciate le sue chiese e le sue moschee?

Israele deve trattare i mandanti dei crimini motivati d’odio, come quello commesso vicino a Tiberiade, con la stessa severità riservata a coloro che mandano le auto bomba nel centro delle città.

Editoriale di Haaretz 21 giugno 2015

L’incendio doloso di giovedì [18 giugno] della chiesa “Della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci” a Tabgha, vicino a Tiberiade, è il diciottesimo attacco incendiario a una chiesa o a una moschea negli ultimi quattro anni. Nessuno di questi casi è stato risolto, nessun responsabile è stato individuato e, naturalmente, nessun colpevole è stato accusato per gli attacchi, che sono parte di un’ampia serie di azioni, comprendenti scritte con lo spray sulle chiese e sulle moschee incitanti all’odio, sputi ai sacerdoti cristiani a Gerusalemme e la pubblicazione di editti di vari rabbini contro i “gentili”.

Danneggiare luoghi sacri non è solo un atto criminale o un o un crimine qualunque motivato dall’odio. Proteggere la libertà di culto è uno dei principi fondamentali universali previsti da tutti i trattati e dalle costituzioni di tutti i Paesi, in quanto costituisce l’aspetto principale dell’identità culturale. Persino nazioni che si costituiscono in base alla religione prevalente, come alcuni Stati islamici, considerano le istituzioni religiose di altre fedi come luoghi sacri, perseguendo e punendo coloro che le profanano.

Le leggi israeliane contro il danneggiamento dei luoghi sacri sono di una chiarezza cristallina, così come il discorso ufficiale apparentemente portato avanti dal governo. Se si considera la fedeltà nei confronti della definizione di Israele come Stato ebraico, il governo condanna vigorosamente tutti i casi in cui un luogo di culto non ebraico viene deturpato. Tuttavia è difficile prendere in seria considerazione le condanne espresse dal primo ministro, dai ministri e dagli esponenti della Knesset quando, nello stesso momento, fanno l’occhiolino a quelli che infrangono la sovranità dello Stato e intraprendono personali campagne religiose e culturali contro i cristiani e i musulmani.

Quale messaggio ha realmente trasmesso al pubblico il primo ministro Benjamin Netanyahu dopo l’ultimo attacco incendiario? Ha dato istruzioni al capo dei servizi di sicurezza Shin Bet [il servizio segreto interno n.d.t.] di accelerare l’inchiesta per trovare i colpevoli. Significa che deturpare le istituzioni religiose fino ad ora non era tra i compiti dello Shin Bet? Possiamo trarre la conclusione che individuare i colpevoli dei crimini motivati dall’odio contro gli arabi non è un fatto degno della loro attenzione?

È giusto dire che profanare luoghi di culto non è percepito come un atto “classico” di terrorismo che mette in pericolo la sicurezza nazionale. Tale interpretazione vale anche ovviamente per i colpevoli di delitti motivati dall’odio e per i fanatici religiosi. La loro continua libertà gli da un senso di impunità che gli permette di continuare nei loro crimini.

Il governo di Israele, giustamente, non avrebbe ignorato l’incendio di sinagoghe, la distruzione di tombe nei cimiteri ebraici o l’aggressione contro ebrei in altri Paesi se i governi [di questi Paesi] si fossero scarsamente impegnati nell’indagare simili crimini. Ora deve dimostrare determinazione nello sradicare analoghi crimini di incitamento all’odio dall’area sotto la sua giurisdizione, definendo i colpevoli come terroristi che minano la sicurezza d’Israele, né più né meno di quelli che mandano le auto bomba nel centro delle città.

 

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)