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L’esercito israeliano ha condotto un’azione psicologica online rivolta all’opinione pubblica israeliana durante la guerra di Gaza

Hagar Shezafand e Yaniv Kubovich

22 marzo 2023 Haaretz

L’esercito israeliano ha utilizzato falsi account di social media per diffondere il messaggio secondo cui stava “compiendo una dura rappresaglia contro Hamas”. Ha pubblicato decine di video #Gazaregrets [Gaza rimpiange] nei gruppi Facebook di Netanyahu taggando i politici di destra. Un alto ufficiale ha detto: “Questo è illegale, non si deve fare”, e l’esercito ha risposto: “Abbiamo sbagliato.”

Durante l’operazione Guardian of the Walls [Guardiano delle mura] nel maggio 2021 a Gaza l’Unità portavoce delle Forze di Difesa israeliane ha condotto un’operazione di guerra psicologica rivolta ai cittadini israeliani con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle manovre offensive dell’esercito israeliano e sul “prezzo” che queste iniziative avrebbero imposto ai palestinesi.

I militari hanno utilizzato falsi account di social media per nascondere l’origine della campagna. Hanno usato Twitter, Facebook, Instagram e TikTok per caricare immagini e clip degli attacchi dell’esercito a Gaza utilizzando l’hashtag #Gazaregrets con didascalie come “Perché mostrano solo Israele che viene attaccato invece dei nostri attacchi a Gaza? Dobbiamo dimostrare a tutti quanto siamo forti!” e “Condividi in modo che tutti possano vedere come reagiamo alla grande” o ” Facciamo in modo che Gaza si penta… Am Israel Chai [La Nazione israeliana è viva]”.

Haaretz ha appreso che questa “campagna di propaganda” è stata lanciata diversi giorni dopo l’inizio dei combattimenti, dopo che l’Unità portavoce dell’esercito israeliano ha ritenuto che l’opinione pubblica israeliana fosse più colpita dagli attacchi missilistici lanciati contro Israele da Gaza che dalle azioni dell’esercito israeliano all’interno della Striscia. Secondo il dibattito interno, l’uso da parte dell’Unità di account falsi – “bot” – aveva lo scopo di impedire che fossero “attribuiti” all’esercito. Questo, sperava l’esercito, li avrebbe fatti sembrare autentici, come se provenissero direttamente dall’opinione pubblica.

Per dare ulteriore voce alla campagna, l’Unità portavoce ha collaborato con discrezione con due popolari account Instagram israeliani – @idftweets e @pazam_gram – che hanno centinaia di migliaia di follower. Il primo giorno di questa campagna, @idftweets ha condiviso post e storie di un attacco dell’esercito israeliano con l’hashtag #Gazaregrets. Il contenuto ha ricevuto centinaia di like e commenti entusiasti come “uccideteli tutti” o “perché ci sono ancora degli edifici in piedi a Gaza?” @pazam_gram ha seguito l’esempio con altre storie sui propri account.

L’Unità portavoce dell’esercito intendeva utilizzare anche gli influencer dei social media per manipolare l’opinione pubblica israeliana.

Non è chiaro se l’esercito abbia pagato i titolari dell’account Instagram per i loro servizi. Secondo una fonte a conoscenza del funzionamento interno dell’Unità, questa non è l’unica volta in cui si è realizzata una simile collaborazione.

L’operazione Guardian of the Walls è stata lanciata il 10 maggio, dopo che Hamas aveva lanciato razzi contro Gerusalemme durante la Marcia delle Bandiere tenutasi in quella giornata di tensione, ed è stata seguita da una raffica di razzi puntati contro il centro di Israele. L’esercito israeliano ha risposto con massicci attacchi a Gaza, che hanno raso al suolo una serie di grattacieli. La campagna è durata 11 giorni e ha visto 4.000 razzi lanciati verso Israele, che hanno provocato la morte di dieci israeliani e tre cittadini stranieri. A seguito degli attacchi dell’esercito israeliano sono stati uccisi 350 abitanti di Gaza, la maggior parte dei quali miliziani di Hamas e della Jihad islamica.

Subito dopo l’inizio dei combattimenti, l’Unità portavoce dell’esercito ha deciso di lanciare la sua campagna di guerra psicologica contro i cittadini israeliani. Il 12 maggio ha aperto un falso account Twitter appartenente a “Moshe Vaknin” con la foto della bandiera israeliana.

Il soldato che gestiva l’account ha twittato 27 volte in sole tre ore. Con l’hashtag #Gazaregrets ogni post conteneva immagini degli attacchi israeliani a Gaza o della distruzione da essi prodotta. Per aumentarne la portata e la visibilità, ogni tweet è stato pubblicato come risposta a popolari account Twitter con decine di migliaia di follower: la maggior parte di questi account apparteneva a persone note per essere sostenitori del primo ministro Benjamin Netanyahu. I tweet hanno taggato anche politici di destra e personalità dei media.

In risposta a un tweet pubblicato dal parlamentare di estrema destra Itamar Ben-Gvir, che chiedeva di “trasformare in parcheggio il quartiere di Gaza con le ville di Hamas”, il soldato che gestiva il falso account ha risposto con l’immagine di un grattacielo crollato a Gaza e la didascalia “Itamar, condividilo subito in modo che tutto Israele possa vedere che #Gazaregrets”.

In risposta al tweet del conduttore televisivo israeliano di destra Yinon Magal, che prendeva in giro l’allora ministro della Difesa Benny Gantz, il falso “Moshe Vaknin” ha risposto con la foto di un attacco dell’esercito e la didascalia “Yinon #Gazaregrets condividi subito in modo che tutti possano vedere”.

Il 12 maggio è stato creato un altro account falso su Facebook con il nome Dana Lock e come immagine del profilo una ragazza drappeggiata con la bandiera israeliana. In due giorni l’account ha pubblicato otto video di attacchi israeliani con la didascalia “Non rimarremo in silenzio! Non siamo fessi! #Gazaregrets! Condividere!!”

Per raggiungere un pubblico più ampio, i video sono stati pubblicati su diversi gruppi Facebook di sostenitori di Netanyahu, per un totale di oltre 100.000 follower collegati.

Altri due falsi account su Instagram e TikTok hanno pubblicato 13 post simili.

Nel complesso, la campagna di propaganda ha coinvolto molto poco l’opinione pubblica israeliana: con l’eccezione di un solo video di TikTok che ha ricevuto alcune decine di like e commenti, il resto dei post sui social media non ha quasi provocato commenti, condivisioni o like. Fallito anche il tentativo di promuovere l’hashtag #Gazaregrets. Solo sei profili organici (cioè autentici) hanno utilizzato l’hashtag su Facebook, ma su altre piattaforme non si è visto alcun uso reale del tag.

Nonostante ciò, Haaretz ha appreso che una volta conclusa la guerra su Gaza del 2021 l’Unità ha ricevuto un premio per la “migliore campagna operativa” durante Guardian of the Walls. Il premio è stato assegnato al tenente colonnello Merav Stollar-Granot, capo del dipartimento media dell’Unità portavoce dell’esercito.

L’Unità Campagne del dipartimento opera come una sorta di ufficio stampa per l’esercito e organizza campagne interne ed esterne per aumentare la conoscenza delle diverse unità dell’esercito e le questioni militari. All’epoca era diretta da Yuval Horowitz, un civile assunto come attivista di marketing che ora lavora per Keshet Media [società di mass media israeliana privata il cui notiziario online è molto seguito, ndt.]. L’Unità è composta da riservisti che lavorano come pubblicitari e designer.

In risposta l’esercito ha dichiarato: “Durante la campagna Guardian of the Walls l’Unità portavoce ha diffuso filmati autentici dei combattimenti dall’interno della Striscia di Gaza, ottenuti dalle piattaforme dei social media. Tutti i contatti dell’esercito con gli influencer israeliani sui social media sono avvenuti a titolo ufficiale. Poiché il filmato è stato girato da palestinesi a Gaza, la sua diffusione non può essere attribuita all’esercito.

L’esercito ha infatti creato un certo numero di account falsi che hanno pubblicato il filmato sui social media al fine di massimizzare l’accesso del pubblico. In retrospettiva, l’uso di quegli account è stato un errore ed è stato limitato a 24 ore. Non vi è stato alcun ulteriore utilizzo negli ultimi due anni. L’Unità portavoce dell’esercito è impegnata nella verità ed esige rapporti affidabili e per quanto possibile accurati al fine di trasmettere informazioni all’opinione pubblica in modo corretto.”

Guerra psicologica

L’esercito ha impiegato per anni la guerra psicologica contro i nemici di Israele nel tentativo di sminuire le loro narrazioni, influenzare la popolazione (per esempio a Gaza, in Libano e in Iran) e pubblicizzare i propri risultati operativi. Un’unità di guerra psicologica è stata costituita nel 2005 sotto l’egida dell’intelligence militare. Come parte delle attività contro il “nemico”, l’intelligence israeliana ha raccolto informazioni che includevano l’opinione pubblica della popolazione nemica e le sue posizioni in quel momento sui governanti e sulla guerra. Ha anche cercato di influenzare il discorso pubblico dei nemici per seminare incertezza, minare la credibilità dei messaggi del potere dominante e incoraggiare la pressione dell’opinione pubblica sulla rispettiva leadership. La maggior parte di queste attività è stata condotta di nascosto e ha diffuso informazioni destinate ad essere utili in un modo o nell’altro a Israele.

Durante l’operazione Guardian of the Walls nel 2021 l’intelligence israeliana ha condotto una campagna sui social media in arabo diretta alla popolazione di Gaza con il titolo “Hamas sta uccidendo la Nazione” e “la colpa è di Hamas “.

L’intelligence militare poteva raggiungere le popolazioni civili a vari livelli. Tuttavia la legge israeliana vieta all’esercito di operare tali attività all’interno, il che significa che una guerra psicologica segreta contro i cittadini israeliani è illegale.

“Quelle competenze sono state sviluppate per identificare la mentalità dei Paesi nemici e per influenzarli dall’esterno – senza che l’esercito compaia – sulla situazione nazionale del popolo con cui Israele sta combattendo una guerra”, ha detto ad Haaretz un alto funzionario della Difesa. “Nessuna operazione di guerra psicologica è stata condotta contro cittadini israeliani. Questo è proibito dalla legge. [È una questione così delicata che] anche durante il COVID-19 l’esercito non è stato autorizzato a impiegare alcune di quelle competenze per individuare i casi conclamati”.

Durante il mandato dell’ex capo di stato maggiore Aviv Kochavi è stata data la massima priorità alla guerra psicologica, principalmente nei confronti dei palestinesi, e il nome dell’Unità è stato cambiato in Impact Division. Sebbene siano stati fatti tentativi per trasferirne l’autorità al portavoce dell’esercito – che si occupa del pubblico israeliano – rimane sotto la competenza dell’intelligence militare.

“Il tentativo è arrivato ai più alti livelli della dirigenza ma è fallito, almeno ufficialmente”, ha detto il funzionario. “Coloro che si sono opposti hanno ritenuto che la cosa potesse essere fatta solo da persone identificate come appartenenti all’esercito e in modo che fosse chiaro che il messaggio proveniva dall’esercito. È stato chiarito a tutti coloro che volevano cambiare la legge esistente che la cosa era inaccettabile”.

Questa fonte non era a conoscenza dell’operazione #Gazaregrets e si è stupita nello scoprire che fosse stata effettivamente condotta agli ordini dell’ex portavoce dell’esercito, il maggiore generale Hidai Zilberman, che Kochavi aveva nominato portavoce dell’esercito nel 2019. Prima di allora Zilberman aveva iniziato la sua carriera nel Corpo di artiglieria, e in seguito era diventato comandante senior nel Comando settentrionale e nella Direzione per la pianificazione dell’esercito. Nel 2021 è stato nominato addetto alla difesa e alle forze armate israeliane per gli Stati Uniti

Il quarto giorno dell’operazione Guardian of the Walls, l’esercito ha lanciato l’operazione Lightning Strike [Colpo di Fulmine], che mirava a utilizzare centinaia di aerei da combattimento per colpire la rete di tunnel di Hamas sulla base del presupposto che al momento la maggior parte del suo braccio armato e gli alti dirigenti di Hamas si trovassero lì.

Il portavoce dell’esercito ha ingannato i media riferendo che le forze di terra avevano iniziato a entrare a Gaza. L’idea era di far entrare rapidamente politici e combattenti di Hamas nei tunnel, dove sarebbero stati poi uccisi. L’operazione è fallita perché Hamas ha riconosciuto l’inganno per quello che era. Nonostante il lancio di centinaia di tonnellate di esplosivo, furono uccisi solo pochi giovani miliziani.

Tuttavia, quando è trapelata la notizia dell’inganno e solo per la stampa estera, la credibilità del portavoce e l’immagine mondiale di Israele sono state gravemente danneggiate.

Zilberman è stato costretto a scusarsi nel tentativo di ripristinare la fiducia dei media stranieri. È arrivato persino a scrivere una lettera al presidente dell’Associazione della stampa estera in cui diceva: “Mi scuso per l’errore. Il portavoce dell’esercito non intraprende guerre psicologiche, il suo ruolo è quello di riferire all’opinione pubblica nient’altro che la verità”.

Ciò che il portavoce dell’esercito non ha detto è che esattamente nello stesso momento i militari che prestavano servizio nell’Unità erano impegnati in un’operazione fraudolenta e senza precedenti nei confronti dell’opinione pubblica israeliana. “Non è meno scandaloso se l’operazione #Gazaregrets è uscita dall’ufficio del portavoce dell’esercito”, ha detto un alto funzionario della difesa quando gli sono state mostrate le prove raccolte da Haaretz. “Una cosa del genere non sarebbe dovuta accadere.”

Nonostante l’assicurazione di Zilberman che l’Unità portavoce dell’esercito non avesse preso parte alla guerra psicologica, tre mesi dopo un’indagine di Haaretz ha scoperto che l’esercito aveva assunto Gilad Cohen – che gestisce il canale Ali Express Telegram [canale di blog informativi, ndt.] – come consulente per la “guerra psicologica” sui social media. La censura militare ha inizialmente vietato la pubblicazione del suo nome, ma dopo diversi giorni ha cambiato la sua decisione.

Ali Express ha più di 100.000 follower ed è diventata negli ultimi anni una delle fonti più influenti in Israele sui temi della difesa e del mondo arabo. Propone servizi esclusivi, video e immagini in cui appare il suo logo, mentre molti giornalisti la usano come fonte citandola direttamente. Più di una volta il portavoce dell’esercito ha indirizzato ad Ali Express i giornalisti che chiedevano cosa stesse succedendo a Gaza, chiarendo che la notizia “non è stata fornita da alcun funzionario militare”.

Cohen ha ricevuto la nomina nel 2019, quando è iniziata la Marcia del Ritorno con gli scontri al confine di Gaza, da Herzl Halevi, che era allora a capo del comando meridionale dell’esercito ed è oggi Capo di Stato Maggiore. Cohen ha continuato a lavorare con il successore di Halevi, Eliez Toledano. Ali Express non conferma che il suo manager funga da consulente retribuito per il comando meridionale dell’esercito. Allo stesso modo l’esercito non riconosce pubblicamente di collaborare con Cohen.

In testi anonimi Ali Express attacca spesso l’affidabilità e la professionalità di eminenti giornalisti israeliani che hanno criticato le politiche dell’esercito nei confronti di Hamas. Attacca anche i politici, tra cui l’ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che aveva annunciato le sue dimissioni dall’incarico dopo un incidente in cui un’unità delle forze speciali dell’esercito era stata scoperta a Khan Yunis, a sud di Gaza. “Davvero non avresti potuto scegliere un momento migliore per dimetterti? Hamas ha regalato ai suoi cittadini un risultato incredibile, un incidente per cui Hamas è riuscito a far dimettere un Ministro della Difesa in carica”, scherza un post anonimo.

All’epoca l’esercito cercò di negare le attività di Cohen. Ma dopo aver saputo del problema creato nei confronti dei cittadini israeliani, l’esercito ha annunciato di aver rescisso il contratto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gas algerino contro ideologia di destra: l’Italia cambierà la sua posizione su Gerusalemme?

Romana Rubeo e Ramzy Baroud

21 marzo 2023 – Palestine Chronicle

Il 9 marzo, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha lasciato Tel Aviv per andare a Roma, è stato portato all’aeroporto Ben Gurion in elicottero perché manifestanti antigovernativi avevano bloccato tutte le strade di accesso.

La visita di Netanyahu non è stata accolta con molto entusiasmo neppure in Italia. Nel centro di Roma è stato organizzato un sit-in di attivisti filo-palestinesi con lo slogan “Non sei il benvenuto”. Anche una traduttrice italiana, Olga Dalia Padoa, si è rifiutata di tradurre il suo discorso nella sinagoga di Roma previsto per il 9 marzo.

Persino la presidentessa dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, benché come prevedibile abbia ripetuto il suo amore e sostegno a Israele, ha manifestato le sue preoccupazioni per le istituzioni dello Stato di Israele.

Di ritorno a Tel Aviv il viaggio di Netanyahu in Italia è stato stroncato dal leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid come “un dispendioso e inutile fine settimana a spese dello Stato.” Ma il viaggio di Netanyahu in Italia, oltre a passare un fine settimana a Roma o distogliere l’attenzione dalle continue proteste in Israele, aveva altri scopi.

In un’intervista pubblicata il 9 marzo dal quotidiano italiano La Repubblica il Primo Ministro ha spiegato gli ambiziosi obiettivi che stavano dietro al suo viaggio in Italia: “Vorrei che ci fosse una maggiore cooperazione economica,” ha affermato. “Abbiamo gas naturale, ne abbiamo tanto e vorrei parlare di come portarlo in Italia per contribuire al suo sviluppo economico.”

Nelle scorse settimane la Prima Ministra Giorgia Meloni ha fatto la spola tra vari Paesi alla ricerca di lucrosi contratti per il gas. Meloni non vuole solo garantire al suo Paese le necessarie forniture di energia in seguito alla crisi tra Russia e Ucraina, ma vuole che Roma diventi il principale snodo europeo per l’importazione e l’esportazione di gas. Israele lo sa ed è particolarmente preoccupato che l’importante accordo per il gas dell’Italia con Algeria del 23 gennaio possa minacciare la posizione economica e politica di Israele in Italia, in quanto l’Algeria continua a rappresentare il baluardo della solidarietà con i palestinesi in Medio Oriente e in Africa.

Oltre al gas, Netanyahu aveva altre questioni in mente. “Dal punto di vista strategico parleremo di Iran. Dobbiamo impedirgli di avere l’atomica perché i suoi missili potrebbero raggiungere molti Paesi, compresa l’Europa, e nessuno vuole essere preso in ostaggio da un regime fondamentalista con armi nucleari,” ha detto Netanyahu con il consueto linguaggio allarmistico e stereotipato riguardo ai suoi nemici in Medio Oriente.

Netanyahu ha due principali richieste da fare all’Italia: non votare contro Israele alle Nazioni Unite e, cosa più importante, riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Benché Gerusalemme sia considerata dalla comunità internazionale una città palestinese occupata, Netanyahu vuole che, in base all’inconsistente logica della “forte ed antica tradizione tra Roma e Gerusalemme”, Roma cambi la propria posizione, che è coerente con il diritto internazionale.

In base alla stessa logica di esportazione di materie prime e armi in cambio di fedeltà politica con Israele all’ONU, Netanyahu ha ottenuto grandi successi nel normalizzare i rapporti tra il suo Paese e molte Nazioni africane. Ora sta applicando lo stesso modus operandi in Italia, una potenza europea e la nona economia mondiale.

Che questa strategia sia un risultato della crescente sudditanza dell’Europa nei confronti di Washington e Tel Aviv o dell’incapacità di Netanyahu di comprendere il cambiamento delle dinamiche geopolitiche nel mondo è un’altra questione. Ma è chiaro che Netanyahu ha percepito che l’Italia è un Paese che ha disperatamente bisogno dell’aiuto di Israele. Durante l’incontro con Meloni Netanyahu ha promesso di fare dell’Italia uno snodo del gas per l’Europa e di aiutare Roma a risolvere i suoi problemi idrici, mentre da parte sua Meloni ha insistito che “Israele è un partner fondamentale in Medio Oriente e a livello globale.”

Tuttavia la risposta più entusiastica alla visita di Netanyahu è venuta dal ministro italiano delle Infrastrutture Matteo Salvini, di estrema destra, che ha fortemente appoggiato la richiesta israeliana di riconoscere Gerusalemme come sua capitale “in nome della pace, della storia e della verità.” Per quanto in contraddizione con la politica estera italiana, la sua reazione non è affatto sorprendente. Il capo della Lega in passato è stato spesso criticato per il suo linguaggio razzista. Tuttavia Salvini negli ultimi anni si è “trasformato”, soprattutto dopo una visita nel 2018 in Israele, dove ha dichiarato il suo amore per Israele e ha criticato i palestinesi. È stato allora che Salvini ha iniziato a crescere a livello politico italiano in generale, invece che regionale.

Ma questa non è la posizione solo di Salvini. Il governo italiano ha accolto positivamente la visita di Netanyahu senza alcuna critica nei confronti delle politiche radicali del suo governo di estrema destra portate avanti nella Palestina occupata. Mentre questa posizione è in linea con la politica estera italiana, non c’è da stupirsene neanche da un punto di vista ideologico.

Benché in passato, grazie alle forze rivoluzionarie che hanno avuto un grande impatto nel definire il discorso politico italiano durante la Seconda Guerra Mondiale e la successiva liberazione del Paese dal fascismo, la politica italiana abbia dimostrato una notevole solidarietà con la lotta del popolo palestinese per la liberazione e il diritto all’autodeterminazione, questa posizione è cambiata nel corso degli anni. Mentre la politica interna italiana arretrava verso destra, l’agenda della sua politica estera in Palestina e Israele si è spostata decisamente verso una posizione filo-israeliana. Ora quanti vengono percepiti come filo-palestinesi nel governo italiano sono pochi e spesso definiti politici radicali.

Tuttavia, nonostante il discorso ufficiale a favore di Israele in Italia, le cose per Netanyahu non sono così facili come possono sembrare, soprattutto quando si tratta di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

In effetti Meloni non ha manifestato un sincero impegno verso la richiesta israeliana. Al contrario, lo scorso agosto, in un’intervista con la Reuter [agenzia di stampa inglese, ndt.], ancor prima di diventare prima ministra italiana Meloni era sembrata cauta, affermando solo che si tratta di “una questione diplomatica e dovrebbe essere valutata insieme al ministero degli Esteri.”

C’è una ragione dietro all’esitazione di Meloni. Il riconoscimento italiano di Gerusalemme come capitale di Israele collocherebbe Roma fuori dal diritto internazionale. In una lettera aperta a Meloni la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese ha ricordato al governo italiano che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele rappresenterebbe un’aperta violazione del diritto internazionale.

La politica estera italiana deve anche rendere conto a quella collettiva dell’Unione Europea, di cui Roma è parte integrante. L’UE sostiene la posizione dell’ONU, secondo cui Gerusalemme est è una città palestinese occupata e l’annessione della città nel 1980 da parte di Israele è illegale.

Oltretutto il recente accordo storico dell’Italia con la compagnia statale algerina del gas, Sonatrach, a gennaio, rende particolarmente difficile per Roma prendere una posizione estremista a favore di Israele. Il delicato equilibrio geopolitico risultante dalla crisi del gas, di per sé un risultato diretto della guerra tra Russia e Ucraina, rende ogni cambiamento nella politica estera italiana riguardo a Palestina e Israele simile a un atto di autolesionismo.

Almeno per il momento il gas arabo è per l’Italia molto più importante di quello che potrebbe offrire Netanyahu. Secondo quanto riferito da “BNE Intellinews” il nuovo accordo tra Roma e Algeri garantirà all’Italia 9 miliardi di m3 di gas, oltre alle forniture che già passano per il gasdotto TransMed. Questa infrastruttura vitale connette l’Algeria all’Italia attraverso la Sicilia che, a sua volta, utilizza gasdotti sotto il mar Mediterraneo. “L’espansione di questi percorsi vitali è già stata programmata, al fine di aumentare l’attuale capacità di 33,5 miliardi di m3 all’anno”, aggiunge il sito web di notizie economiche.

Benché sia una figura politica di estrema destra senza una particolare vicinanza o rispetto per le regole stabilite a livello internazionale, Meloni comprende che gli interessi economici prevalgono sull’ideologia. “Oggi l’Algeria è il nostro primo fornitore di gas,” ha affermato Meloni in una conferenza stampa ad Algeri dopo aver firmato l’accordo. Il contratto, ha detto, fornirà al Paese “un mix di energia che difenderà l’Italia dall’attuale crisi energetica.”

Un simile fatto renderebbe impossibile per l’Italia allontanarsi, almeno per ora, dalla sua attuale posizione riguardo a Gerusalemme e all’illegale occupazione israeliana della Palestina. Mentre sarà difficile per Israele convincere l’Italia a cambiare posizione, Algeria, Tunisia e altri Paesi arabi potrebbero alla fine trovare un varco per scoraggiare l’Italia dal suo cieco appoggio a Israele.

Romana Rubeo è una giornalista italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli appaiono su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo, co-curato con Ilan Pappé, è La nostra visione per la liberazione: parlano i leader e gli intellettuali palestinesi impegnati. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter [Mio padre era un combattente per la libertà] e The Last Earth [L’ultima terra]. Baroud è Senior Research Fellow non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Smotrich smaschera il vero volto genocida di Israele

Ali Abunimah

20 marzo 2023 – The Electronic Intifada

Bezalel Smotrich, il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, ha dichiarato domenica a Parigi che i palestinesi non esistono.

Non esistono “i palestinesi perché non esiste il popolo palestinese”, ha detto Smotrich.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi e ovazioni dai partecipanti”, ha osservato The Times of Israel e come mostrano i video dell’evento.

Smotrich è andato oltre, dichiarando che lui – un colono della Cisgiordania – è un “vero” palestinese.

Appesa al podio di Smotrich c’era una bandiera che raffigurava l’intera Palestina storica, la Giordania e parti del Libano e della Siria come appartenenti allo Stato sionista, rivelando un desiderio di una ancora più grande espansione territoriale che anche altri funzionari israeliani hanno espresso di recente.

L’affermazione che i palestinesi non esistono o sono un “popolo inventato” è diffusa tra i sionisti.

Nel 2014 Sheldon Adelson, il defunto miliardario grande donatore a favore delle cause anti-palestinesi e del Partito Repubblicano, ha dichiarato allo stesso modo che “i palestinesi sono un popolo inventato”.

Adelson ha aggiunto: “Lo scopo dell’esistenza dei palestinesi è distruggere Israele”.

Due anni dopo Brooke Goldstein, un’importante attivista della lobby israeliana negli Stati Uniti, ha affermato che “non esiste un individuo palestinese”.

Ma forse il fatto più noto è la dichiarazione del 1969 del primo ministro israeliano Golda Meir secondo cui “non esistono palestinesi”.

Meir era uno dei pilastri dell’establishment del partito laburista di Israele che si pretendeva di sinistra.

L’ultimo commento di Smotrich arriva poche settimane dopo aver dichiarato che la città palestinese di Huwwara dovrebbe essere “spazzata via” dallo Stato di Israele.

Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich pensi davvero ciò che dice e, se gli fosse data l’opportunità, lui e il movimento politico in ascesa che rappresenta realizzerebbero questa opzione.

Inoltre, non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che ciò di cui Smotrich sta parlando e propagandando è il genocidio del popolo palestinese.

Né le osservazioni di Smotrich sono sfoghi sconsiderati; riflettono un pensiero profondo e attento e un’ideologia coerente.

Valori delle SS tedesche

Nel 2017, Smotrich elaborò un piano per costringere il popolo palestinese a lasciare la propria terra e per occupare una volta per tutte l’intero territorio.

All’epoca, Daniel Blatman, professore di studi sull’Olocausto all’Università Ebraica, scrisse che Smotrich aveva preso ispirazione per il suo piano dal libro biblico di Giosuè, che descrive il massacro totale di un popolo da parte dei “figli di Israele”.

Blatman definì Smotrich, che allora era vicepresidente del parlamento israeliano, la Knesset, “la più importante figura di governo fino ad oggi a dire sfacciatamente che l’opzione del genocidio è sul tavolo se i palestinesi non accettano i nostri termini”.

Secondo il piano di Smotrich, i palestinesi avrebbero dovuto sottomettersi completamente alla supremazia ebraica o essere costretti ad andarsene.

Oggi Smotrich non solo controlla il ministero delle finanze, ma gli sono stati conferiti poteri speciali sulla cosiddetta amministrazione civile, la burocrazia di occupazione militare israeliana che gestisce la vita di milioni di palestinesi, persone che Smotrich ritiene inesistenti.

“L’ammirazione di Smotrich per il genocida biblico Joshua bin Nun lo porta ad adottare valori che assomigliano a quelli delle SS tedesche”, ha aggiunto Blatman, un ex membro del Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

Va sottolineato che anche allora il primo ministro Benjamin Netanyahu era disposto a dare un implicito segno di approvazione alle idee di Smotrich.

“Sono stato felice di sentire che stai indirizzando la discussione dell’incontro al tema del futuro della Terra di Israele”, ha detto Netanyahu in un saluto registrato riprodotto durante l’incontro in cui Smotrich ha esposto il suo piano di genocidio.

Fino a non molti anni fa questo Paese era deserto e abbandonato, ma da quando siamo tornati a Sion, dopo generazioni di esilio, la Terra di Israele è fiorente”, ha affermato Netanyahu.

Tentativi “liberal” di mascheramento.

I sionisti “liberal” hanno già compiuto intensi sforzi per ritrarre personaggi del calibro di Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale kahanista [seguace del defunto rabbino Kahan, ndt] israeliano Itamar Ben-Gvir come aberrazioni che in qualche modo non sono veri rappresentanti di Israele e del sionismo.

Possiamo aspettarci che questi sforzi di occultamento si intensifichino.

Ma non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che Smotrich stia semplicemente articolando l’ideologia e la politica fondative di Israele.

Nel 2004, il quotidiano “liberal” israeliano Haaretz ha intervistato Benny Morris, uno dei “nuovi storici” israeliani che negli anni ’80 ha utilizzato fonti sioniste per convalidare i resoconti palestinesi della Nakba – la sistematica pulizia etnica della Palestina del 1948 durante la quale le milizie sioniste perpetrarono stupri, omicidi arbitrari e dozzine di massacri.

Morris ha spiegato che David Ben-Gurion, il primo ministro fondatore di Israele – come Meir un pilastro del Partito laburista di sinistra nominalmente laico – ha diretto personalmente il deliberato “trasferimento” del popolo palestinese da gran parte della sua patria.

“Ben-Gurion era favorevole al trasferimento”, ha spiegato Morris. “Ha capito che non poteva esistere uno Stato ebraico con una numerosa e ostile minoranza araba al suo interno. Non ci sarebbe stato un tale Stato. Non sarebbe stato in grado di esistere”.

“Non ti sento condannarlo”, ha detto a Morris l’intervistatore di Haaretz.

“Ben-Gurion aveva ragione”, ha risposto Morris. “Se non avesse fatto quello che ha fatto, uno Stato non sarebbe venuto in essere. Questo deve essere chiaro. È impossibile evitarlo. Senza lo sradicamento dei palestinesi, qui non sarebbe sorto uno Stato ebraico”.

Ma per Morris, l’errore di Ben-Gurion è che non ha fatto una sufficiente pulizia etnica.

Dato che lui [Ben-Gurion] era già impegnato nell’espulsione, forse avrebbe dovuto fare un lavoro completo”, ha affermato Morris.

“So che questo fa inorridire gli arabi, i “liberal” e i tipi politicamente corretti”, ha detto Morris. “Ma la mia sensazione è che questo posto sarebbe più tranquillo e conoscerebbe meno sofferenze se la questione fosse stata risolta una volta per tutte. Se Ben-Gurion avesse effettuato una grande espulsione e ripulito l’intero paese, l’intera Terra d’Israele, fino al fiume Giordano”.

“Potrebbe anche diventare evidente che questo è stato il suo errore fatale”, ha aggiunto Morris. “Se avesse effettuato un’espulsione totale – piuttosto che parziale – avrebbe stabilizzato lo Stato di Israele per generazioni”.

Nessuno che si definisca sionista, sia di “sinistra” che di estrema destra, può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris.

Ecco perché nessuno che si definisce sionista sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

È per questo che i sionisti, anche della varietà “liberal”, si preoccupano costantemente della “minaccia demografica” derivante dalla nascita di bambini palestinesi.

Questo è genocidio

E se nessun sionista può essere fondamentalmente in disaccordo con Morris, allora non può nemmeno essere in disaccordo con Smotrich.

In effetti, lo stesso Smotrich ha fatto eco a Morris quasi alla lettera nel 2021, quando ha urlato ai legislatori palestinesi nel parlamento israeliano che “è stato un errore che Ben-Gurion non abbia finito il lavoro e non vi abbia buttati fuori nel 1948”.

Possono fingere shock e disgusto per il linguaggio di Smotrich, ma chiunque creda che Israele debba rimanere uno “Stato ebraico” con una maggioranza ebraica deve almeno sostenere la pulizia etnica dei palestinesi che Israele ha perpetrato fino ad oggi, indipendentemente dal fatto che sostenga o meno attivamente ulteriori espulsioni su vasta scala in futuro.

In effetti la posizione del numero sempre minore di “liberal” israeliani e di altri sostenitori della cosiddetta soluzione dei due Stati può essere riassunta come segue: sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra che Israele ha già effettuato, ma pensiamo che le future espulsioni e sottrazioni di terre dovrebbero essere limitate, anche se è ampiamente aperto il dibattito sulla loro entità.

Mentre la posizione di Smotrich e compagnia è: noi, come voi, sosteniamo tutta la pulizia etnica e il furto di terra fino ad oggi, ma pensiamo che ce ne debba essere molto di più.

Moralmente e praticamente non c’è differenza perché entrambe le posizioni relegano milioni di palestinesi a vivere sotto il brutale dominio del suprematismo e dell’apartheid ebraico, o esiliati dalla loro patria, solo ed esclusivamente perché non sono ebrei.

Insieme alle frequenti affermazioni secondo cui i palestinesi non esistono e non sono mai esistiti come popolo, le espulsioni e i massacri di Israele trascendono il crimine già sufficientemente orribile della pulizia etnica ed entrano nel regno del genocidio: la completa cancellazione dei palestinesi come popolo.

Anche qui, la posizione di Smotrich secondo cui i palestinesi non hanno esistenza e tanto meno diritti come popolo non è un’aberrazione ma un riflesso del consenso israeliano.

Ricordiamo che nel 2018 Israele ha adottato la cosiddetta Legge sullo Stato-Nazione, uno strumento costituzionale che dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivo del popolo ebraico”, negando così ai palestinesi qualsiasi diritto nazionale o esistenza.

E a dicembre, quando il nuovo governo di coalizione di Benjamin Netanyahu si è insediato, ha dichiarato come primi principi guida che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della terra di Israele”.

Israele torna alle sue radici

Si dice spesso, comprensibilmente, che l’attuale governo israeliano sia il più apertamente razzista e di destra della storia.

Ciò può essere vero in termini di retorica, ma non c’è alcuna differenza pratica tra il fondatore “socialista” laico di Israele, David Ben-Gurion, e un sionista religioso di estrema destra come Smotrich.

Ma dopo decenni di soppressione del linguaggio apertamente genocida di Smotrich a favore della presentazione di un volto “liberal” e “democratico”, perché gli israeliani ora stanno abbracciando questa retorica?

Ciò dipende dal fatto che il “problema demografico” di Israele – l’esistenza di “troppi” palestinesi che vivono e respirano sul proprio suolo – sta diventando urgente.

Con gli ebrei ancora una volta una minoranza tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, molti israeliani sentono chiaramente di non avere altra scelta che tornare pienamente alle radici genocide del loro paese.

Ecco perché l’ostracismo verso Smotrich – come hanno fatto i funzionari francesi rifiutandosi di incontrarlo durante la sua permanenza nel loro paese – è insufficiente e fuorviante perché ritrae falsamente un “estremista” come il problema.

Il problema è il sionismo stesso e l’incubo genocida e coloniale in corso che ha scatenato sul popolo palestinese e sulla sua terra.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese vicino a Ramallah

Redazione di Palestine Chronicle

18 marzo 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia ufficiale di notizie WAFA ha informato che venerdì notte un giovane palestinese è stato ucciso dalle forze di occupazione israeliane all’ingresso nord della città di Ramallah nella Cisgiordania occupata.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato in una dichiarazione che il giovane, identificato come il ventitreenne Yazan Omar Khasib, è stato colpito da soldati israeliani al posto di controllo militare all’ingresso di Ramallah.

Khasib è stato arrestato in condizioni critiche dai soldati israeliani, ed è stato dichiarato deceduto a causa delle ferite pochi minuti dopo.

All’ambulanza e al personale medico palestinesi è stato negato dall’esercito israeliano l’accesso alla area in cui il giovane è stato ferito.

In seguito alla sparatoria l’esercito israeliano ha chiuso il posto di controllo al traffico palestinese.

L’ultimo crimine israeliano porta a 89 il numero di palestinesi uccisi dalle forze di occupazione israeliane dall’inizio dell’anno, tra cui 17 minorenni e una donna anziana.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Rapporto OCHA del periodo 14 – 27 febbraio 2023

1). In Cisgiordania sono continuati gli episodi di violenza quotidiana che hanno coinvolto palestinesi, coloni israeliani e forze israeliane: 16 palestinesi, di cui tre minori, e tre israeliani sono stati uccisi; 1.089 palestinesi e cinque israeliani sono rimasti feriti.

Dal 1° gennaio al 27 febbraio 2023, nei Territori palestinesi occupati e in Israele sono stati uccisi 63 palestinesi e tredici israeliani, oltre a un cittadino straniero e un soldato israeliano; 2.001 palestinesi e almeno 25 israeliani sono rimasti feriti.

2). Nella città vecchia di Nablus, in un’operazione che ha comportato uno scontro a fuoco con palestinesi, forze israeliane hanno ucciso dieci palestinesi e ferito altri 453, di cui 103 con proiettili veri. Un altro palestinese è morto a causa dell’esposizione a gas lacrimogeni che hanno aggravato la sua condizione medica preesistente. Secondo il Ministero della salute questo è il numero più alto di persone uccise in una singola operazione in Cisgiordania da quando, nel 2005, l’OCHA (ONU) iniziò a registrare i dati (seguono dettagli).

Il 22 febbraio, forze israeliane hanno fatto irruzione nella Città Vecchia di Nablus, dove hanno circondato un edificio ed hanno avuto uno scontro a fuoco con palestinesi. Secondo l’esercito israeliano, l’operazione aveva lo scopo di arrestare palestinesi sospettati di pianificare attacchi contro israeliani. Durante l’operazione, le forze israeliane hanno distrutto un edificio, all’interno del quale due palestinesi, che si erano rifiutati di arrendersi, sono stati uccisi. Inoltre, durante la stessa operazione, altri quattro palestinesi sono stati colpiti e uccisi in scontri a fuoco con forze israeliane. L’operazione ha innescato ulteriori scontri tra residenti palestinesi e forze israeliane, durante i quali le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili di gomma e lacrimogeni contro i palestinesi che hanno lanciato contro di loro pietre e bottiglie incendiarie. Di conseguenza, quattro palestinesi, tra cui un ragazzo di 16 anni, sono stati colpiti e uccisi con proiettili veri sparati dalle forze israeliane; altri 453 sono rimasti feriti, di cui 103 da proiettili veri. Secondo i media israeliani, due soldati israeliani sono rimasti feriti. Secondo fonti mediche, le forze israeliane hanno impedito alle ambulanze di accedere all’area. Dopo l’operazione, palestinesi di tutta la Cisgiordania e della Striscia di Gaza hanno tenuto manifestazioni, durante le quali sette palestinesi sono rimasti feriti. Il 24 febbraio, un palestinese è morto per le ferite riportate il giorno prima; le forze israeliane gli avevano sparato con proiettili veri durante una di tali manifestazioni, svolta all’interno del Campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron), in cui i palestinesi avevano lanciato pietre contro le forze israeliane.

3). Durante il periodo in esame altri quattro palestinesi, tra cui due minori, sono stati uccisi da forze israeliane o sono morti per le ferite riportate in precedenza (seguono dettagli).

Il 14 febbraio, forze israeliane hanno fatto irruzione nel Campo profughi di El Far’a a Tubas, e nel corso di uno scontro a fuoco con palestinesi, hanno ucciso un ragazzo di 17 anni che, secondo l’esercito israeliano, aveva sparato contro di loro; accusa contestata da un testimone oculare e da Organizzazioni per i diritti umani.

Durante lo stesso episodio, un ragazzo di 13 anni è stato morso e ferito da un cane delle forze armate israeliane.

Lo stesso giorno, un palestinese è morto per le ferite riportate il 1° gennaio 2021; in quelle circostanze, accadute nella Comunità Ar Rakeez di Masafer Yatta (Hebron), mentre cercava di impedire la confisca di un generatore elettrico, un soldato israeliano gli aveva sparato al collo .

Il 20 febbraio, un tredicenne palestinese è deceduto per le ferite riportate l’8 febbraio 2023; durante scontri tra palestinesi ed esercito israeliano che scortavano coloni israeliani alla tomba di Giuseppe, nella città di Nablus, un soldato israeliano gli aveva sparato con proiettili veri.

Ad oggi, il numero totale di minori palestinesi uccisi da forze israeliane in Cisgiordania nel 2023 è di dodici (12), rispetto ai due uccisi nel 2022, in un arco di tempo equivalente.

Il 23 febbraio, un altro palestinese è deceduto per le ferite riportate il 12 febbraio durante un’operazione di ricerca-arresto che aveva provocato uno scontro a fuoco tra forze israeliane e palestinesi nel Campo profughi di Jenin.

4). A Nablus, due coloni israeliani e un palestinese sono stati uccisi lo stesso giorno, in due diversi episodi (seguono dettagli).

Il 26 febbraio, due fratelli israeliani dell’insediamento colonico di Har Barcha, mentre stavano percorrendo la strada 60 nella città di Huwwara (Nablus), sono stati uccisi da un uomo armato, ritenuto palestinese. Successivamente, per trovare l’autore, forze israeliane hanno lanciato una caccia all’uomo, imponendo restrizioni agli spostamenti in Città e nell’area circostante (vedi sotto). A seguito dell’attacco, coloni israeliani, secondo quanto riferito, provenienti dagli insediamenti colonici di Yitzhar, Bracha, Kfar Tappuah e altri avamposti di insediamenti adiacenti, hanno lanciato pietre ed hanno aggredito fisicamente abitanti della città di Huwwara e dei villaggi vicini; inoltre hanno appiccato il fuoco a proprietà palestinesi. Nel villaggio di Za’tara, un palestinese è stato colpito e ucciso vicino alla sua casa e un altro è rimasto ferito, entrambi con proiettili veri sparati da coloni israeliani o da forze israeliane. Altri nove palestinesi sono stati feriti da coloni israeliani, tra cui un minore e una donna, e sono stati causati ingenti danni alle proprietà palestinesi. Almeno 37 case abitate hanno subito danni, comprese alcune date alle fiamme da coloni israeliani, provocando lo sfollamento di otto famiglie palestinesi e di parte di altre cinque famiglie. Inoltre, almeno otto strutture commerciali, comprese sei officine di riparazione auto, sono state incendiate, insieme a 55 veicoli privati palestinesi e 1.200 veicoli rottamati. Inoltre, a Huwwara, coloni hanno attaccato un camion dei pompieri, impedendo loro di entrare in città; il veicolo è stato danneggiato e uno dei vigili del fuoco è rimasto ferito. Secondo le forze israeliane un soldato è rimasto ferito da coloni che lo hanno aggredito fisicamente e hanno tentato di investirlo.

5). Il 27 febbraio, in una sparatoria registrata vicino a Gerico, un israeliano, che detiene anche la cittadinanza statunitense, è stato ucciso da un uomo armato (ritenuto palestinese). Lo stesso uomo ha continuato a guidare, sparando contro altri due veicoli, ma non sono stati riportati feriti. Successivamente, forze israeliane hanno lanciato una caccia all’uomo per trovare l’autore, imponendo restrizioni agli spostamento nella città di Gerico (vedi sotto). Ciò porta a tredici, oltre a un cittadino straniero e un soldato, gli israeliani uccisi, dall’inizio dell’anno, in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est e Israele; nel 2022, nello stesso arco di tempo non erano state registrate uccisioni.

6). In Cisgiordania, durante il periodo in esame, 1.068 palestinesi, tra cui almeno 102 minori, sono stati feriti da forze israeliane, di cui 119 colpiti da proiettili veri (seguono dettagli).

Oltre ai 453 palestinesi feriti da forze israeliane, il 22 febbraio, nell’operazione nella Città Vecchia di Nablus, altri 39 feriti sono stati registrati durante dieci operazioni di ricerca-arresto e altre operazioni condotte da forze israeliane in tutta la Cisgiordania.

In altri quindici episodi, registrati a Betlemme, Hebron, Nablus e Tubas, 451 palestinesi sono stati feriti da forze israeliane, in seguito all’ingresso di coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, nelle stesse Comunità palestinesi; la maggior parte dei feriti è stata curata per inalazione di gas lacrimogeni. Il novanta per cento di questi feriti è stato registrato nella città di Huwwara, tra il 26 e il 27 febbraio, contestualmente all’attacco di coloni.

Altri 125 dei feriti totali sono stati registrati in varie manifestazioni, compresa quella che contestava la creazione di un avamposto israeliano presso la Comunità Wadi Seeq (Ramallah), e contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni di accesso legate agli insediamenti a Beit Dajan e Beita (entrambe a Nablus), e Kafr Qaddum (Qalqilya) e in altre manifestazioni contro l’operazione Nablus che hanno provocato la morte di undici palestinesi.

Complessivamente, 866 palestinesi sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 120 sono stati colpiti da proiettili veri, 19 sono stati feriti da proiettili di gomma, 55 da schegge, cinque sono stati aggrediti fisicamente, due sono stati colpiti da granate sonore e uno è stato colpito da candelotti lacrimogeni.

7). In Cisgiordania, altri otto palestinesi, tra cui due minori, sono stati feriti da coloni israeliani; persone conosciute come coloni, o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi in altri 39 casi. Oltre ai palestinesi feriti da forze israeliane e da coloni nei già citati episodi collegati a coloni (seguono dettagli).

Tra il 14 e il 25 febbraio, coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi, tra cui un minore. Due dei feriti sono stati provocati da proiettili veri sparati da coloni.

In altri 24 episodi registrati a Ramallah, Betlemme, Hebron, Gerusalemme e Nablus, secondo testimoni oculari e fonti delle Comunità locali, più di 300 alberi sono stati vandalizzati su terre palestinesi, comprese le terre prossime agli insediamenti israeliani e agli avamposti degli insediamenti israeliani di nuova costituzione; sono state forate le gomme di venticinque auto di proprietà palestinese; coloni israeliani hanno scritto sui muri di tre case, hanno dato fuoco alle coltivazioni in un terreno agricolo, hanno rubato attrezzature agricole e danneggiato serbatoi d’acqua.

Inoltre, tra il 26 e il 27 febbraio, in seguito alla uccisione di due coloni (di cui sopra), in Cisgiordania sono stati segnalati altri 18 episodi di violenza: coloni israeliani hanno ferito tre palestinesi, tra cui una donna, hanno lanciato pietre, hanno vandalizzando 17 veicoli palestinesi ed hanno forato le gomme di altri sette o dato fuoco a proprietà palestinesi vicino a Tubas, Hebron, Ramallah, Salfit e Nablus.

8). Vicino a Nablus, una donna israeliana è rimasta ferita e il suo veicolo ha subito danni, secondo quanto riferito, ad opera di palestinesi che hanno sparato al suo veicolo. In altri cinque casi, due coloni israeliani sono rimasti feriti e sono stati causati danni ad almeno cinque veicoli israeliani da persone conosciute come palestinesi, o ritenute tali, che hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani che viaggiavano sulle strade della Cisgiordania.

9). A Gerusalemme Est e nell’Area C della Cisgiordania, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, che sono quasi impossibili da ottenere, le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto le persone a demolire 66 strutture comprese 18 strutture residenziali Ventidue (22) delle strutture erano state fornite da donatori come assistenza umanitaria. Di conseguenza, 60 palestinesi, tra cui 29 minori, sono stati sfollati e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di oltre 200 altri (seguono dettagli).

Quarantanove (49) delle strutture si trovavano in Area C, di cui sedici (tutte finanziate da donatori) demolite in un unico episodio registrato nella Comunità di Lifjim a Nablus; tre famiglie, comprendenti 17 persone, tra cui dieci minori, sono state sfollate. Altre 17 strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, di cui otto demolite dai proprietari, per evitare il pagamento di multe alle autorità israeliane. Il mese di febbraio 2023 ha registrato il maggior numero di strutture demolite a Gerusalemme est, dall’aprile 2019, in un solo mese; con un totale di 36 strutture demolite, a fronte di una media mensile di undici demolizioni nel 2022.

10). Il 16 febbraio, nell’Area C della città di Hebron, per motivi punitivi, le autorità israeliane hanno demolito con esplosivi l’appartamento al quarto piano di un edificio residenziale a più piani, sfollando una famiglia composta da quattro persone, tra cui tre minori. L’appartamento apparteneva alla famiglia dell’uomo che sparò e uccise un colono israeliano il 29 ottobre 2022 a Hebron. Dall’inizio del 2023, per motivi punitivi, sono state demolite sei case e una struttura agricola, rispetto alle undici case e tre strutture demolite in tutto il 2022; erano state tre in tutto il 2021 e sette nel 2020. Le demolizioni punitive sono una forma di punizione collettiva e in quanto tali sono illegali ai sensi del diritto internazionale in quanto prendono di mira le famiglie di un autore, o presunto autore.

11). In diverse località della Cisgiordania, forze israeliane hanno limitato gli spostamenti dei palestinesi, interrompendo l’accesso di migliaia di persone a mezzi di sussistenza e servizi (seguono dettagli).

Il 26 febbraio, in seguito alla uccisione di due coloni israeliani (di cui sopra), l’esercito israeliano ha imposto la chiusura della città di Huwwara (Nablus) e ha chiuso i checkpoints nelle vicinanze; ha inoltre ostruito l’ingresso del villaggio di Beita (Nablus) con blocchi di cemento, ostacolando il movimento di più di 19.000 palestinesi.

Il 27 febbraio, in seguito all’uccisione di un israeliano, avvenuta lo stesso giorno, vicino a Gerico, l’esercito israeliano ha dispiegato posti di blocco volanti davanti a tutte le entrate/uscite della città di Gerico, inclusi blocchi di cemento, ostacolando il movimento di almeno 50.000 palestinesi.

In due episodi separati, registrati il 17 e il 24 febbraio, forze israeliane hanno limitato il movimento di oltre 10.000 palestinesi, chiudendo i cancelli stradali all’ingresso dei villaggi di Azzun (Qalqilya) e An Nabi Salih (Ramallah), rispettivamente per quattro e tre ore.

12). Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale israeliana o al largo della costa, in almeno 33 occasioni, forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso; quattro pescatori sono stati arrestati e un peschereccio è stato sequestrato; non sono stati riportati feriti o danni. In un altro caso, quattro minori palestinesi sono stati arrestati da forze israeliane mentre cercavano di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale. Inoltre, il 26 febbraio, si sono svolte manifestazioni lungo la recinzione perimetrale di Israele con Gaza, contro l’operazione di Nablus che ha provocato la morte di undici palestinesi (vedi sopra). I palestinesi hanno bruciato pneumatici e lanciato pietre e altri oggetti contro la recinzione e le forze israeliane, posizionate dall’altra parte della recinzione, hanno sparato proiettili veri, proiettili di gomma e lacrimogeni, ferendo quattro palestinesi, tra cui un minore.

13). Sempre nella Striscia di Gaza, il 23 febbraio, gruppi armati palestinesi hanno lanciato sei razzi e altri proiettili verso il sud di Israele; cinque razzi sono stati intercettati dal sistema israeliano Iron Dome e uno è caduto in un’area aperta in Israele. Secondo quanto riferito, forze israeliane hanno lanciato attacchi aerei contro siti militari appartenenti a gruppi armati della Striscia di Gaza. Non sono stati segnalati feriti.

Questo rapporto riflette le informazioni disponibili al momento della pubblicazione. I dati più aggiornati e ulteriori analisi sono disponibili su ochaopt.org/data.

Ultimi sviluppi (al di fuori del periodo di riferimento)

Questa sezione si basa su informazioni iniziali provenienti da diverse fonti. Ulteriori dettagli confermati saranno forniti nel prossimo rapporto.

Il 1° marzo, un palestinese è deceduto per le ferite da arma da fuoco riportate il giorno precedente, quando, durante un’operazione di ricerca-arresto nel Campo profughi di Aqbat Jaber (Gerico), era stato colpito dalle forze israeliane, nel contesto di uno scontro a fuoco con palestinesi.

Il 2 marzo, le forze israeliane hanno condotto un’operazione di ricerca-arresto nel villaggio di Azzun (Qalqilya), dove hanno colpito, con arma da fuoco, e ucciso un minore palestinese.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Il sistema carcerario israeliano sta ritardando le cure mediche salvavita di Abdul-Razeq Farraj

KHALED FARAJ

14 MARZO 2023 – Mondoweiss

Il trattamento di Abdul-Razeq Farraj per un tumore maligno è stato ritardato dai servizi penitenziari israeliani, parte di una più ampia politica israeliana di sistematica negligenza delle cure dei prigionieri palestinesi.

Mio fratello, Abdul-Razeq Farraj, che è detenuto nelle carceri israeliane, ha notato per la prima volta delle piaghe nere sul lato sinistro del naso tre mesi fa. Ha informato il medico del carcere e, a seguito di una procedura di screening, l’autorità penitenziaria ha ordinato che fosse trasferito in un ospedale civile per sottoporsi a ulteriori esami. Si è scoperto che questa piaga è un tumore maligno e che è necessario eseguire un’operazione per rimuoverla.

Non sono un medico, ma un semplice confronto tra una foto del tumore che ho visto tre mesi fa e un’altra foto che l’avvocato ha avuto il permesso di scattare questo mese indica cambiamenti visibili per quanto riguarda le sue dimensioni. In effetti, il tumore è cresciuto rapidamente sul lato sinistro del naso di mio fratello.

Un amico chirurgo mi ha in un primo momento informato che il caso non è pericoloso e che una semplice procedura avrebbe rimosso efficacemente il tumore. Questo quando ha visto la prima foto tre mesi fa. Questo mese, tuttavia, dopo aver visto la foto recente e dopo aver consultato altri medici, il mio amico ha notato che è necessaria un’operazione urgente e che l’espansione del tumore è verticale e non solo orizzontale. Qualsiasi ritardo nell’esecuzione dell’operazione porterebbe all’espansione del tumore, ha avvertito. In effetti, quello di cui stiamo parlando qui è un tumore maligno che non deve essere ignorato. L’autorità penitenziaria di Ofer, dove è detenuto mio fratello, ha ritardato la consegna del referto medico al suo avvocato e a un rappresentante di Medici per i Diritti Umani. La relazione è stata finalmente inviata all’avvocato, ma non è altro che un verbale procedurale privo di qualsiasi sostanza.

Il mio amico chirurgo e i suoi colleghi nel Regno Unito sono rimasti sorpresi quando hanno saputo di questo ritardo deliberato nel sottoporre mio fratello all’operazione così necessaria. Infatti era urgente eseguire l’operazione e rimuovere il tumore sin dal dicembre 2022, cioè da quando ha ricevuto per la prima volta la diagnosi. Questo tipo di ritardo da parte delle autorità del servizio penitenziario israeliano nel fornire cure mediche urgenti ai prigionieri palestinesi è chiaramente intenzionale.

Mio fratello Abdul-Razeq è imprigionato da più di tre anni e mezzo. È stato sottoposto a brutali torture nei centri di interrogatorio israeliani durante il suo ultimo arresto nel 2019 ed è attualmente in attesa di processo nei tribunali militari israeliani.

Ma questa non è la prima incarcerazione di mio fratello. Ha trascorso oltre dieci anni della sua vita in prigione secondo la politica arbitraria della detenzione amministrativa, tra il 1995 e il 2018. Ha anche scontato una pena di sei anni tra il 1985 e il 1991. Questi arresti, insieme al suo recente arresto nel 2019, portano a un totale di vent’anni che ha già trascorso nelle carceri israeliane. In particolare, i tribunali militari israeliani hanno sempre ripetuto la stessa accusa di “mettere in pericolo la sicurezza regionale e la sicurezza del pubblico” nella loro lista di imputazioni contro mio fratello, così come nei suoi ordini di detenzione amministrativa che si basano su “fascicoli segreti” a cui né gli avvocati né i loro clienti hanno accesso.

Abdul-Razeq, che ha da poco compiuto sessant’anni, ha passato un terzo della sua vita lontano dalla sua famiglia. Suo figlio, Basil, ha terminato gli studi di dottorato a Ginevra, in Svizzera, e ha iniziato a insegnare alla Birzeit University pochi mesi fa. Suo figlio minore, Wadea, ha terminato gli studi in ingegneria e ha iniziato a lavorare, il tutto mentre il padre era via. La sua compagna di vita, Lamis, ha trascorso metà della sua vita coniugale viaggiando tra prigioni e tribunali militari israeliani cercando di trovare una sorta di temporanea stabilità familiare.

 Sì, Abdul-Razeq è stato punito, in senso letterale, più di una volta, davanti allo stesso tribunale e sotto la stessa accusa. Mentre era fuori di prigione, Abdul-Razeq ha lavorato per molti anni nel giornalismo e nello sviluppo agricolo come parte del suo lavoro nell’ Union of Agricultural Work Committees. Ha impegnato il suo tempo durante il suo primo lavoro a denunciare i crimini israeliani contro i palestinesi, e ha dedicato il secondo a rafforzare la resilienza e la resistenza dei contadini palestinesi sulla loro terra contro le politiche dei coloni israeliani. Abdul-Razeq ha dedicato parte del suo tempo e delle sue energie per porre termine all’occupazione; per la libertà del suo popolo; per la giustizia e i diritti umani.

La preoccupazione che ho per mio fratello questa volta non è simile agli anni precedenti quando era in detenzione amministrativa. Allora l’intera famiglia avrebbe atteso la sua “presunta” data di rilascio; mia madre – che la sua anima riposi in pace – i suoi fratelli e sorelle, moglie e figli sarebbero al solito delusi da un altro rinnovo della detenzione per la seconda, terza, quarta e anche decima volta.

Questa volta è diverso. Mio fratello Abdul-Razeq non è più giovane, né ha la forza che aveva una volta. In secondo luogo, il suo caso riguarda una malattia che si sta rapidamente diffondendo. In terzo luogo, la nostra preoccupazione è aumentata con l’ascesa dell’estrema destra israeliana dato il suo ruolo importante nell’amministrare lo stato colonizzatore, in particolare dato che il colono criminale, condannato ed estremista Itamar Ben-Gvir ha ricevuto l’autorità sul servizio penitenziario israeliano come parte delle competenza del suo ministero di recente costituzione come ministro della sicurezza nazionale. In quarto luogo, la politica israeliana di trascurare le necessità mediche dei nostri prigionieri è diffusa e i nostri prigionieri sono lasciati soli ad affrontare il loro destino.

Fornire cure mediche ai detenuti è uno dei diritti più inalienabili a cui dovrebbero avere accesso. In effetti è noto come l’occupazione israeliana abbia una lunga storia, comprovata dai nomi e dalle testimonianze dei prigionieri, di trascuratezza nelle cure mediche dei prigionieri arabi e palestinesi.

Le organizzazioni mediche e per i diritti umani devono coordinare collettivamente gli sforzi per fare pressione sull’occupazione israeliana affinché fornisca le cure mediche necessarie a tutti i prigionieri malati. Questa è la sua responsabilità legale e “morale”. Infine la nostra richiesta è la libertà e il diritto alle cure mediche per Abdul-Razeq e i suoi compagni nelle prigioni coloniali israeliane.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

 




Secondo un rapporto nel 2022 lo Stato di Israele ha preso di mira 215 giornalisti in Cisgiordania e Gerusalemme

Redazione di MEMO

14 marzo 2023 – Middle East Monitor

Il Journalist Support Committee [Comitato di Supporto dei Giornalisti] (JSC) ha rivelato ieri che nel 2022 le autorità di occupazione israeliane hanno preso di mira 215 giornalisti nella Cisgiordania e a Gerusalemme occupate.

In occasione della Giornata Nazionale dei Palestinesi Feriti il JSC, con sede a Beirut, ha pubblicato ieri le cifre: “I giornalisti palestinesi sono costretti a lavorare in un contesto pericoloso, dato che sono sempre soggetti agli attacchi e alle violazioni da parte dell’occupazione israeliana” afferma il JSC.

Nelle sue quotidiane aggressioni contro i giornalisti l’occupazione israeliana usa armi vietate dal diritto internazionale.

Secondo il JSC, le forze di occupazione israeliane non proteggono i giornalisti palestinesi, dato che aprono il fuoco contro di loro anche se stanno indossando in modo visibile giubbotti antiproiettile.

Il mese di maggio ha visto il più alto numero di feriti tra i giornalisti, afferma il JSC, con 54 feriti dalle forze di occupazione in Cisgiordania e a Gerusalemme occupate, aggiungendo che essi sono presi di mira per impedirgli di documentare i crimini dello Stato di Israele.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




L’opposizione in Israele è solo per gli ebrei

Editoriale Haaretz

14 marzo 2023 Haaretz

I capi dei partiti ebraici di opposizione non perdono mai l’opportunità di ripetere l’errore di aderire ad una politica separatista che potrebbe davvero tenerli per sempre all’opposizione.

Questa settimana hanno orgogliosamente annunciato che se le leggi del golpe giudiziario verranno portate in parlamento per la votazione finale essi boicotteranno il voto. Questa è certamente un’importante e meritevole dichiarazione. Ma nella dichiarazione congiunta emessa dal capo di Yesh Atid Yair Lapid, dal capo del National Unity Party Benny Gantz, dal capo di Yisrael Beiteinu Avigdor Lieberman e dalla capa del Labor Party Merav Michaeli, si notava l’assenza di due persone – i capi dei due partiti arabi dell’opposizione, Hadash-Ta-al e la Lista Araba Unita (UAL).

I quattro leader ebrei dell’opposizione hanno mostrato unità nel dichiarare che faranno ogni cosa in loro potere per bloccare ciò che definiscono “un insano insieme di leggi”. Hanno sottolineato che “l’unità nazionale inizia con un dialogo sincero e fin quando la legislazione non sia bloccata resta una mera illusione.”

Ma quanto vale questa unità se esiste solo tra gli ebrei? E che forma assume la battaglia contro questa “insana” legislazione se esclude dalle sue fila i rappresentanti eletti dei cittadini arabi israeliani – la minoranza contro la quale è diretto il golpe, la prima minoranza che ne subirà i danni e, in larga misura, la sua principale vittima?

Lapid, il capo dell’opposizione, purtroppo sceglie di incitare contro gli arabi, come è sua abitudine, piuttosto che porgere ad essi una mano per costruire un’alleanza civile abbastanza ampia perché ebrei e arabi marcino insieme.

Il golpe giudiziario di Israele

Interrogato sul perché i leader dell’opposizione araba fossero assenti dall’incontro dei capi dell’opposizione ebrei, ha risposto che il capo della UAL Mansour Abbas è stato invitato ma non si è presentato, mentre il capo di Hadash- Ta’al Ayman Odeh “collabora con il Likud”, il partito del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.

Questa risposta non è che demagogica, del genere usato da Netanyahu. A differenza di Lapid, Lieberman e Gantz, Odeh non ha mai lavorato con Netanyahu e di sicuro non “lavora con il Likud.” E’ anche ragionevole ritenere che non abbia intenzione di lavorare con Netanyahu in futuro, sia a breve che a lungo termine.

Da uno che pensa di guidare l’opposizione, di opporsi ad una destra guidata da Netanyahu, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir e di lottare in nome della democrazia liberale, non ci si aspetta che dica cose del genere.

Di fatto ha il dovere di creare un’alleanza con la minoranza araba, di impegnare tutta la sua forza politica per porre le fondamenta di una sincera e solida collaborazione tra ebrei e arabi, di abbattere i muri della paura e dell’odio e di superare gli ostacoli ad una simile collaborazione. Perché solo insieme ci può essere una motivazione o una possibilità di sostituire il governo.

Un’opposizione fatta da soli ebrei non ha diritto di esistere in un’alleanza per la democrazia. L’opposizione a questo governo “totalmente di destra” deve essere totalmente democratica. E non può esserlo senza i cittadini arabi di Israele.

Questo articolo è il principale editoriale di Haaretz, pubblicato sui giornali ebraici e inglesi in Israele.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Le proteste in Israele: una rivolta per lo status quo

Ben White

13 marzo 2023 – The New Arab

Le proteste antigovernative israeliane non riguardano un cambiamento “rivoluzionario”, ma il mantenimento dello status quo, sostiene Ben White, uno status quo che include un regime di apartheid per i palestinesi.

“Dov’eri ad Hawara?” Così recita il coro rivolto di recente alla polizia israeliana dai manifestanti [israeliani, ndt] antigovernativi, in seguito all’orrendo attacco dei coloni nella città dell’area di Nablus.

Mentre per alcuni, le accuse ripetute sono da intendersi come un atto d’accusa contro l’impunità dei coloni, hanno anche un messaggio più problematico. L’implicazione è che la polizia fosse assente, un vuoto sfruttato da coloni fanatici. In realtà le forze israeliane erano presenti e hanno accompagnato e protetto i coloni.

Una domanda di gran lunga migliore di “Dov’eri ad Hawara?” sarebbe “Perché siamo ad Hawara?” Ma questo interrogativo non viene posto, figuriamoci dare una risposta. Il movimento di protesta che attanaglia Israele ha un obiettivo semplice: fermare un governo nel suo cammino. Non vuole il cambiamento, vuole che le cose rimangano le stesse.

Questa è la chiave per capire come e perché l’opposizione ai piani del governo abbia mobilitato settori della società, comprese le grandi imprese e l’hi-tech, fino ai riservisti d’élite.

La folla per le strade e le promesse di disobbedienza civile possono sembrare ad alcuni una “rivoluzione”, ma la forza trainante è un appello per la stabilità dello status quo, che include il regime di apartheid sperimentato dai palestinesi.

Legge e ordine coloniale: rendere legale l’illegale

Si è parlato molto delle voci di protesta provenienti da attuali ed ex membri dei servizi militari, di sicurezza e di intelligence israeliani. Haaretz ha recentemente pubblicato un ampio articolo in cui intervista approfonditamente un certo numero di riservisti che si stanno mobilitando contro la revisione del sistema legale, che includerà – tra le altre modifiche – il potere della Knesset di annullare le sentenze della Corte Suprema.

Alcuni sono stati invitati a riflettere sul motivo per cui questi sviluppi li hanno spinti a rifiutare il servizio diversamente da quanto successo in seguito alle esperienze nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Le loro risposte sono istruttive:

Sapevamo molto bene cosa stavamo facendo. Non ci siamo opposti, non ci siamo rifiutati di obbedire agli ordini, perché capivamo che questo è un Paese democratico”.

“Almeno fino ad oggi, potevi dire a te stesso che tutte quelle decisioni, anche quando erano controverse… venivano prese all’interno delle regole del gioco di un paese democratico”.

“Potevi avere dubbi sulla loro moralità, ma erano state prese nel contesto di un conflitto lungo anni tra due parti, una delle quali si comportava come una democrazia”.

Quando ti viene richiesto di compiere azioni nell’area grigia, sull’orlo del nero, specialmente rispetto agli attacchi a Gaza, lo fai come missione ordinata da un governo che agisce nel quadro di regole del gioco chiare e definite”.

L’idea che i propri ordini siano stati legalmente approvati, e la convinzione che Israele sia un “paese democratico”, sono un elemento centrale nell’autogiustificazione per compiere atti che sono, di fatto, illegali (a livello internazionale) e profondamente anti-democratici (mantenimento di un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi).

Un’altra lettera di circa 150 riservisti dell’esercito israeliano che prestano servizio come specialisti informatici ha avvertito che se le modifiche proposte diventeranno legge, “il quadro morale e legale che ci consente di sviluppare e gestire gli strumenti sensibili che utilizziamo sarà danneggiato”.

“Ci consente” di pronunciarci in più di un senso. Il 12 febbraio, il Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset ha ascoltato una discussione sulle “possibili conseguenze” dei nuovi cambiamenti “sui tentativi di Israele di far fronte alla campagna legale internazionale” – vale a dire gli sforzi per portare in giudizio i responsabili dei crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Il vice procuratore generale Gilad Noam è stato chiaro: la “percezione del sistema giudiziario israeliano nell’arena internazionale come indipendente, professionale e apolitico” è stata “una barriera molto significativa all’intervento esterno”, paragonata nel suo impatto a “Iron Dome” [il sistema di difesa antimissilistico utilizzato contro i razzi provenienti dalla Striscia di Gaza, ndt].

Indipendentemente dalla realtà di un sistema caratterizzato non solo da una cultura dell’impunità ma anche da “innovazioni” giuridiche per giustificare i crimini di guerra, è la “percezione” dell’indipendenza del sistema giudiziario che conta. Ora, i funzionari israeliani – e i riservisti dell’aeronautica – sono preoccupati di poter essere soggetti ad arresti in altri paesi.

I palestinesi e le proteste: assenti e presenti

Tali discussioni, e la mobilitazione dei riservisti, sono un esempio di come i palestinesi siano sia assenti che presenti nel movimento di protesta israeliano.

Sono assenti nel senso che non c’è riconoscimento della loro realtà di espropriazione, segregazione e violenza. Le poche bandiere palestinesi apparse inizialmente hanno solo stimolato un’ondata di bandiere israeliane. Gli stessi cittadini israeliani palestinesi non si sono presentati in gran numero.

Eppure i palestinesi sono anche “presenti” in quanto fanno parte di questa storia in ogni momento – dalle ragioni della mancanza di una costituzione formale da parte di Israele negli anni successivi alla Nakba, fino alle ambizioni di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir per l’accelerazione dell’espansione coloniale e dell’annessione.

Colpisce che il bulldozer corazzato D9 dell’esercito israeliano sia diventato una metafora popolare per indicare la riforma del sistema giudiziario dell’attuale governo tra i suoi oppositori, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak, l’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon e l’ex parlamentare del Likud Limor Livnat.

L’allusione senza ironia al D9 – utilizzato per demolire migliaia di case palestinesi – illustra perfettamente i parametri di queste proteste e quale tipo di “democrazia” cercano di preservare.

Un’occupazione ordinata

Una delle ironie delle attuali divisioni politiche che attanagliano la società israeliana, e della situazione in cui si trova Netanyahu, è che la forza dell’opposizione alla legislazione pianificata è, in parte, la testimonianza di quanto successo abbia avuto il leader del Likud nella “gestione del conflitto”. ‘.

Riconfezionata sotto Naftali Bennett come “restringimento dell’occupazione”, il suo nocciolo era facilmente comprensibile: l’economia israeliana è solida, i palestinesi sono sotto controllo e, a poco a poco, la colonizzazione e l’annessione de facto possono procedere in modo incrementale: l'”occupazione invisibile”.

È una adesione a questo status quo che anima il movimento di protesta: un ambiente stabile per gli investimenti e una magistratura indipendente dalla Knesset ma per niente indipendente dalla spinta colonizzatrice in Cisgiordania o dalla discriminazione subita dai cittadini palestinesi.

La furia dei coloni ha reso Hawara una parola d’ordine tra i manifestanti israeliani per la sua caotica incompetenza e fanatismo. Ma l’esperienza di Hawara sotto il governo militare, come per centinaia di altre comunità palestinesi, non è stata di “caos” ma di ordine: un ordine coloniale.

Ben White è uno scrittore, analista e autore di quattro libri, tra cui “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non rappresentano necessariamente quelle di The New Arab, del suo comitato editoriale o della redazione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




A Nablus i palestinesi hanno scioperato contro le uccisioni da parte di forze israeliane

Redazione di The New Arab

12 marzo 2023 – The New Arab

Domenica, dopo che forze israeliane hanno sparato contro un veicolo con palestinesi a bordo nei pressi del posto di blocco militare di Surra, a ovest di Nablus, i negozi sono rimasti chiusi.

Domenica nella città cisgiordana di Nablus i palestinesi hanno scioperato contro l’uccisione di tre palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane all’inizio della giornata.

I negozi sono rimasti chiusi dopo che forze israeliane hanno sparato contro un veicolo in cui viaggiavano tre palestinesi nei pressi del posto di blocco militare di Surra, a ovest di Nablus.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato che nell’attacco sono rimasti uccisi tre palestinesi, tra cui un diciottenne. Ha informato che i loro corpi sono stati sequestrati dalle forze israeliane.

Una fonte ha detto al servizio in lingua araba Al-Araby al-Jadeed di The New Arab che durante l’attacco un palestinese, identificato come Ibrahim al-Awartani, è stato arrestato.

Secondo il ministero della Sanità palestinese le morti di domenica hanno portato a 84 il numero totale dei palestinesi uccisi da forze israeliane da gennaio.

Il coordinatore di una campagna nazionale per la restituzione di corpi palestinesi tenuti da Israele, Hussein Shujaia, ha detto ad Al- Araby Al-Jadeed che il numero dei corpi di palestinesi trattenuti dalle forze di occupazione dal 2015 è ora salito a 133, tra cui 19 trattenuti da gennaio.

Secondo un comunicato citato dall’agenzia di notizie palestinese Wafa, il movimento Fatah ha condannato l’attacco, che afferma essere stato un tentativo del governo israeliano di esacerbare la situazione.

Utilizzando una frase comunemente utilizzata dagli israeliani in riferimento ai palestinesi come “erbaccia” da tagliare, il comunicato afferma che “la cosiddetta politica di ‘falciare il prato’ praticata dalle forze di occupazione non intimidirà il nostro popolo.”

Il presidente del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, ndt.], Ruhi Fattouh, ha affermato che il governo israeliano deve essere chiamato a rispondere dell’uccisione dei palestinesi.

In una dichiarazione trasmessa dalla WAFA Fattouh ha detto: “Le forze di occupazione erigono barriere di morte agli ingressi delle città palestinesi per uccidere a sangue freddo cittadini con false accuse per giustificare le loro quotidiane esecuzioni sul campo.”

Fattouh ha sostenuto che le ripetute esecuzioni ai posti di controllo militari sono una chiara indicazione che le forze di occupazione “hanno istruzioni esplicite di uccidere” da parte del governo israeliano.

La violenza contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata è peggiorata da quando il primo ministro Benjamin Netanyahu è tornato al potere in dicembre con una coalizione di governo insieme a ebrei ultra-ortodossi e alleati di estrema destra.

Associazioni per i diritti umani hanno spesso invitato le autorità di Tel Aviv a interrompere le “uccisioni illegali di palestinesi da parte di forze israeliane”, affermando che esse rappresentano “esecuzioni extragiudiziarie”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)