Israele distrugge l’80% delle capacità militari della Siria

Redazione di MEMO

11 dicembre 2024 – Middle East Monitor

Martedì l’esercito israeliano ha detto ai giornalisti che ha completato la parte principale della sua campagna militare aggressiva contro la Siria dopo la caduta del regime di Bashar Al-Assad, avendo come obbiettivo le capacità militari dello Stato siriano. L’esercito di occupazione ha dichiarato di aver distrutto tra il 70% e l’80% di queste capacità.

La campagna in Siria è chiamata dal regime di occupazione Operazione Freccia Basan. Questo è un riferimento ad un regno biblico che è stato parte della terra di Canaan e si ritiene sia stato situato nel sud della Siria e nella parte orientale della Giordania. La parola “Basan” in ebraico significa “terra piatta o spianata”.

L’area è stata chiamata così dal Monte Basan, conosciuto oggi come Jabal Al-Arab o Jabal Al-Druze, nella Siria meridionale. È dove i veicoli israeliani si sono infiltrati ed hanno occupato la zona cuscinetto demilitarizzata in base all’accordo di disimpegno con la Siria del 1974.

Secondo l’esercito di occupazione israeliano nei giorni scorsi esso ha attaccato più di 320 obiettivi in Siria, con 350 caccia che hanno effettuato 359 missioni contro “capacità militari strategiche.” Sostiene che ciò ha l’obiettivo di “prevenire l’accesso ad armi strategiche da parte di soggetti ostili.”

Sabato scorso il capo di stato Herzl Halevi ha approvato i piani operativi durante la sua visita alle alture del Golan siriane occupate. Nella stessa notte l’aeronautica militare israeliana ha cominciato a lanciare incursioni aventi come obiettivi varie parti della Siria, da Damasco a Tartus. Gli obiettivi distrutti includono decine di aerei ed elicotteri da combattimento, in aggiunta a sistemi radar, batterie di missili antiaerei, navi, sistemi di missili terra-terra, razzi, siluri e siti di produzione di armi.

Gli attacchi israeliani hanno anche avuto come obiettivi depositi di armi e munizioni in Siria, missili Scud, missili da crociera guidati, missili balistici navali, magazzini di droni ed altre capacità militari dello Stato siriano.

L’esercito di occupazione ha rivelato che l’operazione sul terreno sta continuando, mentre le forze di terra sono nelle zone cuscinetto per assicurarsi il controllo dell’area, distruggere le armi e smantellare l’infrastruttura militare siriana nella zona, con il pretesto che non raggiungano soggetti indesiderati.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Lo storico palestinese-americano Rashid Khalidi: Israele ha realizzato per se stesso uno scenario da incubo. Il tempo stringe (Seconda parte)

Itay Mashiach

30 nov 2024 – Haaretz

 

La questione è se il movimento nazionale palestinese degli anni novanta fosse in grado di comprendere che questo atto di rinuncia presupponeva un’evoluzione politica interna a Israele che avrebbe richiesto un po’ di tempo. E quando ci si fa esplodere nel centro di Tel Aviv quell’opzione di un cambiamento di prospettiva perde alle elezioni.

“So che gli attentati suicidi degli anni Novanta hanno avuto un impatto enorme sull’opinione pubblica israeliana, ma questo non è il punto. Se il colonizzatore vuole decolonizzare viene presa una decisione di farlo. Ci sono due eventualità perché il colonizzatore lo comprenda: o il costo diventa troppo elevato e l’opinione pubblica interna cambia, o il colonizzato escogita una strategia che funziona su più livelli.

Gli irlandesi hanno escogitato una strategia, così come gli algerini e i vietnamiti. I palestinesi, con mio rammarico e tristezza, no. Né per avvicinarsi alla comunità israeliana scavalcando la loro leadership né per confrontarsi con le vostre opinioni pubbliche, vale a dire quelle degli Stati Uniti e dell’Europa, senza le quali non si può esistere come Stato indipendente e non si possono avere le proprie bombe o i propri aerei. Gli irlandesi sono brillanti; gli algerini molto intelligenti; i vietnamiti geni. I palestinesi, non così intelligenti. Se vuole la mia critica alla leadership palestinese, eccola.”

La sua spiegazione riguardo all’ascesa di Hamas è essenzialmente materialista: l’alternativa diplomatica dell’OLP ha portato a condizioni di vita peggiori per i palestinesi e ha lasciato un vuoto politico nel ramo militante, che Hamas ha riempito. Ma che dire del ruolo della religione e delle aspirazioni islamiche nella società palestinese?

“La religione è stata un elemento importante nel nazionalismo palestinese fin dall’inizio, ma la sua popolarità oscilla. Nel periodo di massimo splendore dell’OLP gli islamisti erano politicamente molto deboli, quasi inesistenti. Quindi nel dire che la società palestinese è profondamente musulmana e profondamente islamista bisogna tener conto dei diversi decenni in cui non è stato così. Hamas non ha mai ottenuto la maggioranza tra i palestinesi. Nel 2006 ha ottenuto il 43% dei voti. Conosco dei cristiani a Betlemme che hanno votato per Hamas perché erano stufi di Fatah. Quindi non penso affatto che il 43% rappresentasse la loro effettiva popolarità in quel momento.”

È critico nei confronti di Israele per aver ignorato la possibilità che in quegli anni Hamas subisse un cambiamento. Ma ciò che molti israeliani si chiedono è perché i palestinesi non abbiano sfruttato l’opportunità del disimpegno di Israele da Gaza per sviluppare la loro comunità e costruire un’alternativa pacifica.

“Perché l’occupazione non è mai finita. Questa è una domanda profondamente stupida, che viene posta da persone che cercano di giustificare una narrazione fondamentalmente falsa. Gaza non è mai stata aperta; è sempre stata occupata. Spazio aereo, spazio marittimo, ogni entrata, ogni uscita, ogni importazione, ogni esportazione: il fottuto registro della popolazione è rimasto nelle mani di Israele. Cosa è cambiato? Alcune migliaia di coloni sono stati allontanati. Quindi invece di stare in piccole prigioni all’interno di Gaza i palestinesi ora si ritrovavano in una grande prigione a Gaza. Questa non è una fine dell’occupazione, è una modifica dell’occupazione. Non è una fine della colonizzazione.

Si lascia Gaza per intensificare [la presa] sulla Cisgiordania. Abbiamo l’assistente di Sharon, Dov Weissglas, che dice [in un’intervista ad Haaretz nel 2004 che il piano di disimpegno di Sharon] ‘fornisce la quantità di formaldeide [sostanza usata nei processi di imbalsamazione, n.t.d.] necessaria affinché non ci sia un processo politico con i palestinesi’. Per l’amor di Dio, pensano che non sappiamo leggere l’ebraico? Uno Stato significa sovranità. E sovranità non significa che una potenza militare straniera occupante abbia il controllo del tuo registro della popolazione. Ci pensi per due minuti. Intendo dire, è come se l’ufficio del censimento degli Stati Uniti fosse controllato da Mosca. Davvero? Le importazioni e le esportazioni sono decise da qualche caporale o burocrate in qualche ministero a Tel Aviv o a Gerusalemme? Insomma, veramente? E i palestinesi dovrebbero dire: “Oh, creiamo una bella piccola utopia dentro la prigione”? Che tipo di assurdità è questa?”

Cosa pensa della lotta armata da una prospettiva morale?

“Partiamo dal fatto che la violenza è violenza; che provenga o no dallo Stato è comunque violenza. Se non accettiamo questo principio, non possiamo discuterne. La violenza del colonizzatore è tre, venti, cento volte più intensa della violenza del colonizzato. Quindi se vogliamo parlare di violenza parliamone; se vogliamo [solo, ndt.] mettere in luce il terrorismo e la violenza dei palestinesi non stiamo parlando la stessa lingua.

Il secondo presupposto è che dal punto di vista legale dalla seconda guerra mondiale è stato accettato che le persone sotto dominio coloniale hanno il diritto di usare tutti i mezzi per la loro liberazione, entro i limiti del diritto umanitario internazionale. Ciò significa combattenti e non combattenti, significa proporzionalità. Non è moralità, è diritto internazionale.

Ma questo vale per entrambe le parti, sia per il colonizzatore che per il colonizzato, se accettano il diritto umanitario internazionale. Quando si distrugge un intero edificio per uccidere una persona di Hamas a Jabalya, è chiaro che proporzionalità e discriminazione sono andate a farsi benedire.

Il punto non è chi ha iniziato. Proporzionalità e discriminazione non dicono che non devi tener conto di tali regole perché l’altro è un cattivo e ha iniziato lui. E infine, c’è l’aspetto politico [della violenza], relativo al modo più saggio per raggiungere i propri obiettivi”.

A questo proposito, nel suo libro cita Eqbal Ahmad, l’intellettuale pakistano che ha lavorato con Franz Fanon e il FLN, il movimento di liberazione algerino. Nei primi anni ’80 l’OLP gli ha affidato il compito di valutare la propria strategia militare. Lui ha sostenuto che, a differenza del caso algerino, l’uso della forza contro gli israeliani “non ha fatto altro che rafforzare un preesistente e pervasivo senso di vittimismo tra gli israeliani, e nel contempo [ha anche] unificato la comunità israeliana”.

“Sì, e penso che sia qualcosa di estremamente importante. Se parliamo dei francesi [in Algeria], direi che piazzare una bomba in un bar costituì una violazione dei codici morale e legale, una violazione del diritto umanitario internazionale. Lo fecero due eroine della rivoluzione algerina, Jamila Bouhired e Zahra Zarif. Penso che sul piano politico se ne possa discutere, perché i coloni [coloni francesi in Algeria, noti anche come pieds-noirs], in ultima analisi, avevano un luogo in cui tornare. Soffrivano di quella che chiamo “paura coloniale”. Erano terrorizzati dagli indigènes [popolazione indigena], perché gli indigènes erano più numerosi di loro e sapevano che gli indigènes li odiavano.

Ma non soffrivano di una paura ereditaria della persecuzione. Non possedevano una memoria storica per cui ogni attacco contro di loro potesse essere interpretato se non all’interno del contesto locale dell’Algeria. E alla fine, quella violenza ha avuto successo. Sul piano morale l’atteggiamento verso la violenza indiscriminata è netto, o bianco o nero. Ma sul piano politico è grigio. Ciò che Eqbal Ahmed dice di Israele è che a causa della natura della storia ebraica una strategia di violenza indiscriminata, come quella che l’OLP stava perseguendo allora, è politicamente controproducente”.

Come valuta il peso del BDS, il movimento di boicottaggio contro Israele, ora, due decenni dopo?

“Vent’anni fa le risoluzioni BDS [da parte dei consigli degli studenti] non potevano essere approvate in nessun campus americano, oggi vengono approvate facilmente. Ma non è stato istituito alcun boicottaggio, o pochissimi, non sono state imposte sanzioni e c’è stato molto poco disinvestimento”.

Un fallimento quindi.

“No! Il punto è che l’opinione pubblica è cambiata. Lo scopo del BDS era di aprire una discussione che l’altra parte non voleva fosse aperta. Perché [gli israeliani] chiamano antisemiti tutti coloro che osano parlare di questo genocidio [a Gaza]? Perché non hanno argomenti, non hanno niente da dire; quindi zittiteli con l’accusa più tossica possibile nel mondo occidentale. Lo scopo [del BDS], dal mio punto di vista, non è di provocare veri e propri boicottaggi, disinvestimenti o sanzioni. È una leva per iniziare a parlare di qualcosa su cui nessuno ha mai voluto discutere. Ed in tal senso è stato, a mio avviso, un enorme successo.

Ora stiamo iniziando ad ottenere una limitazione di [certe] forniture di armi a Israele da parte di olandesi, tedeschi, spagnoli, canadesi. Queste e altre mosse sono il risultato di un cambiamento di opinione nel mondo occidentale, e questo è dovuto in gran parte al BDS.”

E per lei, in quanto sostenitore del BDS, non è stato un problema essere intervistato da un giornale israeliano?

“No. Ho pubblicato libri in Israele. Penso che sia importante raggiungere un pubblico israeliano. So che è un pubblico molto ridotto, ma il punto è che non vinci, non porti cambiamenti senza capire come fare appello all’opinione pubblica, aggirando i governanti e la macchina della propaganda, che sia negli Stati Uniti o in Israele”.

Nel suo libro fa notare che gli algerini e i vietnamiti non hanno perso l’opportunità di influenzare l’opinione pubblica nelle comunità di origine dei loro nemici e sostiene che questo sia stato determinante per le loro vittorie. Cosa dovrebbero fare i palestinesi, che non stanno facendo, per condizionare l’opinione pubblica israeliana, se possibile?

“La risposta a ciò dovrebbe venire da un movimento nazionale palestinese unito con una strategia chiara, non spetta a Rashid Khalidi darla. Uno dei problemi che abbiamo oggi è la disunione e l’assenza di un movimento nazionale unito e di una strategia chiara e unitaria. Senza questo non vi sarà alcuna liberazione. La diplomazia pubblica, che può chiamare hasbara [come nel caso di quella israeliana, n.t.d.] o propaganda, è assolutamente essenziale. Ogni lotta di liberazione ha successo solo grazie a questo. Se i sudafricani non l’avessero avuta, avrebbero ancora l’apartheid”.

Qual è il ruolo della diaspora palestinese in questo attuale vuoto di leadership, e in particolare il ruolo di intellettuali come lei?

“Penso che la diaspora, e nel suo interno una generazione più giovane, integrata e completamente acculturata e che comprenda la cultura politica dei paesi in cui si trova, avrà un ruolo importante in futuro. Penso che il ruolo della mia generazione sia praticamente finito, me compreso. Non possiamo ancora beneficiare del talento e della comprensione della politica occidentale che possiede la giovane generazione. Ciò arriverà presto, spero. Ma richiede un movimento nazionale organizzato, centralizzato e unificato. Ora non ce l’abbiamo.”

Che ne pensa dell’istituzione di un governo in esilio?

“Storicamente la leadership [palestinese] è sempre stata all’estero. Uno dei tanti errori commessi da Arafat è stato quello di prendere l’intera OLP e portarla nella gabbia dell’occupazione. Chi si comporta così? Si può trasferire parte della leadership dopo aver proceduto alla liberazione, forse – [ma] lui non aveva liberato nulla. Erano così disperati perché dovevano scappare da Tunisi e dagli altri posti in cui si trovavano a causa dell’errore commesso nel sostenere Saddam Hussein nel 1990-1991, che erano disposti a saltare dalla padella alla brace. È stato un errore fatale. Chi mette l’intera leadership sotto il controllo dell’esercito e dei servizi di sicurezza israeliani? È sconcertante. Quindi, sì, avremo bisogno [di leadership nella] diaspora, e in futuro finirà per trovarsi in parte fuori e in parte dentro, si suppone. Come con l’Algeria”.

Nel movimento anti-apartheid la cooperazione con i sudafricani bianchi è stata fondamentale. Cosa si può fare per espandere l’alleanza ebraico-palestinese?

È una domanda difficile. Tra molti palestinesi, soprattutto tra i giovani palestinesi, c’è una resistenza a quella che chiamano ‘normalizzazione’. E questo, in una certa misura, rende alcuni ciechi alla necessità di trovare alleati dall’altra parte. Alla fine non si potrà vincere senza che ciò accada. È più dura di qualsiasi altra lotta di liberazione perché non è un progetto coloniale in cui le persone possono tornare a casa. Non c’è una casa. Loro [gli ebrei] sono in Israele da tre o quattro generazioni. Non andranno da nessuna parte. Non è che ci si possa rivolgere ai francesi perché riportino a casa i loro coloni. È più come l’Irlanda e il Sudafrica, dove devi fare i conti con quella che vedi come una popolazione divisa, ma che ora è diventata enraciné, radicata, e che ha sviluppato un’identità collettiva”.

Tuttavia analizza questo conflitto come un caso di colonialismo di insediamento.

“Lei sente cosa dicono le persone dell’ala destra dell’attuale governo su Gaza e vede cosa stanno facendo in Cisgiordania, come hanno spogliato le persone della loro terra e li hanno confinati in Galilea e nel Triangolo [un’area nel centro di Israele con una elevata densità di popolazione araba] dopo il 1948. Se questo non è colonialismo di insediamento non so cosa sia. Tutto ciò che è stato fatto dall’inizio è chiaramente all’interno di quel paradigma.

Ma il sionismo è iniziato come un progetto nazionale, poi hanno trovato un patron e poi hanno utilizzato gli strumenti del colonialismo di insediamento. Il che è unico. Nessun altro caso di colonialismo di insediamento ha esordito come progetto nazionale. Il paradigma del colonialismo di insediamento è utile solo fino a un certo punto. E Israele è il caso più unico che si possa immaginare. Nessuna madrepatria, quasi l’intera popolazione è lì per una persecuzione, e c’è il collegamento con la Terra Santa, con la Bibbia, per l’amor di Dio.”

Lei ha analizzato lo scambio di conoscenze sui sistemi di controinsurrezione tra le colonie britanniche e descritto come i leader sionisti adottarono le pratiche coloniali degli inglesi. Cosa ha scoperto?

“In realtà ci sto lavorando adesso. Dopo l’indipendenza irlandese gli inglesi esportarono [in Palestina] l’intera Royal Irish Constabulary [Polizia reale irlandese, ndt.] e formarono la Palestine Gendarmerie. Quando scoppiarono le rivolte, introdussero esperti provenienti da altre località. Portarono il generale [Bernard] Montgomery, che nel 1921 era stato a capo della brigata a Cork [dove furono eseguite rappresaglie contro i ribelli irlandesi] che comandò una divisione in Palestina nel 1938. Portarono Sir Charles Tegart, che avevano inviato dall’Irlanda in India, per costruire le “Tegart Forts” – centri di tortura, che erano la sua competenza. Venne in Palestina per trasmettere queste cognizioni. E un personaggio di nome Orde Wingate che ogni esperto militare israeliano conosce profondamente – il padre della dottrina militare israeliana.”

In un’intervista con la New Left Review, ha descritto Wingate come un “assassino coloniale a sangue freddo”.

“Prestò servizio in Sudan, Dio solo sa cosa fece lì. Dovrei fare altre ricerche per scoprirlo. In Palestina ha formato le Squadre Speciali Notturne, composte da quadri scelti dal Palmach e dall’Haganah [forze clandestine ebraiche] affiancati a soldati britannici selezionati. Lanciò una campagna di incursioni notturne. Attaccando villaggi. Sparando contro i prigionieri. Torturando. Facendo saltare in aria case sopra le teste delle persone. Cose orribili. Insomma, dai resoconti in nostro possesso risulta chiaramente uno psicopatico assassino. Moshe Dayan era uno dei suoi allievi, insieme a Yitzhak Sadeh [comandante delle truppe d’assalto del Palmach prima dell’IDF] e Yigal Alon. Ci sono probabilmente una dozzina di ufficiali superiori dell’esercito israeliano, la maggior parte dei quali hanno raggiunto il grado di maggiore generale, che sono stati addestrati da quest’uomo. La dottrina dell’esercito israeliano ha origine con Wingate”.

Lei conclude il suo libro affermando che “gli scontri tra coloni e popolazioni indigene si sono conclusi solo in uno di questi tre modi: con l’eliminazione o la completa sottomissione della popolazione nativa, come nel Nord America; con la sconfitta e l’espulsione del colonizzatore, come in Algeria, il che è estremamente raro; o con l’abbandono della supremazia coloniale nel contesto del compromesso e della riconciliazione, come in Sudafrica, Zimbabwe e Irlanda”. Quale strada stiamo percorrendo?

“Lo sterminio di una componente da parte dell’altra è impossibile. L’espulsione di una componente da parte dell’altra è – avrei detto impossibile – penso ora possibile ma improbabile. Quindi abbiamo due popoli. O la guerra continua o giungono a un accordo sul fatto che devono vivere su una base di assoluta uguaglianza. Non una risposta molto ottimistica, ma l’unica risposta. Mi lasci aggiungere che questa risoluzione [del conflitto] è molto più vicina come risultato della guerra attuale, perché l’opinione pubblica occidentale si è rivoltata contro Israele in un modo che non era mai accaduto, dalla Dichiarazione Balfour [della Gran Bretagna, nel 1917, a favore di una patria ebraica in Palestina] fino a oggi.

L’opinione pubblica occidentale è sempre stata unanimemente favorevole a Israele, con piccole eccezioni: nel 1982, quando videro troppi edifici distrutti e troppi bambini uccisi [in Libano], e nella prima intifada [1987-1992], quando troppi carri armati fronteggiavano troppi minorenni che lanciavano pietre. Ma, altrimenti, un sostegno granitico. Élite, opinione pubblica. Senza eccezioni, per un centinaio di anni. Tutto ciò è cambiato. Questo [cambiamento] potrebbe non essere irreversibile, ma il tempo stringe. Con il suo comportamento dal 7 ottobre Israele ha creato per sé stesso uno scenario da incubo a livello globale”.

Ci sono componenti della sinistra israeliana che fantasticano su una soluzione imposta dall’esterno. È possibile?

“Sarà possibile quando gli interessi americani riguardo alla Palestina cambieranno. Gli Stati Uniti hanno costretto Israele a fare molte cose dettate dall’interesse strategico, nazionale o economico americano”.

Durante la guerra fredda per esempio.

“Giusto. [Il Segretario di Stato Henry] Kissinger ha imposto con la forza accordi di disimpegno al governo israeliano. [Il Segretario di Stato James] Baker ha imposto [al Primo Ministro Yitzhak] Shamir di partecipare a Madrid [alla conferenza di pace del 1991]. Obama ha imposto agli israeliani di accettare l’accordo [nucleare] con l’Iran. [Il Presidente Dwight] Eisenhower li ha spinti fuori dal Sinai [nel 1957]. È stata una nostra sfortuna che la Palestina non rappresenti un importante interesse nazionale americano.

Le dittature nel mondo arabo soffocano l’opinione pubblica e sono subordinate agli Stati Uniti; i regimi petroliferi dipendono dagli Stati Uniti per la loro difesa contro le loro popolazioni e i nemici esterni. Se ciò cambiasse, se le cose che Israele fa danneggiassero l’interesse nazionale americano, ciò potrebbe portare a una coercizione esterna. Non ci spero.”

Le più giovani generazioni di attivisti pro-Palestina negli Stati Uniti l’ha criticato per le sue distinzioni sulla violenza. Cosa risponde loro?

“Non amo la violenza, ma mi è molto chiaro che la violenza è stata un elemento essenziale di ogni lotta di liberazione. Contro la violenza schiacciante del colonizzatore ci sarà violenza, che io lo voglia o no. La visione israeliana è che se la forza non funziona si debba usare più forza. Questo è il risultato. Cacciano l’OLP dal Libano e si ritrovano Hezbollah. Uccidono [il leader di Hezbollah Abbas] Musawi, [Hassan] e si ritrovano Nasrallah. Uccidono Nasrallah, tanti auguri per chi si troveranno davanti. Uccidono [il leader di Hamas Yahya] Sinwar – aspettate e vedrete chi spunterà fuori. Questa è la natura della violenza coloniale. Genera resistenza. Vorrei che la resistenza fosse intelligente, strategica, idealmente anche morale e legale, ma probabilmente non lo sarà.”

Cosa vorrebbe che gli israeliani capissero meglio riguardo al conflitto?

“Devono capire qualcosa che è molto difficile per loro afferrare: come i palestinesi e il resto del mondo vedono la situazione. Questa viene vista fin dall’inizio come un tentativo di creare uno Stato ebraico in un paese arabo. Non si tratta di un gruppo innocente di rifugiati che arrivano nella loro patria ancestrale e vengono improvvisamente attaccati da uomini e donne selvaggi. Arrivano e fanno cose che generano tutto ciò che ne consegue; il loro stesso arrivo e i loro schemi mentali sono all’origine del conflitto.

C’è mai stato un conflitto arabo-ebraico in Palestina nei secoli XVIII, XVII, XIX, XV, XII ? No. Questo non è un conflitto che va avanti da tempo immemorabile. Bisogna mettere da parte questa versione autogiustificatoria della storia. Insomma, capire che i palestinesi, gli arabi, il resto del mondo e ora anche l’opinione pubblica occidentale la vedono in questo modo. Ci sono ancora le élite che sosterranno qualsiasi cosa faccia Israele. Ma il tempo stringe. Sotto, qualcosa ribolle.”

(Prima parte)

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un rapporto rivela che i soldati israeliani commettono sistematicamente violenze sui palestinesi a Hebron

Oren Ziv

9 dicembre 2024 – +972magazine

Frustati con una cintura, colpiti all’inguine, minacciati di stupro: i palestinesi riferiscono uno schema ricorrente di attacchi arbitrari nella città della Cisgiordania quest’anno.

Arresti casuali, violenza e umiliazione da parte di soldati israeliani senza motivo: questa negli ultimi mesi è la vita quotidiana dei palestinesi nella città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, secondo le testimonianze raccolte dall’organizzazione per i diritti umani B’Tselem e pubblicate la scorsa settimana in un nuovo rapporto.

Mentre la maggior parte della resistenza armata in Cisgiordania è concentrata nelle città settentrionali di Jenin, Tulkarem e Nablus, i soldati israeliani sembrano aver deciso che, dopo il 7 ottobre, tutti i palestinesi siano sostenitori di Hamas, e nessuno innocente.

“Sembra che i palestinesi residenti a Hebron possano in ogni momento essere fatti vittime di violenze brutali, inflitte loro mentre sbrigano le loro faccende quotidiane”, spiega il rapporto. “Queste vittime sono state scelte casualmente, senza alcun rapporto con le loro azioni”.

Nessuno dei 25 palestinesi che hanno rilasciato la propria testimonianza a B’Tselem aveva preso parte ad azioni violente, né si era unito a proteste non-violente. Soltanto due tra di loro erano stati effettivamente arrestati e portati via, in strutture militari, ed entrambi sono stati in seguito rilasciati senza che alcuna accusa venisse formulata. Gli altri 23 sono stati liberati dopo che le violenze sono terminate.

In diversi casi i soldati hanno ispezionato i cellulari dei palestinesi alla ricerca di “prove” del loro sostegno ad Hamas: “Un’immagine ‘sospetta’ o segni di aver seguito aggiornamenti su Gaza … sono stati sufficienti a giustificare il trasferimento a una delle postazioni militari disseminate in tutta Hebron e ore di violenze fisiche e mentali, sotto la minaccia delle armi, ammanettati e bendati” osserva il rapporto.

Con più di 200.000 residenti, Hebron è la città palestinese più popolosa in Cisgiordania nonché l’unica che ospita al suo interno coloni israeliani: circa 900 coloni vivono sotto la protezione di circa 1.000 soldati israeliani.

L’incremento nelle vessazioni e violenze contro i palestinesi a Hebron non è un fenomeno isolato. Dal 7 ottobre in Cisgiordania l’esercito israeliano ha ucciso più di 730 palestinesi, in parte a causa del significativo ricorso alle forze aeree nella zona per la prima volta dalla fine della Seconda Intifada, circa 20 anni fa. Contemporaneamente i coloni israeliani con l’aiuto dell’esercito hanno sottoposto a pulizia etnica più di 50 comunità rurali palestinesi.

I fatti oggetto dell’indagine dei ricercatori di B’Tselem hanno avuto luogo nella zona centrale di Hebron tra maggio e agosto di quest’anno. Quasi tutte le vittime sono giovani uomini. Il gran numero di testimonianze, la presenza di diversi soldati nella maggior parte degli episodi e il fatto che essi abbiano a volte avuto luogo all’interno di strutture militari sono tutti fattori che suggeriscono che gli arresti casuali e la violenza possano essere la politica non ufficiale dell’esercito nella città.

Il soldato ha chiesto se mi piacesse Hamas e poi mi ha colpito ai testicoli’

Hisham Abu Is’ifan, 54 anni, sei figli, residente nel quartiere Wadi Al-Hassin di Hebron, stava andando a svolgere il suo lavoro di impiegato presso il Ministero dell’Istruzione quando è stato fermato e attaccato dai soldati il 12 giugno.

“[Un soldato] si è avvicinato e mi ha spinto, poi mi ha ordinato di dargli la mia carta d’identità e il telefono”, testimonia Abu Is’ifan a B’Tselem. “Prima che potessi dargli il telefono, mi ha afferrato per la nuca e mi ha spinto a terra. La schiena mi faceva molto male e ho urlato… Poiché continuavo a urlare per il dolore, il soldato si è seduto su di me schiacciandomi il petto con le ginocchia fino a quando ho sentito di non poter più respirare per il dolore”.

Yasser Abu Markhiyeh, 52 anni, 4 figli, residente nel quartiere di Tel Rumeida, è stato sottoposto a violenze a un posto di blocco a Hebron il 14 di luglio a causa di ciò che i soldati hanno trovato sul suo cellulare. “Quando l’ho raggiunto, [il soldato] mi ha ordinato di dargli la mia carta d’identità”, racconta. “L’ho fatto, e lui mi ha detto di sbloccare il telefono e darglielo. L’ho sentito parlare con qualcuno via radio e fare il mio nome.

Dopo circa cinque minuti, quattro soldati sono arrivati al posto di blocco”, continua Abu Markhiyeh. “Uno di loro mi ha parlato in arabo e mi ha accusato di aver contattato Al Jazeera e calunniato l’esercito israeliano. Gli ho risposto che tre settimane prima io avevo in effetti riferito ad Al Jazeera di essere stato attaccato dai soldati il 22 di giugno… Allora mi ha legato le mani dietro la schiena con fascette serracavi, stringendole molto. Due soldati mi hanno assalito e hanno cominciato a picchiarmi, anche ai testicoli, per diversi minuti”.

Mahmoud ‘Alaa Ghanem, un diciottenne che vive nella città di Dura, nel distretto di Hebron è stato attaccato dai soldati a Hebron l’8 luglio. Come per Abu Markhiyeh, anche il suo cellulare è stato ispezionato dai soldati. Quando hanno aperto l’account Instagram di Ghanem hanno trovato un meme raffigurante un soldato israeliano intento a salvare bambini il 7 ottobre con la scritta “Photoshop”, una derisione dell’evidente incapacità dell’esercito di contrastare l’attacco di Hamas quel giorno.

“Mi ha chiesto di quell’immagine, e io ho detto che era solo un’immagine”, riferisce Ghanem a B’Tselem. “Ha detto ‘Te lo diamo noi Photoshop’”.

Dopo alcuni minuti, Ghanem è stato messo sul pavimento di una jeep e portato via. “Uno dei soldati mi ha preso per i capelli e mi ha sbattuto la faccia contro il portellone posteriore, tre volte di fila”, dice. “Ho sentito che la mia bocca e il mio naso sanguinavano. Il soldato mi ha chiesto, ‘Ti piace Hamas?’ Ho detto di no e lui mi ha afferrato per il braccio, me l’ha girato attorno al collo e mi ha strangolato… Due soldati hanno cominciato a schiaffeggiarmi e chiedermi di nuovo ‘Ti piace Hamas?’ Ho di nuovo detto di no, e poi uno di loro mi ha colpito con forza ai testicoli. Ho urlato per il dolore, e poi lui mi ha colpito di nuovo nello stesso punto, più forte. Li ho supplicati in nome di Dio di smettere di colpirmi”.

Ci hanno frustati con una cintura su tutto il corpo’

Alcune delle testimonianze descrivono violenze fisiche che vanno al di là dei pestaggi. “Uno dei soldati è venuto da me e ha messo la sua sigaretta sulla mia gamba destra”, riferisce a B’Tselem Muhammad A-Natsheh, ventiduenne di Tel Rumeida che è stato fermato il 14 luglio. “L’ha spenta lentamente, in modo che facesse più male. Uno di loro ha chiesto: ‘Fa male?’ Quando ho detto di sì, mi ha dato un pugno alla nuca, è salito in piedi sulle mie gambe e le ha schiacciate con forza”.

Continua A-Natsheh: “Uno di loro ha preso una sedia da ufficio e l’ha messa sulle mie gambe. Di quando in quando ci si sedeva, cosa molto dolorosa. Hanno continuato a insultarmi per tutto il tempo, uno di loro mi ha anche sputato addosso. É continuato per circa un’ora, poi uno dei soldati mi ha detto in arabo: ‘Ti stupreremo’. Uno di loro mi ha afferrato la testa e un altro soldato cercava di farmi aprire la bocca e spingervi dentro un oggetto di gomma, ce l’ho messa tutta per non aprire la bocca. Ho sentito uno di loro che diceva in ebraico: ‘Filmalo, filmalo’”.

“Poi è arrivato un soldato che parlava arabo”, ricorda. “È venuto da me e mi ha ordinato di alzarmi in piedi, ma non ci riuscivo. Mi ha preso per il collo, mi ha sollevato e mi ha fatto stare in piedi faccia al muro, e poi con le mani ha cominciato a spingermi la testa a destra e a sinistra con violenza, dicendo ‘Se ti vedo di nuovo in questo posto ti violento e ti uccido. Farò lo stesso a chiunque io veda qui’.

Il fenomeno dei soldati che registrano le violenze con i propri telefoni per poi condividerli è stato riferito da diverse testimonianze. “I soldati hanno portato del ghiaccio e me l’hanno messo nelle mutande”, racconta a B’Tselem Qutaybah Abu Ramileh, venticinquenne del quartiere di Al-Salayma, fermato l’8 luglio insieme al fratello Yazan, 22 anni. “Dopo, mio fratello Yazan mi ha detto che hanno fatto lo stesso a lui. Hanno anche versato qualche alcolico sui nostri vestiti. Ho sentito un soldato parlare a una ragazza al telefono. Credo fosse una videochiamata. Ridevano e si prendevano gioco di noi”.

“Uno dei soldati ci ha presi a calci in testa e in faccia mentre malediceva noi e le nostre madri”, ha continuato. “Poi all’improvviso ho sentito provenire dall’alto il suono di una cintura in cuoio, e uno di loro ha cominciato a frustarci con la cintura sulle nostre teste e su tutto il corpo… I soldati hanno calpestato i nostri piedi (nudi). Le frustate con la cintura sono continuate per almeno tre minuti, poi i soldati hanno portato un secchio e me lo hanno messo in testa. Più tardi ho capito che ne avevano messo uno anche a Yazan. Hanno cominciato a giocare con una palla o qualcosa di simile, e la tiravano contro il secchio sulla mia testa. Quando la palla colpiva il secchio faceva male. Era difficile respirare e mi sembrava di soffocare”.

Come in diversi video usciti da Gaza negli ultimi mesi, la violenza sui palestinesi da parte dei soldati a Hebron è spesso accompagnata dall’ingiunzione ai trattenuti di condannare Hamas. Mu’tasem Da’an, giornalista, 46 anni, 8 figli, del quartiere di Wadi A-Nasara, è stato fermato il 28 luglio e gli è stato ordinato di sbloccare il telefono.

“Hanno cercato un po’ e hanno trovato contenuti relativi alla guerra a Gaza”, ha raccontato. “I soldati mi hanno bendato e mi hanno portato a piedi per circa 250 metri alla base militare vicino al cancello meridionale della colonia di Kiryat Arba… Hanno cantato canzoni in ebraico che parlano di vendetta contro Hamas, elogiano Israele e inneggiano all’uccisione di donne e bambini. Ci hanno fatto ripetere le parole e maledire i palestinesi. Capisco l’ebraico molto bene”.

Anche se la maggior parte delle vittime sono uomini, tra coloro che hanno rilasciato a B’Tselem la propria testimonianza ci sono anche alcune donne. ‘Abir Id’es-Jaber, 33 anni, 4 figli, del quartiere di Al-Manshar, è stata attaccata insieme a suo marito il 21 agosto, mentre erano nella loro auto.

“I soldati ci hanno ordinato di andarcene”, ha detto. “Mio marito ha fatto manovra, e i soldati ci stavano ancora circondando. Uno di loro mi ha guardata e mi ha fatto l’occhiolino. Mi ha fatto un sorriso beffardo e poi l’ho visto togliere la sicura a una granata stordente e gettarla tra le mie gambe. Ho spinto via la granata ed è caduta sotto il sedile. Ho gridato ‘Granata! Granata!’ e mi sono riparata dall’altra parte. (Mio marito) si era voltato verso di me quando ho gridato, quindi la granata gli è scoppiata sotto al viso. È svenuto. Grazie a Dio, l’auto si è fermata da sola”.

In risposta alla richiesta di commento da parte di +972, un portavoce dell’esercito israeliano ha dichiarato di non essere a conoscenza di nessuno dei casi riportati eccetto quello riguardante Abu Markhiyeh. “L’esercito tratta i trattenuti in conformità con il diritto internazionale e agisce per investigare e gestire episodi eccezionali che esulano dagli ordini”, recita la dichiarazione. “Nei casi in cui ci sia il sospetto di un reato penale che giustifica l’apertura di un’inchiesta, viene lanciata un’indagine penale militare e alla sua conclusione le risultanze sono sottoposte all’esame della Procura Generale militare”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




Il vero motivo per cui un ex capo dell’esercito israeliano denuncia la pulizia etnica a Gaza

Meron Rapoport

5 dicembre 2024 – +972 magazine

Poco preoccupato del dramma dei palestinesi, Moshe Ya’alon teme l’impatto della rivoluzione antidemocratica di Netanyahu sulle istituzioni militari.

Domenica primo dicembre l’emittente israeliana Channel 12 ha trasmesso un’intervista con Moshe “Bogie” Ya’alon, ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano e poi ministro della Difesa. In uno scambio illuminante Ya’alon ha insistito nel definire “pulizia etnica” le azioni di Israele a Gaza, sostenendo che i mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia sono totalmente giustificati e ha affermato che lui stesso “da lungo tempo” li avrebbe emessi contro il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir e forse persino contro il primo ministro Benjamin Netanyahu. 

Per l’intervistatore Yaron Abraham ciò è stato totalmente inaspettato: sembrava prendere sul personale che Ya’alon non avesse intenzione di ripetere il solito mantra israeliano secondo cui “le FDI sono l’esercito più morale del mondo.”

Non c’è dubbio che tali affermazioni abbiano un peso particolare arrivando da chi continua a identificarsi come di destra, che una volta ha infangato i membri dell’ong di sinistra Breaking the Silence chiamandoli “traditori” e che, quando era a capo del Direttorato dell’Intelligence militare, ha sostenuto la tesi che si dovesse addossare la colpa della Seconda Intifada al leader dell’OLP Yasser Arafat. Dissentire da Ya’alon sul fatto che Israele stia attuando una pulizia etnica nella Striscia di Gaza, un atto che chiaramente costituisce un crimine di guerra, richiede una combinazione unica di sfrontatezza e audacia.

Di primo acchito uno potrebbe pensare che Ya’alon stia criticando la pulizia etnica perché la considera un’ingiustizia morale, tuttavia il vero motivo dietro le sue affermazioni sembra emergere verso la fine dell’intervista. 

[Israele] non è più definito una democrazia, né il suo sistema giudiziario è indipendente,” ha detto. “Stiamo passando da uno Stato ebraico liberale, democratico, nello spirito della Dichiarazione di Indipendenza, a una dittatura messianica, razzista, corrotta e malata. Dimostratemi che ho torto.” In altre parole Ya’alon non è preoccupato per i palestinesi, costretti dall’esercito israeliano a lasciare le proprie case in massa, ma per il futuro di Israele quale Stato “ebraico e democratico”.

Tali affermazioni sono particolarmente interessanti perché Ya’alon è stato una delle figure prominenti del movimento di protesta contro l’attacco al sistema giudiziario di Netanyahu in cui il “blocco anti-occupazione” non è riuscito a convincere i leader del movimento che non poteva esserci una vera democrazia finché fosse durata l’occupazione. Quello che Ya’alon sta effettivamente dicendo ora è: senza democrazia ci sarà una pulizia etnica? La sua conclusione quindi è: c’è un legame diretto fra la riforma del sistema giudiziario, lo smantellamento delle istituzioni democratiche dello Stato “ebraico e democratico” che gli è caro e la pulizia etnica e i crimini di guerra che Israele sta commettendo a Gaza?

 

Ciò che rafforza questo collegamento è il fatto che la pulizia etnica che si sta attuando a Gaza va di pari passo con l’intensificarsi da parte del governo di estrema destra della sua crociata contro le libertà civili e le istituzioni dello Stato. Alla fine di novembre la Knesset ha presentato una legge che faciliterà significativamente l’esclusione di candidati e liste dalla corsa in parlamento a causa del “sostegno al terrorismo”; tale legge mira chiaramente ad eliminare dalla Knesset i partiti palestinesi, privando quindi di significato le elezioni stesse e in pratica eliminando per sempre la possibilità che la destra perda. 

Anche i media sono sotto attacco: il governo sta presentando delle leggi per chiudere le emittenti radiotelevisive pubbliche e boicottando il quotidiano Haaretz per “i numerosi articoli che hanno danneggiato la legittimità di Israele nel mondo e il suo diritto all’autodifesa,” nelle parole del ministro delle Comunicazioni Shlomo Karh.

Ironicamente un altro bersaglio importante dell’attacco è proprio il sistema da cui proviene Ya’alon: le alte sfere della difesa. Nel video di nove minuti seguito all’arresto di Eli Feldstein, collaboratore e portavoce di Netanyahu sospettato di una fuga di documenti militari classificati per influenzare l’opinione pubblica israeliana, il primo ministro dipinge l’esercito, lo Shin Bet, la polizia e in misura minore il Mossad, come un altro “fronte” che egli è costretto a superare.

Su Channel 14, la principale rete di propaganda a favore di Netanyahu, varie agenzie di sicurezza sono incolpate non solo dei fallimenti del 7 ottobre, ma sono anche dipinte come responsabili di minare sistematicamente il raggiungimento della “vittoria totale” a Gaza. Questo attacco va oltre la retorica: misure come la “legge Feldstein” che darebbe l’immunità a chi passasse documenti classificati dall’esercito al primo ministro e la legge per trasferire il controllo dell’intelligence dall’esercito all’Ufficio del Primo ministro, entrambe passate in prima lettura alla Knesset, mirano a creare un apparato personale di intelligence per il Primo ministro che aggirerebbe esercito e Shin Bet. 

Lo smantellamento dell’establishment della difesa sta diventando una realtà tangibile.

Una guerra sempre più impopolare

Come in tutti i regimi populisti queste azioni sono giustificate quali passi necessari per mettere in pratica il mandato presumibilmente dato a Netanyahu e al suo governo dal “popolo,” mentre i suoi oppositori nell’esercito, nello Shin Bet, fra i pubblici ministeri o nei media sono descritti come un’élite che cerca di mantenere il proprio potere in modo non democratico contro il volere del popolo. Con un’assurda inversione delle parti la minoranza palestinese è descritta come se stesse dalla parte delle élite che sarebbero interessate ai diritti dei palestinesi a spese dei diritti del “popolo ebraico.”

È interessante che i commenti di Ya’alon sulla guerra a Gaza siano sempre più allineati con l’opinione dell’opinione pubblica in Israele, dove i sondaggi indicano che ora il governo rappresenta solo una piccola minoranza. Un sondaggio di Channel 12 pubblicato lo scorso weekend ha rilevato che il 71% del pubblico sostiene un accordo per gli ostaggi e la fine della guerra a Gaza, mentre solo il 15% è a favore della sua continuazione.

La decisione di mandare soldati in una guerra in cui potrebbero perdere la vita, specialmente quando prestano servizio in un esercito di leva, sta al centro del contratto sociale fra un governo e i suoi cittadini: il governo dovrebbe garantire ai cittadini il benessere, proteggere i loro diritti e difenderli; in cambio da loro ci si aspetta che rischino volontariamente le proprie vite per lo Stato. Perciò prima di andare in guerra ci si aspetta che un governo democratico si garantisca un ampio consenso.

Dopo il 7 ottobre c’è stato un consenso schiacciante a favore della guerra a Gaza. Similmente l’azione militare in Libano ha incontrato poca opposizione presso gli israeliani. Ma ora, dopo 14 mesi di guerra, con l’ottenimento di un cessate il fuoco al nord, gli ostaggi che muoiono uno dopo l’altro e i soldati che continuano a perdere la vita nonostante in teoria Hamas sia stato pressoché “eliminato”, i sondaggi mostrano che la maggioranza degli israeliani crede che la guerra a Gaza continui solo per gli interessi di Netanyahu e del suo governo.

Il piano palese della destra messianica è incentrato sul ritorno delle colonie come obiettivo ultimo della guerra. Ciò non fa altro che approfondire il divario, poiché c’è una grossa differenza fra morire in guerra contro Hamas, che ha attuato il massacro del 7 ottobre, e morire in una guerra che mira a ristabilire il blocco di colonie di Gush Katif smantellato dal “disimpegno” del 2005. Il fatto che personaggi come il ministro per gli Alloggi Yitzhak Goldknopf, leader ultraortodosso che non manda i propri figli a combattere nelle guerre di Israele, sventoli mappe di colonie insieme all’attivista per le colonie di estrema destra Daniella Weiss non fa che aggravare la crescente illegittimità della guerra agli occhi di ampi settori dell’opinione pubblica.

Questo crescente “deficit democratico” fra la gente e il governo può spiegare il rinnovato attacco di quest’ultimo alla democrazia e alle istituzioni statali. È come se il governo improvvisamente si rendesse conto che condurre una guerra impopolare sia difficile in una società dove l’esercito conta sulla leva obbligatoria e sui riservisti e così decidesse di smantellare ciò che rimane della democrazia.

E quindi perché non spogliare di ogni significato le elezioni escludendo dall’arena politica la minoranza palestinese? Perché non schiacciare i media e coltivare fedeli emittenti di propaganda come Channel 14 per eliminare totalmente dal dibattito ogni critica della popolazione alla guerra? Come ogni regime totalitario il governo di Netanyahu capisce l’assoluto bisogno di avere il monopolio sulla diffusione dell’informazione.

Tali azioni mirano a concedere a Netanyahu e al suo governo un controllo diretto sugli apparati militari e della sicurezza che fanno parte della stessa dinamica. Ronen Bar, a capo dello Shin Bet, è tenuto d’occhio, come lo sono i leader militari al vertice. Il governo sembra credere che ottenendo il controllo diretto sugli strumenti della forza si possa continuare la guerra a Gaza, attuare la pulizia etnica e i reinsediamenti con il sostegno anche solo del 30% dei cittadini.

Consciamente o no, Ya’alon si è schierato fermamente proprio contro questa decisione: lo smantellamento della democrazia per permettere a Smotrich e Ben Gvir di di ottenere quello che loro chiamano lo “sfoltimento” della popolazione palestinese a Gaza. E si può credere a Ben Gvir quando dice che Netanyahu, che in passato era stato più cauto su tali palesi crimini di guerra, ora sta “mostrando una certa apertura” verso l’idea di incoraggiare i palestinesi a “emigrare volontariamente.” 

Non c’è bisogno di dipingere Ya’alon come il paladino di democrazia e moralità o come un difensore dei diritti dei palestinesi. Infatti possiamo inquadrarlo per le sue recenti dichiarazioni nel contesto della sua leadership militare. Come ha argomentato il sociologo israeliano Lev Grinberg, i militari dipendono da una chiara divisione tra la “democrazia israeliana” entro la Linea Verde e l’occupazione al di là da essa. L’attacco di Netanyahu contro le istituzioni democratiche offusca questo confine e così facendo mina la legittimità dell’esercito a continuare la sua sfacciata e non democratica soppressione dei palestinesi.

Una completa rioccupazione militare di Gaza, la pulizia etnica dei palestinesi e il reinsediamento delle colonie cancellano totalmente questo confine ed ecco perché Ya’alon si oppone a queste manovre. Egli non affronta il collegamento diretto tra la pulizia etnica del 1948 e quella del 2024 e ci sono dubbi che lo farà mai in un futuro immediato. Tuttavia per un ex ministro della difesa ed ex capo di stato maggiore diventare un deciso oppositore non solo della rivoluzione antidemocratica di Netanyahu, ma anche della pulizia etnica dell’esercito a Gaza, è un progresso interessante.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché Israele pensa di aver vinto in Siria

Asa Winstanley e Ali Abunimah 

9 dicembre 2024 The Electronic Intifada 

All’alba di martedì mattina i carri armati israeliani erano alla periferia di Damasco, e Israele lanciava attacchi aerei in tutto il Paese definiti come “i più pesanti nella storia siriana”.

L’escalation degli attacchi israeliani sul Paese arriva dopo che il presidente Bashar al-Assad è fuggito in Russia nelle prime ore di domenica mentre gli insorti sostenuti dagli Stati Uniti e dalla Turchia hanno preso la capitale Damasco.

Benjamin Netanyahu ha immediatamente rivendicato il merito della caduta di Assad, la cui famiglia aveva governato la Siria per cinquant’anni.

I commenti del primo ministro israeliano risalgono a​ domenica mattina, quando ha visitato il territorio occupato da Israele sulle alture del Golan in Siria.

“Questo è un giorno storico”, ha detto Netanyahu, “un risultato diretto dei colpi che abbiamo inflitto all’Iran e a Hezbollah, principali sostenitori del regime di Assad”.

Le forze di occupazione israeliane hanno approfittato della caduta del governo per bombardare la Siria, occupare ulteriori territori siriani e distruggere infrastrutture pubbliche vitali, impianti di difesa e basi aeree.

Nuovi attacchi aerei israeliani hanno colpito Damasco e la Siria meridionale, distruggendo “sistemi d’arma avanzati e strutture di produzione di armi” e lasciando la Siria più vulnerabile che mai.

Gli attacchi aerei sulla capitale sembrano aver preso di mira l’ufficio immigrazione e passaporti. È stato segnalato un enorme incendio che stava distruggendo l’edificio.

Lunedì la Reuters, citando funzionari della sicurezza siriana, ha riferito che i massicci raid aerei israeliani “hanno bombardato almeno tre importanti basi aeree dell’esercito siriano che ospitavano decine di elicotteri e jet”.

I territori siriani recentemente occupati da Israele includono Jabal al-Sheikh, noto anche come Monte Hermon, che si trova al confine siriano con il Libano. L’ufficio stampa del governo israeliano ha sottolineato che era “la prima volta dal 1973” che occupavano l’area. Il primo ministro israeliano ha anche annunciato che avrebbe posto fine unilateralmente all’accordo del 1974 sul disimpegno tra Siria e Israele, sostenendo che quell’accordo sostenuto dall’ONU era “finito”.

Guerra lampo dei ribelli

La caduta del governo siriano è avvenuta dopo una guerra lampo di 11 giorni, partita dall’enclave settentrionale di Idlib dove gli insorti armati avevano mantenuto una roccaforte al confine con la Turchia dopo la tregua del 2016 mediata da Russia e Turchia.

A fine novembre gli insorti sono partiti armati da Idlib verso sud, occupando una dopo l’altra le città siriane di Aleppo, Hama, Homs e infine Damasco.

Sebbene fosse sostenuto da alleati regionali e internazionali, l’esercito siriano ha ceduto la maggior parte delle sue posizioni senza combattere, indicazione dell’esistenza di un accordo a garanzia dell’uscita di Assad.

Il presidente uscente degli Stati Uniti Joe Biden ha affermato domenica che il fallimento di Russia, Iran ed Hezbollah nel difendere il governo siriano è stato “il risultato diretto dei colpi sferrati da Ucraina [e] Israele” con il “continuo sostegno degli Stati Uniti”. Alcune analisi suggeriscono che l’Iran e la Russia, principali sostenitori del governo siriano, abbiano concluso che il governo di Assad fosse ormai un guscio vuoto e non potesse essere salvato.

Dopo anni di guerra che hanno causato orribili morti, sfollamenti e distruzione, la partenza di Assad senza combattere ha risparmiato un ulteriore massiccio spargimento di sangue, almeno per ora. La sua partenza è stata seguita da scene di giubilo quando i siriani si sono riuniti con i propri cari provenienti da parti del paese precedentemente tagliate fuori o appena rilasciati dalle prigioni.

Ma in una società profondamente divisa, molti continueranno a temere ciò che i nuovi governanti, con il loro noto passato di atrocità, potrebbero fare.

In episodi che ricordano l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, ci sono stati saccheggi e uccisioni per vendetta di soldati siriani in fuga.

La Libia, il cui leader è stato rovesciato e ucciso nell’insurrezione del 2011 sostenuta dagli Stati Uniti, è un avvertimento: la speranza e il giubilo iniziali sono stati rapidamente infranti. Tredici anni dopo il paese versa in condizioni disperate e molte persone temono una guerra civile.

Gli Stati Uniti preferirebbero di gran lunga una Siria nel caos ampiamente sotto il loro controllo a un paese unito che si oppone a Israele.

Mantenere la Siria in macerie

Dal 2014 gli Stati Uniti hanno mantenuto un’esplicita occupazione militare su ampie zone della Siria, principalmente nella regione nord-orientale ricca di petrolio, dove sono aiutati da milizie locali.

Quando Donald Trump è stato eletto presidente la prima volta ha ritirato alcune delle truppe statunitensi, ma sarebbero rimasti circa 900 soldati.

Dana Stroul, allora ricercatrice presso il Washington Institute for Near East Policy affiliato all’AIPAC [gruppo di pressione statunitense noto per l’incondizionato sostegno a Israele, ndt.], ha co-presieduto il bipartisan “Syria Study Group” che ha definito gli obiettivi della politica statunitense. Nel 2019 ha illustrato le sue raccomandazioni su come gli Stati Uniti dovrebbero mirare a indebolire lo Stato siriano e impoverire il suo popolo.

Il primo obiettivo, ha affermato Stroul, è quello di mantenere l’occupazione militare statunitense sul terzo del territorio siriano più “ricco di risorse”, comprendente i giacimenti petroliferi e la “produzione agricola”.

Oltre all’ “isolamento diplomatico e politico del regime di Assad”, Stroul ha sottolineato l’importanza delle sanzioni economiche statunitensi e dell’impedire al paese dilaniato dalla guerra di ricostruirsi.

La maggior parte della Siria, ha detto Stroul, “è un cumulo di macerie”.

La commissione da lei co-presieduta ha raccomandato, nelle sue parole, che gli Stati Uniti usino la loro enorme influenza internazionale per “mantenere la politica di impedire gli aiuti alla ricostruzione e che le competenze tecniche tornino in Siria”.

Dal 2021 al 2023 Stroul ha avuto un ruolo diretto nell’implementazione di queste politiche come vice assistente segretario alla difesa per il Medio Oriente, la massima carica civile del Pentagono nella regione. Stroul è ora tornata come direttrice della ricerca al Washington Institute, il think tank più influente della lobby israeliana.

Gli Stati Uniti sono impegnati da anni ad aggiudicarsi il controllo della ricchezza materiale della Siria.

Nuovo brand per al-Qaida

L’offensiva lampo da Idlib è stata guidata dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham, emerso da al-Qaida.

Leader del gruppo è Abu Muhammad al-Julani, ex leader di Jabhat al-Nusra, affiliato di al-Qaida in Siria e un tempo agente dello Stato islamico dell’Iraq (che in seguito è diventato ISIS).

Secondo i gruppi per i diritti umani, sotto al-Julani Jabhat al-Nusra ha compiuto numerose atrocità contro i civili siriani.

Human Rights Watch ha indagato sulle atrocità dei ribelli nella regione costiera attorno alla città di Latakia e in un rapporto del 2013 ha affermato che al-Nusra e i gruppi ad esso alleati hanno compiuto crimini di guerra “premeditati e organizzati”, tra cui “l’uccisione sistematica di intere famiglie”.

E con il rebranding in Hayat Tahrir al-Sham tali abusi non si sono fermati. Human Rights Watch afferma di aver documentato gravi abusi da parte di Hayat Tahrir al-Sham nell’enclave di Idlib da esso controllata negli ultimi anni.

“La repressione di Hayat Tahrir al-Sham nei confronti di coloro che si percepiscono come oppositori al loro governo rispecchia proprio alcune delle tattiche oppressive utilizzate dal governo siriano”, diceva nel 2019 Lama Fakih, vicedirettore per il Medio Oriente del gruppo per i diritti umani. “Non esiste una ragione legittima per rastrellare gli oppositori, detenerli e torturarli arbitrariamente”. A marzo, Voice of America ha riferito che le proteste sono scoppiate per diversi giorni in circa 20 località nell’enclave di Idlib. “I manifestanti intonano slogan contro il leader di HTS Abu Muhammad al-Julani, chiedendo il rilascio dei prigionieri detenuti dal gruppo estremista e la fine del suo stretto controllo sull’enclave”, ha affermato la rete radiotelevisiva finanziata dal governo degli Stati Uniti. Un’altra rivolta è scoppiata a maggio contro il governo “sempre più dittatoriale” di Hayat Tahrir al-Sham, che prevedeva anche la tortura a morte dei prigionieri. In una dichiarazione rilasciata domenica dopo la caduta del governo di Damasco, Human Rights Watch ha accusato Assad di “innumerevoli atrocità, crimini contro l’umanità e altri abusi durante i suoi 24 anni di presidenza”. Ha anche affermato che Hayat Tahrir al-Sham e altri “gruppi armati non statali” che “hanno lanciato l’offensiva” da Idlib il 27 novembre sono responsabili “di violazioni dei diritti umani e crimini di guerra”.

Al-Julani non è mai stato chiamato a risponderne.

Al contrario, funzionari statunitensi e britannici stanno discutendo la possibilità di cancellare lui e il suo gruppo dalle loro liste dei terroristi.

Sembra persino probabile che al-Julani sia stato addestrato per guidare la Siria, poiché i media occidentali stanno lavorando sodo a ripulire la sua immagine con interviste e reportage favorevoli.

Questi sforzi di rebranding si basano sull’affermazione secondo cui al-Julani e Hayat Tahrir al-Sham si sarebbero lasciati il ​​passato alle spalle.

Ma non è sempre stato così. Lo stesso governo degli Stati Uniti ha affermato nel 2017 che “HTS è un accorpamento e qualsiasi gruppo che vi si unisca diventa parte della rete siriana di al-Qaida”.

È in base a queste ragioni che gli Stati Uniti hanno messo una taglia di 10 milioni di dollari su al-Julani, il cui vero nome è Ahmed al-Shara, una ricompensa che rimane ufficialmente disponibile per chiunque possa aiutare l’FBI a localizzarlo.

Biden ammette di aver finanziato gruppi legati ad al-Qaeda

Negli ultimi 13 anni i vari gruppi armati che hanno collaborato per rovesciare il governo siriano sono stati sostenuti dagli Stati Uniti, dagli Stati del Golfo, dalla Turchia e dallo stesso Israele.

In un raro momento di onestà, per il quale in seguito ha dovuto scusarsi, l’allora vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ammesso nel 2014 che un’ondata di finanziamenti aveva aiutato gruppi che gli Stati Uniti considerano estremisti.

Biden ha affermato che Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e altri “erano così determinati ad abbattere Assad e a promuovere essenzialmente una guerra per procura fra sunniti e sciiti… [che] hanno riversato centinaia di milioni di dollari, decine, migliaia di tonnellate di armi a chiunque volesse combattere contro Assad”.

“Se non fosse che le persone che venivano rifornite erano al-Nusra e al-Qaida e gli elementi estremisti dei jihadisti provenienti da altre parti del mondo”, ha aggiunto Biden.

Ciò che Biden non ha menzionato è l’Operazione Timber Sycamore, l’enorme quantità di finanziamenti e addestramento con cui anche la CIA, sotto il presidente Barack Obama, ha partecipato dagli Stati Uniti alla multimiliardaria guerra per procura in Siria.

Nel 2017 il New York Times l’ha definita “uno dei programmi di azione segreta più costoso nella storia della CIA”.

La logica è stata ben riassunta da Jake Sullivan, attualmente consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, in un’e-mail del 2012 all’allora Segretario di Stato Hillary Clinton.

“AQ [Al-Qaida] è dalla nostra parte in Siria”, ha scritto Sullivan.

Battuta d’arresto per l’asse di resistenza

L’ultima volta che al-Qaeda e altri gruppi di insorti sono arrivati alle alture del Golan, Israele ha stabilito relazioni cordiali con loro, curando i loro combattenti in un ospedale da campo appositamente costruito e persino armandoli.

Domenica Netanyahu ha segnalato la ripresa di quella politica. Ha detto che Israele avrebbe perseguito “lo stesso approccio che abbiamo mantenuto quando abbiamo allestito qui un ospedale da campo che ha curato migliaia di siriani feriti durante la guerra civile. Centinaia di bambini siriani sono nati qui in Israele”.

Poiché la Siria è stata per decenni la spina dorsale dell’asse di resistenza all’egemonia statunitense e al colonialismo di insediamento israeliano, molti nella regione vedono la caduta di Assad come una grande vittoria strategica di Israele e Stati Uniti.

La Siria è stata un anello vitale nella catena di fornitura militare, un ponte di terra tra l’Iran e il suo alleato regionale Hezbollah. Questa fazione libanese di resistenza ha cacciato le forze di occupazione israeliane dal Libano meridionale nel 2000 e ha respinto il tentativo di invasione terrestre israeliana partito all’inizio di ottobre di quest’anno. L’offensiva terrestre israeliana si è conclusa alla fine di novembre con una tregua impari che secondo l’ONU Israele ha già violato più di 100 volte. Israele aveva disperatamente bisogno di un cessate il fuoco con Hezbollah poiché non era riuscito a procedere più di qualche chilometro dal confine e il suo esercito non era in grado di mantenere il territorio.

Le sue truppe sono state semplicemente sconfitte dalle forze superiori dei combattenti libanesi.

Solo poche ore dopo che Damasco è caduta nelle mani degli insorti, Israele ha lanciato una nuova incursione in Siria, come hanno riferito i media israeliani domenica. Carri armati e soldati israeliani hanno occupato nuova terra siriana sulle alture del Golan, definendola “zona cuscinetto”.

Dall’invasione del 1967 Israele ha occupato gran parte della regione sud-occidentale del Golan in Siria, espellendo la maggior parte della popolazione siriana. Israele ha annesso unilateralmente il territorio siriano occupato nel 1981 e ha colonizzato la terra con circa 20.000 coloni.

Insorti filo-israeliani?

Gli oppositori di Assad stanno celebrando quella che sperano sarà una nuova alba per la Siria. Ma molte persone nella regione vedono l’offensiva degli insorti come deliberatamente programmata per aiutare Israele.

La rivendicazione di Netanyahu domenica mattina della responsabilità per la caduta di Damasco nelle mani degli insorti non fa che rafforzare questa visione.

L’ex leader di al-Qaida al-Julani, da parte sua, sembra quasi un lobbista filo-israeliano. In un video recente ha fatto riferimento a ciò che ha definito “le guerre dell’Iran contro la regione”, riecheggiando il linguaggio spesso usato da Netanyahu dall’ottobre 2023.

Al-Qaida e altri gruppi simili tendono a vedere la regione attraverso una settaria lente estremista musulmana sunnita, considerando l’Iran a maggioranza musulmana sciita e il gruppo musulmano sciita Hezbollah come nemici mortali. Sia tacitamente che apertamente ciò consente a tali gruppi di fare causa comune con Israele e gli Stati Uniti, come ha riconosciuto il funzionario statunitense Jake Sullivan nella sua famigerata e-mail del 2012.

“Eravamo molto contenti quando avete attaccato Hezbollah”, ha detto di recente un “attivista dell’opposizione” a un giornalista israeliano che ha riferito i suoi commenti in TV. “Siamo felici di aiutarvi”, ha aggiunto l’attivista. “Amiamo lo Stato di Israele e non siamo mai stati suoi nemici, perché non nuoce a nessuno se nessuno nuoce a lui”. In un’altra intervista con The Times of Israel, un “comandante dei ribelli” ha detto che il suo Esercito Siriano Libero sostenuto dagli Stati Uniti era pronto a normalizzare le relazioni con Israele, nonostante il genocidio israeliano in corso contro i palestinesi e la decennale occupazione illegale israeliana del territorio siriano. “Sottoscriveremo una pace completa con Israele”, ha detto il comandante. “Dallo scoppio della guerra civile siriana non abbiamo mai fatto commenti critici contro Israele, a differenza di Hezbollah, che ha dichiarato di voler liberare Gerusalemme e le alture del Golan.”

Il comandante degli insorti, parlando al sito di notizie israeliano, ha anche lasciato intendere che potrebbe essere già in contatto con funzionari israeliani.

Anche se questi personaggi anonimi non parlano ufficialmente, tale riabilitazione del regime genocida israeliano non dà speranza ai palestinesi, specialmente quelli di Gaza.

Parlando a un canale televisivo israeliano, l’ufficiale dell’intelligence militare israeliana Mordechai Kedar ha detto di essere “in costante contatto con i leader delle fazioni dell’opposizione siriana… Sono pronti per un accordo di pace con Israele, se solo riescono a controllare Siria e Libano”.

Tali dichiarazioni mettono in allarme le persone in Libano, un avvertimento che il loro paese potrebbe essere il prossimo obiettivo e parte di un tentativo di trascinare Hezbollah in una guerra civile.

“I leader delle fazioni di opposizione siriane hanno comunicato a Tel Aviv che stanno pianificando di aprire un’ambasciata israeliana a Damasco e Beirut”, ha affermato Kedar.

Riferendo i commenti di un altro “comandante dei ribelli” all’emittente governativa israeliana Channel 12, la scorsa settimana The Times of Israel ha sottolineato che “l’offensiva è stata lanciata proprio mentre entrava in vigore un cessate il fuoco” tra Israele e Hezbollah.

Secondo questo comandante, la tempistica non è stata una coincidenza.

“Abbiamo esaminato l’accordo [di cessate il fuoco] con Hezbollah e abbiamo capito che era il momento giusto… Non lasceremo che Hezbollah combatta nelle nostre aree e non lasceremo che gli iraniani vi mettano radici”, ha detto.

Secondo la testata il comandante ha affermato che il suo obiettivo era sostituire il governo siriano con uno che avesse buoni rapporti con Israele

Parte di ciò potrebbe essere propaganda, pio desiderio o pura e semplice montatura. Ma dato che gli Stati Uniti sostengono questi gruppi da più di un decennio, i loro sostenitori li considerano chiaramente molto preferibili ai gruppi il cui obiettivo dichiarato è la resistenza a Israele.

Trame settarie

I nuovi insorti ora emergenti hanno rancori di vecchia data contro la resistenza.

Hezbollah è intervenuto in Siria nel 2013 dopo che la guerra per procura degli Stati Uniti contro il Paese, iniziata due anni prima, era quasi riuscita a rovesciare il governo di Damasco.

Il gruppo e il suo alleato dell’asse della resistenza, l’Iran, insieme alla Russia che ha basi militari nel paese, hanno impedito che il governo venisse rovesciato.

Con le milizie che hanno preso il controllo della Siria ora in grado di dominare il paese, il futuro dell’asse della resistenza è incerto.

Alcuni pianificatori israeliani stanno progettando di dividere la Siria in cantoni etnici e settari tra loro in guerra, una classica strategia coloniale di dividi et impera.

In un’intervista pubblicata lunedì da The Times of Israel, il colonnello dell’intelligence militare israeliana Wahabi Anan Wahabi ha esposto il suo piano per quella che la testata ha descritto come “una libera confederazione di quattro sottostati etnici”.

Wahabi ha affermato che “il paese è già diviso in quattro cantoni. Il passo successivo è rendere ufficiale questa divisione”. “Lo Stato nazionale moderno ha fallito in Medio Oriente”, ha affermato.

Piano di emergenza americano-israeliano”

Gli Stati Uniti hanno coordinato l’offensiva di Idlib in stretto accordo con Israele.

Una fonte informata ha detto a Said Arikat, stimato corrispondente a Washington del quotidiano palestinese Al-Quds, che l’offensiva di Hayat Tahrir al-Sham è stata pianificata in coordinamento fra Stati Uniti, Israele e Turchia.

È “giunta come risultato di un ‘piano di emergenza’ americano-israeliano coordinato dall’amministrazione del presidente Joe Biden con la Turchia” ed “è stata implementata secondo una visione americana per il giorno dopo l’accordo di cessate il fuoco tra Libano e Israele”.

Arikat ha scritto che la sua fonte precedentemente aveva addestrato gli insorti, tra cui l’affiliata di al-Qaida Jabhat al-Nusra e il succedaneo Hayat Tahrir al-Sham in basi in Giordania e Turchia, fino al 2021.

L’invasione israeliana di domenica sembra essere stata in preparazione da un po’ di tempo. Solo una settimana prima che venisse lanciata l’offensiva di Hayat Tahrir al-Sham, i media israeliani hanno riferito che il capo dello Shin Bet, la polizia segreta israeliana, era stato in Turchia per un incontro con il capo di un’agenzia di intelligence turca. Sempre una settimana prima dell’offensiva, Israele ha iniziato nuove costruzioni illegali nella zona demilitarizzata tra le aree delle alture del Golan controllate dalla Siria e quelle occupate da Israele, in violazione dell’accordo di disimpegno del 1974.

Secondo l’UNDOF, la forza di pace delle Nazioni Unite che monitora il cessate il fuoco, si è trattato di “gravi violazioni”.

I siriani, indipendentemente dalle loro posizioni politiche, vorrebbero vedere il loro paese rimettersi in piedi, unito e indipendente il prima possibile. Nessun sostenitore della liberazione palestinese ha nulla da temere da una Siria veramente sovrana.

Questo è esattamente il motivo per cui ci sono molte potenti forze esterne, principalmente Israele e Stati Uniti, che vogliono che la Siria rimanga debole e subordinata alla loro agenda. Se divisione, dipendenza e caos sono gli unici modi per raggiungere questo obiettivo, allora è ciò che favoriranno e fomenteranno.

Israele, da parte sua, non sta perdendo tempo a capitalizzare i tumultuosi eventi storici per impadronirsi di più terra e consolidare la sua presa genocida sulla regione.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Palestinesi e israeliani: vite che si incrociano e si scontrano.

Mannocchi Francesca. Sulla mia terra. Storie di israeliani e palestinesi, De Agostini, Milano, 2024, pp. 288.

Recensione di Amedeo Rossi

Francesca Mannocchi si è distinta in questi mesi per essere tra i pochissimi giornalisti italiani ad aver denunciato il genocidio in corso a Gaza e la pulizia etnica in Cisgiordania e a Gerusalemme est, cercando di contestualizzare i fatti di cronaca nel loro contesto storico.

Questo libro che, nonostante l’argomento e le drammatiche testimonianze che riporta, la De Agostini propone come rivolto a bambini e ragazzi. Infatti l’autrice esordisce nell’introduzione con “Care ragazze, cari ragazzi”. Anche l’impostazione grafica richiama riferimenti scolastici: alcune pagine sembrano fogli di un quaderno a spirale a righe, alcune parole del testo sono cerchiate a matita, altre su fondo grigio approfondiscono alcuni concetti citati nel testo.

Un breve capitolo introduttivo ricostruisce l’attacco dei miliziani palestinesi contro il sud di Israele del 7 ottobre 2023. Vi si trovano alcune omissioni, come il fatto ormai noto che alcuni civili israeliani, almeno nel kibbutz Be’eri e al Nova Festival, sono stati uccisi dallo stesso esercito israeliano. Il testo ignora anche le domande relative a come sia stato possibile superare con assoluta facilità uno dei confini più controllati al mondo. Infine non si ricorda che fin da un anno prima, e poi nel luglio 2023, l’intelligence israeliana aveva informato i comandi dell’esercito, e probabilmente anche il governo, dei preparativi di Hamas per un’operazione su larga scala.

La prima parte, intitolata “Cronologia”, presenta un inquadramento storico che inizia dalla nascita del sionismo. Anche in questo caso si notano alcune lacune, solo in parte colmate nei riferimenti che si trovano a corredo delle testimonianze che seguono. A proposito di Gaza non viene spiegato che la sovrappopolazione della Striscia è dovuta al fatto che il 70% della popolazione è composta da profughi del ’47-’49 e del ’67. Ancor prima, riguardo all’ostilità palestinese nei confronti della colonizzazione sionista, non ne vengono menzionate le ragioni economiche, così come non viene ricordato che quasi metà della popolazione del territorio destinato dalla risoluzione ONU era palestinese, che le truppe sioniste ne occuparono ben di più e solo la pulizia etnica consentì la nascita di uno Stato “ebraico”.

Gli altri capitoli del libro sono dedicati alle testimonianze di palestinesi e israeliani. Riguardo ai primi Mannocchi inizia dalle colline a sud di Hebron che definisce “un luogo importante e simbolico”, in quanto teatro di una pluridecennale resistenza non violenta ai coloni e all’esercito. Vi sono riportate le testimonianze di attivisti ma soprattutto di persone comuni, cui vengono negati diritti fondamentali: all’istruzione, ad avere una casa, a vivere in condizioni dignitose. Questa violenza non ha risparmiato neppure i bambini. Il padre di uno di loro spiega: “Noi facciamo di tutto, qui, nelle nostre comunità, per educarli alla convivenza e alla pace. Per educarli alla non violenza. Ma i nostri sono bambini traumatizzati.”

Il racconto passa alla dura resistenza del campo profughi di Jenin, uno dei luoghi della Cisgiordania più martoriati ma anche più indomabili. La scritta che campeggiava all’ingresso del campo prima che venisse demolita nel marzo 2024 dall’esercito israeliano ne riassume lo spirito indomito: “Stazione di attesa prima del ritorno”, ovviamente dei luoghi di origine dei profughi, cioè nell’attuale Israele. Questa resistenza è alimentata dalla repressione, come racconta uno degli intervistati. A Jenin, spiega Mannocchi, le incursioni notturne dell’esercito nelle case dei palestinesi sono talmente frequenti che una madre le racconta: “I bambini ora dormono inconsciamente con le mani alzate.” E non stupisce che quando la giornalista ha chiesto a un bambino di 7 anni cosa voglia fare da grande lui risponda: “Combattere”. Come Abu, che voleva fare l’educatore nel campo, ma è stato ingiustamente incarcerato per 2 anni . “Mi hanno arrestato perché sono nato qui e loro considerano chiunque sia nato qui se non un terrorista, qualcuno che lo diventerà in futuro. Sentivo di non avere scelta,” racconta Abu, che è entrato in un gruppo armato. O come il giovane Amjad, che a 13 anni aveva scavalcato il muro di separazione per andare a vedere il mare a Giaffa. Per conquistarsi quel diritto è diventato un combattente e poi un martire della causa palestinese. Eppure Jenin è nota anche per la formidabile esperienza del Freedom Theatre, fondato dal figlio di un’attivista israeliana e di un palestinese. La sua sede è stata devastata nel dicembre 2023 durante un’incursione dell’esercito israeliano.

Altrettanto drammatica è la situazione di Hebron. Da decenni alcune centinaia di coloni estremisti religiosi si sono installati nel cuore della città vecchia e nei pressi è stata costruita Kiryat Arba, una delle colonie più violente. Mannocchi ripercorre la storia recente della città, raccontando sia le azioni dei gruppi armati palestinesi che quelle dei fanatici israeliani, seguaci del rabbino razzista e suprematista Meir Kahane e di Baruch Goldstein, autore di una strage di fedeli palestinesi nella moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi, definito un santo “che diede la sua vita per il popolo ebraico, la Torah e la nazione di Israele”. Lì la giornalista incontra Yahya, che a causa delle imposizioni dell’esercito non è in grado di accudire adeguatamente il figlio affetto da distrofia muscolare. E Raed, liberato dopo mesi di detenzione amministrativa, senza accuse né processo, che racconta delle violenze subite ad opera delle guardie carcerarie, soprattutto dopo il 7 ottobre. Il padre lamenta di non poter offrire altro che acqua e datteri a parenti e vicini accorsi a riabbracciare Raed, perché il governo israeliano vieta ogni festeggiamento per la liberazione dei prigionieri.

Mannocchi intervista anche i familiari di Rashid, ucciso con una fucilata mentre cercava di difendere Jit il suo villaggio, da un attacco dei coloni.

Tra gli israeliani troviamo Iddo, un 17enne israeliano che si rifiuta di fare il servizio militare e quindi dovrà andare in carcere, militante pacifista che solidarizza attivamente con i palestinesi delle colline a sud di Hebron. Racconta della sua solitudine tra i coetanei che lo considerano un traditore, ma afferma: “La mia più grande paura è andarmene da qui, ho paura di non poter avere un futuro in Israele […] Non me ne vado perché questo è l’unico posto che conosco, l’unico che chiamo casa.” Erella, settantasettenne, aiuta i bambini palestinesi e israeliani a conoscersi, mentre Gili, dopo l’uccisione di un suo amico il 7 ottobre ha superato il desiderio di vendetta ed ha deciso di conoscere i palestinesi. Dice di aver capito che “noi israeliani non vediamo i palestinesi come esseri umani e non diamo loro i diritti che appartengono agli esseri umani”. Per questo aiuta le comunità beduine della Cisgiordania.

Ma la giornalista incontra anche i coloni, come il direttore delle pubbliche relazioni del movimento Im Irtzu, che intende “rivitalizzare” la colonizzazione sionista. Costui afferma: “E’ importante colonizzare questa terra […] perché fa parte del nostro rapporto con Dio.” Nei pressi di Hebron Mannocchi visita la colonia di Otniel, teatro negli anni di alcuni attentati. Uno dei responsabili giustifica i massacri di minori in corso a Gaza in quanto “i loro adulti hanno costruito la loro educazione mettendo odio nei loro cuori, è molto triste ma […] è quello che dobbiamo fare.” E, aggiunge la giornalista, costui “pensa che dopo la guerra, a Gaza, non ci sia altra alternativa se non l’espulsione dei palestinesi dalla striscia e anche dei palestinesi dalla Cisgiordania.” Concetto ribadito da un’altra intervistata, nota come la “regina di Otniel”, che non parla mai di palestinesi perché, ricorda Mannocchi, “come tutti, pensa che la Palestina non esista. Né sia mai esistita. Né mai esisterà.” Infine compare Daniella Weiss, la “madrina dei coloni”, che sta pianificando la costruzione di nuove colonie a Gaza e sostiene che “chi mi definisce estremista […] non capisce che i miei atti e le mie parole sono guidati dalla Torah”.

Se il libro non può pretendere di rappresentare una situazione differenziata ed estremamente frammentata e le interviste non costituiscono certo un campione statisticamente significativo, la forza delle testimonianze dirette di alcuni protagonisti di queste tragiche vicende è sicuramente molto efficace restituisce umanità soprattutto ai palestinesi, che nella nostra informazione vengono usualmente rappresentati come semplici numeri.




Una imponente banca dati di prove, compilata da uno storico, documenta i crimini di guerra israeliani a Gaza

Nir Hasson

5 dicembre 2024 – Haaretz

Una donna con un bambino colpita mentre sventola una bandiera bianca ■ Ragazze ridotte alla fame morte stritolate mentre fanno la coda per il pane ■ Un sessantaduenne ammanettato investito, a quanto pare, da un carrarmato ■ Un attacco aereo prende di mira persone che cercano di aiutare un ragazzino ferito ■ Una banca dati di migliaia di video, foto, testimonianze, rapporti e indagini documenta gli orrori commessi da Israele a Gaza

La nota 379 del documento molto esteso e attentamente analizzato che lo storico Lee Mordechai ha redatto contiene il link a un video. Le immagini mostrano un grosso cane che rosicchia qualcosa tra gli arbusti. “Guarda guarda, ha preso il terrorista, il terrorista se n’è andato, andato in entrambi i sensi,” dice il soldato che ha filmato il cane che mangia un corpo umano. Dopo qualche secondo il soldato alza la cinepresa e aggiunge: “Ma che splendida vista, che splendido tramonto. Un sole rosso sta tramontando sulla Striscia di Gaza. Decisamente un bel tramonto.”

Il rapporto che il dottor Mordechai ha raccolto in rete, “Bearing Witness to the Israel-Gaza War” [Testimoniare la guerra tra Israele e Gaza. Link: https://witnessing-the-gaza-war.com/wp-content/uploads/2024/12/Bearing-witness-to-the-Israel-Gaza-War-v6.5.5-5.12.24.pdf], costituisce la documentazione più metodica e dettagliata in ebraico (c’è anche una traduzione in inglese) dei crimini di guerra che Israele sta perpetrando a Gaza. È uno scioccante atto d’accusa che comprende migliaia di voci riguardanti la guerra, le azioni del governo, dei media, dell’esercito israeliano e della società israeliana in generale. La traduzione in inglese della settima, e finora ultima, versione del testo, è lunga 124 pagine e contiene oltre 1.400 note riguardanti migliaia di fonti, comprese testimonianze dirette, riprese video, materiale investigativo, articoli e fotografie.

Per esempio ci sono link a testi e altre testimonianze che descrivono azioni attribuite ai soldati israeliani che sono stati visti “sparare contro civili che sventolavano una bandiera bianca, oltraggiare persone, prigionieri e cadaveri, danneggiare o distruggere allegramente case, strutture di vario genere e istituzioni, luoghi religiosi e saccheggiare beni privati, così come sparare a casaccio con le loro armi, colpire animali domestici, distruggere beni privati, bruciando libri all’interno di biblioteche, deturpare simboli palestinesi e islamici (bruciando anche il Corano e trasformando moschee in mense).”

Un link porta i lettori al video di un soldato a Gaza che sventola un grande cartello preso dal negozio di un barbiere nella città di Yehud, nella zona centrale di Israele, con corpi sparsi lì attorno. Altri link sono tratti da riprese di soldati schierati a Gaza che leggono il Libro di Ester, come si è soliti fare il giorno di Purim, ma ogni volta che viene proferito il nome dell’empio Aman invece di scuotere i tradizionali strumenti che fanno molto rumore, sparano un colpo di mortaio. Si vede un soldato che obbliga prigionieri legati e con gli occhi bendati a salutare le loro famiglie e dirgli che vogliono essere suoi schiavi. Vengono fotografati soldati che si sono impossessati di molti soldi saccheggiati da case di gazawi. Si vede un bulldozer dell’esercito che distrugge una grande quantità di pacchi di cibo di un’agenzia umanitaria. Un soldato canta il motivetto per bambini “Il prossimo anno bruceremo la scuola”, mentre dietro si vede una scuola in fiamme. E ci sono parecchi video di soldati che indossano indumenti intimi femminili che hanno depredato.

La nota 379 compare in una sezione intitolata “Disumanizzazione nell’esercito israeliano” inclusa nel capitolo chiamato “Il discorso israeliano e la disumanizzazione dei palestinesi”. Esso contiene centinaia di esempi del comportamento crudele dimostrato dalla società e dalle istituzioni statali israeliane rispetto alla sofferenza degli abitanti di Gaza, dal primo ministro che parla di Amalek ai dati riguardanti le 18.000 esortazioni di israeliani sulle reti sociali perché la Striscia venga rasa al suolo, dai medici israeliani che esprimono appoggio al bombardamento di ospedali a Gaza al comico che scherza sulla morte dei palestinesi, e include un coro di bambini che cantano dolcemente “Entro un anno avremo annichilito tutti e poi torneremo ad arare i nostri campi,” sulla melodia della canzone iconica del periodo della guerra d’Indipendenza [nel 1947-49, quando più di 700.000 palestinesi vennero cacciati, ndt.] “Shir Hare’ut” (Canzone di Cameratismo).

I link di “Bearing Witness to the Israel-Gaza War” riguardano anche crudi video di corpi sparsi in giro in ogni possibile stato: persone schiacciate sotto le macerie, pozze di sangue e urla di persone che hanno perso in un attimo tutta la propria famiglia. Ci sono oggetti che attestano l’uccisione di disabili, umiliazioni e aggressioni sessuali, l’incendio di case, fame imposta, spari a casaccio, saccheggi, vilipendio di cadaveri e molto altro.

Anche se non tutte le testimonianze possono essere provate, il quadro che ne emerge è quello di un esercito che nel migliore dei casi ha perso il controllo di molte unità, i cui soldati fanno tutto quello che vogliono, e nel peggiore dei casi sta consentendo al proprio personale di commettere i crimini di guerra più atroci che si possano immaginare.

Mordechai cita prove delle peggiori condizioni che la guerra ha imposto ai gazawi. Un medico che ha amputato la gamba di un nipote su un tavolo da cucina, senza anestesia e usando un coltello da cucina. Gente che mangia carne di cavallo ed erba, o beve acqua marina per alleviare la fame. Donne obbligate a partorire in un’aula scolastica piena di gente. Medici impotenti che assistono alla morte di persone ferite perché non c’è modo di aiutarle. Donne affamate spinte nella calca in coda fuori da una panetteria: secondo il rapporto, nell’incidente due ragazze di 13 e 17 anni e una donna di 50 sono morte schiacciate.

Secondo “Bearing Witness” a gennaio nei campi profughi della Striscia “ci sono stati in media un gabinetto ogni 220 persone e una doccia ogni 4.500. Un numero significativo di organizzazioni mediche e sanitarie ha informato che le malattie infettive e i disturbi della pelle si sono diffusi tra un gran numero di gazawi.”

Sempre più minori

Lee Mordechai, 42 anni, ex-ufficiale del genio militare da combattimento dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.], attualmente è professore associato di storia presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, specializzato in disastri naturali e provocati dall’uomo in epoca antica e medievale. Ha scritto dell’epidemia del VI secolo nel periodo giustinianeo e dell’inverno provocato da un vulcano [esploso in Islanda e che provocò per 10 anni un crollo delle temperature, ndt.] che colpì l’emisfero nord nel 536 d.C. Ha affrontato l’argomento del disastro a Gaza dal punto di vista di uno storico accademico, con una prosa asciutta e pochi aggettivi, avvalendosi della maggiore diversità possibile di fonti primarie. La sua scrittura è priva di interpretazioni e aperta a verifiche e revisioni. Ed è proprio per questo che gli aspetti riflessi dal suo testo sono così assolutamente terrificanti.

Ho sentito che non avrei potuto continuare a vivere nella mia bolla, che stiamo parlando di reati gravissimi e che quello che sta succedendo è semplicemente troppo grande e contraddice i valori in cui sono stato educato qui,” afferma Mordechai. “Non ho intenzione di scontrarmi con la gente né di litigare. Ho scritto il documento in modo che diventi pubblico, in modo che tra altri sei mesi o un anno o cinque anni o 10 o 100, la gente sia in grado di tornare indietro e vedere che cosa si sapeva, questo era quello che si poteva sapere, fin dallo scorso gennaio, o marzo, e che quelli di noi che non lo sapevano hanno scelto di non saperlo.”

Il mio ruolo di storico,” continua, “è dare voce a quelli che non possono far sentire la propria voce, che siano eunuchi nell’XI secolo o bambini di Gaza. Ho cercato deliberatamente di non fare appello alle emozioni delle persone e non uso parole che possano essere discutibili o poco chiare. Non parlo di terroristi o di sionismo o di antisemitismo. Cerco di utilizzare un linguaggio più freddo e asciutto possibile e di attenermi ai fatti per come li conosco.”

Quando è scoppiata la guerra Mordechai stava passando l’anno sabbatico a Princeton. Il 7 ottobre in Israele era già pomeriggio, quando lui si è svegliato. Nel giro di poche ore ha capito che c’era una disparità tra quello che l’opinione pubblica israeliana stava vedendo e la realtà. Questa consapevolezza è derivata da un sistema alternativo di ricevere informazioni che ha creato per sé nove anni fa.

Nel 2014, durante l’operazione Margine Protettivo (contro Gaza), sono tornato dai miei studi di dottorato negli Stati Uniti e da ricerche condotte nei Balcani. Allora ho percepito che in Israele non c’era un dialogo aperto, tutti stavano dicendo le stesse cose. Così ho fatto uno sforzo consapevole di accedere a fonti di informazione alternative, (basate su) media, blog, reti sociali straniere. É simile anche al mio lavoro come storico, alla ricerca di fonti primarie. Così mi sono creato una specie di sistema personale per capire quello che stava succedendo nel mondo. Il 7 ottobre ho attivato il sistema e ho capito abbastanza in fretta che l’opinione pubblica israeliana stava sperimentando un ritardo di ore, Ynet [sito israeliano di notizie, ndt.] ha trasmesso un notiziario secondo cui era possibile che fossero stati presi degli ostaggi, ma io avevo già visto immagini di rapimenti. Ciò ha creato una dissonanza tra quello che veniva detto sulla realtà della situazione e la realtà effettiva, e questa sensazione si è intensificata.”

In effetti la disparità tra quello che Mordechai ha scoperto e le informazioni che comparivano sui media israeliani e su quelli stranieri non ha fatto che crescere: “La storia più clamorosa all’inizio della guerra è stata quella dei 40 neonati israeliani decapitati il 7 ottobre. Quella storia ha provocato un sacco di titoli nei media internazionali, ma quando lo confronti con la lista (ufficiale della Previdenza Sociale) degli uccisi ti rendi conto molto in fretta che non è mai avvenuta.”

Mordechai ha iniziato a seguire reportage da Gaza sulle reti sociali e sui media internazionali: “Fin dall’inizio ho avuto un flusso di immagini di distruzione e sofferenza, e ti rendi conto che ci sono due mondi separati che non stanno comunicando tra loro. Mi ci sono voluti alcuni mesi per scoprire quale fosse il mio ruolo. A dicembre il Sudafrica ha presentato la sua denuncia formale contro Israele per genocidio in 84 pagine dettagliate con molteplici riferimenti alle fonti su cui si poteva fare un controllo incrociato.

Non penso che tutto potesse essere accettato come prova,” aggiunge, “ma ti ci devi confrontare, vedere su cosa è basato, prendere in considerazione le sue implicazioni. Fin dall’inizio della guerra volevo tornare in Israele per fare lavoro volontario a favore di una associazione della società civile, ma per ragioni familiari non ho potuto. Ho deciso di utilizzare il tempo libero che ho avuto durante l’anno sabbatico a Princeton per cercare di mettere al corrente il pubblico israeliano che si informa solo sui media locali.”

Il 9 gennaio ha pubblicato la prima versione di “Bearing Witness” lunga solo 8 pagine. Il numero degli uccisi nella Striscia, secondo il ministero della Sanità di Gaza, ufficialmente noto come il ministero palestinese della Sanità – Gaza, allora era di 23.210. “Non credo che qualunque cosa ci sia scritto qui porterà a cambiare politica o a convincere molte persone,” ha scritto all’inizio di quel documento. “Semmai l’ho scritto pubblicamente come storico e cittadino israeliano per mettere a verbale la mia posizione personale riguardo all’orribile situazione attuale a Gaza, mentre gli avvenimenti sono in corso. Scrivo come individuo, in parte a causa del disperante silenzio generale riguardo a questo argomento da parte di molte istituzioni accademiche locali, soprattutto quelle nella posizione di fare commenti, anche se alcuni miei colleghi ne hanno coraggiosamente parlato.”

Da allora Mordechai ha passato molte centinaia di ore a raccogliere informazioni e a scrivere, continuando ad aggiornare il documento che compare sul sito che ha creato. Da quando si è imbarcato in questo progetto ha migliorato il modo in cui lavora: compila meticolosamente articoli da diverse fonti su una pagina Excel da cui, dopo un ulteriore controllo, seleziona i punti che verranno menzionati nel testo. Utilizza una vasta gamma di fonti: immagini riprese da civili, articoli di media, rapporti delle Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali, reti sociali, blog e via di seguito.

Pur riconoscendo che alcune delle fonti non rispettano standard giornalistici o etici corretti, Mordechai difende la credibilità della sua documentazione: “Non è che io copio e incollo qualunque cosa con cui se ne esca qualcun altro. D’altra parte è chiaro che c’è una discrepanza tra quello che esiste e quello che noi avremmo effettivamente voglia di vedere: vorremmo che ogni incidente nella Striscia venisse esaminato correttamente da due organizzazioni internazionali indipendenti e autonome, ma questo non avverrà.

Quindi io controllo chi sta informando, se è stato colto a mentire, se c’è qualche associazione o blogger che diffonde informazioni che posso dimostrare siano scorrette, e in quel caso smetto di utilizzarli e li cancello. Attribuisco un grande peso alle fonti neutrali, come organizzazioni per i diritti umani e l’ONU, e faccio una specie di sintesi tra fonti per vedere se (l’informazione) è coerente. Lavoro anche in modo molto aperto e invito chiunque voglia a controllarmi. Sarò molto contento di vedere che mi sono sbagliato riguardo a quello che scrivo, ma non succede. Finora ho dovuto fare pochissime correzioni.”

Una lettura accurata del rapporto di Mordechai aiuta a disperdere la nebbia che ha avvolto gli israeliani da quando è scoppiata la guerra. Un esempio significativo è il numero di vittime: la guerra del 7 ottobre è la prima in cui Israele non fa alcuno sforzo per conteggiare il numero dei morti dall’altra parte. In assenza di altre fonti molte persone in tutto il mondo – governi stranieri, mezzi di informazione, organizzazioni internazionali – si basano su quanto riporta il ministero palestinese della Sanità – Gaza, che si ritiene sia decisamente attendibile. Israele cerca di negare i dati del ministero. I mezzi di informazione locali di solito notano che la fonte di tali dati è “il ministero della Sanità di Hamas”.

Tuttavia pochi israeliani sanno che non solo l’esercito ma anche il governo israeliano non hanno dati propri, numeri alternativi relativi alle vittime, ma che autorevoli fonti israeliane, in mancanza di altri dati, finiscono effettivamente per confermare quelli pubblicati dal ministero di Gaza. Quanto autorevoli?

Lo stesso Benjamin Netanyahu. Il 10 marzo, per esempio, il primo ministro ha affermato in un’intervista che Israele ha ucciso 13.000 miliziani di Hamas e ha stimato che per ognuno di loro sono stati uccisi 1,5 civili. In altre parole, fino a quel momento tra le 26.000 e 32.500 persone erano state uccise nella Striscia. Quel giorno il ministero palestinese aveva pubblicato la cifra di 31.112 morti a Gaza, all’interno del margine citato da Netanyahu. Alla fine del mese Netanyahu ha parlato di 28.000 morti, circa 4.600 in meno rispetto ai dati ufficiali palestinesi. Alla fine di aprile il Wall Street Journal ha citato una stima di alti ufficiali dell’esercito israeliano secondo cui il numero di morti era approssimativamente di 36.000, più del numero pubblicato in quel momento dal ministero palestinese.

Mordechai: “É come se, da parte israeliana, stiano scegliendo di non occuparsi dei numeri, benché Israele potrebbe presumibilmente farlo: la tecnologia esiste e Israele controlla l’anagrafe palestinese. Il sistema della difesa ha anche immagini facciali, potrebbe fare un controllo incrociato e trovare che qualcuno che potrebbe essere stato dichiarato morto ha attraversato un posto di controllo. Forza, fammi vedere! Dammi la prova e cambierò il mio approccio. Mi complicherò la vita, ma sarò molto meno sconvolto.

Penso che dobbiamo chiedere a noi stessi quale “livello” di prove è richiesto perché cambiamo le nostre opinioni riguardo al numero di palestinesi che sono stati uccisi. Questa è la domanda che ognuno di noi deve fare a sé stesso – forse per te le prove che cito non sono sufficienti – perché ci dev’essere una sorta di livello realistico nell’accumulazione di prove arrivati al quale accetteremo il numero come affidabile.

Per me,” spiega, “questo punto è arrivato molto tempo fa. E dopo che uno ha fatto il lavoro sporco e capisce un po’ meglio i dati, la questione comincia ad essere non quanti palestinesi sono morti, ma perché e come l’opinione pubblica israeliana continui a dubitare di questi numeri dopo più di un anno di ostilità e contro ogni evidenza.”

Nel suo rapporto cita i dati del ministero palestinese che riportano, tra i morti da quando è scoppiata la guerra fino allo scorso giugno, 273 dipendenti dell’ONU e di organizzazioni di soccorso, 100 professori, 243 atleti, 489 lavoratori della sanità (compresi 55 medici specialisti), 710 bambini con meno di un anno e quattro nati prematuri morti dopo che l’esercito ha obbligato l’infermiere che se ne prendeva cura a lasciare l’ospedale. L’infermiere si occupava di cinque prematuri e ha deciso di salvarne uno che sembrava avere più possibilità di sopravvivere. I corpi in decomposizione degli altri quattro sono stati trovati nelle incubatrici due settimane dopo.

Nel testo di Mordechai la nota che riguarda questi neonati non fa riferimento a un tweet di un gazawi o di un blog filo-palestinese, ma a un’inchiesta del Washington Post. Gli israeliani che potrebbero mettere in discussione “Bearing Witness to the Israel-Gaza War” in quanto si basa su reti sociali o su informazioni non verificate devono riconoscere che si fonda anche su decine di inchieste di praticamente tutti i principali mezzi di informazioni occidentali. Numerosi mezzi di informazione hanno esaminato incidenti a Gaza utilizzando standard giornalistici rigorosi, e ne hanno ricavato prove di atrocità. Un’inchiesta della CNN ha confermato l’accusa palestinese riguardo al “massacro della farina”, in cui il primo marzo circa 150 palestinesi che erano arrivati per prendere cibo da un convoglio di aiuti sono stati uccisi. L’esercito israeliano ha dichiarato che erano state la ressa e la fuga precipitosa degli stessi gazawi ad ucciderli, non gli spari di avvertimento dei soldati che si trovavano in zona. Alla fine l’inchiesta della CNN, basata su attente analisi della documentazione e su 22 interviste a testimoni oculari, ha scoperto che la maggioranza delle vittime in effetti è stata causata dagli spari.

Il New York Times, ABC, CNN, la BBC, organizzazioni internazionali e l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem hanno pubblicato i risultati delle loro inchieste su casi di torture, maltrattamenti, stupri e altre atrocità perpetrati contro detenuti palestinesi nella base di Sde Teiman dell’esercito israeliano nel Negev e in altre strutture. Amnesty International ha esaminato quattro incidenti in cui non c’erano obiettivi militari o giustificazioni per un attacco, in cui le forze dell’IDF hanno ucciso un totale di 95 civili.

Un’inchiesta a fine marzo di Yaniv Kubovich su Haaretz ha mostrato che l’IDF ha creato “zone di uccisione” in cui molti civili sono stati colpiti dopo aver attraversato una linea immaginaria delimitata da un comandante sul campo: i morti sono stati definiti terroristi dopo morti. La BBC ha messo in dubbio la stima dell’IDF sul numero di terroristi che le sue forze hanno ucciso in generale; la CNN ha ampiamente informato su un incidente in cui è stata spazzata via un’intera famiglia; la NBC ha indagato su un attacco contro civili nelle cosiddette zone umanitarie; il Wall Street Journal ha verificato che l’IDF si stava basando sui rapporti delle vittime a Gaza pubblicati dal ministero palestinese della Sanità; l’AP ha sostenuto in un rapporto dettagliato che l’IDF ha presentato solo una prova affidabile che mostra che Hamas stesse operando nei sotterranei di un ospedale, nel tunnel scoperto nel cortile dell’ospedale Shifa; il New Yorker e il Telegraph hanno pubblicato i risultati di approfondite indagini su casi che coinvolgono minori i cui arti hanno dovuto essere amputati, e c’è molto altro, tutto citato in “Bearing Witness”.

Non vi è incluso un rapporto pubblicato proprio questa settimana dal ministero palestinese della Sanità – Gaza in cui si afferma che dal 7 ottobre 1.140 famiglie sono state totalmente cancellate dall’anagrafe, molto probabilmente vittime di bombardamenti aerei.

Mordechai cita numerosi elementi relativi alle regole d’ingaggio lassiste dell’IDF nella Striscia di Gaza. Un video mostra un gruppetto di rifugiati con in testa una donna che tiene il figlio con una mano e una bandiera bianca nell’altra; si vede che viene colpita, probabilmente da un cecchino, e cade a terra mentre il figlio lascia la sua mano e fugge per salvarsi. Un altro incidente, ampiamente riportato a fine ottobre, mostra il tredicenne Mohammed Salem che invoca aiuto dopo essere stato ferito in un attacco aereo. Quando delle persone si avvicinano per aiutarlo vengono prese di mira da un altro attacco simile. Salem e un altro ragazzino sono stati uccisi e oltre 20 persone ferite.

Mordechai riconosce che guardare le testimonianze visive della guerra ha indurito il suo cuore, oggi può vedere persino le scene più atroci. “Quando (anni fa) sono stati postati i video dell’ISIS, non li ho guardati. Ma qui ho sentito che era mio dovere, perché questo viene fatto in mio nome, quindi lo devo vedere per comunicare quello che ho visto. Quello che è importante è la quantità, sono minori e di nuovo minori e ancora una volta minori.”

Alla domanda di quale delle migliaia di immagini, che si tratti di video o foto, di morti, feriti o persone che soffrono, ha avuto un maggiore impatto su di lui, Mordechai ci pensa e cita una foto del corpo di un uomo che in seguito è stato identificato come Jamal Hamdi Hassan Ashour. Ashour, 62 anni, sarebbe stato investito da un carrarmato a marzo, il suo corpo straziato fino a renderlo irriconoscibile. Secondo fonti palestinesi una fascetta di plastica su una delle sue mani dimostra il fatto che in precedenza era stato arrestato. L’immagine è stata postata su un canale israeliano di Telegram con la didascalia “Ti piacerà!”

In vita mia non avevo mai visto niente di simile,” dice Mordechai ad Haaretz. “Ma peggio ancora è il fatto che l’immagine è stata condivisa da soldati in un gruppo Telegram israeliano ed ha avuto reazioni molto favorevoli.” Oltre alle informazioni su Ashour, “Bearing Witness” fornisce link a immagini di un certo numero di altri corpi le cui condizioni suggeriscono che sono stati travolti da blindati. In un caso, secondo un rapporto palestinese, le vittime erano una madre con il figlio.

Un caso citato solo in una nota testimonia di questioni relative ai metodi di Mordechai e ai dilemmi che deve affrontare. Alla fine di marzo Al Jazeera ha pubblicato un’intervista a una donna arrivata all’ospedale Shifa di Gaza e ha detto che i soldati dell’IDF avevano stuprato donne. Poco dopo la famiglia della donna ha negato le accuse che lei aveva fatto e Al Jazeera ha eliminato il reportage, ma molte persone continuano ad avere dubbi.

In base alla mia metodologia dopo la cancellazione da parte di Al Jazeera questo non è credibile e non è successo,” dice Mordechai. “Ma mi chiedo anche: forse sto contribuendo a far tacere quella donna? E non per rispettare la verità, ma in nome dell’onore suo e della sua famiglia. É giusto? Non lo è, ma in fondo sono un essere umano e devo decidere. Quindi in una nota ho spiegato che era la denuncia di una donna e ho aggiunto (che era) ‘quasi sicuramente falsa’ per esprimere le mie riserve.

Non garantisco che ogni testimonianza sia completamente attendibile. Di fatto nessuno sa esattamente cosa stia succedendo a Gaza, non i media internazionali, sicuramente non gli israeliani e neppure l’IDF. In ‘’Bearing Witness’ sostengo che mettere a tacere le voci da Gaza – le limitazioni all’informazione che escono da lì – è parte del metodo di lavoro che rende possibile la guerra. Io sostengo le sintesi che sto usando e spero di sbagliarmi. Ma dal lato israeliano non c’è niente. Sto parlando di prove – voglio delle prove!”

Un caso descritto nel documento, anche se per molti israeliani sarà difficile da credere, riguarda l’uso da parte dell’IDF di un drone che emette suoni di un neonato che piange per stabilire dove si trovano civili e forse farli uscire dal loro rifugio. Nel video a cui fa riferimento il link che fornisce Mordechai si sente piangere e si possono vedere le luci di un drone.

Sappiamo che ci sono droni con altoparlanti, forse qualche soldato annoiato ha deciso di farlo come scherzo ed è percepito dai palestinesi come orribile,” afferma. “Ma è davvero così inverosimile che qualche soldato, invece di essere filmato con mutandine e reggiseno o di dedicare l’esplosione di una strada a sua moglie, farebbe qualcosa del genere? Potrebbe essere un’invenzione, ma è compatibile con quello che sto vedendo.” Questa settimana Al Jazeera ha mandato in onda un’inchiesta sui cosiddetti droni che piangono e ha sostenuto che il loro uso è stato confermato da vari testimoni oculari che hanno tutti raccontato la stessa storia.

Possiamo ancora discutere di testimonianze aneddotiche di questo genere, ma è difficile farlo di fronte a montagne di testimonianze più attendibili,” nota Mordechai. “Per esempio decine di medici americani che hanno fatto lavoro volontario a Gaza hanno riportato che praticamente ogni giorno vedono minori colpiti alla testa. Come lo si può spiegare? Stiamo cercando di spiegarlo o ce ne stiamo occupando?”

Uno dei picchi della brutalità dell’esercito israeliano a Gaza è risultato evidente durante il secondo grande attacco contro l’ospedale Shifa a metà marzo, aggiunge lo storico. In effetti gli dedica un capitolo a parte. L’IDF ha sostenuto che l’ospedale all’epoca era un centro di attività di Hamas e che durante il raid c’erano stati scontri a fuoco, dopodiché 90 aderenti ad Hamas, alcuni di alto rango, erano stati arrestati.

Tuttavia l’occupazione dello Shifa da parte dell’IDF è durata circa due settimane. In quel periodo, secondo fonti palestinesi, l’ospedale è diventato una zona di assassinii e torture. A quanto pare 240 pazienti e personale medico sono stati rinchiusi in uno degli edifici per una settimana senza cibo. Medici sul posto hanno raccontato che almeno 22 pazienti sono morti. Un certo numero di testimoni, tra cui personale dell’ospedale, hanno descritto esecuzioni. Un video girato da un soldato mostra detenuti legati e bendati seduti in un corridoio, con la faccia rivolta verso il muro. Secondo le fonti dopo che l’IDF si è ritirato dall’ospedale nel cortile sono stati trovati decine di corpi. Ci sono vari video che documentano l’esumazione dei corpi, alcuni dei quali mutilati, altri sepolti sotto le macerie o a terra in grandi pozze di sangue rappreso. Una corda era legata attorno al braccio di uno degli uomini uccisi, il che probabilmente dimostra che è stato legato prima di essere ucciso.

Un altro picco di brutalità è stato raggiunto durante gli ultimi due mesi nell’operazione militare ancora in corso nella zona settentrionale della Striscia, iniziata il 5 ottobre. L’IDF ha tagliato fuori Jabalya, Beit Lahia e Beit Hanoun da Gaza City e agli abitanti è stato ordinato di andarsene. Molti lo hanno fatto, ma molte migliaia sono rimaste nella zona assediata.

In quella fase l’esercito ha lanciato quella che l’ex capo di stato maggiore dell’IDF ed ex ministro della Difesa Moshe Ya’alon ha definito questa settimana “pulizia etnica” della zona: alle associazioni di assistenza è stato vietato di entrarvi, l’ultimo magazzino di farina è stato incendiato, le ultime due panetterie chiuse e sono state proibite persino le attività di squadre della protezione civile che portano via le vittime. La fornitura di acqua è stata interrotta, le ambulanze sono state manomesse e gli ospedali attaccati.

Ma i principali sforzi dell’esercito si sono concentrati sugli attacchi aerei. Quasi ogni giorno i palestinesi hanno raccontato di decine di vittime quando edifici residenziali e scuole, diventati campi profughi, sono stati bombardati. Il rapporto di Mordechai cita decine di racconti ben documentati riguardanti bombardamenti, famiglie che hanno raccolto i corpi dei propri cari tra le rovine, inumazioni in grandi tombe comuni, persone ferite coperte di polvere, adulti e bambini scioccati, persone che gridano con parti del corpo sparse attorno a loro, e via di seguito.

In un video del 20 ottobre si vedono due bambini estratti dalle macerie. Il primo sembra stordito, gli occhi gonfi e totalmente coperto di sangue e polvere. Vicino a lui viene estratto un corpo senza vita, che sembra di una ragazza.

Da parte sua nelle ultime due settimane Haaretz ha inviato domande all’unità del portavoce dell’IDF riguardo a circa 30 incidenti, la maggior parte dei quali a Gaza, in cui sono stati uccisi molti civili. L’unità ha risposto che ne ha classificato la maggioranza come eventi insoliti e sono stati deferiti allo stato maggiore per ulteriori indagini.

Mordechai rifiuta categoricamente l’affermazione che si sente dire comunemente dagli israeliani secondo cui quanto sta avvenendo a Gaza non è così terribile se confrontato con altre guerre. “Bearing Witness” mostra, per esempio, che a Gaza sono stati uccisi più minorenni di quelli uccisi in tutte le guerre nel mondo nei tre anni prima di quella del 7 ottobre. Già nel primo mese di guerra il numero dei minori uccisi era 10 volte maggiore di quello della guerra in Ucraina nel corso di un anno.

A Gaza sono stati uccisi più giornalisti che in tutta la Seconda Guerra Mondiale. Secondo un’inchiesta pubblicata da Yuval Avraham sul sito Sicha Mekomit (Local Call) [versione in ebraico del sito in inglese +972 magazine, ndt.] riguardo ai sistemi di intelligenza artificiale utilizzati nelle campagne di bombardamenti dell’IDF a Gaza, è stata data l’autorizzazione di uccidere fino a 300 civili per assassinare alte cariche di Hamas. In confronto documenti rivelano che per l’esercito americano quel dato era di un decimo – 30 civili – nel caso di un assassino di livello molto maggiore di Yahya Sinwar [defunto leader di Hamas, ndt.]: Osama Bin-Laden.

Un’inchiesta del Wall Street Journal afferma che nei primi tre mesi della guerra Israele ha lanciato più bombe su Gaza di quante sono state sganciate dagli Stati Uniti in Iraq in sei anni. Lo scorso anno nelle carceri israeliane sono morti 48 prigionieri rispetto ai 9 a Guantanamo in tutti i suoi 20 anni di esistenza. I dati sono eloquenti anche riguardo alle cifre delle vittime in guerre di altri Paesi: la coalizione delle forze in Iraq ha ucciso 11.516 civili in cinque anni e 46.319 civili sono stati uccisi in 20 anni nella guerra in Afghanistan. Secondo le stime più modeste dal 7 ottobre 2023 circa 30.000 civili sono stati uccisi nella Striscia.

Il rapporto di Mordechai riflette non solo gli orrori che avvengono a Gaza ma anche l’indifferenza di Israele riguardo ad essi: “All’inizio c’è stato un tentativo di giustificare l’invasione dell’ospedale Shifa, oggi non c’è neppure più questa pretesa, si attaccano ospedali e non c’è neppure una discussione pubblica. Non ci occupiamo in alcun modo delle implicazioni di queste operazioni. Apri i social media e sei inondato dalla disumanizzazione. Che cosa ci sta facendo? Sono cresciuto in una società con un’etica totalmente diversa. C’erano sempre mele marce, ma guarda il caso dell’autobus 300 (un avvenimento del 1984, in cui agenti dello Shin Bet sul campo giustiziarono due arabi che avevano dirottato un autobus) e guarda dove siamo arrivati. Per me è importante svelare, è importante che queste cose saltino fuori. Questa è la mia forma di resistenza.”

Un oscuro segreto

Nella versione più recente di “Bearing Witness” Mordechai ha aggiunto un’appendice che spiega perché, secondo lui, le azioni di Israele a Gaza costituiscono un genocidio, un argomento che espone nella nostra conversazione: “Dobbiamo distinguere il modo in cui noi come israeliani pensiamo al genocidio – camere a gas, campi di sterminio e Seconda Guerra Mondiale – dal modello apparso nella Convenzione sulla Prevenzione e la Punizione del Crimine di Genocidio (1948)” spiega. “Non ci devono essere campi di sterminio perché venga considerato un genocidio. Si riduce tutto alla commissione di atti, uccisioni, ma non solo, (ci sono) anche persone ferite, rapimento di minori e persino anche solo tentativi di impedire le nascite tra una particolare categoria di persone. Ciò che tutte queste azioni hanno in comune è la distruzione deliberata di un gruppo.

Le persone con cui parlo in genere non discutono delle azioni intraprese, ma delle intenzioni. Diranno che non ci sono documenti che dimostrino che Netanyahu o (il capo di stato maggiore dell’IDF) Herzl Halevi abbiano ordinato un genocidio. Ma ci sono dichiarazioni e testimonianze. Moltissime. Il Sudafrica ha presentato un documento di 120 pagine che contiene un gran numero di testimonianze che dimostrano l’intenzione.”

Il giornalista Yunes Tirawi ha raccolto dichiarazioni sul genocidio e la pulizia etnica dalle reti sociali di più di 100 persone che sono in rapporto con l’IDF, a quanto pare ufficiali della riserva. “Cosa ne facciamo di tutto questo? Dal mio punto di vista i fatti parlano chiaro. Vedo una linea diretta tra queste dichiarazioni, l’assenza del tentativo di fare i conti con queste dichiarazioni e la situazione sul terreno che corrisponde alle dichiarazioni.”

La versione in inglese di “Bearing Witness” fa riferimento ad articoli di sei importanti personalità israeliane che hanno già affermato che a loro parere Israele sta perpetrando un genocidio: l’esperto di Olocausto e genocidio Omer Bartov; il ricercatore sull’Olocausto Daniel Blatman (che ha scritto che quello che Israele sta facendo a Gaza è una via di mezzo tra la pulizia etnica e il genocidio); lo storico Amos Goldberg; lo studioso di Olocausto Raz Segal; l’esperto di diritto internazionale Itamar Mann; lo storico Adam Raz.

La definizione è meno importante,” afferma Mordechai. “Quello che importa sono i fatti. Supponiamo che tra qualche anno la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia dichiari che non è genocidio ma quasi genocidio. Ciò lo rende migliore? Ciò attesta una vittoria morale di Israele? Voglio vivere in un posto che perpetra un ‘quasi genocidio’? Il dibattito sul termine attira l’attenzione, ma le cose succedono in un modo o nell’altro, che raggiungano quel livello o meno. Alla fine dobbiamo chiederci come fermarlo e come risponderemo ai nostri figli quando ci chiederanno cosa abbiamo fatto durante la guerra. Dobbiamo agire.”

Ma la definizione è importante. Tu stai dicendo agli israeliani: “Guardate, state vivendo nella Berlino del 1941.” Qual era l’imperativo morale per la gente che viveva nella Berlino di allora? Cosa si presume faccia un cittadino quando il suo Stato commette un genocidio?

Una posizione morale comporta sempre un costo. Se non c’è alcun costo è semplicemente una posizione accettata, nella norma. Il valore di una cosa per una persona è espresso dal prezzo che è disposta a pagare per essa. D’altra parte mi rendo conto che la gente ha anche altri motivi e necessità – guadagnarsi da vivere, conservare i rapporti con la famiglia – ognuno deve prendere le proprie decisioni. Dal mio punto di vista quello che faccio è parlare e continuare a farlo, che la gente ascolti o meno. Ciò porta via molto tempo e forza mentale, ma sono arrivato alla conclusione che è la cosa più utile che io possa fare.”

Prima che ce ne andiamo Mordechai mi manda un ultimo link. Non riguarda testimonianze di atrocità a Gaza, ma una breve storia della defunta scrittrice americana Ursula K. Le Guin, “Quelli che se ne vanno da Omelas.” La storia riguarda la città di Omelas, dove la gente è bellissima e felice e la sua vita è interessante e gioiosa. Ma da adulti gli abitanti di Omelas imparano gradatamente l’oscuro segreto della loro città: la loro felicità dipende dalla sofferenza di un bambino obbligato a rimanere in una lurida stanza sottoterra e a loro non è consentito consolarlo o assisterlo. “E’ l’esistenza del bambino e la loro consapevolezza della sua esistenza che rende possibile la grandezza della loro architettura, l’intensità della loro musica, la profondità della loro scienza. È a causa del bambino che sono così gentili con i bambini,” scrive Le Guin.

La maggioranza degli abitanti di Omelas continua a vivere con questa consapevolezza, ma ogni tanto uno di loro va a trovare il bambino e non ritorna, ma invece comincia a camminare e lascia la città. La storia finisce così: “Camminano andando avanti nell’oscurità e non tornano indietro. Il posto verso cui si dirigono è un luogo ancor meno immaginabile per la maggioranza di noi della città della gioia. Non posso descriverlo. È possibile che non esista. Ma sembra che sappiano dove stanno andando.”

L’ufficio del portavoce dell’IDF ha risposto che l’esercito israeliano “opera solo contro obiettivi militari e adotta una serie di precauzioni per evitare danni a non-combattenti, anche inviando avvertimenti alla cittadinanza. Riguardo agli arresti, ogni sospetto di violazione degli ordini o delle leggi internazionali viene indagato ed esaminato. In generale se c’è il sospetto di un comportamento inappropriato, di possibile natura penale, da parte di un soldato viene aperta un’indagine dalla Divisione per le Inchieste Penali della Polizia Militare.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Attacchi israeliani all’ospedale Kamal Adwan e a un edificio di Nuseirat nel nord di Gaza

Redazione Al Jazeera

7 dicembre 2024-Al Jazeera

Il bombardamento arriva mentre il sistema sanitario di Gaza sta crollando per i ripetuti attacchi dell’esercito israeliano.

Secondo l’ospedale Al-Awda Israele ha ucciso almeno 26 persone e ne ha ferite più di 60, tra cui bambini e donne, in un attacco aereo su una casa nel campo profughi di Nuseirat nella Striscia di Gaza centrale.

Il raid è avvenuto nelle prime ore della sera di venerdì e “ha danneggiato diverse case vicine”, ha detto all’agenzia di stampa AFP il portavoce dell’agenzia di difesa civile Mahmoud Basal.

L’esercito israeliano ha effettuato diversi attacchi mortali nel corso della giornata mentre assediava l’ospedale Kamal Adwan a Beit Lahiya e l’area circostante nel nord di Gaza.

Uno di questi attacchi, ripreso in un video in una clip autenticata dall’unità di verifica Sanad di Al Jazeera, ha visto le forze israeliane aprire il fuoco su un’ambulanza della Mezzaluna Rossa palestinese.

Attacco a un ospedale

Secondo il dott. Eid Sabbah, direttore dei servizi infermieristici dell’ospedale, venerdì le forze israeliane hanno ucciso circa 30 persone quando hanno preso d’assalto l’ospedale Kamal Adwan sotto la copertura di un pesante fuoco di artiglieria e attacchi aerei.

Sabbah ha affermato che: “Persone che non conoscevamo sono state mandate all’interno dell’ospedale, indossavano uniformi diverse e erano dotate di armi e altoparlanti. Hanno ordinato al [direttore dell’ospedale] dott. Hussam Abu Safia e ai suoi colleghi…di evacuare l’ospedale, compresi pazienti e personale medico. Hanno chiesto loro di evacuare verso i carri armati. Questa operazione ha portato all’uccisione di 30 persone all’interno dell’ospedale, compresi quattro membri dello staff. Sono stati presi di mira e uccisi”.

I resoconti dei testimoni suggeriscono anche che l’esercito israeliano abbia utilizzato droni per colpire i palestinesi all’interno dell’ospedale.

Le strutture mediche, il loro personale e i loro veicoli sono protetti dalla Convenzione di Ginevra.

Intrappolare persone spaventate

Il medico norvegese Mads Gilbert, che ha lavorato a lungo come chirurgo d’urgenza in tutta Gaza, ha detto di credere che l’esercito israeliano stia usando la struttura medica come una “trappola”.

“Questo è successo ripetutamente. Le forze israeliane … attaccano i dintorni, poi quando le persone corrono in ospedale per chiedere aiuto attaccano l'”ospedale”, ha detto Gilbert.

Sembra quindi che l’esercito israeliano stia usando Kamal Adwan come una trappola per catturare o uccidere coloro che vuole”.

Venerdì il Ministero della Salute palestinese a Gaza ha accusato l’esercito israeliano di aver commesso un crimine di guerra a Kamal Adwan. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha detto che le forze israeliane hanno bombardato la struttura apparentemente senza avvisare il suo personale.

Per giustificare le sue azioni Israele afferma che i combattenti di Hamas stanno usando edifici civili, tra cui ospedali e scuole, come copertura operativa durante i 14 mesi di guerra a Gaza.

Hamas lo ha negato e ha accusato Israele di bombardamenti e aggressioni indiscriminate. Il Ministero della Salute palestinese ha affermato che i tre principali ospedali nel nord dell’enclave sono a malapena funzionanti e sono stati sottoposti a ripetuti attacchi da quando a ottobre Israele ha inviato i carri armati a Beit Lahiya e nelle vicine Beit Hanoon e Jabalia.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Lo storico palestinese-americano Rashid Khalidi: “Israele ha realizzato per se stesso uno scenario da incubo. Il tempo stringe”(Prima Parte)

Itay Mashiach

30 nov 2024Haaretz

La storia non riguarda Hamas, la religione o il terrorismo. Rashid Khalidi, il principale intellettuale palestinese del nostro tempo, è convinto che gli israeliani semplicemente non comprendano il conflitto, vivendo in una “bolla di falsa coscienza”

(Prima parte)

Il 1° maggio di quest’anno, il giorno dopo che la polizia di New York ha fatto irruzione con l’ausilio di granate stordenti nell’edificio in cui i dimostranti pro-palestinesi si erano barricati all’interno del campus della Columbia University, il Prof. Rashid Khalidi si è recato presso uno dei cancelli dell’università per parlare con i dimostranti. Con occhiali da sole da aviatore e un megafono in mano, lo storico sembrava trovarsi nel suo ambiente naturale.

“Quando ero studente, negli anni ’60, politici i cui nomi oggi nessuno ricorda ci dicevano che eravamo guidati da ‘un gruppo di agitatori esterni’. Quando ci opponevamo alla guerra del Vietnam e al razzismo eravamo la coscienza di questa nazione”, ha detto alla folla, aggiungendo: “oggi onoriamo gli studenti che nel 1968 si sono opposti a una guerra genocida, illegale e vergognosa… E un giorno ciò che i nostri studenti hanno fatto qui sarà commemorato allo stesso modo. Sono – ed erano – dalla parte giusta della storia”.

Khalidi è stato descritto come l’intellettuale palestinese più significativo della sua generazione, come il successore di Edward Said e come il più importante storico vivente della Palestina. Il mese scorso si è ritirato dalla Columbia dopo 22 anni, durante i quali ha diretto o codiretto il Journal of Palestinian Studies. Nel suo libro del 2020 “The Hundred Years’ War on Palestine” [La guerra dei cento anni in Palestina, ndt.] ha riassunto il conflitto attraverso sei “dichiarazioni di guerra” ai palestinesi. I lettori israeliani non considererebbero alcuni degli eventi descritti come guerre, ad esempio la Dichiarazione Balfour e gli Accordi di Oslo.

Gli autori delle guerre, Gran Bretagna, Stati Uniti e, soprattutto, Israele, sono descritti come potenti oppressori che hanno ripetutamente calpestato i palestinesi e annullato i loro diritti. Stiamo ancora parlando di palestinesi che “si crogiolano nella loro stessa vittimizzazione” (nelle parole di Khalidi, che è ben consapevole di questa critica, nel libro), o di una diversa prospettiva sull’argomento? A giudicare dalle vendite del libro, il suo messaggio sta incontrando orecchie disposte ad ascoltare. Dopo il 7 ottobre è balzato nella classifica dei best-seller del New York Times e ci è rimasto quasi consecutivamente per un totale di 39 settimane.

Khalidi sostiene che la guerra attuale non è “l’11 settembre israeliano”, né una nuova Nakba. Mentre ognuno di quegli eventi ha segnato una rottura storica, questa guerra fa parte di un continuum. Egli ritiene che nonostante il suo livello anomalo di violenza questa guerra non è un’eccezione nella storia. Al contrario: l’unico modo per comprenderla è nel contesto della guerra in corso qui da un secolo.

Khalidi, 76 anni, è un rampollo di una delle più antiche e rispettate famiglie palestinesi di Gerusalemme. Tra i suoi membri ci sono stati politici, giudici e studiosi, e la sua genealogia può essere fatta risalire al XIV secolo. La famosa biblioteca della famiglia, fondata dal nonno nel 1900 e situata in un edificio mamelucco del XIII secolo nella Città Vecchia di Gerusalemme, adiacente all’Haram al-Sharif (Monte del Tempio), costituisce la più grande collezione privata di manoscritti arabi in Palestina, il più antico dei quali risale a circa mille anni fa. Sulla stessa strada, Chain Gate Street, c’è un altro edificio, che appartiene anch’esso alla famiglia e che avrebbe dovuto ospitare un ampliamento della biblioteca. All’inizio di quest’anno dei coloni ebrei vi hanno fatto irruzione e hanno occupato brevemente il sito.

Khalidi integra i membri della famiglia nella storia che scrive, in alcuni casi attribuendo una vasta influenza alle loro azioni (lo storico israeliano Benny Morris ha definito questo “una specie di nepotismo intellettuale”). Suo zio Husayn al-Khalidi fu sindaco di Gerusalemme per un breve periodo durante il mandato britannico e fu esiliato alle Seychelles in seguito alla rivolta araba del 1936-1939. Nel 1948 suo nonno si rifiutò inizialmente di lasciare la sua casa a Tel a-Rish; la casa è ancora in piedi, alla periferia del quartiere Neve Ofer a Tel Aviv, grazie al fatto che i membri del gruppo proto-sionista Bilu nel 1882 presero in affitto alcune delle stanze dell’edificio, rendendolo un punto di riferimento storico per gli israeliani.

Durante la guerra d’indipendenza Ismail Khalidi, il padre di Rashid, era uno studente di scienze politiche a New York, dove Khalidi nacque nel 1948. Non è l’unico momento in cui la sua biografia si interseca con la storia del conflitto, oggetto della sua ricerca. Insegnava all’Università americana di Beirut quando le forze di difesa israeliane assediarono la città nel 1982. A causa dei suoi legami con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina i corrispondenti esteri che si occupavano della guerra in Libano spesso lo citavano in forma anonima come “fonte informata”.

A metà settembre, molto tempo dopo un cessate il fuoco mediato dagli americani e la partenza dell’OLP da Beirut, Khalidi osservò con sconcerto “una scena surreale: bengala israeliani che fluttuavano nell’oscurità in completo silenzio, uno dopo l’altro, sulle zone meridionali di Beirut, per quella che sembrava un’eternità“, scrive nel libro. Il giorno dopo si scoprì che i razzi erano destinati a illuminare la strada per le Falangi cristiane verso i campi profughi di Sabra e Shatila.

Dal 1991 al 1993 Khalidi è stato consigliere della delegazione palestinese ai colloqui di pace di Madrid e Washington. Ha elaborato le sue critiche al ruolo svolto dagli Stati Uniti nei negoziati in un libro precedente, “Brokers of Deceit” [Mediatori di inganno, ndt.], nel 2013, sostenendo che lo sforzo diplomatico americano in Medio Oriente aveva solo reso più remota la possibilità di pace.

“Gli americani erano più israeliani degli israeliani”, dice ora. “Se gli israeliani dicono ‘sicurezza’, gli americani si inchinano fino a sbattere la testa a terra. E la forma più estrema di questo è Joe ‘Hasbara’ Biden, che parla come se fosse [il portavoce dell’IDF] Daniel Hagari”, aggiunge, usando la parola ebraica per gli sforzi di diplomazia pubblica israeliana.

Per quanto taglienti possano suonare alle orecchie israeliane le sue critiche agli Stati Uniti e a Israele, Khalidi ha irritato i membri della generazione più giovane e gli attivisti pro-palestinesi più combattivi in Nord America con le sue risposte sfumate agli eventi dal 7 ottobre 2023. “Penso che molti di loro non sarebbero d’accordo con tutte le distinzioni che ho fatto sulla violenza”, dice, aggiungendo: “Non mi interessa”.

All’inizio della guerra l’anno scorso è stato inequivocabile nel dire che l’attacco di Hamas ai civili israeliani è stato un crimine di guerra. “Se un movimento di liberazione dei nativi americani venisse e sparasse con un lanciarazzi nel mio condominio perché vivo su una terra rubata, non sarebbe giustificato”, ha dichiarato al The New Yorker a dicembre dell’anno scorso. “O accetti il ​​diritto umanitario internazionale o non lo accetti”.

Oggi Khalidi è arrabbiato. Le persone che sono state in contatto con lui nei giorni successivi al 7 ottobre hanno detto che era devastato. “Mi ha colpito come colpisce chiunque abbia legami personali”, mi ha detto. “Sono colpito a tutti i livelli.”

Ha parenti a Gerusalemme, nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Beirut, così come studenti e molti amici in Israele. Quando gli ho chiesto se era sorpreso dal livello di violenza, si è fermato un attimo a pensare. “Sì, sono rimasto sorpreso dal 7 ottobre”, ha detto, e ha aggiunto, “meno dalla risposta israeliana.”

Durante la nostra conversazione, condotta online tra fine ottobre e metà novembre, emerge l’importanza che attribuisce al mantenimento di un canale aperto con gli israeliani. Da qui anche il suo consenso a essere intervistato. Secondo lui, è un elemento integrante del percorso verso la vittoria.

Cosa direbbe che stia provando la società palestinese in questo momento?

“C’è un grado di dolore e sofferenza che non se ne va, quando si contempla il numero di persone che sono state uccise e il numero di persone le cui vite sono state rovinate per sempre: anche se sopravvivono saranno traumatizzati in modi che non possono essere guariti. Al tempo stesso è già successo prima. Intendo le 19.000 persone uccise in Libano nel 1982: libanesi e palestinesi. È orribile dirlo, ma ci siamo abituati; la società palestinese è assuefatta alla sofferenza e alla perdita. L’abbiamo già sperimentato, ogni generazione.

Non credo che questo mitighi il dolore”, continua. “Certamente non mitiga la rabbia, l’amarezza. Tutti quelli che conosco si svegliano ogni mattina e guardano gli ultimi orrori, e di nuovo prima di andare a letto. Ci accompagna nelle nostre vite ogni giorno, tutto il tempo, anche quando cerchiamo di evitare di pensarci”.

Secondo Khalidi, “gli israeliani vivono in una piccola bolla di falsa coscienza creata per loro dai loro media e dai loro politici e sottovalutano il grado in cui il resto del mondo sa cosa sta realmente accadendo. Il cambiamento nell’opinione pubblica è il risultato del fatto che le persone vedono cosa sta realmente accadendo e reagiscono alla morte dei bambini come farebbero le persone normali. Voi [in Israele] non vedete i bambini morire. A voi israeliani, voi come gruppo, come collettività, non vi è permesso di vederlo.

Oppure la situazione è presentata così: è colpa loro o è a causa di Hamas o degli scudi umani o con qualche altra spiegazione bugiarda”, rileva. “Ma la maggior parte delle persone nel mondo la vede per quello che è. Non hanno bisogno delle bugie di un ammiraglio Hagari che dica loro che quello che vedono non è reale”.

Cosa la ha sorpreso del livello di violenza del 7 ottobre?

Alla pari dell’intelligence israeliana non pensavo che potesse essere organizzato un attacco così grande. Sa, è come una pentola a pressione. Si continua a fare pressione non solo per decenni ma per generazioni. E prima o poi esploderà. Qualsiasi storico può dirle che la Striscia di Gaza è il luogo dove il nazionalismo palestinese si è maggiormente sviluppato, dove è stato creato un movimento dopo l’altro. La pressione esercitata su quelle persone schiacciate in quell’area, mentre osservano i loro ex villaggi proprio oltre la Linea Verde qualsiasi storico avrebbe dovuto essere in grado di prevederla. È azione e reazione. Ma non mi aspettavo quel livello.”

Israele ha mai avuto una vera opportunità di uscire da questo ciclo di sangue?

“Penso che questa sia stata la direzione [presa da Israele] in crescendo per la maggior parte di questo secolo. L’ultimo tentativo israeliano, l’ultimo segno di una volontà da parte di un governo israeliano di fare qualcosa di diverso dall’uso della forza, è stato sotto [l’ex Primo Ministro Ehud] Olmert. E non sto suggerendo che quella fosse una rampa di uscita [dal conflitto]. Ma a parte questa eccezione è stato un “muro di ferro” sin da Jabotinsky [il leader revisionista Ze’ev Jabotinsky, che coniò il termine nel 1923]. Forza e ancora forza. Perché state cercando di imporre una realtà alla regione, cercando di costringere le persone ad accettare qualcosa che ha mandato onde d’urto in tutto il Medio Oriente sin dagli anni ’20 e ’30. Intendo dire, se leggiamo la stampa del 1910 in Siria, Egitto e Iraq notiamo che le persone erano preoccupate per il sionismo”.

All’inizio di “The Hundred Years’ War” cita una lettera inviata da un membro della sua famiglia, un affermato studioso di Gerusalemme, a Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, nel 1899. Scriveva che il sionismo era naturale e giusto: “chi potrebbe contestare il diritto degli ebrei in Palestina?” Ma è abitata da altri, aggiungeva, che non accetteranno mai di essere sostituiti. Pertanto, “In nome di Dio, lasci che la Palestina sia lasciata in pace”.

“Lui lo vedeva chiaramente come io vedo lei oggi. Questa realtà ha causato onde d’urto fin dall’inizio. Negli anni ’30 c’erano volontari che venivano a combattere in Palestina dalla Siria, dal Libano e dall’Egitto; e di nuovo nel 1948. Io lo vedo come un continuum, ma non credo sia possibile vederlo diversamente, francamente. Voi fate finta che la storia sia iniziata il 7 ottobre o il 7 giugno 1967, o il 15 maggio 1948. Ma non è così che funziona la storia”.

Nel suo libro descrive il 2006 come una potenziale soluzione mancata. Sostiene che Hamas ha fatto una sorprendente inversione a U, ha partecipato alle elezioni [dell’Autorità Nazionale Palestinese] con una campagna moderata e ha accettato implicitamente la soluzione dei due Stati. Il “Documento dei prigionieri” di quel periodo, che invitava Hamas e la Jihad islamica a unirsi all’OLP e a concentrare la lotta nei territori oltre la Linea Verde, esprimeva uno spirito simile. Crede che Hamas stesse attraversando una vera trasformazione che avrebbe potuto, in futuro, portare alla fine della violenza?

“Non ho nessuna possibilità di entrare nei cuori e nelle menti della leadership di Hamas. Quello che posso dirle è che all’interno dello spettro di opinioni [tale idea sulla fine della violenza, ndt.] ha avuto una risonanza che penso si rifletta in alcune dichiarazioni di Hamas e tra alcuni dei leader. Ciò si estende, credo, al periodo che precede il Documento dei prigionieri e il governo di coalizione del 2007, e potrebbe anche aver coinvolto [il fondatore di Hamas] Sheikh Ahmed Yassin, che ha parlato di una tregua di cento anni. Rappresentavano tutti? Non so. Cosa avevano nei cuori? Non lo so. Ma sembra che lì ci fosse qualcosa che Israele ha rigorosamente scelto di reprimere”.

Come lo spiega?

È perfettamente chiaro che nell’intero spettro politico israeliano, da un capo all’altro, non c’è stata alcuna accettazione dell’idea di uno Stato palestinese completamente sovrano, completamente indipendente, che rappresentasse l’autodeterminazione. Per quanto riguarda [Benjamin] Netanyahu è chiaro. Ma persino [il primo ministro Yitzhak] Rabin nel suo ultimo discorso alla Knesset ha detto: “Stiamo offrendo ai palestinesi meno di uno Stato, controlleremo la valle del fiume Giordano”. Cosa significa? Significa una continuazione [dell’occupazione] in una forma modificata. È anche ciò che [l’ex primo ministro Ehud] Barak e Olmert stavano offrendo, con qualche ritocco marginale”.

Nei negoziati tenuti a Taba [2001] e ad Annapolis [2007], si è parlato di sovranità.

“Mi scusi. Uno Stato sovrano non ha il suo registro della popolazione, il suo spazio aereo e le sue risorse idriche controllate da una potenza straniera. Questa non è sovranità. Questo è un Bantustan, è una riserva indiana. Lo può chiamare come vuole, un mini-Stato, un non-Stato, uno Stato parziale o ‘meno di uno Stato’.”

Forse il processo di apertura [alla costituzione di] uno Stato si sarebbe sviluppato più avanti. Il discorso di Rabin fu pronunciato sotto una tremenda pressione politica.

“Forse. Se non avessimo avuto 750 mila coloni, se Rabin non fosse stato assassinato, se i palestinesi fossero stati molto più duri nei negoziati. A Washington [1991-1994], abbiamo detto agli americani che stavamo negoziando su una torta mentre gli israeliani la stavano mangiando portando avanti la colonizzazione attraverso gli insediamenti. ‘Avete promesso che sarebbe stato mantenuto lo status quo, e loro stanno rubando”. E gli americani non hanno fatto nulla. A quel punto avrebbe dovuto essere chiaro che se non avessimo preso una posizione la colonizzazione sarebbe continuata, il controllo della sicurezza e l’occupazione israeliani sarebbero continuati in una forma diversa. Questo è ciò che ha fatto Oslo.

Parte del problema è che i palestinesi hanno accettato le cose orribili che ci sono state offerte a Washington. Hanno dato il 60% della Cisgiordania a Israele sotto forma di Area C. Quelle sono state concessioni dell’OLP, non è colpa di Israele. Nessuna leadership palestinese avrebbe dovuto accettare tali accordi.”

Un suo collega, lo storico israeliano Shlomo Ben Ami, ha spiegato il fallimento dei colloqui di Camp David, nel luglio 2000, come un fallimento della leadership palestinese. In un’intervista del 2001 ha affermato che i palestinesi “non potevano liberarsi dal bisogno di rivendicazione, dalla loro vittimizzazione”; che negoziare con Arafat era come “negoziare con un mito”; e che “i palestinesi non vogliono tanto una soluzione quanto piuttosto mettere Israele sul banco degli imputati”. È possibile che la regione abbia perso un’opportunità storica a causa della leadership di Yasser Arafat?

“Lei vuole farmi cadere tra le ortiche; io voglio sollevarmi e guardare il giardino in putrefazione. [Un] presidente [americano] ha sprecato sette anni e mezzo della sua presidenza prima di portare, un paio di mesi prima di un’elezione, quando non era un’anatra zoppa ma un’anatra morta, la gente a Camp David. Vuoi mediare? Allora fallo entro il limite di tempo stabilito dall’accordo [di Oslo] che hai firmato sul prato della Casa Bianca nel 1993. [Il processo] avrebbe dovuto essere completato entro il 1999. Barak aveva già perso la maggioranza alla Knesset, un’altra anatra morta, o morente.

Per quanto riguarda Arafat, dov’era nel 2000? Ho vissuto a Gerusalemme nei primi anni ’90. Si poteva guidare ovunque con targhe verdi [targhe palestinesi, ndt.] dalla Cisgiordania, alle alture del Golan, a Eilat, a Gaza. C’erano 100.000 lavoratori [palestinesi] in Israele e israeliani che facevano shopping in Cisgiordania. Dal 1999 l’economia palestinese si è impoverita. Permessi, posti di blocco, muri, blocchi, separazione. La popolarità di Arafat è crollata.”

Sta parlando del deterioramento dell’economia palestinese negli anni ’90, ma un altro episodio importante e traumatico per Israele in quel decennio sono stati gli attentati suicidi del 1994-1996, a cui dedica poco spazio nel suo libro.

“La separazione è iniziata prima del primo attentato suicida. L’idea di separazione era centrale nel modo in cui Rabin e [il ministro degli Esteri Shimon] Peres hanno concepito questo [processo] fin dall’inizio. E separazione significava isolare i palestinesi in piccole enclave e separarli dall’economia israeliana. Tutti questi sviluppi erano stati pianificati in anticipo. Il pretesto degli attentati suicidi spiega i dettagli, ma non spiega l’idea”.

Gli attacchi suicidi sono stati un fattore significativo per l’affossamento del processo.

“Ricordi cosa ha preceduto gli attentati suicidi”.

Si riferisce al massacro di fedeli palestinesi a Hebron da parte di Baruch Goldstein, nel febbraio 1994.

“Sì, e alla risposta di Rabin al massacro. Non ha sradicato Kiryat Arba [l’insediamento coloniale urbano adiacente a Hebron], non ha allontanato i coloni da Hebron, non ha punito i colpevoli – ha punito i palestinesi. Poi è diventato chiaro cosa fosse Oslo: un’estensione e un rafforzamento dell’occupazione. E Hamas ne ha approfittato. Hanno visto che l’intero edificio che Arafat ha cercato di vendere ai palestinesi non avrebbe condotto a quanto aveva proclamato. Questo, insieme a tutto il resto che stava accadendo, ha dato loro una gigantesca opportunità. Il peggioramento della situazione dei palestinesi nel corso degli anni ’90 ha dato ad Hamas un enorme credito.

Guardando indietro, dalla guerra del 1973 fino al 1988 l’OLP si è allontanata dal [suo obiettivo dichiarato di] liberazione di tutta la Palestina e dall’uso della violenza. Ciò è riassunto nella dichiarazione del Consiglio Nazionale Palestinese dell’OLP del 1988 ad Algeri. Coloro che si opposero finirono dentro Hamas, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e così via.

Come avrebbe potuto trionfare la prima compagine? Dovevano essere in grado di fornire ai loro sostenitori prove tangibili che il loro approccio stava avendo successo. Ma non fornirono nulla alla loro base. Nulla. Una situazione peggiore rispetto ai primi anni Novanta. Quindi, naturalmente, le persone che rifiutano la divisione e insistono sulla lotta armata e sulla completa liberazione troveranno sostegno.

Il punto è che siamo davanti ad un processo dialettico che da parte israeliana è guidato da un’incapacità assoluta di comprendere ciò a cui dover rinunciare. E sembra impossibile per Israele rinunciare a qualcosa: alla terra, alla popolazione e ai registri anagrafici, alla sicurezza, ai ponti, con lo Shabak [servizio di sicurezza dello Shin Bet] che mette il naso da per tutto. Non rinuncerebbero ad alcuna cosa, e questo è più importante dei miti riguardanti ciò a cui Arafat avrebbe o non avrebbe rinunciato.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il mio intervento al dibattito dell’Oxford Union*

Susan Abulhawa

5 dicembre 2024, X ex Twitter

Non risponderò alle domande finché non avrò finito di parlare, quindi, per favore, astenetevi dall’interrompermi.

Al Congresso Mondiale Sionista del 1921 Chaim Weizman, un ebreo russo, in merito al problema di cosa fare degli abitanti indigeni del territorio, disse che i palestinesi erano simili alle “rocce della Giudea, ostacoli che devono essere eliminati come su un difficile sentiero”.

David Gruen, un ebreo polacco che cambiò il suo nome in David Ben Gurion per sembrare appartenere alla regione disse: “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”.

Ci sono migliaia di conversazioni di questo tipo tra i primi sionisti che pianificarono e attuarono la colonizzazione violenta della Palestina e l’annientamento del suo popolo nativo. Ma ci riuscirono solo in parte, assassinando o epurando etnicamente l’80% dei palestinesi, il che significa che il 20% di noi è rimasto, un ostacolo resistente alle loro fantasie coloniali che divenne oggetto delle loro ossessioni nei decenni successivi, soprattutto dopo aver conquistato ciò che restava della Palestina nel 1967.

I sionisti si lamentano della nostra presenza e dibattono pubblicamente in tutti i circoli (politici, accademici, sociali, culturali) cosa fare di noi, cosa fare del tasso di natalità palestinese, dei nostri bambini che loro definiscono una minaccia demografica.

Benny Morris, che originariamente avrebbe dovuto essere qui, una volta espresse rammarico per il fatto che Ben Gurion “non avesse finito il lavoro” di sbarazzarsi di tutti noi, il che avrebbe evitato quello che loro chiamano il “problema arabo”. Benjamin Netanyahu, un ebreo polacco il cui vero nome è Benjamin Mileikowsky, una volta si lamentò dell’occasione mancata, durante la rivolta di piazza Tienanmen del 1989, di espellere ampie fasce della popolazione palestinese “mentre l’attenzione mondiale era concentrata sulla Cina”.

Alcune delle loro argomentate soluzioni per il fastidio provocato dalla nostra esistenza includono la politica di “rompergli le ossa” negli anni ’80 e ’90, ordinata da Yitzhak Rubitzov, ebreo ucraino che cambiò il suo nome in Yitzhak Rabin (per le stesse ragioni).

Quella politica orribile che ha reso disabili generazioni di palestinesi non è riuscita a farci andare via. E, frustrati dalla resilienza palestinese, è emerso un nuovo discorso, soprattutto dopo che un enorme giacimento di gas naturale è stato scoperto al largo della costa settentrionale di Gaza del valore di trilioni di dollari.

Questo nuovo discorso è riecheggiato nelle parole del colonnello Efraim Eitan, che nel 2004 ha affermato: “dobbiamo ucciderli tutti”. Aaron Sofer, un cosiddetto consigliere intellettuale e politico israeliano, ha insistito nel 2018 sul fatto che “dobbiamo uccidere, uccidere e uccidere. Tutto il giorno, tutti i giorni”.

Quando ero a Gaza ho visto un bambino di non più di 9 anni le cui mani e parte del viso erano state spazzate via da una scatola di cibo esplosiva che i soldati avevano lasciato per i bambini affamati di Gaza. In seguito ho scoperto che avevano anche lasciato cibo avvelenato per le persone a Shujaiyya e che negli anni ’80 e ’90 i soldati israeliani avevano lasciato giocattoli esplosivi nel Libano meridionale che esplodevano quando i bambini emozionati li raccoglievano.

Il danno che fanno è diabolico e tuttavia si aspettano che si creda che le vittime sono loro. Invocando l’olocausto europeo e urlando all’antisemitismo si aspettano una sospensione della basilare ragione umana per credere che il cecchinaggio quotidiano dei bambini con i cosiddetti “colpi per uccidere” e il bombardamento di interi quartieri che seppelliscono vive le famiglie e spazzano via intere stirpi di parentela sia autodifesa.

Vogliono farti credere che un uomo che non mangia niente da oltre 72 ore, che continua a combattere anche quando ha solo un braccio funzionante, che quest’uomo è motivato da una ferocia innata e da un odio o una gelosia irrazionale verso gli ebrei piuttosto che dall’indomabile desiderio di vedere il suo popolo libero nella propria patria.

Per me è chiaro che non siamo qui per discutere se Israele sia uno Stato di apartheid o genocida. Questo dibattito riguarda in ultima analisi il valore delle vite palestinesi, il valore delle nostre scuole, dei nostri centri di ricerca, dei nostri libri, della nostra arte e dei nostri sogni, il valore delle case che abbiamo costruito per tutta la vita e che contengono i ricordi di generazioni, il valore della nostra umanità e della nostra capacità di agire, il valore dei corpi e delle ambizioni.

Perché se i ruoli fossero invertiti, se i palestinesi avessero trascorso gli ultimi ottant’anni a rubare le case degli ebrei, espellendoli, opprimendoli, imprigionandoli, avvelenandoli, torturandoli, violentandoli e uccidendoli,

se i palestinesi avessero ucciso circa 300.000 ebrei in un anno, preso di mira i loro giornalisti, i loro pensatori, i loro operatori sanitari, i loro atleti, i loro artisti, bombardato ogni ospedale, università, biblioteca, museo, centro culturale, sinagoga israeliano e contemporaneamente allestito una piattaforma di osservazione dove la gente veniva a guardare il loro massacro come se fosse un’attrazione turistica,

se i palestinesi li avessero radunati a centinaia di migliaia in fragili tende, bombardati in zone cosiddette sicure, bruciati vivi, bloccato cibo, acqua e medicine,

se i palestinesi avessero fatto vagare i bambini ebrei a piedi nudi con pentole vuote, se avessero fatto loro raccogliere la carne dei loro genitori in sacchetti di plastica,

se avessero fatto loro seppellire i loro fratelli e cugini e amici, li avessero fatti uscire di nascosto dalle loro tende nel cuore della notte per dormire sulle tombe dei loro genitori, li avessero fatti pregare di morire solo per unirsi alle loro famiglie e non essere più soli in questo mondo terribile, e li avessero terrorizzati così tanto che i loro bambini avessero perso i capelli, perso la memoria, perso la testa e fatto morire di infarto bambini di 4 e 5 anni, se costringessimo senza pietà i loro bambini ricoverati in terapia intensiva neonatale a morire da soli nei letti d’ospedale piangendo fino a non poterne più, morendo e decomponendosi nello stesso posto,

se i palestinesi avessero usato camion di aiuti con farina di grano per attirare ebrei affamati e poi avessero aperto il fuoco su di loro quando si erano radunati per raccogliere pane per un giorno, se i palestinesi avessero finalmente permesso una consegna di cibo in un rifugio con ebrei affamati e poi avessero dato fuoco all’intero rifugio e al camion degli aiuti prima che qualcuno potesse assaggiare il cibo,

se un cecchino palestinese si fosse vantato di aver fatto saltare 42 rotule di ebrei in un giorno come ha fatto un soldato israeliano nel 2019, se un palestinese avesse ammesso alla CNN di aver investito centinaia di ebrei con il suo carro armato con la loro carne schiacciata impigliata nei cingoli del carro armato,

se i palestinesi avessero sistematicamente violentato dottori ebrei, pazienti e altri prigionieri con barre di metallo rovente, bastoni seghettati ed elettrificati ed estintori, a volte violentandoli a morte, come è successo al dottor Adnan alBursh e ad altri, se le donne ebree fossero state costrette a partorire nella sporcizia, a subire tagli cesarei o amputazioni di gambe senza anestesia, se avessimo abbattuto i loro bambini e poi decorato i nostri carri armati con i loro giocattoli, se uccidessimo o cacciassimo le loro donne e poi posassimo con la loro lingerie…

se il mondo guardasse in diretta streaming l’annientamento sistematico degli ebrei in tempo reale non ci sarebbe alcun dibattito se ciò costituisca terrorismo o genocidio.

Eppure due palestinesi, io e Mohammad el-Kurd, ci siamo presentati qui per fare proprio questo sopportando l’umiliazione di discutere con coloro che pensano che le nostre uniche scelte di vita dovrebbero essere quella di lasciare la nostra patria, sottometterci alla loro supremazia o morire educatamente e in silenzio.

Ma sbagliereste a pensare che io sia venuta per convincervi di qualcosa. La risoluzione della Camera [vedi nota sotto il titolo], sebbene ben intenzionata e apprezzabile, ha poca importanza nel mezzo di questo olocausto del nostro tempo.

Sono venuta con lo spirito di Malcolm X e Jimmy Baldwin, entrambi presenti qui e a Cambridge prima che io nascessi, di fronte a mostri ben vestiti e ben parlanti che nutrivano le stesse ideologie suprematiste del sionismo: nozioni di diritto e privilegio, di essere favoriti, benedetti o eletti da Dio.

Sono qui per amore della storia. Per parlare a generazioni non ancora nate e per le cronache di questo periodo fuori dall’ordinario in cui il bombardamento a tappeto di società indigene indifese è legittimato.

Sono qui per le mie nonne, entrambe morte come profughe senza un soldo mentre ebrei stranieri vivevano nelle loro case rubate.

E sono anche venuta per parlare direttamente ai sionisti qui e ovunque.

Vi abbiamo fatto entrare nelle nostre case quando i vostri paesi hanno cercato di assassinarvi e tutti gli altri vi hanno respinto. Vi abbiamo nutrito e vestito, vi abbiamo dato un riparo e abbiamo condiviso con voi la generosità della nostra terra, e quando il momento è stato maturo ci avete cacciati dalle nostre case e dalla nostra patria, poi avete ucciso, derubato, bruciato e saccheggiato le nostre vite.

Ci avete lacerato il cuore perché è chiaro che non sapete come vivere nel mondo senza dominare gli altri.

Avete oltrepassato tutti i limiti e nutrito i più vili degli impulsi umani, ma il mondo sta finalmente intravedendo il terrore che abbiamo sopportato per mano vostra per così tanto tempo e sta vedendo chi siete in realtà, chi siete sempre stati. Osservano con assoluto stupore il sadismo, la felicità, la gioia e il piacere con cui conducete, osservate e applaudite i dettagli quotidiani della distruzione dei nostri corpi, delle nostre menti, del nostro futuro, del nostro passato.

Ma non importa cosa accadrà da qui in poi, non importa quali favole raccontate a voi stessi e al mondo, non apparterrete mai veramente a quella terra. Non capirete mai la sacralità degli ulivi, che avete tagliato e bruciato per decenni solo per farci dispetto e per spezzarci un po’ di più il cuore. Nessuno nativo di quella terra oserebbe fare una cosa del genere agli ulivi. Nessuno che appartenga a quella regione bombarderebbe o distruggerebbe mai un’eredità antica come Baalbak o Battir, o distruggerebbe antichi cimiteri come voi distruggete i nostri, come il cimitero anglicano a Gerusalemme o il luogo di riposo degli antichi studiosi e guerrieri musulmani a Maamanillah.

Coloro che provengono da quella terra non profanano i morti, ecco perché la mia famiglia per secoli è stata custode del cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi, come atto di fede e cura per ciò che sappiamo essere parte della nostra discendenza e della nostra storia.

I vostri antenati saranno sempre sepolti nelle vostre terre d’origine, in Polonia, Ucraina e altrove nel mondo da cui siete venuti. Il mito e il folklore della terra vi saranno sempre estranei.

Non sarete mai alfabetizzati al linguaggio sartoriale dei thobe che indossiamo, derivato dalla terra attraverso le nostre antenate nel corso dei secoli: ogni motivo, disegno e modello parla dei segreti della tradizione locale, della flora, degli uccelli, dei fiumi e della fauna selvatica.

Ciò che i vostri agenti immobiliari chiamano nei loro costosi annunci “vecchia casa araba” conterrà sempre nelle sue pietre le storie e i ricordi dei nostri antenati che le hanno costruite. Le antiche foto e i dipinti di quella terra non vi conterranno mai.

Non saprete mai cosa si prova a essere amati e sostenuti da coloro che non hanno nulla da guadagnare da te e, in effetti, tutto da perdere. Non conoscerete mai la sensazione delle masse in tutto il mondo che si riversano nelle strade e negli stadi per cantare e inneggiare alla vostra libertà, e non è perché siete ebrei, come cercate di far credere al mondo, ma perché siete dei colonizzatori violenti e depravati che pensano che la vostra ebraicità vi dia diritto alla casa che mio nonno e i suoi fratelli hanno costruito con le loro mani su terre che sono state della nostra famiglia per secoli. È perché il sionismo è una piaga per l’ebraismo e in effetti per l’umanità.

Potete cambiare i vostri nomi per farli suonare più attinenti alla regione e potete fingere che falafel, hummus e zaatar siano vostre antiche ricette, ma nei recessi del vostro essere sentirete sempre il pungiglione di questa pazzesca falsificazione e furto, ecco perché persino i disegni dei nostri figli appesi alle pareti dell’ONU o in un reparto di ospedale mandano i vostri leader e avvocati in crisi isteriche.

Non ci cancellerete, non importa quanti di noi ucciderete e ucciderete e ucciderete, tutto il giorno, tutti i giorni. Non siamo le rocce che Chaim Weizmann pensava avreste potuto spazzare via dalla terra. Siamo il suo stesso suolo. Noi siamo i suoi fiumi, i suoi alberi e le sue storie, perché tutto ciò è stato nutrito dai nostri corpi e dalle nostre vite nel corso di millenni di continua e ininterrotta abitazione di quel pezzo di terra tra il Giordano e le acque del Mediterraneo, dai nostri antenati cananei, ebrei, filistei e fenici, da ogni conquistatore o pellegrino che è venuto e se n’è andato, che si è sposato o ha violentato, amato, ridotto in schiavitù, si è convertito, insediato o ha pregato nella nostra terra lasciando pezzi di sé nei nostri corpi e nella nostra eredità.

Le storie leggendarie e tumultuose di quella terra sono letteralmente nel nostro DNA. Non potete ucciderlo o portarvelo via con la propaganda, non importa quale tecnologia di morte usate o quali arsenali di Hollywood e società di media schierate. Un giorno la vostra impunità e arroganza finiranno. La Palestina sarà libera, sarà restaurata alla sua gloria multireligiosa, multietnica e pluralistica, ripristineremo ed estenderemo i treni che vanno dal Cairo a Gaza, a Gerusalemme, Haifa, Tripoli, Beirut, Damasco, Amman, Kuwait, Sanaa e così via, porremo fine alla macchina da guerra sionista-americana di dominazione, espansione, estrazione, inquinamento e saccheggio.

… e voi o ve ne andrete, o imparerete finalmente a vivere con gli altri come pari.

*[antica e prestigiosa associazione universitaria britannica indipendente il 28 novembre ha votato che “Israele è uno stato di apartheid responsabile di genocidio”, n.d.t.]

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)