” Israele ha sempre fatto credere che l’occupazione fosse legale. La Corte Internazionale di Giustizia ora li terrorizza”

Ghousoon Bisharat

23 luglio 2024, 972 Magazine

L’avvocata palestinese Diana Buttu illustra l’opinione della Corte Internazionale di Giustizia sul regime militare israeliano e gli insegnamenti da seguire per applicare il diritto internazionale.

Venerdì 19 luglio la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha stabilito che l’occupazione israeliana della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, è illegale e deve cessare “il più rapidamente possibile”. La Corte ha affermato che Israele è obbligato ad astenersi immediatamente da ogni nuova attività di insediamento, a evacuare tutti i coloni dai territori occupati e a risarcire i palestinesi per i danni causati dal regime militare israeliano durato 57 anni. Ha inoltre affermato che alcune delle politiche di Israele nei territori occupati costituiscono il crimine di apartheid.

La sentenza, riconosciuta come parere consultivo, deriva da una richiesta del 2022 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e non è vincolante. Ma segna la prima volta che la massima corte mondiale esprime il suo punto di vista sulla legalità del controllo di Israele sui territori occupati e costituisce un netto ripudio delle difese legali a lungo prodotte da Israele.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha accolto con favore la sentenza, descrivendola come “un trionfo della giustizia” e invitando l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a considerare ulteriori misure per porre fine all’occupazione. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu l’ha liquidata come “assurda”, affermando: “Il popolo ebraico non è occupante nella propria terra, inclusa la nostra eterna capitale Gerusalemme, né in Giudea e Samaria [la Cisgiordania], la nostra patria storica”. Gli Stati Uniti hanno risposto affermando soltanto che gli insediamenti israeliani sono illegali e hanno criticato “l’ampiezza del parere della Corte” che, affermano, “complicherà gli sforzi per risolvere il conflitto”.

Per comprendere meglio il significato e la portata della sentenza, +972 Magazine ha parlato con Diana Buttu, un’avvocata palestinese che risiede ad Haifa ed è stata consulente legale dell’OLP dal 2000 al 2005. Durante quel periodo ha fatto parte del team che ha portato alla Corte Internazionale di Giustizia il caso riguardante il muro di separazione israeliano, il cui percorso la Corte ha dichiarato – in un altro parere consultivo non vincolante – illegale. L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.

Come si è sentita guardando il presidente della CIG Nawaf Salam leggere il parere della Corte?

Da un lato mi ha fatto molto piacere perché conferma tutto quello che io e tanti altri giuristi e attivisti diciamo da decenni. Ma d’altro canto continuavo a chiedermi: perché siamo dovuti arrivare fino alla Corte Internazionale di Giustizia? Perché le persone ascoltano un parere legale, ma non la nostra esperienza vissuta? Perché c’è voluto così tanto tempo per capire che ciò che Israele sta facendo è sbagliato?

Quanto è importante questa sentenza per i palestinesi?

È importante inserire la sentenza nel suo giusto contesto, come parere consultivo. Ci sono due vie per rivolgersi alla CIG. La prima è quando c’è una disputa tra due Stati, ed è quello che s’è visto con il Sudafrica contro Israele [sulla questione del genocidio a Gaza], e quelle decisioni sono vincolanti. La seconda è quando l’Assemblea Generale dell’ONU chiede chiarimenti o un parere legale su una questione; si tratta di un parere consultivo e non è vincolante.

Quindi, se si guarda al quadro generale, bisogna ricordare che l’uso dei tribunali e l’uso della legge sono solo uno strumento, non l’unico o lo strumento decisivo. Ciò non significa che non sia importante, o che un parere non vincolante non sia legge. Il problema più grande è come influenzerà i comportamenti futuri.

Qui è importante ricordare cosa è successo con la prima decisione della Corte Internazionale di Giustizia [sul muro di separazione di Israele], emessa il 9 luglio 2004. Anche se si trattava di un parere consultivo, ha costituito legge e, cosa più importante, è stato per questa decisione che abbiamo visto la crescita del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) – in effetti, il movimento è stato lanciato a livello internazionale esattamente un anno dopo.

Quindi le persone dovrebbero capire che non ci sarà mai una vittoria legale. L’occupazione non finirà attraverso tribunali e meccanismi legali: finirà quando Israele ne pagherà il prezzo. E sia che quel prezzo venga pagato all’esterno perché il mondo dice basta, o all’interno perché il sistema inizia a implodere, sarà una decisione israeliana quella di porre fine all’occupazione.

Il parere consultivo della CIG del 2004 fu una decisione storica, ma fece ben poco per contrastare la costruzione del muro di separazione o cambiarne il percorso. Pensa che la nuova sentenza abbia un peso diverso rispetto al passato o possa generare azioni politiche diverse?

SÌ. La decisione del 2004 è stata importante per alcuni motivi. In primo luogo, non solo ha affermato che il muro è illegale, ma ha anche parlato degli obblighi degli Stati terzi di rispettare il diritto internazionale umanitario e di non contribuire al danno. Ora, ha ragione, il muro è rimasto in piedi e la decisione non vincolante non ha fermato la costruzione, perché non è stata applicata. Tuttavia, ha cambiato il modo in cui diplomatici e altri si rapportavano al muro.

Dobbiamo anche ricordare che questo nuovo parere consultivo è molto più importante e ampio. La Corte fa a pezzi l’idea dei negoziati di pace, degli accordi di Oslo, dell’accettazione da parte dei palestinesi dell’occupazione permanente. E mentre i governi continuano a mantenere la loro posizione secondo cui i negoziati sono l’unica via da seguire, in ogni capitale del mondo ci sarà ora una nota legale in cui si afferma che la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso una sentenza [che i negoziati non possono privare la popolazione di paesi occupati dei diritti ai sensi della Convenzione di Ginevra].

Un’altra cosa importante è che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono stati normalizzati, e qui abbiamo una decisione che indebolisce questo principio, affermando che gli insediamenti e i coloni devono andarsene. Sulla base di questi elementi mi aspetto di iniziare a vedere un cambiamento nella politica. Potrebbe non accadere immediatamente, ma cambierà la mentalità del modo in cui le persone si rapporteranno all’occupazione.

Che tipo di cambiamento nella politica o nella mentalità si aspetta dalla comunità internazionale?

Posso fare l’esempio del Canada, dove sono nata. Il commento del Canada [sul procedimento della Corte Internazionale di Giustizia sul caso] è stato molto prevedibile: afferma che la Corte Internazionale di Giustizia ha giurisdizione su questa importante questione ma poi prosegue dicendo che il modo migliore per risolverla è attraverso i negoziati. Ma questo equivale a dire, e perdonate l’analogia, che una persona che viene picchiata deve semplicemente negoziare con il suo aggressore. Ora la Corte ha fatto piazza pulita di tutto ciò e ha stabilito chiaramente che esiste un occupante e un occupato. Quindi ora mi aspetto – e in realtà inizierò a chiedere – che il governo canadese cambi la sua posizione.

Un altro esempio in cui mi aspetto di vedere un cambiamento è la questione dei coloni. Se si considera il numero di coloni che vivono oggi nei territori occupati, una stima prudente è di 700.000. In rapporto ai 4 milioni di persone presenti nell’intero territorio [della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est], si tratta di una percentuale molto alta. E questo è importante perché dimostra che tanti coloni israeliani hanno interiorizzato e normalizzato l’occupazione.

La domanda è se i coloni israeliani si considereranno persone che vivono illegalmente sulla terra palestinese – e sospetto che la risposta sarà un no. Ma ciò che voglio pensare è che quell’azione e quella percezione non saranno più normalizzate, e che si riconosca che l’occupazione ha causato danni che devono finire. Israele ha fatto un buon lavoro nel normalizzare gli insediamenti, e non esiste più la Linea Verde [linea di confine stabilita negli accordi del 1949, ndt.] – la dichiarazione di Netanyahu di ieri [contro la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia] ne è la prova. Ma questo deve cambiare.

Penso che siamo in un momento simile a quello in cui eravamo negli anni ’80 con l’apartheid in Sud Africa. Allora i sostenitori dell’apartheid dicevano agli attivisti anti-apartheid che semplicemente non capivano la situazione. L’apartheid era del tutto normalizzato. Dieci anni dopo non lo era più. Ed eccoci qui, 30 anni dopo non si riuscirebbe a trovare una persona che dica che l’apartheid fosse una buona cosa.

C’è stato qualcosa nel parere consultivo che l’ha sorpresa?

Non sono rimasta sorpresa da molte cose, ma mi ha fatto piacere che ci fossero certi elementi. Uno di questi è stata l’attenzione su Gaza, perché dal 2005 Israele ha adottato una narrazione di “disimpegno” sostenendo che non ci sia alcuna occupazione. Molte organizzazioni per i diritti umani si sono battute per affermare che Gaza è effettivamente occupata, che esiste un effettivo controllo israeliano e che il livello di tale controllo è responsabilità di Israele. Sono felice di vedere che la Corte lo ha confermato e ha messo a tacere questa discussione, soprattutto perché non c’è stata, per quanto ne so, alcuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su questo argomento.

La seconda cosa che mi ha fatto molto piacere è che la Corte ha affermato che devono essere pagati dei risarcimenti e non solo sotto forma di smantellamento di tutti gli insediamenti, ma anche di abbandono dei coloni. E la terza cosa è l’idea che ai rifugiati sia permesso di ritornare [nelle case da cui erano fuggiti o da cui erano stati espulsi nel 1967]. Questo è un riconoscimento del danno che hanno causato 57 anni di occupazione militare. Sono rimasta felicemente sorpresa nel vedere la giudice australiana [Hilary Charlesworth] uscire allo scoperto e dire molto chiaramente che Israele non può rivendicare l’autodifesa per mantenere un’occupazione militare, o in relazione ad atti di resistenza contro l’occupazione. Lo sostengo da molto tempo ed è bello vedere una giudice fare le stesse osservazioni. E mentre nel complesso è d’accordo con l’opinione della Corte, la nuova giudice americana [presso la CIG] Sarah Cleveland, ha dato separatamente un’opinione molto interessante: ha sostenuto che la sentenza avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle responsabilità di Israele ai sensi della legge sull’occupazione specificatamente nei confronti di Gaza, sia prima del 7 ottobre che ora.

I politici israeliani, sia al governo che all’opposizione, hanno respinto l’opinione della Corte Internazionale di Giustizia bollandola come antisemita e prevenuta. Pensa che queste reazioni nascondano preoccupazioni o paure autentiche?

Sì, la paura di essere denunciati per i razzisti che sono, e che potrebbero effettivamente dover porre fine all’occupazione. Potrebbero esserci anche delle azioni a livello mondiale [per fare pressione su Israele]. Sono preoccupati anche perché sono innanzitutto loro che hanno portato lì i coloni, e potrebbero esserci richieste da parte dei coloni di essere ricompensati per andarsene.

Netanyahu non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza della Palestina. Proprio l’altro giorno abbiamo assistito al voto della Knesset contro la creazione di uno Stato palestinese. E non sono stati solo quelli del Likud, o gli [Itamar] Ben Gvir e [Bezalel] Smotrich a sottoscriverlo, ma anche altri legislatori, tra cui [Benny] Gantz. Non hanno mai riconosciuto ciò che hanno fatto nel 1948 o il danno che stanno causando oggi. Invece, sono guidati da questo concetto di supremazia ebraica – secondo cui solo loro hanno diritto a questa terra.

Israele ha sempre spacciato l’occupazione come in qualche modo legale, e le sue azioni come giuste e corrette con le stupide pretese di un “esercito morale”. Non esiste un esercito morale al mondo: come puoi uccidere moralmente le persone? Affermano che ci si può rivolgere all’Alta Corte israeliana ma ogni palestinese sa che non si può ottenere giustizia da un tribunale che è stato istituito come braccio dell’occupazione. Ora, quando c’è un tribunale che guarda dall’esterno e dice che quello che stanno facendo è illegale, per loro è ovviamente allarmante.

Il Sudafrica dell’apartheid si è comportato allo stesso modo quando ha dovuto fare i conti con le opinioni della Corte Internazionale di Giustizia. Alla fine di ogni parere della Corte Internazionale di Giustizia il governo dell’apartheid era solito esprimere la stessa linea: che solo il Sudafrica può giudicare il Sudafrica, il che significa che solo un sistema razzista può giudicare se il sistema è razzista. Questo è ciò che dice Israele: solo noi, il sistema razzista, possiamo determinare se è razzista. Ma poi esci di casa e vedi che le regole internazionali confermano che il sistema è razzista e deve essere smantellato. Questo è spaventoso per Israele.

Alcuni israeliani esperti di diritto internazionale stanno minimizzando il significato del parere della Corte Internazionale di Giustizia, sottolineando che non è vincolante e sostenendo che la Corte non ha detto che l’occupazione è illegale, ma solo che è illegale per Israele disobbedire alle regole dell’occupazione. Come considera queste affermazioni?

Hanno ragione, ma minimizzare è solo una perdita di tempo. Secondo il diritto internazionale ci può essere un’occupazione legale ma solo come stato temporaneo per un breve periodo di tempo al fine di ristabilire la legge e l’ordine ed eliminare le minacce. Il problema con l’occupazione israeliana non è solo la durata, ma il fatto che non è mai stata concepita come temporanea. Dal 1967 Israele ha affermato che non rinuncerà mai alla Cisgiordania. Hanno negato che i palestinesi abbiano diritti su questa terra e quasi immediatamente hanno iniziato la costruzione e l’espansione degli insediamenti. La durata e la prassi sono ciò che rende illegale l’occupazione israeliana.

Questi stessi giuristi israeliani non riconoscono cosa rappresenti il danno. Mantenere un’occupazione richiede violenza. Conquistare terre, costruire posti di blocco, costruire insediamenti, gestire un sistema giudiziario militare e un regime di permessi, rapire bambini nel cuore della notte, demolire case e rubare acqua: tutto ciò che questa occupazione comporta è violento. Quindi gli esperti israeliani possono provare a minimizzare la sentenza quanto vogliono, ma farebbero bene a mettervi finalmente fine, invece di trovare modi per abbellire l’occupazione.

Lei afferma che le azioni di Israele furono illegali fin dal primo giorno dell’occupazione del 1967. Ritiene che l’attuale governo, o gli ultimi 15 anni di governo di Netanyahu, siano più pericolosi di quelli precedenti? Oppure si stiano sostanzialmente continuando le stesse politiche nei confronti dei palestinesi e dei territori occupati che vediamo da più di mezzo secolo?

È lo stesso ed è diverso. È lo stesso perché non c’è stato un governo israeliano dal 1967 che abbia fermato l’espansione degli insediamenti. Può prendere in considerazione qualsiasi altro problema in Israele e i governi hanno avuto politiche diverse, ma questo li unisce. Quindi non importa che si tratti del Labour, del Likud o di Kadima; sotto questo aspetto Netanyahu non è diverso.

L’unica cosa nuova è che questo governo sia così sfacciato riguardo alla sua posizione. Mentre in passato ci potevano essere persone che parlavano di una soluzione a due Stati, Netanyahu è stato molto chiaro durante tutto il suo mandato sul fatto che non ci sarà mai uno Stato palestinese e che i palestinesi non hanno diritti.

Lei è stata a lungo critica nei confronti dell’Autorità Palestinese per i suoi fallimenti. Come crede che gestiranno questa sentenza e le altre recenti procedure presso la CIG e la Corte Penale Internazionale, sia sul piano diplomatico che sul territorio?

Uno dei grossi problemi nel 2004 era che non avevamo una leadership palestinese che spingesse per l’attuazione della decisione della Corte Internazionale di Giustizia [sul muro di separazione]. Pensavano ancora che quello fosse il periodo d’oro dei negoziati, vivevano ancora in un mondo fantastico. Ed è per questo che il movimento BDS ha finito per farsi avanti e premere.

Questa volta sono davvero preoccupata perché se c’è una cosa chiara in questa decisione è [una critica a] tutte quelle cosiddette “generose offerte [israeliane]” che i palestinesi hanno dovuto sopportare. La Corte Internazionale di Giustizia chiarisce che [i territori palestinesi occupati] non sono territorio israeliano con cui essere generosi. Non solo, il parere della Corte Internazionale di Giustizia è un atto d’accusa contro Oslo: afferma che non importa cosa sia stato firmato, la Palestina ha ancora il diritto all’autodeterminazione e nessun accordo può sostituire tale diritto.

Il mio timore è che Abu Mazen [il presidente Mahmoud Abbas] conosca un solo concetto, ovvero i negoziati. Temo che vedremo abbastanza pressioni da parte degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale da spingerlo a dire che va tutto molto bene, ma che crede che i negoziati siano l’unica via da seguire.

E se dovesse dare un consiglio all’Autorità Palestinese, come suggerirebbe di procedere?

L’Autorità Palestinese dovrebbe andare di capitale in capitale per sostenere l’idea che gli insediamenti sono illegali e che i coloni devono andarsene. Non prenderei in considerazione l’idea di scambi di terre, come è stato fatto in passato. Non prenderei in considerazione l’ipotesi di negoziare adesso; non sono male come metodo, ma i negoziati devono pur riguardare qualcosa. Se dovessero, ad esempio, negoziare sui pesticidi, o sull’economia, o sulla circolazione delle persone, andrebbe tutto bene. Ma negoziare sui propri diritti è veramente ripugnante, e non posso credere che ci siano persone che pensano ancora in questi termini nel 2024.

Quindi consiglierei loro di fare tutto il possibile per assicurarsi che gli insediamenti e i coloni vengano rimossi – cosa che non dovrebbe essere oggetto di negoziati – e che Israele inizi a pagare un prezzo. Capisco che il presidente palestinese è sotto occupazione militare e che l’economia è sotto il controllo di Israele. Ma è necessario che questa dipendenza venga interrotta.

Come può la leadership palestinese utilizzare questa decisione della Corte Internazionale di Giustizia per spingere con più forza per la fine della guerra a Gaza?

Non penso che l’attuale leadership sia in grado di fare qualcosa per Gaza. È molto triste per me dirlo, ma ho la sensazione che a molti di loro non importi nulla di Gaza.

E se parliamo della leadership palestinese nel suo insieme, non solo dell’Autorità Palestinese?

Per prima cosa dobbiamo avere una leadership palestinese che si formi attraverso le elezioni. La mia paura ora per Gaza è che si parli [a livello internazionale] di “chi” [chi prenderà il controllo], e non si parli realmente di “cosa”. La gente punta dicendo che questa o quella persona sarebbe buona, poi in qualche modo finisce per consolidarsi attorno ad Abu Mazen, come se non ci fosse nessun altro in Palestina capace di essere un leader.

Nessuno vorrà entrare in gioco e diventare il capo dell’Autorità Palestinese [come è adesso]. C’è una ragione per cui non c’è stato un colpo di Stato a Ramallah da quando Abu Mazen è salito al potere: è un lavoro ingrato e stupido in cui sei effettivamente il subappaltatore della sicurezza per Israele.

Ciò che deve emergere è una leadership eletta credibile con una strategia e una visione globale per tutti i palestinesi, ma soprattutto in questo momento per Gaza. E per me dovrebbero focalizzarsi sull’idea di accusare Israele di tutto ciò che ha fatto, in particolare dopo il 7 ottobre.

È sconsolante sentire in continuazione [da commentatori e politici internazionali] che nulla giustifica [l’attacco di Hamas del] 7 ottobre e tuttavia tutto ciò che Israele fa a Gaza è giustificato dal 7 ottobre. Dobbiamo iniziare a fare breccia in questa ideologia e addossare a Israele le sue colpe – allora si potrà iniziare a ricostruire Gaza.

Spero che una nuova leadership palestinese unita ed eletta faccia un passo indietro, valuti Oslo e gli errori commessi e valuti le circostanze attuali per andare avanti. Non penso che l’attuale leadership sia in grado di condurre questa riflessione su di sé.

L’OLP ha sempre avuto questa ossessione che il processo decisionale palestinese fosse nelle mani dei palestinesi, e oggi l’Autorità Palestinese mantiene la stessa ossessione. Ma se l’Autorità Palestinese non gestirà correttamente questo momento, e sospetto che non lo farà, vedremo molti più attivisti, il movimento BDS e altri a livello internazionale prendere il testimone.

La sentenza si concentra sui territori palestinesi occupati da Israele dal 1967. Alcuni direbbero che è un ambito molto ristretto, che ignora i crimini e le violazioni risalenti al 1948, e che potrebbe costringere i palestinesi ad accettare un futuro solo nei confini del 1967. Come affronta i limiti di questa sentenza per la causa palestinese?

Questa è stata la prima critica alla posizione della Corte Internazionale di Giustizia, e condivido questa critica: concentrandosi solo sul ’67 si dà un lasciapassare a Israele. L’unico modo per comprendere l’occupazione è capire cosa ha fatto Israele durante la Nakba e durante l’era del governo militare [all’interno di Israele], sotto il quale i cittadini palestinesi hanno vissuto per 19 anni fino al ’66. L’idea che si possano separare i due [1948 e 1967] è un’invenzione.

Per l’Autorità Palestinese ci sono due ragioni principali per concentrarsi sul 1967: la prima è che vedono l’occupazione come un danno diretto che deve essere riparato, e la seconda è che penso che abbiano rinunciato al [terreno usurpato nel] 1948 decenni fa – non solo con la firma di Oslo, ma ancor prima con la Dichiarazione di Indipendenza dell’OLP del 1988.

Per l’Autorità Palestinese c’è anche un contesto politico ristretto. In molti modi hanno rinunciato ai risarcimenti per la Nakba, il che di fatto significa che stanno rinunciando al diritto al ritorno. Potrebbero anche sostenere di essere favorevoli, ma io semplicemente non lo vedo.

C’è modo di parlare del ’48 e avere ancora un’idea di compromesso politico. Questa è stata la posizione palestinese per molti anni, ma negli ultimi vent’anni non è stata quella dell’Autorità Palestinese. Quando mi allontano e guardo la loro posizione, penso che ci sia una forte convinzione politica che alla fine rinunceremo sul ’48 – non solo al territorio ma anche alla narrazione – per cercare di preservare ciò che resta del ’67.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Funzionari dell’amministrazione Biden che si sono dimessi a causa di Gaza affermano che gli USA hanno distrutto il diritto internazionale e hanno messo in pericolo gli americani

Philip Weiss

23 luglio 2024 – Mondoweiss

L’amministrazione Biden sopprime l’ampio dissenso al suo interno riguardo alla sua politica su Gaza, imponendo una “cultura del silenzio”, affermano alcuni di coloro che si sono dimessi.

Joe Biden ha ottenuto un’infinità di consensi dai democratici per il suo record di successi realizzati durante un solo mandato.

Ma il record di Biden sarà per sempre offuscato dal suo appoggio all’aggressione israeliana a Gaza che attraverso l’utilizzo di munizioni americane ha distrutto città e ucciso decine di migliaia di civili.

Con un notevole gesto di resistenza, 12 funzionari dell’amministrazione Biden hanno pubblicamente rassegnato le dimissioni piuttosto di portare avanti la sua politica. Il 4 luglio hanno pubblicato una lettera di “dissenso dal servizio” che definiva la politica USA “moralmente riprovevole” e “un fallimento”.

La lettera – che ha ottenuto scarsa attenzione dai media – affermava che le scelte di Biden “mettono a rischio gli interessi USA in tutta la regione.” Si riferiva agli interessi politici e economici ed anche al danno per la “credibilità” degli USA.

La scorsa settimana nove dei firmatari sono intervenuti in un webinar del gruppo di esperti DAWN sul Medio Oriente. Riassumerò i punti principali.

Alexander Smith, un ex funzionario di USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale) che si è dimesso a maggio, ha detto che, difendendo il comportamento israeliano, gli USA hanno distrutto “il sistema della legislazione sui diritti umani” creato dopo la seconda guerra mondiale.

E’ sconvolgente e davvero desolante vedere gli USA prendere ora la decisione di distruggere sostanzialmente il sistema internazionale dei diritti umani che è stato costruito dopo la seconda guerra mondiale”, ha detto.

Gli USA non sono mai stati parte attiva del diritto internazionale, ha detto Smith. “Ma non abbiamo cercato attivamente di distruggere quel sistema e di ostacolarlo. Non abbiamo cercato di affermare in modo formale che queste persone sono persone e queste altre non sono persone, fino ad ora.”

Smith ha detto che la condotta degli USA è agli antipodi delle loro azioni in Ucraina. USAID ha dei video molto eclatanti relativi al suo lavoro di aiuto agli ucraini. Quando i russi hanno bombardato un ospedale gli USA hanno espresso sdegno. Ma Israele ha bombardato 36 ospedali a Gaza col pieno sostegno degli USA.

Stacy Gilbert, una funzionaria di lungo corso del Dipartimento di Stato, ha dato le dimissioni dopo che l’amministrazione a maggio ha pubblicato un rapporto del Dipartimento di Stato/Dipartimento della Difesa (un NSM-20) che affermava che Israele non stava bloccando gli aiuti umanitari, anche se Gaza stava affrontando la carestia.

Pensavo che questa amministrazione non avrebbe falsificato i fatti”, ha detto Gilbert. “Vedere scritto in una relazione congiunta al Congresso un fatto così ovviamente dimostrabile come falso mi ha sconvolta. Quando il rapporto è uscito il 10 maggio è stato il momento in cui ho comunicato che mi sarei dimessa.”

Gilbert ha detto che lei “era in una posizione unica avendo elaborato quel rapporto per poter dire ‘Non è vero, tutti sanno che non è vero,’”

Così tanti funzionari di Biden sono contrari alla politica su Gaza che ora vi è una “cultura del silenzio” all’interno dell’amministrazione, ha detto Maryam Hassanein, un’ex collaboratrice del Dipartimento degli Interni che si è dimessa all’inizio di questo mese:

Una delle questioni principali è la cultura pervasiva del silenzio nel momento di una grave crisi – specificamente, il genocidio che sta avvenendo. Almeno all’interno del mio ente, ci si aspettava che la crisi, indotta dalle azioni israeliane e dal finanziamento e dal consenso USA, non dovesse essere materia di esplicita discussione.”

Lily Greenberg Call, un’ex funzionaria degli Interni, ha ribadito questo aspetto. “C’era una vasta cultura del silenzio e una paura di menzionare queste cose perché non erano, cito, ‘rilevanti per il nostro lavoro’”, ha detto.

Hassanein ha detto che lo scorso anno l’amministrazione ha tenuto “sessioni di ascolto” per dar voce alle preoccupazioni del personale, ma esse hanno dato a molte persone l’impressione di essere ignorate.

Hassanein ha aggiunto che vi è “una significativa quota di dissenso nell’amministrazione”. Molte persone hanno silenziosamente lasciato l’amministrazione. Altre stanno lavorando all’interno per organizzare interruzioni del lavoro e azioni di protesta.

Smith ha detto di essersi dimesso la scorsa primavera dopo che il suo previsto intervento sugli effetti della carestia sulla salute di mamme e bambini a Gaza è stato improvvisamente cancellato. Non si trattava di un discorso politico, ma di un intervento che constatava “i fatti” relativi agli effetti sulle donne incinte e sui bambini di “quando si affama una popolazione”.

Quell’intervento è stato improvvisamente cancellato dalla programmazione della conferenza…proprio all’ultimo momento”, ha detto Smith. “E’ stato davvero desolante” assistere a questo mentre l’amministrazione Biden si esprime apertamente sulle condizioni in Ucraina. “Per me i diritti umani sono universali”.

Il Dipartimento di Stato sta vanificando gli sforzi per avvertire i funzionari americani che potrebbero essere perseguiti per il loro ruolo in un genocidio, ha detto Josh Paul, un ex alto funzionario di Stato.

Paul ha detto che quando gli USA hanno fornito armi per l’attacco saudita allo Yemen “è stata inviata alle alte sfere una nota legale e non è stata approvata”, che avvertiva della responsabilità giuridica delle singole persone in conseguenza alla loro complicità in quegli attacchi. Ciò è accaduto solo perché “un avvocato molto coraggioso” ha redatto la nota.

Quella persona non lavora più per il Dipartimento di Stato in parte per quel motivo”, ha detto Paul. Nel caso della guerra di Gaza nessun individuo di quel tipo sta scrivendo simili avvertimenti.

A nessuno è consentito neppure di discutere i danni per l’interesse nazionale USA, dice Annelle Sheline, ex funzionaria del Dipartimento di Stato.

Non so se c’è un modo per noi di riguadagnare credibilità come difensori dello stato di diritto e dei diritti umani”, dice Sheline.

C’è urgente necessità di discutere un cambio di politica, ma il governo non lo permetterà, dice. “Per anni ogni seria discussione su un ripensamento della politica USA è stata attivamente negata o sottoposta ad autocensura, sia all’interno che all’esterno del governo. E’ qualcosa che ho osservato al (Dipartimento di) Stato prima del 7 ottobre.”

L’amministrazione Biden non solo avalla attivamente il genocidio, ma sta procurando un danno irreparabile alla sicurezza nazionale”, dice Sheline.

Per esempio, “il perseguimento della competizione tra grandi potenze era davvero un obbiettivo strategico” per la Casa Bianca – per superare Cina e Russia a livello mondiale. Ma quell’obbiettivo è stato messo da parte quando si è trattato di sostenere Israele.

Gli esperti hanno elencato molte leggi USA che l’amministrazione Biden sta infrangendo.

Tariq Habash ha detto di aver dovuto lasciare il Dipartimento dell’Educazione a causa della “quasi quotidiana disumanizzazione delle vite dei palestinesi e nel vedere le nostre armi fornite incondizionatamente provocare la morte e la distruzione di così tante persone e infrastrutture civili.”

Quella è stata la linea rossa di Habash perché lui è palestinese, ma ha detto di avere punti di intesa con altri impiegati federali. Vedono che la politica USA ha “minato lo status dell’America in tutto il mondo e….in realtà ha reso meno sicuri gli americani qui a casa loro.”

Harrison Mann, un ex funzionario dell’intelligence della Difesa, ha ribadito il concetto che la politica di Biden reca danno agli americani.

Abbiamo rivoltato l’opinione mondiale, e specialmente quella regionale, contro gli Stati Uniti in un modo tale che non avevamo visto forse dall’invasione dell’Iraq. Questo alimenta l’odio che indubbiamente provocherà il terrorismo in futuro. Penso sia solo questione di tempo perché raccogliamo ciò che abbiamo seminato laggiù.”

Il mondo sa che Israele non potrebbe sostenere l’intensità e la portata del suo attacco senza “l’inesauribile flusso” di armi dagli Stati Uniti, e la guerra ha fatto stare tutti peggio. Mann ha detto:

Israele ha fatto di sé stesso un paria mondiale ed ha trascinato con sé gli USA. Penso che gli Stati Uniti abbiano definitivamente perso la capacità di usare un ragionamento basato sui valori per mobilitare gli alleati mondiali.

Philip Weiss

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net ed ha creato il sito nel 2005-2006.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Biden avrebbe dovuto rinunciare a causa di Gaza, ma la sua uscita di scena potrebbe essere un punto di svolta

Prem Thakker

21 luglio 2024 – The Intercept

Kamala Harris è meno gravata dal disastroso appoggio di Biden alla guerra di Israele, suscitando qualche speranza nei sostenitori dei palestinesi.

Domenica, alla vigilia della visita del primo ministro Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti, il presidente Joe Biden ha annunciato che non correrà per la rielezione nel 2024.

Mentre l’annuncio potrebbe aver dissipato le preoccupazioni generali che circondavano la capacità di governare del candidato democratico, soprattutto rispetto al candidato repubblicano Donald Trump, aleggia ancora in modo consistente sulla campagna elettorale la questione che ha provocato proteste di massa contro il candidato democratico: il sostegno pressoché incondizionato di Biden alla guerra di Israele contro Gaza.

Durante tutti i bombardamenti israeliani contro Gaza Biden ha tenuto un atteggiamento sostanzialmente deferente e solidale. Ora alcuni vedono la sua rinuncia come una possibilità per rivedere la politica USA verso Israele.

L’ex-incaricato politico di Biden per il ministero dell’Educazione Tariq Habash, che ha dato le dimissioni a gennaio per protesta contro la politica di Biden nella guerra di Gaza, nota che una parte significativa della base è già disillusa da Biden a causa della sua ritrosia nell’applicare le leggi statunitensi e nel chiamare Israele a rispondere delle violazioni delle leggi umanitarie internazionali. La decisione di Biden giunge anche solo due giorni dopo che la Corte Internazionale di Giustizia ha stabilito che l’occupazione israeliana della Palestina rappresenta una forma illegittima di apartheid.

“Chiunque sostituisca il presidente nella candidatura deve dimostrare agli elettori che ci sarà un sostanziale cambiamento di politica che ponga fine alla disumanizzazione dei palestinesi e sostenga i diritti umani dei palestinesi, le leggi internazionali e la pace,” ha detto Habash.

“Ovviamente sia i democratici che i repubblicani devono percorrere un lungo cammino,” ha aggiunto. “La visita di Netanyahu questa settimana è emblematica di questo, come lo è il rifiuto del presidente Biden di attenersi alla sua linea rossa, di applicare la [legge] Leahy [legge che proibisce di fornire assistenza a Stati che violano i diritti umani, ndtr.] o quella sull’Assistenza all’Estero [che vieta di fornire assistenza a Paesi che violano i diritti umani, ndt.], di raggiungere un cessate il fuoco permanente o il ritorno degli ostaggi palestinesi e israeliani.”

Molti critici hanno notato che la posizione di Biden sulla guerra di Israele ha rivelato segnali preoccupanti sulla sua capacità di governo e duttilità molto prima del fatidico dibattito [con Donald Trump] di giugno.”

“Non è stato il fallimento del dibattito di Biden a mostrare che non è adatto a governare. Sono state le decine di migliaia di bombe che ha spedito per uccidere le famiglie palestinesi,” ha affermato in un comunicato la U.S. Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi]. “Il rifiuto di Biden di rispettare le leggi internazionali o di applicare le leggi USA ha aggravato l’illegale occupazione militare israeliana. Venerdì l’ultimo parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che ogni Stato ha l’obbligo legale ‘di non fornire aiuto o assistenza alla perpetuazione della situazione creata dal rifiuto israeliano di rispettare i diritti dei palestinesi.”

Riley Livermore, maggiore dell’aeronautica militare, che quando ha dato le dimissioni a giugno ha affermato che l’amministrazione Biden “è complice di genocidio”, sostiene che, indipendentemente da chi sostituirà Biden, l’attuale contingenza presenta la possibilità di un punto di svolta nella politica statunitense riguardo alla guerra di Israele.

“Ciò detto, Biden non si è ritirato a causa delle pressioni su quanto è stata brutale la sua politica a Gaza. Dal mio punto di vista il genocidio in corso a Gaza ha avuto un impatto da minimo a nullo sulle pressioni perché rinunciasse. Sono ancora sconfortato dal fatto che al partito Democratico non importi dei palestinesi e continui ad offrire un sostegno incondizionato a Israele,” dice Livermore a The Intercept, ripetendo di aver dato le dimissioni a causa delle politiche di Biden su Gaza, non per la sua età.

Un importante consigliere democratico ha detto a The Intercept di essere stato molto preoccupato del procedimento affrettato per rimpiazzare il candidato, e che questo non ha avuto molto a che fare riguardo a come il sostegno di Biden a una guerra che a Gaza ha ucciso 15.000 minori possa aver irreparabilmente danneggiato le sue possibilità tra segmenti fondamentali dell’elettorato: “Il Paese ha bisogno di ascoltare un candidato contrario alla guerra che veda i palestinesi come esseri umani,” afferma. “È importante che il nostro prossimo candidato sia scelto attraverso un processo democratico in una convention aperta.”

Biden, molti rappresentanti eletti e assemblee di partito hanno già reso noto il loro sostegno alla vicepresidente Kamala Harris perché guidi il binomio democratico a novembre. E ci sono stati segnali che lei potrebbe allontanarsi dal sostegno incondizionato di Biden alla campagna militare israeliana a Gaza.

Alla fine dello scorso anno Harris avrebbe sollecitato la Casa Bianca ad essere più sensibile verso le sofferenze dei palestinesi e più decisa contro Netanyahu per cercare una pace a lungo termine. A marzo a Selma, Alabama, Harris ha fatto un discorso chiedendo con forza un “immediato cessate il fuoco” e sollecitando Israele a fare di più per incrementare il flusso di aiuti a Gaza. “Non ci sono scusanti,” ha insistito. Mentre sembrava che il discorso segnasse un cambiamento nella posizione dell’amministrazione sulla guerra, sono emerse alcune informazioni secondo cui funzionari del Consiglio per la Sicurezza Nazionale avevano edulcorato parti del suo intervento.

“Dobbiamo avere un obiettivo su cui iniziare a lavorare subito, per la pace e misure di sicurezza uguali per israeliani e palestinesi.” In seguito, sempre a marzo, Harris ha detto: “I palestinesi hanno il diritto all’autodeterminazione, alla dignità e dovremmo lavorare su questo.”

Queste notizie non sono passate inosservate alle persone che sperano in un cambiamento nella politica USA.

Livermore dice di essere fiducioso che se Harris diventerà il prossimo presidente coglierà l’opportunità per cambiare drasticamente la posizione statunitense verso Israele. “Harris ha l’alternativa tra ascoltare la sua umanità e la volontà della stragrande maggioranza del popolo americano o dare retta ai donatori e a particolari gruppi di interesse, continuando a rendere il genocidio parte del suo programma e così facendo a delegittimare gli Stati Uniti sul piano internazionale.”

“Dirigenti come me ed altri leader religiosi afroamericani che hanno firmato lettere aperte per fare pressione su Biden affinché chieda un cessate il fuoco permanente a Gaza pensano che, se candidata, Harris sarebbe molto più solidale con la causa palestinese,” ha affermato in una dichiarazione il reverendo Michael McBride, pastore e fondatore del Black Church PAC [Comitato delle Chiese Afroamericane]. “Ciò potrebbe contribuire a rivitalizzare una parte della base decisamente dubbiosa sul voto a Biden.”

Anche Waleed Shahid, cofondatore del Uncommitted National Movement [Movimento Nazionale Non Impegnato], che ha raccolto oltre 700.000 persone in tutto il Paese che hanno espresso voti di protesta contro l’appoggio incondizionato di Biden a Israele, ha notato una maggiore disponibilità dei dissenzienti nei confronti di Harris.

“Anche se non è affatto un’esponente della causa [palestinese], ho sentito molte persone notare che la vicepresidente Harris ha manifestato una reazione emotiva profondamente diversa verso le storie delle sofferenze dei palestinesi rispetto al presidente Biden,” ha affermato in una dichiarazione. “Mentre la vicepresidenza ha poteri limitati, molti ritengono che lei rappresenterebbe un miglioramento rispetto alla gravissima mancanza di empatia di Biden per i palestinesi e ai suoi legami con la vecchia guardia dell’AIPAC [principale associazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] all’interno del partito. Tuttavia scontrarsi con il potere dell’AIPAC nell’establishment del partito Democratico rimane un arduo compito indipendentemente da chi sia il candidato.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un mostruoso progetto di frode e autoinganno; quello che agli israeliani sfugge sugli insediamenti

Iris Leal

22 luglio 2024 – Haaretz/Opinioni

Mercoledì scorso ero a Kfar Tapuah, un insediamento coloniale nella Samaria [Giudea e Samaria sono i nomi usati da Israele per indicare la Cisgiordania, ndt.]. Il sole picchiava e una giovane donna, che spende i suoi giorni a tormentare i palestinesi rendendo la loro vita un inferno, passava tra due roulotte con un aspetto sciatto e trasandato.

Prima che partissimo da lì tre giovani hanno notato il nome Majdi sul nostro minibus, ci hanno inseguito, hanno picchiato sul cofano del motore e hanno preteso, davanti all’autista terrorizzato, di sapere perché a un arabo fosse stato permesso di entrare nella loro comunità.

Così giovani, eppure erano già esperti su come effettuare una profilazione razziale. Questa è l’immagine che ho portato con me da questo tour giornalistico organizzato dalla Geneve Iniziative [istituzione internazionale nata dall’Accordo di Ginevra tra Israeliani e Palestinesi elaborato nei 2003 a Ginevra, ndt.], una donna e alcuni giovani che immaginano di vivere in un mondo in cui possono impossessarsi della terra e tenersela senza impedimenti, perché i loro rappresentanti parlamentari esercitano un potere inimmaginabile.

Questo è il movimento di insediamento coloniale di cui parlano Bezalel Smotrich e Orit Strock di Sionismo Religioso, questo è il volto del “miracolo”. Non solo blocchi di insediamenti, ma anche alcune roulotte a Kfar Tapuah ed Evyatar che hanno come fine ultimo leliminazione di ogni possibilità di risolvere il conflitto con mezzi pacifici.

Oltre ad essere un progetto di rapina le colonie sono anche un enorme progetto di frode e autoinganno, che tutto Israele ha felicemente abbracciato. Neanche 24 ore dopo la Knesset  avrebbe adottato una risoluzione secondo la quale “La Knesset israeliana si oppone totalmente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest del fiume Giordano”.

Un gruppo di persone ricche di fantasia che credono che dopo decenni di sanguinosa lotta nazionale palestinese saranno in grado di convincere milioni di persone ad essere sudditi nelle proprie terre, una terra che non hanno mai smesso di considerare come la loro patria. Zeev Elkin ha twittato, come uno sposo la prima notte di nozze, che la creazione di uno Stato palestinese nel cuore del Paese farebbe sì che il conflitto non abbia fine, al che mi sono chiesta: ma quale allucinogeno si è fumato?

Nel corso degli anni del suo governo Benjamin Netanyahu ha gestito il conflitto partendo dal falso presupposto che lesistenza dei palestinesi potesse essere cancellata dalla memoria, in Israele e allestero, ignorando la loro richiesta di uno Stato proprio. Riguardo agli Accordi di Abramo [accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein del 13 agosto 2020,ndt.] ha detto con soddisfazione che sono la testimonianza di pace in cambio di pace e non di terra in cambio di pace.

Il 7 ottobre è stata una terribile dimostrazione del suo errore, e la consapevolezza mondiale della grave situazione dei palestinesi e della necessità fondamentale di una soluzione diplomatica non è mai stata così forte. Ma invece di correggere lerrore la Knesset lo ha scolpito nella pietra.

Il che ci porta alla sentenza di venerdì della Corte Internazionale di Giustizia. Per batterla sul tempo Smotrich ha annunciato che quella Corte è un’istituzione politica e antisemita, e che “noi traiamo la fonte del nostro diritto su tutte le parti della terra d’Israele dalla promessa divina”.

I giudici della corte mondiale sono rimasti meno impressionati dalla promessa divina e più dalla realtà, e hanno stabilito che la presenza israeliana in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è illegale; che le azioni che Israele porta avanti in questi territori, compresa la costruzione di insediamenti coloniali e la loro espansione, equivalgono allannessione di ampie aree del territorio palestinese; che Israele non riesce a prevenire la violenza dei coloni contro i palestinesi e a punire i colpevoli; che sequestra la terra per l’insediamento dei coloni; e, cosa ancora più vergognosa, che Israele sta attuando un sistema di segregazione razziale tale da configurarsi probabilmente come regime di apartheid.

La risposta alla sentenza da parte di esponenti del sionismo religioso è stata unanime: “La risposta all’Aja – supremazia subito“. Netanyahu ha annunciato che nessuna nazione può essere considerata forza di occupazione nel proprio territorio, mentre il leader dellopposizione Yair Lapid ha affermato che la sentenza è lontana dalla realtà e viziata da antisemitismo.

Da Smotrich a Lapid, dalla destra messianica al centrosinistra, tutti scelgono di negare loccupazione e il fatto che essa sia la questione decisiva delle nostre vite.

I leader ciechi e codardi, che hanno lasciato la sinistra radicale a trattare con la realtà, continueranno a reprimere lespressione della parola apartheid. Ma tutti, su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949, ndt.] che Israele ha cancellato, sentiranno presto le conseguenze della sentenza dellAia. Il gioco è finito.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’IDF vaccina i soldati israeliani contro la poliomielite dopo che è stata trovata un’elevata concentrazione di virus nelle acque reflue di Gaza

Ido Efrati

21 luglio 2024 – Haaretz

Secondo le informazioni in possesso dell’esercito israeliano non vi è alcuna conferma di casi clinici della malattia a Gaza, ma esiste una reale preoccupazione per una possibile epidemia di poliomielite, soprattutto date le condizioni a Gaza

Domenica l’esercito israeliano inizierà a vaccinare contro la poliomielite tutti i soldati che operano a Gaza o sono in procinto di entrarvi dopo che è stata trovata un’alta concentrazione del virus nelle acque reflue della Striscia.

La vaccinazione dei soldati avrà luogo in Israele nelle prossime settimane. L’esercito afferma che, in base alle informazioni in suo possesso, non ci sono casi attivi di poliomielite tra gli abitanti di Gaza.

Mercoledì scorso l’esercito è stato informato dal Ministero della Sanità che nei campioni di liquami di Gaza sotto monitoraggio era stata trovata un’alta concentrazione di poliovirus.

Di conseguenza il Ministero della Sanità e il Corpo medico dell’IDF [esercito israeliano, ndt.] hanno effettuato una valutazione e hanno deciso di lanciare una campagna di vaccinazione antipolio per tutte le forze di terra a Gaza, comprese le forze di combattimento e le forze ausiliarie.

In Israele i vaccini antipolio vengono somministrati durante linfanzia nell’ambito del programma di vaccinazione di routine e il tasso di vaccinazione è del 95%. Pertanto, i soldati ora a Gaza sono stati precedentemente vaccinati contro il virus.

Ciononostante, dopo una valutazione della situazione condotta dallIDF, con la partecipazione della responsabile del servizio sanitario pubblico, dott.ssa Sharon Elroi-Price e degli alti funzionari del Corpo medico, è stato raccomandato che i soldati venissero nuovamente vaccinati per ridurre ulteriormente il rischio di infezione e di trasmissione del virus in Israele.

Tuttavia, in considerazione del basso rischio, non vi è alcuna urgenza di vaccinare i soldati attualmente a Gaza, per cui verranno vaccinati in Israele durante le pause o le sostituzioni dei contingenti.

Lesercito ha già iniziato a vaccinare le truppe che dovrebbero entrare presto a Gaza. Entro due o tre settimane tutti i soldati che si trovano attualmente a Gaza o che siano in procinto di entrarvi dovrebbero essere vaccinati.

Inoltre, il personale medico militare a Gaza è stato informato sulla campagna di vaccinazione e gli è stato chiesto di ribadire le regole per mantenere ligiene personale sul campo e di prestare particolare attenzione alla comparsa di eventuali sintomi che potrebbero indicare la presenza della malattia.

L’IDF sottolinea che i soldati non utilizzano in alcun modo il sistema idrico locale di Gaza e che l’esercito porta regolarmente grandi quantità di acqua da Israele, tra cui milioni di bottiglie d’acqua per bere e lavarsi, tonnellate di ghiaccio, nonché docce da campo, sapone e salviette disinfettanti.

Per quanto riguarda una possibile epidemia di poliomielite a Gaza, l’esercito afferma che, secondo le informazioni in suo possesso, non vi è alcuna conferma di casi clinici della malattia, ma che esiste una reale preoccupazione per una possibile epidemia, soprattutto date le condizioni a Gaza. L’esercito e il Ministero della Sanità continueranno a monitorare le acque reflue e a seguire le informazioni mediche provenienti da Gaza.

Lesistenza del virus nei campioni di acque reflue non significa che esistano casi reali di infezione da poliomielite. Nel 2023, un milione di bambini israeliani è stato vaccinato attraverso una rapida campagna nazionale dopo che il virus è stato trovato in dei campioni di acque reflue, sebbene non sia stato diagnosticato un singolo caso clinico.

Nel 2022 in Israele è stato documentato un solo caso di poliomielite, il primo dal 1988, che ha portato a una campagna di vaccinazione incentrata su un aumento del tasso di vaccinazione in alcune aree di Gerusalemme dove la minaccia era concentrata.

L’infezione dal virus può verificarsi attraverso l’ingestione di acqua potabile contaminata, poiché il virus può essere trasmesso attraverso la saliva e le feci. Esistono tre diversi tipi di virus e la maggior parte delle persone infette non sviluppa alcun sintomo oppure manifesta sintomi lievi come febbre, perdita di appetito, mal di gola e debolezza, tipici di molte altre malattie.

Il 4-8% delle persone infette sviluppa una meningite lieve che si risolve completamente in modo spontaneo entro pochi giorni. Una piccola minoranza di casi – circa uno su mille – può sviluppare sintomi di paralisi.

Inoltre, se il virus penetra nel sistema nervoso può causare insufficienza respiratoria, che è una delle complicanze più comuni e pericolose della malattia.

Il vaccino antipolio viene normalmente somministrato in Israele in sei dosi: quattro contenenti virus inattivato e due contenenti virus vivo indebolito, somministrate in età compresa tra due e 18 mesi. Una dose di richiamo viene somministrata nell’ambito del ciclo di vaccinazioni alletà di sette anni in seconda elementare.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Incolpare la lobby israeliana per le politiche del Medio Oriente occidentale è fuorviante

Joseph Massad

16 luglio 2024 – Middle East Eye

Sostenere che la lobby israeliana controlli la politica statunitense in Medio Oriente equivale ad assolvere gli Stati Uniti dalla responsabilità delle loro politiche imperialiste nel mondo arabo.

Nelle ultime settimane la lobby israeliana è stata sempre più presente sul piano mediatico nel contesto delle stagioni elettorali in corso nel Regno Unito, in Francia e negli Stati Uniti.

Proliferano articoli sugli ingenti fondi che la lobby israeliana del Regno Unito ha donato ai candidati alle recenti elezioni, sull’interferenza ministeriale israeliana nelle recenti elezioni francesi o sulla sconfitta del rappresentante [democratico, ndt.] del Congresso degli Stati Uniti Jamaal Bowman a causa del sostegno del suo avversario da parte dell’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), la più influente lobby filo-israeliana negli Stati Uniti.

Ciò si aggiunge alla copertura mediatica del ruolo che la lobby ha svolto dal 7 ottobre nel mettere a tacere le critiche a Israele e al suo genocidio a Gaza.

Come ho sostenuto in precedenti occasioni, spesso un’intensa fibrillazione affligge molti sostenitori filo-palestinesi negli Stati Uniti e nel mondo arabo quando le macchinazioni della lobby israeliana vengono denunciate dalla stampa occidentale.

Questa si basa sulla loro percezione che, una volta consapevole del potere eccessivo di questa lobby, l’opinione pubblica statunitense e occidentale correggerà le aberrazioni della politica estera statunitense nei confronti dei palestinesi e del Medio Oriente causate, secondo loro, dallinterferenza della lobby.

Il presupposto comune tra questi americani e arabi filo-occidentali che sostengono i palestinesi è che senza la lobby israeliana il governo degli Stati Uniti e le altre potenze occidentali diventerebbero più amichevoli o, per lo meno, molto meno ostili nei confronti di arabi e palestinesi.

Il fascino di questa argomentazione si fonda sull’intrinseca assoluzione del governo americano da ogni responsabilità e senso di colpa che merita per le sue politiche nel mondo arabo.

[Tale teoria] cerca di spostare la colpa delle politiche statunitensi dagli Stati Uniti su Israele e sulla sua lobby americana e dà false speranze a molti arabi e palestinesi che desiderano che lAmerica sia dalla loro parte invece che dalla parte dei loro nemici.

Studi critici

Per almeno mezzo secolo il formidabile potere delle lobby nel decidere le elezioni nei paesi occidentali e la loro influenza sulle università, sulla stampa e sulle istituzioni culturali ed educative sono stati oggetto di numerosi libri e articoli.

Forse la prima argomentazione di questo tipo, anche se esprimeva lievi critiche nei confronti delle forze filo-israeliane negli Stati Uniti, fu un articolo che George Ball, sottosegretario di Stato nelle amministrazioni Johnson e Kennedy, pubblicò su Foreign Affairs nel 1977.

Ball e suo figlio pubblicarono successivamente in forma di libro uno studio completo sull’argomento.

Tra gli altri libri pubblicati nel decennio successivo, They Dare to Speak Out: People and Institutions Confront Israel’s Lobby [Hanno il coraggio di parlare: persone e istituzioni si confrontano con la lobby israeliana, ndt] di Paul Findley del 1985. Findley era un ex deputato repubblicano degli Stati Uniti la cui campagna di rielezione fu impedita dalla lobby israeliana nel 1982 dopo che egli era rimasto in carica per 11 mandati alla Camera dei Rappresentanti.

Un ex presidente dell’Aipac descrisse Findley come “un pericoloso nemico di Israele”, cosa che ha portato alla sua fine politica.

Un altro libro sullo stesso tema, The Lobby: Jewish Political Power and American Foreign Policy [Potere politico ebraico e politica estera americana, ndt.], dellex giornalista del Time Magazine Edward Tivnan, fu pubblicato nel 1987.

Tuttavia, è stato solo quando nel 2006 gli eminenti politologi John Mearsheimer e Stephen Walt pubblicarono un articolo sulla lobby israeliana e la politica estera degli Stati Uniti, che hanno poi ampliato e pubblicato come libro nel 2008, che il suo ruolo nel plasmare la politica è diventato un argomento fondamentale di discussione nel mainstream statunitense, anche se solo per diffamare i suoi autori e difendere la lobby dalle loro convincenti argomentazioni.

Oltre alle valutazioni oggettive del ruolo della lobby israeliana, esiste una raccolta eterogenea di teorie cospirative antisemite e suprematiste bianche sulla presunta influenza degli “ebrei” nei Paesi occidentali e sul loro presunto controllo sul governo degli Stati Uniti.

Tuttavia i commentatori favorevoli alla lobby israeliana se ne servono come una clava da abbattere su coloro che avanzano critiche valide, che non hanno nulla a che fare con lantisemitismo – un trattamento riservato, tra gli altri, a Mearsheimer e Walt.

Discussioni sensate e ragionevoli sulla lobby israeliana spaziano tra coloro che sostengono che senza la formidabile influenza della lobby la politica statunitense nei confronti del Medio Oriente sarebbe meno ostile nei confronti dei palestinesi e coloro che credono che linfluenza della lobby non si estenda oltre un sostegno in grado di favorire il percorso dell’attuale politica statunitense verso una direzione già decisa.

La mia visione è sempre stata più vicina a questultima.

Un “nemico implacabile”

Sostenere che la lobby israeliana controlli la politica statunitense in Medio Oriente equivale ad assolvere gli Stati Uniti dalla responsabilità di tutte le loro politiche imperialiste nel mondo arabo e nel Medio Oriente in generale a partire dalla Seconda Guerra Mondiale.

Invece tale ipotesi afferma che Israele e la sua lobby avrebbero spinto gli Stati Uniti ad attuare politiche contrarie ai propri interessi nazionali e che portano benefici solo ad Israele.

Inoltre sottolinea che il fatto che il blocco degli Stati Uniti a tutto il sostegno internazionale e delle Nazioni Unite verso diritti dei palestinesi mentre armano e finanziano Israele nella sua guerra contro una popolazione civile e lo proteggono dalla collera della comunità globale, non dovrebbe essere imputato agli Stati Uniti e ai suoi alleati occidentali ma a Israele e alla sua lobby.

Ciò che questa linea di pensiero nasconde è il fatto che il governo degli Stati Uniti non ha mai sostenuto la liberazione nazionale nel Terzo Mondo.

Il primato degli Stati Uniti è quello di essere il nemico implacabile di tutti i gruppi di liberazione nazionale, compresi quelli europei, dalla Grecia allAmerica Latina, allAfrica e allAsia.

Il suo sostegno a gruppi come i mujaheddin afgani nella loro guerra contro il governo rivoluzionario afghano e lUnione Sovietica; Unita e Renamo, i principali alleati terroristici del Sudafrica dell’apartheid in Angola e Mozambico contro i rispettivi governi nazionali rivoluzionari anticoloniali; e i Contras contro il governo rivoluzionario sandinista in Nicaragua, sono tutti casi in cui gli Stati Uniti hanno sostenuto gruppi controrivoluzionari intenti a distruggere i governi rivoluzionari di liberazione nazionale.

Quindi il motivo per cui gli Stati Uniti se non fosse per la lobby israeliana sosterrebbero la liberazione nazionale palestinese è qualcosa che questa teoria non riesce a spiegare.

Quando ho avanzato queste argomentazioni per la prima volta ventanni fa nel corso di una conversazione, un accademico cristiano americano bianco filo-palestinese ha obiettato insistendo sul fatto che gli Stati Uniti hanno sostenuto il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser contro linvasione tripartita dellEgitto del 1956 da parte di Francia, Gran Bretagna e Israele.

Ma il sostegno degli Stati Uniti in questo sporadico caso, come gli ho ribattuto, era rivolto a tarpare le ali di Francia e Gran Bretagna. Questi ex imperi pensavano di poter ancora agire secondo uno stile imperiale dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando furono gli Stati Uniti a salvarli dallaggressione nazista.

Gli Stati Uniti si opposero inoltre alla decisione di Israele di coordinare la sua aggressione all’Egitto con questi ex imperi piuttosto che con il proprio governo.

Israele si rese presto conto che avrebbe potuto invece perseguire analoghe aggressioni contro i suoi vicini in coordinamento con gli Stati Uniti. Come previsto, gli Stati Uniti non si opposero affatto a nessuna delle successive invasioni israeliane (1967, 1978, 1981, 1982, 1985, ecc.) dei vicini Paesi arabi.

Interessi imperiali americani

Un argomento correlato secondo cui l’influenza della lobby israeliana sul governo degli Stati Uniti sarebbe ciò che ha portato all’invasione americana dell’Iraq è altrettanto poco convincente.

Questo non vuol dire che la lobby non abbia sostenuto attivamente lo sforzo bellico guidato dagli Stati Uniti (lo ha certamente fatto). Tuttavia stava semplicemente sollecitando una guerra già voluta e pianificata sulla base di interessi imperiali politici ed economici americani di importanza di gran lunga superiore.

Linvasione dellIraq segue una politica coerente degli Stati Uniti sin dalla Seconda Guerra Mondiale volta a rovesciare tutti i regimi del Terzo Mondo che insistono nel controllare le loro risorse nazionali, siano esse terra, petrolio o altri minerali preziosi.

Ciò si estende dallIran nel 1953 al Guatemala nel 1954, al resto dellAmerica Latina, fino agli attuali Venezuela e Iran.

Negli ultimi sessantanni in Africa così come nei Paesi asiatici è andata molto peggio.

Il rovesciamento di regimi tra cui quello di Jacobo Arbenz in Guatemala, di Joao Goulart in Brasile, di Mohammed Mossadegh in Iran, di Patrice Lumumba in Congo e di Salvador Allende in Cile, e i tentativi di rovesciare Hugo Chavez e Nicolas Maduro, sono esempi importanti, così come lo sono il rovesciamento di regimi nazionalisti come quello di Ahmad Sukarno in Indonesia e di Kwame Nkrumah in Ghana.

Il terrore scatenato contro le popolazioni che sfidavano i regimi imposti dagli Stati Uniti, da El Salvador e Nicaragua al Congo, e più tardi in Zaire, Cile Indonesia, ha provocato luccisione di centinaia di migliaia, se non milioni, in seguito alla repressione della polizia e dei militari addestrati a questi compiti importanti da parte degli Stati Uniti.

A ciò si aggiungono le invasioni dirette degli Stati Uniti dei Paesi del sud-est asiatico e dellAmerica centrale che nell’arco di decenni hanno ucciso milioni di persone.

Dato che la lobby israeliana non ha avuto alcun ruolo in tutte queste altre invasioni o interventi, perché allora gli Stati Uniti non avrebbero invaso lIraq (o lAfghanistan) o non avrebbero smesso di minacciare lIran autonomamente? Queste sono questioni politiche che i sostenitori della presunta presa mortale della lobby israeliana sul governo degli Stati Uniti non saranno mai in grado di spiegare.

Una simile linea di argomentazione sarebbe stata più convincente se la lobby israeliana avesse costretto il governo degli Stati Uniti a perseguire politiche in Medio Oriente incoerenti con le sue politiche globali altrove.

Ma la situazione è ben diversa.

Agende sovrapposte

Sebbene le politiche statunitensi in Medio Oriente possano spesso assumere un carattere più spietato rispetto alle loro politiche repressive e antidemocratiche in altre parti del mondo non mostrano delle incongruenze.

Si potrebbe facilmente sostenere che la forza della lobby israeliana è ciò che in realtà spiega questo carattere più spietato, ma anche questa affermazione non è del tutto convincente.

Ho spesso sostenuto che è proprio la centralità di Israele nella strategia statunitense in Medio Oriente a spiegare, in parte, la forza della lobby israeliana e non il contrario.

In effetti, alcuni citano come prova dello straordinario potere della lobby il ruolo dei membri filo-israeliani, e soprattutto pro-Likud, dellamministrazione Bush (o anche dellamministrazione Clinton), per non parlare di quelli di Obama, Trump o Biden, insieme ai miliardari americani filo-israeliani.

Tuttavia si potrebbe sostenere che sono stati questi politici e miliardari statunitensi che, a partire dagli anni 90, hanno spinto il Likud e altri partiti politici israeliani ad abbracciare unagenda più aggressiva. Istigazione che oggi persiste nel contesto della guerra genocida di Israele contro i palestinesi di Gaza.

Ciò non vuol dire che i leader della lobby israeliana non si vantino regolarmente della loro influenza cruciale sulla politica statunitense al Congresso e alla Casa Bianca.

Recentemente hanno celebrato il loro successo nello sconfiggere Bowman e si sono regolarmente vantati del loro ruolo dalla fine degli anni ’70.

Ma la lobby è potente negli Stati Uniti perché le sue principali rivendicazioni riguardano la promozione degli interessi statunitensi e il suo sostegno a Israele è contestualizzato nel sostegno al militarismo americano e alla sua strategia complessiva in Medio Oriente.

La lobby israeliana svolge oggi lo stesso ruolo che negli anni ’50 svolgeva nel caso della Cina a sostegno di Taiwan contro la Repubblica popolare cinese e che, riguardo Cuba, svolge ancora contro il governo rivoluzionario cubano e a sostegno degli esuli cubani controrivoluzionari.

Il fatto che la lobby israeliana sia più influente di qualsiasi altra lobby nella politica estera degli Stati Uniti non è perché disponga di un enorme potere tale da allontanare gli Stati Uniti dal suo interesse nazionale”. Semmai dimostra solo quanto sia importante Israele per la strategia globale degli Stati Uniti.

La lobby israeliana non potrebbe vendere il suo messaggio e non avrebbe alcuna influenza se Israele fosse un Paese comunista o antimperialista o se si opponesse alla politica statunitense in altre parti del mondo. In effetti, questa sarebbe un’ipotesi ridicola.

Approvazione araba

Alcuni sostengono che, per quanto comunque Israele faccia in modo di far coincidere i propri interessi con quelli degli Stati Uniti, la sua lobby ingannerebbe deliberatamente i politici statunitensi spostando la loro posizione da una valutazione obiettiva su quanto sarebbe realmente nel miglior interesse dell’America e quanto di Israele.

La tesi è che il sostegno degli Stati Uniti a Israele porterebbe i gruppi politici e militanti in Medio Oriente che si oppongono a Israele a diventare ostili agli stessi Stati Uniti e a prenderli di mira con attacchi.

Tale sostegno costerebbe agli Stati Uniti anche la perdita di una copertura mediatica amichevole nel mondo arabo, inciderebbe sul potenziale di investimento nei Paesi arabi e indebolirebbe i suoi alleati regionali arabi.

Ma nulla di tutto ciò è necessariamente vero.

Gli Stati Uniti sono stati in grado di essere il più grande sostenitore e finanziatore di Israele, nonché il suo più convinto difensore e fornitore di armi, pur mantenendo alleanze strategiche con la maggior parte, se non tutte, le dittature arabe, compresa lAutorità Nazionale Palestinese, sia sotto Yasser Arafat che con Mahmoud Abbas.

In effetti, più gli Stati Uniti sono intransigenti nel sostenere lattuale genocidio dei palestinesi da parte di Israele, più esso viene abbracciato dai governanti arabi fantoccio.

Inoltre le società e gli investimenti statunitensi hanno la più ampia presenza in tutto il mondo arabo, soprattutto, ma non esclusivamente, nel settore petrolifero.

Un intero esercito di giornali arabi, stazioni televisive private e statali e una miriade di stazioni televisive satellitari di proprietà dei principi arabi del Golfo, per non parlare degli enormi siti web e dei notiziari internet finanziati da ONG occidentali, sono schierati per promuovere il punto di vista degli Stati Uniti.

Celebrano la cultura americana, trasmettono i suoi programmi televisivi e tentano di vendere le posizioni statunitensi nel modo più efficace possibile, ostacolati solo dalle limitazioni poste dal buon senso in considerazione delle politiche statunitensi nella regione.

Anche la trasgressiva rete Al Jazeera si è fatta in quattro per accogliere il punto di vista degli Stati Uniti ma, ancora una volta, è spesso minata dalle attuali politiche statunitensi nella regione.

Sotto la tremenda pressione e la minaccia di bombardamento da parte degli Stati Uniti durante l’invasione dell’Iraq Al Jazeera ha smesso di riferirsi alle forze armate statunitensi in Iraq come “forze di occupazione”, optando per “forze della coalizione”.

Beneficio reciproco

Nelle loro argomentazioni finanziarie sullenorme influenza della lobby israeliana molti sottolineano la fantastica quantità di denaro che gli Stati Uniti danno” a Israele – un costo troppo esorbitante e sproporzionato rispetto a ciò che gli Stati Uniti ottengono in cambio.

In effetti, gli Stati Uniti spendono molto di più per le proprie basi militari nel mondo arabo, tra cui Qatar, Bahrein, Giordania, Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti – per non parlare di quelle in Europa, Africa o Asia – rispetto a quanto spendano per Israele.

Tra il 7 ottobre 2023 e il gennaio 2024, gli Stati Uniti hanno speso 1,6 miliardi di dollari per il rafforzamento militare in Medio Oriente in funzione della difesa dei propri interessi imperiali. Tra il 2001 e il 2019, gli Stati Uniti hanno speso 6,4 trilioni di dollari solo nelle guerre in Afghanistan, Iraq, Siria e Pakistan.

Israele è stato davvero molto efficace nel fornire servizi a buon prezzo al suo padrone americano, sia convogliando armi illegali verso le dittature centroamericane negli anni 70 e 80, sia aiutando regimi paria come Taiwan e il Sud Africa dellapartheid nello stesso periodo.

Ha inoltre sostenuto organizzazioni filo-americane, comprese quelle fasciste, allinterno del mondo arabo per indebolire i regimi arabi nazionalisti, dal Libano allIraq al Sudan.

È venuto in aiuto di regimi arabi conservatori filoamericani quando minacciati, come in Giordania nel 1970. E ha aggredito senza indugio regimi nazionalisti arabi: nel 1967 lEgitto e la Siria e nel 1981 lIraq quando distrusse il reattore nucleare del paese.

Mentre a metà degli anni 60 gli Stati Uniti erano riusciti a rovesciare Sukarno e Nkrumah con sanguinosi colpi di Stato, Nasser rimase saldo al potere finché Israele non lo neutralizzò definitivamente nella guerra del 1967.

È grazie a questo importante servizio che gli Stati Uniti hanno aumentato in modo esponenziale il loro sostegno a Israele.

Inoltre la neutralizzazione dellOLP da parte di Israele nel 1982 fu un servizio non trascurabile a molti regimi arabi e ai loro protettori statunitensi, che fino ad allora non erano riusciti a controllare completamente lorganizzazione.

Nessuna delle basi militari americane per le quali vengono spesi molti più miliardi può vantare un record così stellare.

Alcuni potrebbero ribattere col sostenere che se ciò fosse vero allora perché gli Stati Uniti avrebbero dovuto intervenire direttamente in Kuwait e Iraq?

In quei casi fu necessario lintervento diretto degli Stati Uniti non potendo essi fare affidamento su Israele per delicatezza, in quanto includerlo in una tale coalizione avrebbe messo in imbarazzo gli alleati arabi. Sebbene ciò possa aver mostrato un’inutilità di Israele come alleato strategico, gli Stati Uniti non potevano fare affidamento su nessuna delle sue basi militari per sferrare le invasioni e hanno dovuto inviare il proprio esercito per completare il lavoro.

Le basi americane nel Golfo hanno fornito un supporto essenziale, ma lo stesso ha fatto Israele.

È vero che l’operazione Alluvione al-Aqsa ha completamente ribaltato l’importanza militare strategica di Israele per gli Stati Uniti.

La sconfitta militare di Israele contro la resistenza palestinese continua a richiedere l’aiuto militare americano e britannico. Le sue richieste di sostegno occidentale sono iniziate già l8 ottobre al fine di puntellare la sua potenza militare, con ulteriori richieste di rinforzi in aprile.

Gli Stati Uniti, il Regno Unito e le basi statunitensi in Giordania hanno svolto la maggior parte del lavoro nella difesa di Israele dalle ritorsioni missilistiche iraniane in seguito al bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco.

Tuttavia per gli Stati Uniti le evidenti debolezze di Israele non hanno alterato il ruolo che svolge nella regione. Ciò include la distruzione di ogni resistenza agli interessi statunitensi e di tutto ciò che potrebbe indebolire la sua strategia, compresa la posizione di Israele nel contesto.

Affermazioni esagerate

Essendo la forza più importante della lobby israeliana l’Aipac è davvero potente nella misura in cui incoraggia politiche che si accordino con gli interessi degli Stati Uniti e siano in sintonia con l’ideologia imperiale dominante degli Stati Uniti.

Gli ultimi nove mesi hanno ampiamente chiarito che il potere della lobby israeliana, sia a Washington che nei campus universitari, non si basa esclusivamente sulle sue capacità organizzative o sullomogeneità ideologica.

Affermazioni esagerate da parte della lobby – e dei suoi nemici – riguardo al suo reale potere agiscono non poco su inclinazioni antisemite proprie di leader del Congresso, decisori politici e amministratori universitari consolidando le loro convinzioni, con il risultato che essi si adeguano alla linea.

In un contesto del genere, non importa se la lobby abbia un potere reale o immaginario.

Finché leader di governo e, più in particolare, amministratori universitari crederanno che sia così sulla base dei loro pregiudizi antisemiti o di valutazioni oggettive, essa rimarrà efficace e potente.

Qualcuno potrebbe quindi chiedersi: senza tale influenza da parte di una potente lobby israeliana, cosa sarebbe cambiato nella politica statunitense in Medio Oriente?

La risposta, in breve, sta nei dettagli e nellintensità, ma non nella direzione, nel contenuto o nellimpatto di tali politiche.

Quindi la lobby israeliana è così tanto potente negli Stati Uniti?

Avendo affrontato tutto il peso del suo potere negli ultimi due decenni attraverso la sua enorme influenza sulla mia università e le intense campagne di pressione per farmi licenziare rispondo con un sì deciso.

È la lobby la principale responsabile delle politiche statunitensi nei confronti dei palestinesi e del mondo arabo? Assolutamente no.

Il mondo arabo, e soprattutto i palestinesi, si oppongono agli Stati Uniti a causa della loro storia di continue politiche ostili agli interessi della maggior parte delle persone in quei Paesi.

Il suo unico obiettivo è stato quello di salvaguardare i propri interessi e quelli della minoranza dei regimi che nella regione servono tali interessi, compreso Israele.

È solo con la fine di politiche dannose da parte degli Stati Uniti, e non della lobby che le sostiene, che il genocidio israeliano in corso contro i palestinesi potrebbe cessare.

Il governo degli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali sono quelli che hanno la piena responsabilità di favorire, incoraggiare e difendere il diritto di Israele a commettere un genocidio contro i palestinesi.

Gli sforzi della lobby israeliana per far sì che gli Stati Uniti sostengano Israele ancor più di quanto non facciano sono un atto di complicità nel genocidio in corso, ma certamente non sono la causa principale di questo mostruoso crimine.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele vuole riscrivere le leggi della guerra

Neve Gordon

15 luglio 2024 – Al Jazeera

Se il mondo accetta il modo in cui Israele ora interpreta il principio di proporzionalità, allora il genocidio finirà per essere giustificato.

La maggior parte delle persone probabilmente non lo sa, ma Wikipedia ha una pagina intitolataElenco degli omicidi israeliani”. Inizia nel luglio 1956 e si estende per oltre 68 anni fino ad oggi. La maggioranza sulla lista è palestinese; tra loro ci sono famosi leader palestinesi tra cui Ghassan Kanafani del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina; Khalil Ibrahim al-Wazir di Fatah – noto anche come Abu Jihad; Sheikh Ahmed Yassin di Hamas e Fathi Shaqaqi della Jihad islamica palestinese.

Osservando il lungo elenco è impossibile non notare che il numero degli omicidi e degli attentati compiuti da Israele nel corso degli anni è aumentato in modo esponenziale: da 14 negli anni 70 a ben oltre 150 nel primo decennio del nuovo millennio e 24 dal gennaio 2020.

Mi sono ricordato di questo elenco quando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato il 13 luglio una conferenza stampa per celebrare il tentativo di Israele di uccidere il comandante militare di Hamas Mohammed Deif a Gaza. Aerei da combattimento e droni israeliani avevano appena colpito il campo di al-Mawasi, che ora ospita circa 80.000 palestinesi sfollati che vivono in tende densamente popolate.

Nel giro di pochi minuti di bombardamento i piloti hanno massacrato almeno 90 palestinesi, tra cui decine di donne e minori, ferendo altre 300 persone. Tutto ciò è avvenuto in unarea che Israele aveva precedentemente designato come zona sicura”. Mentre immagini raccapriccianti di cadaveri carbonizzati e fatti a pezzi riempivano i social media, sono emerse notizie secondo cui Israele ha utilizzato diverse bombe telecomandate da mezza tonnellata prodotte negli Stati Uniti.

Nella sua conferenza stampa presso la sede del Ministero della Difesa a Tel Aviv, poche ore dopo questo bagno di sangue, Netanyahu ha ammesso di non essere assolutamente certo” che Deif fosse stato ucciso, ma ha sostenuto che è proprio il tentativo di assassinare i comandanti di Hamas trasmette un messaggio al mondo, che i giorni di Hamas sono contati”.

Eppure anche una rapida lettura della Lista degli omicidi israeliani” rende chiaro che Netanyahu stava parlando con una lingua biforcuta. Sa fin troppo bene che lassassinio da parte di Israele dei leader politici di Hamas Sheik Yassin e Abdel Aziz al-Rantisi o dei leader militari Yahya Ayyash e Salah Shehade ha fatto ben poco per indebolire il movimento e potrebbe averne aumentato il seguito.

Semmai, anni e anni di omicidi israeliani dimostrano che servono principalmente ai leader israeliani per assecondare e mobilitare i propri elettori. La recente conferenza stampa di Netanyahu non fa eccezione.

Ma per quanto macabra sia la lista di Wikipedia, i nomi in essa contenuti raccontano solo una storia parziale. Questo perché non vi è incluso il numero di civili uccisi durante ogni tentativo di omicidio riuscito o fallito.

Ad esempio, lattacco del 13 luglio è stato lottavo attentato alla vita di Deif, ed è difficile calcolare il numero totale di civili che Israele ha ucciso nel tentativo di assassinarlo. Lelenco di Wikipedia tralascia di registrare come laumento degli omicidi abbia portato a un aumento esponenziale delle morti di civili.

Ciò si chiarisce se confrontiamo lattuale politica di assassinio di Israele con la sua politica durante la Seconda Intifada palestinese. Quando nel 2002 Israele assassinò il capo delle Brigate Qassam di Hamas, Salah Shehade, furono uccise 15 persone tra cui Shehade, sua moglie, la figlia di 15 anni e altri otto minori.

Dopo lattacco ci fu una protesta pubblica in Israele per la perdita di vite civili, con 27 piloti israeliani che firmarono una lettera rifiutandosi di effettuare missioni assassine su Gaza. Quasi un decennio dopo una commissione dinchiesta israeliana scoprì che, a causa di un errore nella raccolta di informazioni”, i comandanti non sapevano che in quel momento cerano dei civili presenti negli edifici adiacenti, e se lo avessero saputo avrebbero annullato lattacco.

I risultati della commissione sono in linea con le leggi sui conflitti armati, che consentono, o almeno tollerano, l’uccisione di civili che non partecipano direttamente alle ostilità purché tali uccisioni non siano “eccessive” rispetto all’utile militare “concreto e diretto” che il belligerante si aspetta di ottenere dallattacco.

Questa regola, nota come principio di proporzionalità, è concepita per garantire che i fini di unoperazione militare giustifichino i mezzi, soppesando il vantaggio militare previsto rispetto al danno civile che ci si aspetta.

Oggi, tuttavia, siamo lontani anni luce dalle conclusioni della commissione sia per quanto riguarda lo spettro di violenze che Israele ha adottato sia per le giustificazioni legali che ora fornisce.

In primo luogo, le forme di guerra israeliane sono cambiate radicalmente dal 2002. Secondo lorganizzazione israeliana Breaking the Silence, composta da veterani militari, due dottrine hanno guidato gli assalti israeliani a Gaza dal 2008. La prima è “nessuna perdita”, e stabilisce che, per proteggere i soldati israeliani, i civili palestinesi possano essere uccisi impunemente; la seconda dottrina raccomanda di attaccare intenzionalmente i siti civili per scoraggiare Hamas.

Non sorprende che queste dottrine abbiano portato a stragi di massa che, secondo le leggi sui conflitti armati, costituiscono crimini di guerra e crimini contro lumanità. Di conseguenza, gli avvocati militari israeliani hanno dovuto modificare la loro interpretazione delle leggi sui conflitti armati in modo da allinearsi alle nuove strategie di guerra.

Se ventanni fa luccisione di 14 civili durante lassassinio di un leader di Hamas era considerata sproporzionata e quindi un crimine di guerra dalla commissione dinchiesta israeliana, nelle prime settimane dopo il 7 ottobre i militari hanno deciso che per ogni giovane agente di Hamas fosse consentito uccidere fino a 15 o 20 civili. Se l’obiettivo è un alto funzionario di Hamas, i militari autorizzano l’uccisione di più di 100 civili per l’assassinio di un solo comandante”.

Ciò potrebbe sembrare vergognoso ma un ufficiale del Dipartimento di Diritto Internazionale dellesercito israeliano in unintervista del 2009 per il quotidiano Haaretz è stato molto schietto riguardo a tali cambiamenti: Il nostro obiettivo militare è quello di non limitare lesercito, ma di dargli gli strumenti per vincere in modo lecito”.

Anche lex capo del dipartimento, il colonnello Daniel Reisner, ha dichiarato pubblicamente che questa strategia è stata perseguita attraverso una revisione del diritto internazionale”.

Se si fa qualcosa per un tempo sufficientemente lungo, il mondo lo accetterà”, ha detto, Lintero diritto internazionale è ora basato sul concetto che un’azione oggi proibita diventa ammissibile se eseguita da un numero sufficiente di Paesi”.

In altre parole, il modo in cui calcoliamo la proporzionalità non è determinato a priori da qualche decreto morale, ma piuttosto dalle norme e dai costumi creati dai militari quando adottano forme di guerra nuove e molto spesso più letali.

Ancora una volta Netanyahu lo sa fin troppo bene. Ha dichiarato di aver approvato personalmente l’attacco ad al-Mawasi dopo aver ricevuto informazioni soddisfacenti sui potenziali danni collaterali” e sul tipo di munizioni da utilizzare.

Ciò che risulta chiaro è che, mentre Israele decima Gaza e uccide decine di migliaia di persone, sta anche tentando di riformulare le norme della guerra e di trasformare in modo significativo le interpretazioni delle leggi sui conflitti armati.

Se Netanyahu e il suo governo riuscissero a rendere accettabile la versione israeliana della proporzionalità tra gli altri attori statali, allora le leggi sui conflitti armati finirebbero per giustificare, anziché impedire, la violenza genocida. In effetti, larchitettura stessa dellintero ordinamento giuridico internazionale è ora in bilico.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono allautore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon è professore di diritto internazionale alla Queen Mary University di Londra. È anche autore di Israel’s Occupation [ed. ital: L’occupazione israeliana, Diabasis 2016, ndt.] e coautore di The Human Right to Dominate [ed. ital.: Il diritto umano di dominare, Nottetempo 2016, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Ho raccontato agli israeliani la tragedia di una donna di Gaza. Il pubblico era scioccato

Sheren Falah Saab

16 luglio 2024 Haaretz

Ho portato la sofferenza di Gaza a Tel Aviv. Ne ho letto le parole ad alta voce. Volevo che gli israeliani che non hanno mai sentito parlare di Gaza conoscessero la vita dei palestinesi dall’altra parte della barriera

Era una serata relativamente tranquilla di inizio maggio 2023. Ero stata invitata a parlare di futuro attraverso lo specchio dell’arte durante un evento culturale a Tel Aviv. Ci ho pensato molto prima di preparare la conferenza e istintivamente ho deciso di parlare del futuro nelle zone di conflitto e di guerra, in particolare nella Striscia di Gaza.

Ho raccontato la storia dell’artista Zainab al-Qolaq. La sua vita è cambiata completamente la notte del 16 maggio 2021. Quella notte Israele ha bombardato il centro di Gaza City durante l’operazione Guardiani del Muro e 22 membri della sua famiglia sono stati uccisi, tra cui suo fratello, le sorelle e la madre. La stessa Al-Qolaq è rimasta intrappolata sotto le macerie per 12 ore, senza sapere cosa ne fosse stato di loro. Da allora è rimasta in silenzio e per un anno ha dipinto la perdita subita.

Al-Qolaq, che ha 24 anni, ha studiato inglese e letteratura all’Università Islamica di Gaza. Sulla scia degli studi, ha detto in seguito, si è spinta a cercare modi per esprimersi. “È così che mi sono ritrovata a dipingere”, ha detto in un’intervista al canale televisivo palestinese Al-Quds. “Non c’è futuro per l’arte a Gaza, ma nonostante questo dipingo, con un piglio che ha sorpreso anche me stessa. E lentamente sono cresciuta.”

I suoi dipinti mostrano membri della sua famiglia con volti incompleti, a colori cupi, a volte nella tomba o in altre immagini che ne ricordano la morte. Quella sera ho mostrato i suoi quadri al pubblico. In effetti, ho portato la sofferenza di Gaza a Tel Aviv. Ho letto le sue parole ad alta voce. Volevo che gli israeliani che non hanno mai sentito parlare di Gaza conoscessero la vita dei palestinesi dall’altra parte della barriera – la sofferenza di Al-Qolaq, che se avesse vissuto altrove sarebbe ormai un’artista affermata.

“Vuoi sapere cosa succede quando un intero edificio crolla con delle persone dentro?” ha scritto sul mio account X. “Come è possibile raccontare le ore trascorse sotto le macerie, mentre urlavo e imploravo aiuto? Anche le pietre della casa piangevano insieme a me. O raccontare i momenti prima dell’esplosione, quando la mia famiglia è corsa verso la tromba delle scale e l’intero edificio ha tremato? Devo raccontarti del brusco passaggio tra il sentirsi al sicuro con la mia famiglia e poi la lotta per la vita e l’incontro con la morte? Hai pensato per un momento di essere al mio posto e immaginare come sarebbe sopravvivere e scoprire che avevo perso tutti: mia madre, mia sorella, tutta la famiglia? Non riesco a ricordare tutto quel tempo sotto le macerie. Ma la grande tragedia è stata dopo, quando mi hanno salvato e ho scoperto cosa avevo perso.”

Ricordo di aver letto ad alta voce le parole di Al-Qolaq e la mia voce si è strozzata. Tattenevo il fiato per non piangere. Scrivere per i lettori non è come parlare ad alta voce. Questo richiede uno sforzo diverso. E quando le parole sono state pronunciate e risuonano nello spazio, hanno un significato diverso.

Questo è esattamente quello che è successo quando ho finito di parlare. Ho guardato il pubblico, i loro volti sorpresi, lo shock che hanno subito in quel momento. E quello che ho visto nei loro occhi era la paura della verità. In quel momento, quando ho capito che gli israeliani hanno paura di scoprire che a Gaza vivono esseri umani, giovani donne come Zainab al-Qolaq – che ha molto talento, che aveva dei sogni che erano stati recisi alla radice. La guerra le ha distrutto la vita. Questa è la difficile, amara verità. Ma ho visto con i miei occhi quanto fosse difficile per il pubblico presente all’evento digerire la sua tragica storia.

Sono tornata in macchina da Tel Aviv al mio villaggio e ho pianto per tutto il viaggio. Perché per la prima volta avevo sperimentato di persona la profondità della negazione da parte degli israeliani nei confronti degli abitanti della Striscia di Gaza. Hanno preso le mie osservazioni come se fossi un visitatore da un altro pianeta, e come se Gaza fosse su Marte. Non capivano veramente (o non volevano capire) il significato esistenziale dell’essere un abitante di Gaza – vivere sotto assedio, soffrire ogni guerra, con una probabilità molto alta di perdere tutta la famiglia.

La guerra attuale non ha fatto altro che acuire ciò che già sapevo riguardo alla totale mancanza di desiderio da parte degli israeliani di riconoscere l’esistenza e l’esperienza dei palestinesi – soprattutto se sono cittadini di Gaza. Dall’inizio della guerra mi sono occupata della situazione umanitaria a Gaza. Ci sono momenti in cui rileggo l’elenco dei morti e sono distrutta dentro. Quando sono sola piango. Intere famiglie sono state cancellate: madri, figli, nonni e nonne. Il mio cuore è spezzato.

Come raccontare tutto questo a un pubblico israeliano preoccupato solo di sé stesso? Che non ha alcuna reale intenzione di sapere cosa stia succedendo dall’altra parte della barricata? Come si può rompere il muro del negazionismo israeliano? Ogni volta che mi ritrovo lì e mi pongo queste domande non trovo una sola risposta giusta.

A volte esito a guardare i notiziari israeliani (su qualsiasi canale, senza eccezioni) perché questo aggrava la mia disperazione di giornalista. Gaza non esiste nel mainstream israeliano – non nei notiziari, né nelle conversazioni quotidiane degli israeliani, né negli eventi culturali, né al tavolo dei decisori. Questa è una delle forme di disumanizzazione più crudele e dura.

Quanti israeliani conoscono la storia di Zainab al-Qolaq? O le storie dei palestinesi che hanno perso le loro famiglie nella guerra attuale? Quanti israeliani sono disposti ad ammettere che questa guerra ha perso ogni giustificazione e non fa altro che aggravare la paura della morte che aleggia sugli abitanti di Gaza?

Vite, desideri e ambizioni

Riconoscere che gli abitanti di Gaza esistono in carne e ossa e vederli come esseri umani che hanno vite, desideri e ambizioni sono cose che non entrano nemmeno nella testa dell’israeliano medio. Basta scorrere i feed israeliani su X o TikTok per scoprire le varie forme di disumanizzazione, che si tratti di ridicolizzare e scimmiottare gli abitanti di Gaza, o di soldati che si fotografano con biancheria femminile dopo aver fatto irruzione nelle case dei gazawi, o delle varie forme di negazione della portata della distruzione e delle tragedie che si verificano a Gaza a causa della prolungata campagna di bombardamenti.

“Non ci sono innocenti a Gaza.” Questa frase è diventata parte del consenso israeliano, tirata fuori in ogni conversazione per ripulire la coscienza degli israeliani. Si tratta di uno dei più grandi fallimenti morali: il fatto che gli israeliani percepiscano la realtà degli abitanti di Gaza attraverso il filtro fornito da qualche altro israeliano, solitamente attraverso la lente della sicurezza.

Solo pochi chilometri separano Tel Aviv da Gaza, ma i miei disperati sforzi per dare voce agli abitanti di Gaza – ripetutamente, sia prima che dopo il 7 ottobre – sono stati ignorati. Eppure la capacità di provare compassione ed empatia per la sofferenza di un altro è un valore vitale, unico nell’esperienza umana.

La guerra attuale è la continuazione di un fallimento morale già in corso. E la mia paura più profonda è che gli israeliani stiano percorrendo una strada a senso unico dalla quale non c’è ritorno – che perdano permanentemente la capacità di provare compassione per i palestinesi, soprattutto della Striscia di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Borrell dell’Unione Europea: “L’UNRWA non è una organizzazione terroristica”

Redazione di Palestine Chronicle

15 luglio 2024 – Palestine Chronicle

L’agenzia Anadolu riferisce che lunedì il responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell, ha ripetuto il rifiuto di etichettare l‘agenzia ONU per i rifugiati palestinesi come “organizzazione terroristica”.

Borrell ha affermato che “rifiutiamo ogni tentativo di etichettare l’UNRWA come ‘organizzazione terroristica’. Come può un’agenzia delle Nazioni Unite essere considerata una organizzazione terroristica?”

Queste considerazioni sono state fatte durante una conferenza congiunta con il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi a Bruxelles ai margini del quindicesimo incontro del Consiglio d’Associazione tra Unione Europea e la Giordania.

Borrell ha anche affermato che l’Unione Europea, insieme ad altri donatori internazionali, continuerà s supportare e finanziare l’UNRWA.

Borrell ha affermato che “concordiamo sul fatto che è fondamentale preservare l’insostituibile ruolo dell’UNRWA in tutta la regione, includendo sicuramente anche la Giordania.”

Non c’è stato alcun commento israeliano immediato sulla dichiarazione di Borrell.

Verso la fine di maggio il parlamento israeliano, la Knesset, ha votato una mozione preliminare per approvare una legge che designi l’UNRWA come “organizzazione terroristica”.

La legge inoltre impone che venga applicata la legge anti-terrorismo all’agenzia dell’ONU e che vengano interrotte tutte le comunicazioni e le relazioni tra Israele e l’agenzia.

Israele ha fatto azioni di lobby per chiudere l’UNRWA, dato che è l’unica agenzia ONU che ha un mandato specifico per occuparsi dei bisogni fondamentali dei rifugiati palestinesi.

Tel Aviv ha ripetutamente equiparato il personale UNRWA ai membri di Hamas con l’obiettivo di screditarlo, ma senza fornire prove delle accuse.

L’UNRWA è stata fondata da una risoluzione ONU nel 1949 e deve fornire assistenza e protezione ai rifugiati nelle sue cinque aree operative: Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Striscia di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Genocidio di Gaza: raccontarne le storie come atto di resistenza all’oppressione e alla pulizia etnica

Benay Blend

14 luglio 2024 – Palestine Chronicle

Il racconto è stato a lungo una tattica nella cassetta degli attrezzi dei popoli colonizzati. Per i sopravvissuti al genocidio attesta la loro esperienza contro quanti negano che l’orrore sia mai esistito.

Quando ho insegnato (1991-1998) nel nord della Louisiana c’era una sopravvissuta del campo di sterminio di Auschwitz, Rozette “Rose” Lopes-Dias Van Thyn (1912-2010), che parlava negli istituti scolastici di quanto aveva vissuto.

Quando morì, Nico Van Thyn pubblicò la sua storia per controbattere a quanti “negano l’Olocausto, giustificano quello che successe, sostengono che si tratta di storia immaginaria” inventata dal popolo ebraico per conquistarsi appoggi. Oggi ci sono sopravvissuti all’Olocausto che credono che “mai più” significhi mai più per chiunque, quindi ora protestano contro il genocidio “di Israele” a Gaza. Per esempio Stephen Kapos, 86 anni, un sopravvissuto allo sterminio nazista nella nativa Ungheria, sostiene che “c’è una questione di responsabilità storica verso l’ingiustizia, il genocidio e il fascismo.”

Kapos denuncia che “se sei indifferente, se non prendi una posizione, senza dubbio sei almeno in parte colpevole e penso che sia imperativo affermare la propria opposizione e persino un certo livello di disagio e di rischi se si vuole essere liberi dalla colpa quando la storia giudicherà quello che sta accadendo.”

Il 9 luglio i nativi partecipanti alla National Native American Boarding School Coalition [Coalizione dei Convitti Nazionali per Nativi Americani] hanno parlato al National Public Radio (NPR) nel corso della trasmissione ‘Native American Calling’ di una legge per creare una commissione per la verità e la riconciliazione che indaghi sulle violenze negli internati per nativi del Canada e degli USA.

Mentre dal Canada hanno cominciato ad emergere racconti, c’è stato un parallelo aumento di persone che negano che quelle atrocità nei convitti siano mai esistiti. In risposta l’avvocatessa cree [tribù di nativi americani, ndt.] Eleanor Sunchild ha sostenuto che la negazione dei collegi residenziali equivale alla negazione dell’Olocausto e quindi dovrebbe essere aggiunta al codice penale come discorso d’odio.

Ciò che tiene insieme queste vicende è la negazione che ne segue da parte dell’oppressore e dei suoi sostenitori. Molto prima del 7 ottobre quello che Vacy Vlazna chiama “la negazione della Palestina” è esistita come strategia “per spazzare via i palestinesi dalla faccia della loro terra ancestrale e avanzare pretese fittizie su tutta la Palestina storica.”

Insieme alla pulizia etnica questa strategia continua come tale anche oggi. Per esempio, all’inizio del genocidio “di Israele” a Gaza, il presidente Biden ha negato l’accuratezza del conteggio del numero di morti da parte del ministero della Sanità [di Gaza], “creando una breccia a favore dei difensori della campagna di bombardamenti indiscriminati di Israele per sminuire la crisi.”

Biden, negando l’accuratezza del calcolo, si è unito ai negazionisti di un altro Olocausto che hanno sostenuto che la Germania non ha ucciso 6 milioni di ebrei. Quel numero è falso, sostengono, è stato creato dagli ebrei per ricevere indennizzi e attenzione.

In risposta il ministero ha pubblicato una lista con i nomi dei 6.747, tra cui 2.664 minori, che sono morti dall’inizio della campagna di bombardamenti al 26 ottobre.

“Ogni nome sulla lista è la storia di una profonda tragedia”, così inizia un’inchiesta di The Incercept. Tuttavia gli scettici non sono rimasti impressionati. Secondo il coordinatore del Consiglio della Sicurezza Nazionale per le comunicazioni strategiche, John Kirby, il ministero esiste in quanto è “un fronte per Hamas”, intendendo che “non possiamo accettare per oro colato niente che venga da Hamas, neanche dal cosiddetto ministero della Sanità.”

“Il sionismo non solo danneggia l’etica delle persone,” ha scritto Steven Salaita. “Inibisce la capacità di comprendere idee semplici riguardo al mondo.” Il primo esempio di questo modo di pensare, la negazione da parte di Biden, illustra come i sionisti vedano nella Palestina una “non-entità o negazione”, quindi non devono essere creduti neppure i suoi racconti.

Data questa logica è futile cercare di convincere i sionisti del contrario. Farlo significa essere etichettati come antisemiti. “Nessun tipo di discorso, dibattito o autodifesa,” scrive Ramzy Baroud, “può avere la possibilità di convincere i sionisti che chiedere la fine dell’occupazione militare della Palestina o lo smantellamento del regime di apartheid israeliana, o qualunque sincera critica alle politiche del governo di destra israeliano non sono di fatto azioni di antisemitismo.”

Dato il suo livello di intransigenza, come possono gli attivisti cambiare la mentalità sionista? Forse la risposta è che non possono. Invece il centro dovrebbe essere posto sui palestinesi stessi, conclude Baroud, sulla loro geografia, sulle complessità della loro politica e sulla ricchezza della loro cultura.”

Poco prima del 7 ottobre il giornalista Mohammed El-Kurd rifletteva sul ruolo della cultura nella liberazione della Palestina. È difficile immaginare ciò che può fare una poesia nella canna di un fucile,” ha ipotizzato, ma ha concluso che “il ruolo degli artisti nei movimenti di liberazione è lo stesso di ogni membro di quel movimento,” l’obbligo di costruire sulle conquiste del passato per avere un impatto sul presente.

In altre parole un obbligo di accettare la responsabilità di “partecipare alla salita”. Riflettendo sul passato El-Kurd rende omaggio al defunto Ghassan Kanafani, la cui capacità di trasformare le sofferenze del popolo palestinese nella letteratura della resistenza si è dimostrata una seria minaccia allo Stato sionista. Nel 1972, mentre viveva in esilio a Beirut, il Mossad collocò una bomba sulla sua auto trasformando in martiri lui e sua nipote.

L’eredità di Kanafani vive nel lavoro del poeta, raccontatore di storie e docente palestinese Refaat Alareer, anche lui ucciso da un bombardamento contro la sua casa il 6 dicembre 2023. In una commemorazione di Alareer Yousef AlJamal ha ricordato le parole del suo maestro: “Perché i palestinesi riescano a mantenere viva la loro memoria e la loro causa devono continuare a raccontare la loro versione della storia.”

“Attualmente a Gaza”, scrive Norman Saadi Nikro, “Israele sta distruggendo le basi istituzionali per la riproduzione e la conservazione della vita sociale e culturale, così come la possibilità amministrativa di conservare i dati e la documentazione attraverso cui si organizza la vita sociale e culturale.”

Distruggendo le case, continua, stanno cancellando oggetti personali attraverso cui le famiglie conservano la propria memoria. In questo contesto il racconto acquisisce importanza, in quanto conserva la narrazione che “Israele” intende distruggere per sostituirla con la propria.

“Come modalità dell’infrastruttura sociale e culturale,” conclude Nikro, “il racconto risuscita la memoria nella vita attraverso pratiche di resistenza alle narrazioni dei predatori.” Ciò collega le persone alla terra com’era una volta, com’è ora e cosa essa sarà in futuro.

Non tutte le storie sono raccontate con parole. Per esempio Reem Anbar, una suonatrice di oud e musicoterapista palestinese di Gaza, attraverso la sua musica “canta storie” della tua terra. Anbar, ora a Manchester, in Gran Bretagna, con il marito, lo scrittore e musicista Louis Brehony, sostiene la Palestina attraverso [il gruppo musicale] Gazelleband, che ha formato insieme a Brehony.

“A Gaza ho due fratelli, uno dei quali con tre figli piccoli, insieme a nonni, zie, zii, cugini e tutti i miei amici e vicini,” spiega Anbar. “Ora tutti loro hanno perso la casa a causa dei bombardamenti.”

Il 13 luglio 2024 Brehony ha postato su Facebook una foto di musicassette nella casa demolita del fratello di Reem a Hayy al-Nasar, a Gaza City. “Non resta altro che ricordi e amore per il luogo,” scrive. “E Rasheed Anbar, Ansam e i tre piccoli eroi, rimasti nonostante tutto nel quartiere.”

Per Reem è stato duro non essere a Gaza con la famiglia e gli amici. “Ho perso molti amici e vicini a causa dei bombardamenti israeliani,” chiarisce. Aggiunge che

Li hanno uccisi e hanno distrutto le loro case. Sono una persona forte ma da ottobre ho percepito un cambiamento nella mia vita. Non posso rilassarmi, sto continuamente pensando alla mia gente. La guerra ha fatto in modo che voglia lavorare di più come musicista palestinese perché esprimiamo il nostro messaggio e le nostre vicende attraverso la musica. Ho vissuto tre guerre e ho molti ricordi da condividere. Provo molte emozioni, ma le incanalo suonando il mio oud e attraverso esibizioni musicali.”

Nonostante le speranze e il massimo impegno di Israele, i palestinesi non hanno ancora dimenticato chi sono. E nessun negazionismo lo può cambiare,” conclude Baroud. Nonostante tutte le distruzioni e le espulsioni, nessuno degli sforzi di “Israele” ha ucciso il racconto.

– Benay Blend ha conseguito il dottorato in Studi Americani all’università del Nuovo Messico. Il suo lavoro accademico include “’Neither Homeland Nor Exile are Words’: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers” [Né patria né esilio sono parole: ‘saperi situati’ nel lavoro di scrittori palestinesi e americani]” curato da Douglas Vakoch and Sam Mickey (2017). Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)