Il cessate il fuoco a Gaza è instabile e un’altra guerra potrebbe arrivare presto

Adnan Abu Amer

25 luglio 2021 – Al Jazeera

Il persistere della violenza contro i palestinesi a Gerusalemme e il desiderio israeliano di rivincita potrebbero riaccendere le ostilità.

A maggio, non appena sono terminati gli 11 giorni della guerra israeliana contro Gaza, in Israele e nella Striscia sono iniziati i preparativi per un nuovo scontro. Era chiaro fin dall’inizio che il cessate il fuoco mediato dall’Egitto era fragile e sarebbe potuto non durare a lungo. La tregua temporanea è stata conclusa sotto la pressione degli Stati Uniti, ma non ha risolto le principali questioni che hanno scatenato lo scontro tra le due parti. Di conseguenza, il conflitto tra Israele e Hamas potrebbe facilmente riaccendersi nel prossimo futuro.

Dal punto di vista palestinese, gli sponsor del cessate il fuoco non hanno fatto nulla per fermare l’aggressione israeliana a Gerusalemme e nella moschea di Al-Aqsa che ha provocato la rabbia dei palestinesi e alla fine ha portato Hamas a lanciare razzi il 10 maggio. Sono continuate le espulsioni forzate e le demolizioni di case palestinesi nella Gerusalemme occupata, così come le irruzioni dei coloni israeliani sotto la protezione della sicurezza israeliana nel complesso della moschea di Al-Aqsa.

Nonostante le pressioni internazionali sul governo israeliano per fermare questi raid nel terzo luogo più sacro dell’Islam, quest’ultimo ha continuato a consentirli. Una delle ragioni principali di ciò è la sua stessa fragilità. Il nuovo governo israeliano è una coalizione instabile di forze politiche molto diverse tra loro che è ora soggetta a feroci attacchi politici da parte dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu dopo la sua cacciata dal potere. Di fronte alle accuse di essere “di sinistra”, il primo ministro Naftali Bennett è intenzionato a dimostrare le sue credenziali di destra e non rischierebbe di far arrabbiare la comunità dei coloni o l’estrema destra israeliana interrompendo i raid contro Al-Aqsa

Lo stesso vale per le espulsioni forzate dei palestinesi dalle loro case nella Gerusalemme occupata. La pulizia etnica della città dalla sua popolazione palestinese per renderla esclusivamente ebraica è stata per decenni una priorità assoluta per l’estrema destra israeliana. Bennett probabilmente teme che porre fine a questi crimini destabilizzerebbe la sua coalizione. Se non affrontate, questa continua violenza contro i palestinesi e la violazione della sacralità di Al-Aqsa potrebbero benissimo innescare un altro conflitto.

Dal punto di vista israeliano, l’emergere di Hamas come parte vittoriosa della guerra degli 11 giorni è stato difficile da digerire. I razzi di Hamas lanciati contro Israele sono stati accolti con favore dai palestinesi in tutta la Palestina storica, non solo a Gaza, e hanno aumentato il sostegno al movimento. Ciò ha causato molta frustrazione nei ranghi dell’esercito israeliano ed è probabile che la sua leadership spingerà per avere l’opportunità di pareggiare i conti e ripulire la sua immagine offuscata.

Nel frattempo, per contrastare la crescente popolarità di Hamas, Israele ha intensificato l’assedio di Gaza, chiudendo i valichi per la Striscia, limitando l’ingresso di aiuti e l’esportazione e importazione di generi alimentari e riducendo la fornitura di elettricità.

Di conseguenza, la situazione umanitaria a Gaza si è notevolmente deteriorata. I palestinesi nella Striscia affrontano condizioni sempre peggiori e quindi stanno facendo sempre più pressione su Hamas affinché provveda ai loro bisogni. Hamas, tuttavia, non ha la possibilità di dare risposte a queste legittime richieste umanitarie. Trovandosi in questa difficile posizione, Hamas potrebbe tentare di esportare la sua crisi interna con un nuovo conflitto generalizzato con Israele.

Una delle più importanti questioni economiche su cui è improbabile che Hamas scenda a compromessi è il finanziamento fornito dal Qatar dall’ottobre 2018, quando il movimento e Israele raggiunsero un’intesa con il patrocinio di Qatar, Egitto e Nazioni Unite.

Come parte di questo accordo, Doha invia 30 milioni di dollari al mese distribuiti a molti settori economici di Gaza, incluso il trasferimento di 100 dollari all’inizio di ogni mese a decine di migliaia di famiglie palestinesi. Il denaro dato agli abitanti di Gaza aiuta a rivitalizzare l’economia della striscia e a mitigare gli effetti dell’assedio israeliano.

Israele e gli Stati Uniti hanno spinto per la fine della sovvenzione in denaro del Qatar e hanno suggerito di sostituirla con buoni di acquisto dello stesso valore. Questa proposta è stata categoricamente respinta da Hamas, poiché si rende conto che molti degli abitanti di Gaza sopravvivono con queste elargizioni in contanti e che perderle porterebbe probabilmente a una situazione esplosiva nella striscia.

Sembra esserci un’impasse anche su un’altra questione: lo scambio di prigionieri. Sebbene per un certo tempo si sia parlato di un accordo imminente, ci sono gravi disaccordi che hanno portato al fallimento delle trattative indirette. Questo è un altro problema che potrebbe potenzialmente riaccendere le ostilità tra le due parti.

Da parte sua Hamas ha espresso il desiderio di sfruttare qualsiasi scontro militare con Israele per aumentare il numero di soldati israeliani catturati al fine di ottenere più strumenti di pressione ed essere in grado di scambiarli con prigionieri palestinesi detenuti da Israele.

Sebbene le forze che spingono per un nuovo conflitto siano forti, ci sono alcune fattori che finora hanno impedito lo scoppio di un’altra guerra a Gaza.

In primo luogo, lo stesso motivo che tiene le mani legate al nuovo governo israeliano sui raid contro Al-Aqsa e sulle espulsioni forzate dei gerosolimitani palestinesi dalle loro case – la sua fragilità – gli impedisce anche di lanciare un altro attacco contro Gaza. Se lo facesse, uno dei suoi partner di coalizione, il partito palestinese Raam, probabilmente ritirerebbe il suo sostegno. Altri potrebbero anche abbandonare la nave se la rappresaglia di Hamas avesse successo, specialmente se riuscisse a colpire in profondità il territorio israeliano.

Per questo – almeno per ora – il nuovo governo preferirebbe impegnarsi in colloqui indiretti con Hamas, alzare le sue richieste negoziali e dedicarsi a gestire la situazione senza necessariamente cadere in uno scontro diretto.

In secondo luogo, Hamas è consapevole che sia i suoi combattenti che i civili di Gaza potrebbero non essere in grado di superare un’altra campagna israeliana di distruzione indiscriminata. Non appena finita l’ultima guerra, il suo braccio armato ha iniziato a ripristinare le proprie capacità militari, ma era evidente che i suoi combattenti avevano bisogno di “una pausa”. Data la difficile situazione umanitaria nella Striscia, anche gli abitanti sono gravemente provati dalla guerra.

La consapevolezza dello “sfinimento a causa del conflitto” tra i palestinesi di Gaza è stata evidente nella risposta di Hamas alla marcia organizzata dai coloni attraverso la Gerusalemme occupata dopo che il nuovo governo israeliano aveva preso il potere.

Piuttosto che lanciare una risposta militare alla marcia come è successo lo scorso Ramadan, Hamas si è accontentata di denunciarla.

Terzo, gli Stati Uniti non vogliono alcun conflitto armato nei territori palestinesi. A maggio hanno spedito i loro inviati nella regione per fare pressione su tutte le parti affinché si impegnassero per il cessate il fuoco, in modo che non vi siano nuove ostilità mentre cercano di portare a termine un accordo nucleare con l’Iran. Gli Stati Uniti vogliono la calma nella regione anche perché devono dedicarsi al confronto con Cina e Russia.

Sebbene finora questi fattori stiano impedendo un altro conflitto tra Israele e Hamas, la situazione è abbastanza instabile e imprevedibile. In qualsiasi momento il calcolo di ciascun attore può cambiare, e i benefici di un’altra guerra potrebbero essere percepiti come maggiori rispetto all’ impegno a mantenere l’attuale cessate il fuoco. Non vi sarà una tregua più stabile fino a quando non saranno risolte le principali questioni in sospeso tra Israele e Hamas.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele-Gaza: come la resistenza palestinese sta sfidando la supremazia tecnologica della guerra

Ahmed D Dardir

23 luglio 2021 Middle East Eye

L’ideologia che vede le superpotenze occidentali sole detentrici di tecnologie avanzate e potenza di fuoco è messa in discussione da attori non occidentali che rivendicano il possesso di quelle tecnologie

La resistenza palestinese a Gaza, nel suo ultimo confronto con le forze di occupazione israeliane e in risposta alla continua aggressione israeliana contro la moschea di al-Aqsa e i residenti di Gerusalemme, ha lanciato una flotta di palloni incendiari contro gli insediamenti coloniali vicini ai confini con la Striscia di Gaza.

Le azioni aggressive di Israele a Gerusalemme non hanno tecnicamente violato il cessate il fuoco firmato a maggio, dunque la risposta palestinese ha dovuto evitare la forza militare; ha invece creativamente fatto un’arma di un’oggetto comune. Pur incarnando lo spirito della resistenza, la risposta palestinese doveva mantenere un profilo basso, per non costituire il pretesto ad una nuova ondata di attacchi israeliani.

Ma Israele ha risposto con attacchi aerei contro quelli che sosteneva essere obiettivi di Hamas a Gaza, violando di fatto il cessate il fuoco. Eppure una parte significativa dei principali media occidentali e dell’opinione pubblica considera questa violazione israeliana come legittima autodifesa, mentre i palloni da Gaza sono visti come inutili, sbagliati e provocatori.

Gli scontri di maggio sono stati considerati con lo stesso atteggiamento. Sebbene la resistenza di Gaza sia riuscita a usare i suoi missili e droni – relativamente primitivi rispetto alle capacità militari di Israele – ottenendo il massimo effetto politico e riducendo al minimo le vittime e la distruzione nelle aree israeliane, i suoi missili sono stati ancora descritti dalle principali testate come mal diretti, caotici o addirittura disperati. D’altro canto i missili israeliani sono stati descritti come legittimi, e il potere militare di questo stato come mirato e sofisticato.

La cosa rappresenta un paradosso per cui i missili senza guida della resistenza palestinese sono colpevoli di prendere di mira i civili, mentre i missili precisi e mirati delle forze di occupazione israeliana sono innocenti della morte delle vittime che prendono “erroneamente” di mira. Questo paradosso è sostenuto da gerarchie interpretative del conflitto profondamente razziste che operano al di fuori del contesto palestinese.

La macchina da guerra americana

In un mondo affascinato dalle tecnologie innovative, avanzate e all’avanguardia – di pulsanti, schermi e processi computerizzati – il progresso della tecnologia da un lato nasconde la carneficina dall’altro lato. Dall’inizio di questo secolo l’informatizzazione della macchina da guerra degli Stati Uniti ha tristemente trasformato le guerre americane in videogiochi reali.

Gli attacchi aerei statunitensi contro obiettivi civili e sospetti militanti sono diventati una faccenda sterilizata e informatizzata – un processo automatizzato in cui la scelta degli obiettivi, la valutazione della minaccia e il processo di lancio di un attacco di droni sono determinati in gran parte da disumani circuiti di mega-computer che in qualche modo mascherano e legittimano gli omicidi.

Nelle sue memorie, Una terra promessa, Obama si vanta: “La National Security Agency, o NSA, già la più sofisticata organizzazione di raccolta di informazioni elettroniche al mondo, ha impiegato nuovi supercomputer e tecnologie di decrittazione del valore di miliardi di dollari per setacciare il cyberspazio alla ricerca di comunicazioni terroristiche e potenziali minacce”, dando il via a “incursioni notturne [che] hanno dato la caccia a sospetti terroristi principalmente all’interno – ma a volte anche all’esterno – delle zone di guerra in Afghanistan e Iraq”. In altre parole, si è trattato della tipica tattica di Obama di assassinii mirati ed extragiudiziali.

Qui il dispiegamento retorico della tecnologia sterilizza le uccisioni – di “sospetti” terroristi, va sottolineato – e fornisce un supporto tecnologico all’ideologia della supremazia occidentale, consentendo ai popoli “civili” e tecnologicamente avanzati di esercitare violenza fisica, a volte letale, contro forme “inferiori” di vita umana.

Si tratta della stessa ideologia suprematista che giustifica i crimini di Israele con il pretesto che è “l’unica democrazia” in Medio Oriente – come se le persone che non vivono sotto il paradigma della democrazia liberale occidentale non meritassero di vivere. I crimini di Israele sono ulteriormente giustificati dal fatto che la sua macchina da guerra è precisa e tecnologicamente avanzata, come se questo in qualche modo legittimasse l’uccisione di vittime quando siano prese di mira con precisione.

Causa di allarme

Il contrario, invece, non vale. I progressi tecnologici raggiunti al di fuori del club esclusivo delle potenze occidentali non meritano la tessera della società “tecnologicamente civilizzata”, ma rappresentano piuttosto un motivo di allarme, che una certa tecnologia si stia pericolosamente diffondendo oltre la cerchia consentita.

Questa è la stessa gerarchia in base alla quale i progressi in campo nucleare di Iran e Corea del Nord, che subiscono entrambi le opprimenti sanzioni statunitensi, non sono visti come progressi tecnologici ma come motivo di allarme, che tale tecnologia si trovi in mani indegne e inaffidabili destinate ad abusarne. Evidentemente non suscita lo stesso allarme il programma nucleare militare dell’unico paese che abbia usato armi atomiche contro i civili: gli Stati Uniti.

La narrativa dominante riserva la potenza di fuoco tecnologicamente avanzata – comprese armi sofisticate, computerizzate e intelligenti – alle potenze occidentali. Gli Stati e gli attori non occidentali devono rimanere con armi incendiarie destinate a fallire. Questo spiega in parte l’ossessione occidentale per gli attentati suicidi, immaginati come unico e dominante modus operandi dei rivoltosi non bianchi.

L’ideologia che riserva tecnologie avanzate e potenza di fuoco alle superpotenze occidentali è, tuttavia, continuamente turbata da attori non occidentali che rivendicano quelle tecnologie, siano essi altre superpotenze (Cina), “Stati canaglia” (Iran e Corea del Nord) o gruppi di insorti che conducono guerre di liberazione contro le potenze coloniali e i loro manutengoli.

Una serie di preoccupazioni tattiche e strategiche ha spinto alla fine la resistenza palestinese verso tecnologie missilistiche e droni. Anche se non suggerisco che l’abbiano fatto intenzionalmente, questo disturba i presupposti e le gerarchie razziste dominanti, minando il monopolio bianco sul fuoco mirato, sofisticato e tecnologico. La cosiddetta comunità internazionale può scegliere di riconoscere questo traguardo, o di continuare a compiere acrobazie mentali per tranquillizzarsi sulla natura primitiva e mal guidata del fuoco della resistenza.

Ciò che più importa è che questo progresso “libera i colonizzati dal loro complesso di inferiorità, dal loro atteggiamento passivo e disperato”, per usare le parole scritte in un contesto simile dal grande pensatore anticoloniale Frantz Fanon. “Li incoraggia e ripristina la loro fiducia in se stessi.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica della redazione di Middle East Eye.

Ahmed D Dardir ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Mediorientali presso la Columbia University. Il suo prossimo libro è provvisoriamente intitolato Licentious Topographies: Global Counterrevolution and Bad Subjectivity in Modern Egypt [Topografie licenziose: controrivoluzione globale e soggettività malate nell’Egitto moderno]. Collabora regolarmente con diverse testate giornalistiche. Il suo blog si trova su https://textrimmings.blogspot.com.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Ciò dimostra che il BDS funziona”: Wafic Faour su come un gruppo di attivisti del Vermont ha convinto Ben & Jerry’s

Micheal Arria

23 Luglio 2021Mondoweiss

“C’è una linea che stiamo seguendo. Stiamo lottando contro un regime di apartheid e abbiamo visto cosa è successo in Sudafrica. Se continuiamo a lavorare e ad informare l’opinione pubblica e se questi leader insistono con i loro messaggi confusi, vinceremo”.

Questa settimana Ben & Jerry’s [rinomata azienda americana produttrice di gelati con sede a South Burlington, ndtr.] ha annunciato che avrebbe smesso di vendere i suoi gelati negli insediamenti coloniali illegali israeliani. La mossa è stata elogiata dagli attivisti palestinesi e condannata dai parlamentari israeliani. Wafic Faour è membro di Vermonters for Justice in Palestine (VTJP), l’organizzazione che ha condotto una campagna contro Ben & Jerry’s per oltre un decennio. Faour è cresciuto in un campo profughi palestinese in Libano, ma si è recato negli Stati Uniti per studiare e ha finito per trasferirsi nel Vermont.

Ho discusso tramite Zoom con Faour dell’importante annuncio di Ben & Jerry, della reazione isterica di Israele e di cosa significhi tutto questo per il movimento BDS.

Mondoweiss: Vorrei iniziare col chiederle la sua reazione all’annuncio di Ben & Jerry. Cosa ha pensato quando ha sentito la notizia?

Wafic Faour: A dirle la verità, all’inizio ero un po’ deluso. Il loro annuncio ha un’ ottima apertura. Hanno dichiarato che fare affari nei territori occupati dalle colonie illegali è contro i valori di Ben & Jerry’s. Fin qui tutto bene, ma poi nel corso della dichiarazione ci dicono che proseguiranno in forma diversa il commercio in Israele. Che continueranno ad operare in Israele secondo modalità di cui daranno notizia in seguito.

Questo è in contraddizione con due cose che Ben & Jerry’s afferma di rappresentare. Quando li abbiamo incontrati nel 2014 e abbiamo chiesto loro di smettere di vendere i loro prodotti nelle colonie esclusivamente ebraiche ci hanno detto che in realtà non potevano farlo perché una volta che i loro prodotti vengono venduti dalla fabbrica, non sono in grado di controllare i percorsi di vendita altrove da parte degli intermediari.

Inoltre rifiutarsi di vendere prodotti negli insediamenti va contro la legge israeliana contro il BDS. Ecco perché i leader israeliani stanno andando fuori dai gangheri. Anche oggi, con le rimostranze del presidente di Israele [Isaac Herzog] che definisce terroristica la nostra campagna.

Quando abbiamo iniziato questa campagna, abbiamo preso di mira Ben & Jerry’s perché il loro codice sociale parla di uguaglianza, diritti umani, protezione dei rifugiati, protezione dell’ambiente, Black Lives Matter, brutalità della polizia. Parliamo di Israele perché è tuttora uno stato di apartheid e i palestinesi che vivono lì come cittadini israeliani, arabo israeliani... sottostanno a regole diverse e affrontano discriminazioni sull’alloggio, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la protezione della polizia. Su qualsiasi cosa. Quindi l’azienda non aderisce alla propria missione sociale.

Non mi fraintenda, questo è un passo molto positivo, ma sto cercando di capire come possiamo immaginare il rapporto tra Ben & Jerry e le leggi israeliane sul BDS. Mi chiedo come potranno continuare ad operare nella zona. C’è anche un altro problema. Abbiamo notato una dichiarazione contraddittoria del consiglio di amministrazione di Ben & Jerry rilasciata dalla presidente [Anuradha] Mittal. Hanno detto che loro avevano in mente un diverso tipo di annuncio e che [il passaggio riguardante una continuazione degli affari in Israele] è da attribuire ad Unilever, la società madre di Ben & Jerry.

Quindi qui abbiamo di fronte più domande che risposte. Non sappiamo cosa accadrà.

Abbiamo visto che in procinto dell’annuncio di Ben & Jerry questa campagna è stata un po’ più presente sugli organi di informazione tradizionali, ma VTJP ci ha lavorato per oltre un decennio. Mi piacerebbe se potesse descrivere un po’ l’attivismo che ha portato a questo momento.

La prima azione che abbiamo intrapreso è stata una lettera che abbiamo inviato a Ben Cohen e Jerry Greenfield [i fondatori dell’azienda] chiedendo loro come potessero, in coscienza, accettare di trattare con Israele. Ci hanno detto Non siamo le persone giuste con cui discuterne perché non è più la nostra azienda. Potete andare al quartier generale di South Burlington a porre la domanda”.

In realtà abbiamo ricevuto quella risposta dopo aver inviato loro più lettere. In effetti, è Jerry che ha risposto alla lettera. Quindi siamo andati a South Burlington e abbiamo insistito per ottenere un incontro. Dopo tanti sforzi, abbiamo scoperto molte cose.

Una di queste è che dopo la vendita di Ben & Jerry’s, il contratto con Israele è rimasto a South Burlington e tutte le altre operazioni sono state rilevate da Unilever. In altre parole, solo l’operazione aziendale riguardante Israele è stata mantenuta qui a South Burlington nelle mani della dirigenza e del loro consiglio indipendente. Ci è sembrato strano.

La seconda cosa che ci hanno detto è che non hanno mai guadagnato un centesimo dal settore israeliano dei loro affari. Quindi stiamo parlando di un’operazione che non frutta denaro e si trova in una zona contesa riguardo alla quale devono confrontarsi con le nostre richieste. Allora perché sono ancora ?

Dopo l’incontro abbiamo iniziato a firmare petizioni. Ogni volta che Ben & Jerry’s tenevano un Cone Day [giornata del cono gelato, ndtr.] gratuito noi eravamo fuori dal loro negozio in centro a distribuire volantini e a raccogliere firme per la petizione. Abbiamo inviato le petizioni alla società. Abbiamo invitato altri gruppi di solidarietà con la Palestina a fare lo stesso in dodici diverse sedi di Ben & Jerry e abbiamo inviato le petizioni all’azienda.

Abbiamo anche provato a inviare lettere ai gestori dei negozi Ben & Jerry’s negli Stati Uniti e in Canada, chiedendo loro di fare qualcosa. Non abbiamo avuto risposta. Durante quel periodo abbiamo anche incontrato Jeff Furman [che ha fatto parte del consiglio di amministrazione di Ben & Jerry per quasi 40 anni] e poi la società ha risposto e ha detto che avrebbero cercato di studiare la questione.

Hanno inviato nella zona un gruppo di membri del consiglio di amministrazione e dirigenti per conoscere la situazione. Ad essere sinceri, l’unica persona che è tornata con una dichiarazione davvero positiva è stato Jeff Furman. Mi pare che sia stato anche il primo avvocato dell’azienda quando hanno iniziato a vendere gelati negli Stati Uniti. Ha detto che quello che ha visto laggiù era apartheid.

Capisco che tutte le sue domande riguardino Ben & Jerry’s perché questo è il tema, ma abbiamo scelto l’azienda più di dieci anni fa a causa della sua presenza in una regione del Vermont molto estesa, e la sua fabbrica è il luogo più visitato dello Stato. La utilizziamo per sensibilizzare sulla questione palestinese la popolazione del posto e tutta la popolazione degli Stati Uniti. Vogliamo informare le persone sulla sofferenza dei palestinesi e su ciò che Israele sta facendo in Palestina.

A volte, quando parli con le persone di questo problema, pensano che sia solo qualcosa che sta accadendo lontano. Non si immedesimano con loro. Allora illustri l’argomento e ne discuti con le persone, di come sia contro il diritto internazionale trarre profitto dall’occupazione. Si tratta di un movimento educativo perché nel condurre la campagna parliamo alla gente della Palestina, delle vite dei palestinesi, della terra palestinese, dell’acqua palestinese, dell’ambiente palestinese. Sfruttiamo l’azienda come strumento educativo.

Anche se abbiamo fatto tutto questo lavoro, molte persone pensavano che trarli fuori da quella condizione fosse un obiettivo inverosimile, in quanto noi siamo un piccolo gruppo nel Vermont. Molti di noi sono persone di mezza età e usiamo la vecchia tecnica del volantino. Tuttavia, dopo la guerra di maggio su Gaza, e così tanti bambini uccisi, una generazione più giovane ci affianca. Conoscono la tecnologia, Instagram, Twitter. Hanno portato su un altro piano [il nostro lavoro] in modo da raggiungere il risultato voluto.

La mia prossima domanda si collega a quello che ha appena detto. E’ sembrato che dopo l’ultimo attacco a Gaza la campagna abbia ricevuto maggiore attenzione e mi chiedo se pensa che Ben & Jerry’s abbia finalmente fatto questa mossa tenendone conto. Pensa che ci sia stato un cambiamento nell’opinione pubblica dall’ultimo attacco di Israele?

Sicuramente. Sicuramente. Non si può negare. Senza i quasi 70 bambini uccisi a Gaza non sono sicuro che nell’opinione pubblica americana sarebbe emersa questa fortissima rabbia. Sono certo di aver letto di recente su Mondoweiss che il numero dei nostri fratelli ebrei che pensano che Israele sia uno stato di apartheid sta crescendo.

L’Israele di oggi è decisamente diverso da quello che era vent’anni fa, o dieci anni fa, o anche un anno fa. Sono stato un attivista sulla questione palestinese per tutta la vita, ma non ho mai visto questo genere di sostegno, come quello che abbiamo ora.

Cosa ne pensa della reazione israeliana a questa notizia e della reazione dei loro sostenitori? Cosa dice del momento in cui ci troviamo attualmente?

Questo dimostra che il BDS funziona. Vediamo come il primo ministro, il ministro degli esteri, il presidente chiedano tutti il boicottaggio di Ben & Jerry’s. Credo che il governo e i politici israeliani siano più deboli di quanto si pensi.

Se questa dichiarazione a metà di Ben & Jerry’s è in grado di far parlare tutti questi leader per più di 48 ore, significa che non sono così forti e risoluti come pensano, o forti come nell’immagine che vogliono mostrare all’opinione pubblica. Dovremmo approfittarne. Se attaccheranno il BDS negli Stati Uniti e interferiranno con Freedom of Speech [la libertà di parola, 14° emendamento della Costituzione americana, ndtr.] sarà un bel passo. È un limone, dobbiamo spremerlo. Porteremo le nostre organizzazioni e porteremo sostenitori americani di studi legali come l’ACLU [American Civil Liberties Union, organizzazione non governativa a difesa di diritti civili e libertà individuali negli Stati Uniti, ndtr.]. Dovranno combatterli e schierarsi insieme a noi.

Le leggi contro il BDS sono incostituzionali. Abbiamo visto cosa è successo in Georgia qualche mese fa. Quando portano una legge sul BDS in tribunale, perdono. Quindi, se provano a farlo, perderanno.

C’è una linea che stiamo seguendo. Stiamo lottando contro un regime di apartheid e abbiamo visto cosa è successo in Sudafrica. Non sono solo i leader israeliani. Ho appena visto il Dipartimento di Stato attaccare il BDS quando gli è stato chiesto di farlo. Quindi non sono solo i leader israeliani, sono i loro compari qui. Se continuiamo a lavorare ed informare l’opinione pubblica e questi leader insistono con i loro messaggi confusi, vinceremo.

Michael Arria è il corrispondente dagli USA di Mondoweiss. I suoi lavori sono comparsi su In These Times, The Appeal e Truthout. È autore di Medium Blue: The politics of MSNBC [“Media blu: la politica di MSNBC”, canale di notizie via cavo USA legato al partito Democratico, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele fa marcire il cibo di Gaza

Abdallah al-Naami

20 luglio 2021 The Electronic Intifada

Suhaila al-Louh soffre alla vista del suo vivaio. “Ogni volta che ci vado muore una parte di me,” dice.

Durante gli attacchi di maggio contro Gaza Israele ha ripetutamente bombardato il suo vivaio – situato vicino alla città di Beit Lahiya. Le piantine di pomodori, cetrioli, peperoni e patate piantate da Suhaila e dalla sua squadra sono andate distrutte, così come le serre e l’impianto di irrigazione.

I bombardamenti hanno inoltre riportato alla memoria ricordi estremamente dolorosi. Israele uccise Khader, il marito di Suhaila, nel luglio 2014, quando colpì Gaza con un altro massiccio attacco.

Il mantenimento di otto familiari di Suhaila dipende dal modesto reddito derivante dalle sue coltivazioni.

Dopo che Israele ha bombardato il suo vivaio la prima volta a maggio, Suhaila è andata a controllare con i figli e le nuore. “Abbiamo provato a recuperare qualcosa che non fosse stato danneggiato,” dice. “Ma non siamo riusciti a trovare niente.”

“Ho 60 anni,” aggiunge. “Ho investito tutto quel che potevo per sviluppare l’attività. E in un battibaleno tutto è andato distrutto.”

Anche se quasi tutte le immagini arrivate da Gaza al resto del mondo si concentravano sulle aree urbane prese di mira da Israele, non si deve trascurare la triste situazione degli agricoltori.

Condizioni assurde

Un recente rapporto dell’Unione Europea, la Banca Mondiale e le Nazioni Unite stima che le aziende agricole e le imprese dipendenti dall’agricoltura abbiano subito danni che ammontano fino a 45 milioni di dollari [38,23 milioni di euro].

Il ministero dell’Agricoltura di Gaza ha pubblicato cifre ben più elevate. Secondo i suoi calcoli il settore agricolo ha subito oltre 200 milioni di dollari [170 milioni di euro] di perdite, fra quelle dirette e indirette.

Oltre a bombardare le aziende agricole, Israele ha impedito il trasporto delle derrate alimentari da Gaza alla Cisgiordania occupata.

Le restrizioni imposte a maggio non sono state tolte che a giugno inoltrato.

E questa revoca era soggetta a condizioni assurde.

Israele ha insistito che si togliessero i gambi dai pomodori. In caso contrario non avrebbero potuto passare per Kerem Shalom, il valico sotto controllo israeliano da cui entra ed esce la merce per Gaza.

La clausola di Israele – che imponeva costi aggiuntivi ai coltivatori di pomodori e riduceva la durata dei loro prodotti – in seguito è stata tolta. Israele ha però minacciato di reintrodurla in agosto.

Ahmad al-Astal dirige un’azienda agricola di 50 acri nella zona di Khan Younis, nella parte meridionale di Gaza.

Di solito vende la sua produzione di patate, pomodori, melanzane e peperoni in Cisgiordania.

Tuttavia recentemente Israele gli ha impedito per diverse settimane di trasportare qualsiasi prodotto fuori di Gaza.

“I nostri magazzini sono pieni di ortaggi che stanno marcendo,” ha detto. “Abbiamo interrotto la raccolta delle colture ed ora non si vede altro che mucchi di ortaggi marci dappertutto.”

“Nessuna scelta”

Vendere i suoi prodotti all’interno di Gaza non era economicamente sostenibile. A causa delle restrizioni imposte da Israele sui trasporti, c’era un eccesso di produzione a Gaza.

Di conseguenza i prezzi nei mercati locali sono crollati.

“Prendere i prodotti del raccolto e trasportarli al mercato mi costa di più di quanto finirei col guadagnare vendendoli al mercato,” dice Ahmad. “Così non posso fare altro che lasciare il raccolto in deposito, sperando di riuscire a tornare a venderlo fuori di Gaza entro breve.”

Ahmad ha dovuto ridurre il personale da 70 ad appena sette.

Ali al-Astal, uno dei suoi collaboratori, dice: “Normalmente qui si vedrebbero in giro per le serre i lavoratori che curano le piante e raccolgono i prodotti. Ma ora il nostro lavoro consiste solamente nell’eliminare gli ortaggi marci.”

Le restrizioni imposte da Israele hanno avuto un effetto rilevante sui pescatori di Gaza e sul settore dell’acquacoltura.

Yasser al-Haaj è il proprietario dell’azienda ittica al-Bahhar.

Dice che ogni mese circa 30 tonnellate di pesce vengono trasportate da Gaza in Cisgiordania.

Si calcola che oltre 18.000 pesci siano morti nelle aziende ittiche di Gaza a causa delle restrizioni israeliane.

Gli ultimi mesi sono stati disastrosi per al-Haaj.

Non soltanto i pannelli solari e le vasche della sua azienda ittica sono stati danneggiati nel corso degli attacchi israeliani, ma Yasser non è neppure riuscito a vendere in Cisgiordania, un mercato vitale per lui.

“I mercati di Gaza non possono assorbire la nostra produzione,” dice. “Quando si sono fermate le esportazioni, non abbiamo potuto vendere i pesci, così li abbiamo dovuti tenere nelle vasche. Al momento ogni vasca ha circa tre volte la quantità di pesci che è in grado di contenere. E i pesci hanno incominciato a morire. Le nostre perdite aumentano di giorno in giorno.”

Abdallah al-Naami è un giornalista e fotografo che vive a Gaza.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Ben & Jerry’s annuncia la fine delle vendite nei territori palestinesi occupati

Alex MacDonald

19 luglio 2021 Middle East Eye

L’azienda produttrice di gelati statunitense afferma che lo smercio dei suoi prodotti nei territori occupati è “incoerente” con i valori dell’azienda

L’azienda produttrice di gelati Ben & Jerry’s ha annunciato che interromperà la vendita dei suoi prodotti nei territori palestinesi occupati.

Lunedì, in un comunicato, la società ha dichiarato [la vendita dei suoi prodotti nei territori palestinesi occupati] “incoerente con i nostri valori”e ha aggiunto che “ascolta e riconosce le preoccupazioni condivise dai nostri clienti e soci fidati.

“Abbiamo una partnership di lunga data con il nostro concessionario, che produce il gelato Ben & Jerry’s in Israele e lo distribuisce nella regione”, si legge nella nota.

“Abbiamo lavorato per cambiare questa situazione e quindi abbiamo informato il nostro concessionario che alla scadenza alla fine del prossimo anno non rinnoveremo il contratto”.

Hanno anche detto che “rimarranno in Israele attraverso un accordo diverso” senza specificare altro.

L’azienda, che sin dalla sua fondazione nel 1978 ha sostenuto una serie di cause per i diritti civili, ha ricevuto critiche per la vendita negli insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati dei gelati prodotti in Israele.

Nel 2015 è stata presa di mira dalla campagna BDS in merito alla sua politica in Israele.

‘Grande vittoria’ per la Palestina

Lunedì l’Adalah Justice Project, un’organizzazione pro-palestinese con sede negli Stati Uniti, ha accolto con favore questa decisione e la ha definita una “grande vittoria della lotta palestinese per la libertà”.

Tuttavia l’organizzazione ha aggiunto che continuerà a chiedere un “disimpegno completo da tutti i rapporti commerciali con l’Israele dell’apartheid”.

Ben & Jerry’s ha sostenuto con forza il movimento Black Lives Matter e altre cause progressiste sui social media, ma è rimasta in silenzio a metà maggio quando Israele ha lanciato gli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza.

Utenti dei social media hanno criticato l’azienda per essersi proclamata una paladina delle cause per i diritti civili ignorando la difficile situazione dei palestinesi.

L’operazione militare israeliana di 11 giorni sulla Striscia di Gaza a maggio ha provocato l’uccisione di almeno 248 palestinesi e la distruzione di una serie di edifici tra cui scuole, centri medici e uffici della stampa. Anche dodici israeliani sono stati uccisi dai razzi lanciati da Gaza.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Pegasus: la lunga storia di processi e smentite del Gruppo NSO

Frank Andrews

20 luglio 2021 – Middle east eye

L’azienda israeliana afferma di non poter essere considerata responsabile per il modo in cui gli Stati, “clienti sovrani”, utilizzano la sua tecnologia.

Il gruppo NSO non è nuovo agli scandali.

Le affermazioni fatte questa settimana secondo cui la tecnologia spyware del programma Pegasus dell’azienda israeliana è stata utilizzata per sorvegliare 50.000 telefoni – appartenenti a capi di stato, giornalisti, attivisti per i diritti umani, oppositori politici e altro – potrebbero rappresentare l’accusa più grave mossa contro l’azienda, ma non sarebbe la prima.

Pegasus, che in vari modi infetta i telefoni con spyware, ha rappresentato una manna per i regimi autoritari che usano le tecnologie per tracciare chiunque sia percepito come critico nei confronti del loro potere.

Il Gruppo è stato oggetto di numerose azioni legali e denunce.

Martedì i pubblici ministeri francesi hanno annunciato di aver aperto un’indagine con l’accusa secondo cui Pegasus è stato utilizzato dall’intelligence marocchina per spiare i giornalisti francesi, dopo che Forbidden Stories, organizzazione senza scopo di lucro [con la missione di “continuare e pubblicare il lavoro di giornalisti minacciati, incarcerati o assassinati”, ndtr.] ha condotto un’inchiesta che ha rivelato come alcuni Stati, tra cui l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e il Marocco, starebbero usando la tecnologia Pegasus per spiare cittadini e dissidenti, inclusi i collaboratori di Middle East Eye Madawi al-Rasheed e Azzam Tamimi.

I familiari, gli amici e i contatti più stretti del giornalista saudita assassinato Jamal Khashoggi erano tra le molte migliaia di persone sorvegliate.

Nel corso degli anni, NSO, fondata nel 2010, ha ripetutamente cercato di sottrarsi alle responsabilità riguardo a come gli Stati utilizzino la sua tecnologia per spiare giornalisti e difensori dei diritti umani.

NSO afferma di seguire tutte le normative israeliane che disciplinano l’esportazione dei suoi prodotti e di vendere solo agli alleati di Israele, mai ai suoi nemici. Afferma inoltre di vendere solo a governi e mai a individui o utenti non autorizzati e che Pegasus è destinato esclusivamente a combattere la criminalità e il terrorismo.

Sottolinea tuttavia che una volta venduto il prodotto, non c’è alcun controllo (o almeno così sostiene) su come venga utilizzata la tecnologia.

Middle East Eye ha indagato sulla lunga lista di accuse a cui NSO ha dovuto rispondere nel corso degli anni e su come l’azienda abbia reagito.

2016

Secondo un rapporto di Citizen Lab [laboratorio interdisciplinare dell’Università di Toronto per ricerca, sviluppo e politica strategica di alto livello, ndtr.] e Lookout Security [società californiana che produce software di sicurezza su cloud per dispositivi mobili, ndtr.], si è scoperto che nell’agosto 2016 gli Emirati Arabi Uniti stavano monitorando l’iPhone dell’attivista per i diritti umani negli Emirati Ahmed Mansoor utilizzando lo spyware Pegasus.

Mansoor ricevette un sms che gli chiedeva di aprire un link per avere informazioni sui prigionieri torturati negli Emirati Arabi Uniti.

NSO non ha confermato di aver creato lo spyware utilizzato per raggiungere Mansoor. Tuttavia ha affermato in una dichiarazione di “vendere solo ad agenzie governative autorizzate e rispettare pienamente le rigorose leggi e regolamenti sul controllo delle esportazioni. Inoltre l’azienda non gestisce nessuno dei suoi sistemi: è un’azienda esclusivamente tecnologica”.

Altri Paesi che il rapporto di Citizen Lab ha scoperto potrebbero aver utilizzato questa tecnologia includono Messico, Turchia, Israele, Thailandia, Qatar, Kenia, Uzbekistan, Mozambico, Marocco, Yemen, Ungheria, Arabia Saudita, Nigeria e Bahrein.

In un caso collegato a quello del 2016, anche le autorità degli Emirati Arabi Uniti avrebbero impiegato Pegasus in un tentativo di phishing [azione per ottenere con l’inganno dati riservati, ndtr.] contro il giornalista MEE Rori Donaghy, che parlava in modo critico degli abusi del regime autocratico del Paese.

Nel corso dell’indagine su questo attacco, Citizen Lab ha scoperto che 1.100 attivisti e giornalisti dell’Emirato erano stati presi di mira allo stesso modo e che per questi attacchi il governo aveva pagato al gruppo NSO 600.000 dollari.

2017

Nel febbraio 2017, Citizen Lab ha rivelato che Pegasus era stato utilizzato per colpire degli attivisti messicani che cercavano di contrastare l’obesità infantile. Il malware aveva accesso ai loro telefoni quando aprivano i link con testi che dicevano, ad esempio, “Mentre stai lavorando, sto fottendo la tua vecchia, ecco una foto” e “[tua figlia] ha appena avuto un grave incidente… ecco dove è ricoverata”.

Nello stesso anno, il New York Times ha riferito che i telefoni di attivisti politici messicani per i diritti umani e anticorruzione, che stavano indagando su possibili crimini commessi dal governo e dai suoi agenti, erano stati infettati da Pegasus. Il NYT ha affermato che le vittime hanno notato le intrusioni per la prima volta nell’estate del 2016.

Il governo messicano ha negato ogni responsabilità in merito allo spionaggio.

2018

Nell’agosto 2018 Amnesty International ha affermato che uno dei membri del suo personale, così come molti sauditi difensori dei diritti umani, erano stati presi di mira con il software Pegasus, utilizzando messaggi di testo con link che dicevano, ad esempio:

Puoi per favore coprire [la protesta] davanti all’ambasciata saudita a Washington per i fratelli detenuti in Arabia Saudita? Mio fratello sta facendo il Ramadan e io sono qui con una borsa di studio, quindi per favore non taggarmi”.

Quando Amnesty ha collegato lo spionaggio alla NSO, l’azienda ha risposto: “Il nostro prodotto è destinato esclusivamente alle indagini e alla prevenzione di crimini e terrorismo. Qualsiasi utilizzo della nostra tecnologia contrario a tale scopo costituisce una violazione delle nostre politiche, dei contratti legali e dei nostri valori come azienda”.

In seguito Amnesty ha affermato che alla luce dell’attacco informatico stava considerando un’azione legale per costringere il ministero della Difesa israeliano a revocare la licenza di esportazione a NSO.

Nello stesso mese di agosto, il New York Times ha riferito che NSO stava affrontando due cause legali con l’accusa di aver partecipato attivamente allo spionaggio illegale.

Il giornale affermava che le cause, intentate da un cittadino del Qatar e da giornalisti e attivisti messicani, erano state depositate in Israele e a Cipro, e che i documenti presentati a sostegno delle accuse dimostravano che gli Emirati Arabi Uniti avevano utilizzato lo spyware Pegasus per almeno un anno.

Secondo il NYT, gli Emirati avevano intercettato i telefoni dell’emiro del Qatar, di un caporedattore di un giornale con sede a Londra e di un potente principe saudita. Gli Emirati Arabi Uniti, insieme al Bahrain e all’Arabia Saudita, erano a quel tempo coinvolti in una disputa con il Qatar che portò il trio a imporre un blocco terrestre e marittimo contro il loro vicino.

Nell’ottobre 2018 Citizen Lab ha dichiarato che il software Pegasus aveva attaccato il telefono di un caro amico di Jamal Khashoggi, Omar Abdulaziz, prima dell’omicidio del dissidente e che il software aveva preso di mira difensori dei diritti umani in Bahrain, negli Emirati Arabi Uniti e altrove.

Lo stesso mese l’informatore statunitense Edward Snowden aveva affermato che Pegasus era stato utilizzato dalle autorità saudite per sorvegliare Khashoggi prima della sua morte.

“Sono il peggio del peggio”, ha detto Snowden dell’azienda. NSO nega che la sua tecnologia sia stata “in alcun modo” utilizzata per l’omicidio.

Sempre a ottobre, Citizen Lab ha affermato che i suoi stessi ricercatori erano stati presi di mira da agenti collegati alla NSO. La NSO ha negato le accuse.

A novembre Haaretz ha riferito che nell’estate del 2017 NSO aveva firmato un accordo con l’intelligence saudita.

Rispondendo ad Haaretz, NSO ha affermato che “ha operato e opera esclusivamente in conformità con le leggi sull’esportazione della difesa e secondo le linee guida e la stretta supervisione di tutti i componenti dell’establishment della Difesa [israeliana, ndtr.], comprese tutte le questioni relative alle politiche e alle licenze di esportazione. Le informazioni fornite da Haaretz sull’azienda, sui suoi prodotti e sul loro utilizzo sono errate, basate su voci e pettegolezzi di parte. Il quadro distorce la realtà”.

Poi, secondo quanto riportato dal New York Times, a dicembre Abdulaziz ha intentato una causa contro NSO, sostenendo che la società aveva aiutato i sauditi a spiare le sue comunicazioni con Khashoggi.

Il Gruppo NSO ha affermato ancora una volta che la sua tecnologia è stata “concessa su licenza al solo scopo di fornire ai governi e alle forze dell’ordine la capacità di combattere legalmente il terrorismo e la criminalità”.

I contratti per l’utilizzo del software, ha aggiunto, “vengono forniti solo dopo un completo controllo e previa autorizzazione da parte del governo israeliano”, ha affermato NSO.

Non tolleriamo un uso improprio dei nostri prodotti. Se c’è il sospetto di un uso improprio, indaghiamo e intraprendiamo le azioni necessarie, inclusa la sospensione o la risoluzione del contratto”, ha aggiunto.

L’amministratore delegato della società, Shalev Hulio ha affermato in seguito che NSO non era stata coinvolta nel “terribile omicidio”, ma non ha risposto in merito alla segnalazione secondo cui Hulio era andato personalmente a Riyadh per vendere il software Pegasus ai sauditi.

2019

Nel febbraio 2019, una società di private equity [che apporta nuovi capitali a una società come investimento finanziario, ndtr.] ha acquistato lo spyware NSO e ha dichiarato a Citizen Lab di essere “impegnata ad aiutarla a diventare più trasparente in merito alla sua attività”.

E ad aprile, secondo quanto riferito, l’azienda ha congelato dei nuovi accordi con l’Arabia Saudita.

A maggio, Amnesty ha affermato che avrebbe presentato una petizione legale al tribunale distrettuale di Tel Aviv per bloccare le licenze di esportazione di NSO, e uno scrittore satirico saudita che vive in esilio a Londra ha intentato un’azione legale contro l’Arabia Saudita, accusando il Paese di aver utilizzato lo spyware Pegasus per ottenere informazioni personali dal suo telefono.

Lo stesso mese un’indagine del Financial Times ha rivelato che dei malintenzionati stavano sfruttando la funzione di chiamata di WhatsApp telefonando alle vittime per diffondere Pegasus.

“In nessun caso NSO è stata coinvolta nell’operazione o nell’identificazione degli obiettivi della sua tecnologia, che è gestita esclusivamente da agenzie di intelligence e forze dell’ordine”, ha risposto la società al FT. “NSO non avrebbe, o non potrebbe, utilizzare il software in proprio per prendere di mira qualsiasi persona o organizzazione”.

Nell’ottobre dello stesso anno WhatsApp, di proprietà di Facebook, ha intentato una causa contro il gruppo NSO accusandolo di aver cercato illegalmente di sorvegliare giornalisti, attivisti per i diritti umani e altri in 20 Paesi tra cui Messico, Emirati Arabi Uniti e Bahrain.

L’azione legale, intentata in California presso un tribunale federale degli Stati Uniti, accusava il gruppo NSO di aver cercato di infettare circa 1.400 “dispositivi bersaglio” con spyware ostile che potrebbe essere utilizzato per rubare informazioni agli utenti di WhatsApp.

“Contestiamo recisamente le accuse odierne e le combatteremo con forza”, ha affermato il gruppo NSO in una nota.

“L’unico scopo di NSO è fornire tecnologia all’intelligence governativa autorizzata e alle forze dell’ordine per aiutarli a combattere il terrorismo e gravi forme di criminalità”.

Un mese prima, a settembre, NSO aveva messo a punto una politica dei diritti umani, affermando che avrebbe rispettato i principi guida delle Nazioni Unite.

A novembre, un gruppo di dipendenti di NSO ha intentato una causa contro Facebook, affermando che il gigante dei social media aveva bloccato ingiustamente i loro account privati quando aveva fatto causa a NSO il mese prima, accusando Facebook di “punizione collettiva”.

Il giorno prima, intervenendo a una conferenza sulla tecnologia a Tel Aviv, il presidente della NSO Shiri Dolev aveva difeso la sua azienda, affermando che le tecnologie NSO hanno reso il mondo più sicuro.

Dolev ha anche affermato di auspicare che NSO possa parlare apertamente del ruolo che svolge nell’aiutare le forze dell’ordine a catturare i terroristi.

“Terroristi e criminali usano le piattaforme e le app dei social che usiamo tutti noi ogni giorno”, ha detto.

2020

Nel gennaio 2020 un giudice israeliano ha ordinato a NSO di affrontare la denuncia di pirateria informatica intentata contro il Gruppo dall’attivista saudita Omar Abdulaziz e di pagare le sue spese legali, e un tribunale ha stabilito che la causa legale di Amnesty per impedire a NSO di esportare il suo software si sarebbe dibattuta a porte chiuse.

Lo stesso mese Reuters ha riferito che almeno dal 2017 l’FBI stava indagando su NSO riguardo al suo possibile coinvolgimento in un attacco informatico contro cittadini e società statunitensi, nonché per una sospetta raccolta di informazioni nei confronti di governi.

La società ha affermato di non essere a conoscenza di alcuna inchiesta.

Secondo The Guardian ad aprile i documenti del tribunale relativi al caso WhatsApp dimostravano come NSO avesse negato ogni responsabilità per come era stata utilizzata la sua tecnologia, affermando che WhatsApp aveva “confuso” le azioni di NSO con quelle dei suoi “clienti sovrani”.

I governi clienti agiscono prendendo tutte le decisioni su come utilizzare la tecnologia”, ha affermato la società. “Se qualcuno ha installato Pegasus su un qualche presunto ‘dispositivo bersaglio’ non sono stati gli imputati [Gruppo NSO] a farlo. Sarebbe stato un ente di un governo sovrano”.

“Il Gruppo NSO non gestisce il software Pegasus per i suoi clienti”, ha detto a The Guardian.

A giugno, un’indagine di Amnesty International ha rivelato che lo spyware della NSO era stato utilizzato contro il noto giornalista marocchino e difensore dei diritti umani Omar Radi.

Il rapporto di Amnesty afferma che l’attacco a Radi era avvenuto tre giorni dopo l’annuncio della nuova politica dei diritti umani della NSO.

In risposta, NSO ha dichiarato di essere “profondamente turbata” dalle accuse e che avrebbe immediatamente avviato un’indagine.

“Coerentemente con la propria politica dei diritti umani, il Gruppo NSO considera seriamente la responsabilità di rispettare i diritti umani ed è fortemente impegnata a evitare di causare, contribuire o essere direttamente collegata a effetti negativi sui diritti umani”, ha affermato NSO in una nota.

Comunque la società ha preso le distanze dall’accusa di avere legami con le autorità marocchine e ha affermato che, per la natura della sua attività, deve salvaguardare la riservatezza dei suoi clienti.

“Siamo obbligati a rispettare gli interessi di riservatezza degli Stati e non possiamo rivelare l’identità dei clienti”, ha affermato NSO.

Martedì Radi è stato condannato a sei anni di carcere per aggressione sessuale e spionaggio, accuse che lui nega.

Nel luglio 2020, un tribunale di Tel Aviv ha respinto la petizione di Amnesty e 30 attivisti per i diritti umani che chiedevano di revocare la licenza di esportazione al gruppo NSO, affermando che non avevano fornito prove del fatto che il software Pegasus fosse stato utilizzato per spiare gli attivisti della ONG britannica.

Le indagini di luglio e agosto hanno rivelato che il software Pegasus era stato utilizzato per spiare politici catalani in Spagna e sacerdoti in Togo.

A dicembre Citizen Lab ha riferito che dozzine di giornalisti dell’agenzia di stampa Al Jazeera, finanziata dal Qatar, sono stati presi di mira con un attacco di Pegasus tramite iMessage, attacchi probabilmente collegati ai governi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti.

Un giornalista di Al Jazeera ha detto di aver ricevuto minacce di morte sul suo telefono: “Hanno minacciato di farmi diventare il nuovo Jamal Khashoggi”.

In una dichiarazione il gruppo NSO ha messo in dubbio le accuse di Citizen Lab, ma ha affermato di “non essere in grado di commentare un rapporto che non abbiamo ancora visto”.

L’azienda ha affermato di fornire software al solo scopo di consentire “alle forze dell’ordine governative di affrontare la criminalità organizzata e l’antiterrorismo”.

All’inizio di quel mese, una conduttrice televisiva di Al Jazeera ha intentato un’altra causa negli Stati Uniti, sostenendo che il gruppo NSO ha hackerato il suo telefono tramite WhatsApp a causa delle sue critiche al potente principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman.

A dicembre, una coalizione di associazioni per i diritti umani, tra cui il gruppo per i diritti sulla rete Access Now, Amnesty International, il Comitato per la Protezione dei Giornalisti e Reporter senza Frontiere, si è unita alla lotta legale di Facebook contro NSO, sostenendo che la società dà la priorità ai profitti rispetto ai diritti umani, facendo seguito a un’azione simile promossa da una serie di grandi aziende tecnologiche tra cui Google e Microsoft.

2021

A marzo The Guardian ha riferito che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha ripreso le indagini sul gruppo NSO, dopo mesi in cui le principali società tecnologiche statunitensi andavano affermando che l’azienda israeliana è “potente e pericolosa” e non dovrebbe avere l’immunità per il suo ruolo nelle operazioni di pirateria informatica.

Il Guardian ha riferito che all’inizio del 2020 il gruppo NSO era stato oggetto di un’indagine dell’FBI, che però sembrava essersi arenata e il Dipartimento di Giustizia stava ora mostrando un nuovo interesse per il caso.

A luglio, un’indagine condotta da Forbidden Stories e Amnesty International ha rivelato che i telefoni di migliaia di giornalisti, attivisti e funzionari sono stati presi di mira o violati utilizzando Pegasus.

In risposta, NSO ha respinto le “false affermazioni”, ha definito le accuse “teorie non provate” e parte di una “narrazione oscena… strategicamente inventata da diversi gruppi di interessi specifici strettamente allineati”.

“Le tecnologie vengono utilizzate ogni giorno anche per spezzare i circuiti di pedofilia, sesso e traffico di droga, individuare i bambini scomparsi e rapiti e i sopravvissuti intrappolati sotto edifici crollati e proteggere lo spazio aereo dalla dannosa penetrazione di pericolosi droni”, ha aggiunto.

“In parole povere, NSO ha una missione salvavita e la società proseguirà imperterrita ad adempiere a questa missione, nonostante i continui tentativi di screditarla su false basi “.

“Nonostante quanto sopra”, ha aggiunto, “NSO continuerà a indagare su tutte le affermazioni credibili di un uso scorretto e a intraprendere azioni appropriate in base ai risultati di quelle indagini”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Secondo un sondaggio, un terzo dei giovani ebrei statunitensi vede Israele come genocida

Ali Abunimah

15 luglio 2021 –Electronic Intifada

Sono in crescita i tentativi da parte di Israele e della sua lobby di assimilare la contestazione dei crimini israeliani contro il popolo palestinese al pregiudizio anti-ebraico.

Eppure un recente sondaggio indica che questa campagna è fallita persino tra la stragrande maggioranza degli elettori ebrei americani.

Il sondaggio commissionato dal Jewish Electorate Institute [Istituto per l’elettorato ebraico, ndtr.], un’organizzazione guidata da sostenitori del Partito Democratico, riporta diversi dati interessanti.

Un quarto degli elettori ebrei americani concorda sul fatto che Israele sia uno Stato di apartheid, un numero che sale fino al 38% tra coloro che hanno meno di 40 anni.

Nel complesso il 22% degli elettori ebrei concorda sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio nei confronti dei palestinesi, cifra che sale fino ad un sorprendente 33% nella categoria dei più giovani.

Inoltre secondo il 34% degli elettori ebrei intervistati la condotta di Israele nei confronti dei palestinesi è simile al razzismo negli Stati Uniti. Cifra che va oltre i due su cinque tra chi ha meno di 40 anni.

E’probabile che tali risultati provochino sgomento tra i leader dei gruppi di pressione che sono da tempo preoccupati per l’erosione del sostegno a Israele tra gli ebrei americani, in particolare tra i più giovani.

Ciò che inoltre colpisce è che anche gli ebrei che non sono d’accordo sul fatto che Israele commetta apartheid e genocidio spesso non considerano tali dichiarazioni come antisemite.

Ad esempio, il 62% degli intervistati non è d’accordo sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio, ma di questi solo la metà considera tale affermazione come “antisemita”.

Aperti alla soluzione a uno Stato

Gli ebrei americani sono anche più aperti di quanto generalmente si creda riguardo alla questione di una soluzione politica per palestinesi e israeliani.

Mentre il 61% degli intervistati sostiene ancora la soluzione ormai moribonda dei due Stati, una minoranza considerevole – il 20 % – è favorevole a una soluzione democratica di uno Stato con uguali diritti per tutti coloro che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

Solo il 19% è a favore dell’annessione formale da parte di Israele della Cisgiordania occupata senza la concessione di uguali diritti ai palestinesi – in effetti quella che è, se non di nome, di fatto, la situazione attuale.

E riguardo la questione degli aiuti statunitensi a Israele, il 71% complessivamente li considera “importanti”.

Ma il 58% concorda sul fatto che gli Stati Uniti dovrebbero impedire l’utilizzo da parte di Israele di tali aiuti per la costruzione di insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata. Contemporaneamente, il 62% è favorevole al fatto che gli Stati Uniti ristabiliscano gli aiuti ai palestinesi tagliati dall’amministrazione Trump.

Questa indagine non ha chiesto agli intervistati opinioni sul movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni guidato dai palestinesi, ma lo ha fatto un sondaggio tra ebrei americani del Pew Research Center [agenzia statunitense di ricerca su problemi sociali, opinione pubblica, andamenti demografici sugli Stati Uniti ed il mondo in generale, ndtr.] pubblicato a maggio.

Quest‘ultimo rivela che il 34% degli ebrei americani “si oppone fortemente” al movimento BDS. In linea con i risultati di altre indagini, si sono mostrati maggiormente ostili al BDS le persone più anziane, i repubblicani e i religiosi.

Affermazioni false sull’antisemitismo

Ogni volta che l’attenzione mondiale è focalizzata sulle atrocità di Israele, i gruppi di pressione israeliani spesso cercano di deviare l’attenzione verso una presunta ondata di antisemitismo.

Neppure lo scorso maggio, quando Israele ha massacrato decine di bambini a Gaza, è stata un’eccezione.

I principali lobbisti israeliani e i mass-media hanno parlato di un’ondata di presunti attacchi antiebraici negli Stati Uniti.

Eppure una meticolosa indagine del giornalista Max Blumenthal ha rivelato che queste affermazioni erano infondate.

Quello che stanno facendo negli Stati Uniti è fondamentalmente cercare di trovare una via di fuga dalle scene che anche la CNN stava mostrando, come le torri sede degli organi di informazione a Gaza venivano distrutte senza motivo … o di intere famiglie sterminate, per sostituire l’immagine delle vittime palestinesi con quella di … ebrei americani”, ha detto Blumenthal a The Electronic Intifada Podcast il mese scorso.

Questo non vuol dire che non ci sia fanatismo antiebraico e che non debba costituire un problema. In effetti, il 90% degli intervistati – una cifra che varia a malapena in base all’età o all’osservanza religiosa – è preoccupato per l’antisemitismo negli Stati Uniti.

Ma tra uomini e donne e in tutte le fasce d’età il 61% degli elettori ebrei intervistati è più preoccupato per l’antisemitismo della destra politica. Nel complesso, solo il 22% ha dichiarato di essere preoccupato per “l’antisemitismo di sinistra”.

Ciò indica che in generale gli ebrei americani non sono vittime della propaganda secondo cui la sinistra è piena di animosità antiebraica, anche se i gruppi di pressione hanno ignorato o minimizzato il fanatismo e persino la violenza letale della destra contro gli ebrei per concentrarsi invece nell’attaccare e colpevolizzare il movimento di solidarietà con i Palestinesi.

Dato che le persone di sinistra tendono ad appoggiare maggiormente i diritti dei palestinesi e ad essere più critiche nei confronti di Israele i gruppi di pressione si sono concentrati nel diffamare con falsi i partiti e i leader della sinistra, ad esempio la deputata democratica Ilhan Omar e l’ex leader del partito laburista britannico Jeremy Corbyn – come antisemiti.

È una strategia fondata sulla malafede che mira a punire e spaventare le persone fino a portarle a tacere sulla Palestina e ad utilizzare tutta l’energia che potrebbe essere investita nel sostegno ai diritti dei palestinesi in un dibattito difensivo su cosa sia o non sia antisemita.

Mira anche a dividere i movimenti di sinistra e a cooptare nell’azione di sostegno a Israele figure influenti che si atteggiano ancora come “progressisti”.

Tuttavia il sondaggio del Jewish Electorate Institute suggerisce che la maggior parte degli ebrei americani capisce che la più grande minaccia alla loro sicurezza non viene dai sostenitori dei diritti dei palestinesi, ma dalla destra politica bianca anti-palestinese, anti-musulmana, suprematista e razzista.

Difficile da far accettare

Può sembrare sorprendente che un numero significativo di ebrei americani ora accetti che Israele sia uno Stato genocida e di apartheid.

Ma ciò riflette tendenze più ampie nella società americana, specialmente tra i giovani, di crescente sostegno per i diritti dei palestinesi e di scetticismo nei confronti di Israele.

A parte gli ebrei ortodossi, gli ebrei americani costituiscono un collegio elettorale particolarmente aperto e progressista: nel complesso il 68% afferma che se si tenesse un’elezione oggi voterebbe per il Partito Democratico.

L’82% degli elettori ebrei intervistati si descrive come moderato, di ampie vedute o progressista. Solo il 16% si identifica come conservatore.

È davvero difficile far accettare Israele – uno Stato segregazionista e di apartheid – a un gruppo che in enorme maggioranza professa di sostenere la giustizia razziale e i valori progressisti negli Stati Uniti.

Un indicatore di questa realtà è la clamorosa svolta su Israele annunciata l’anno scorso da Peter Beinart. Influente commentatore sionista progressista, Beinart ha difeso a lungo la soluzione dei due Stati e si è opposto al BDS.

Beinart ha riconosciuto che il suo approccio era arrivato a un vicolo cieco e ha abbracciato la soluzione di un unico Stato basato sull’uguaglianza dei diritti, provocando costernazione e rabbia tra i leader della lobby pro Israele.

La questione è stata affrontata anche da Marisa Kabas in un articolo su Rolling Stone scritto a maggio nel corso dell’attacco israeliano a Gaza.

Kabas scrive come lei e molti dei suoi giovani coetanei ebrei americani siano “alle prese con la versione di Israele presentata in viaggi organizzati da enti come Birthright [ONLUS israeliana che sponsorizza viaggi gratuiti in Israele, Gerusalemme e le alture del Golan per giovani adulti di origine ebraica di età compresa tra 18 e 32, ndtr.] rispetto a ciò che hanno visto accadere nella realtà“.

Sostiene che fanno fatica a “conciliare l’amore per la loro gente e la loro storia con l’impegno per la giustizia razziale e sociale, e che le azioni di Israele in Palestina sembrano andare contro il ‘tikkun olam’ – il principio ebraico di migliorare il mondo attraverso l’azione”.

Questione con bassa priorità

E contrariamente all’impressione che si potrebbe avere seguendo le principali lobby israeliane o ascoltando i politici compiacenti, il sondaggio indica che per la maggior parte degli ebrei americani Israele ha una priorità molto scarsa.

È vero che il 62% degli intervistati afferma di essere “legato affettivamente” a Israele, mentre il 38% afferma di non esserlo. Tuttavia quest’attaccamento si indebolisce un po’ tra i più giovani o i meno religiosi.

Ma quanto sarebbero diversi questi numeri se un sondaggista interrogasse un campione che rappresentasse tutti gli americani sul loro “legame affettivocon Israele?

Per decenni, dopotutto, i leader politici statunitensi hanno dichiarato agli americani di avere un legame speciale e indissolubile con Israele, diverso che con qualsiasi altro Paese.

Influenti personalità americane di religione cristiana come il pastore John Hagee, il fondatore di Christians United for Israel [organizzazione cristiana americana che sostiene Israele, ndtr.], addirittura dicono ai loro fedeli che sostenere Israele è un dovere religioso.

In ogni caso, il legame affettivo – qualunque cosa significhi – non si traduce apparentemente in priorità politiche.

Solo il 4% degli elettori ebrei indica Israele come una delle due questioni principali su cui vorrebbe che il governo degli Stati Uniti si concentrasse, mentre il 3% elenca l’Iran, un’altra ossessione delle lobby pro Israele.

Invece, con un ampio margine di vantaggio, le principali preoccupazioni sono il cambiamento climatico, i diritti di voto e le questioni economiche. Solo tra gli ebrei ortodossi una minoranza significativa – il 18% – vede Israele come una priorità.

Per la maggior parte degli elettori ebrei, secondo il Jewish Electorate Institute, Israele è una “questione con bassa priorità“.

Non è mai successo che gli ebrei americani sostenessero in modo omogeneo Israele o la sua ideologia sionista di Stato colonialista, sebbene sia gli antisemiti che i sionisti siano stati felici di permettere che questa idea prosperasse per i propri fini.

Questo sondaggio, che si aggiunge ad altre testimonianze, aiuta a sfatare questo mito.

Ali Abunimah

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [ La battaglia per la giustizia in Palestina, ndtr.] ora pubblicato da Haymarket Books.

Ha scritto anche One Country : A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse [Un Paese: una proposta coraggiosa per porre fine all’impasse israelo-palestinese, ndtr.]. Le opinioni sono solo mie.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Rapporto OCHA del periodo 29 giugno – 12 luglio 2021

Il 3 luglio, coloni israeliani, accompagnati da soldati, sono entrati nel villaggio di Qusra (Nablus), scontrandosi con i residenti palestinesi. Nel corso di tali scontri è stato ucciso un 21enne palestinese:

secondo i militari, l’uomo ha lanciato un ordigno esplosivo e le forze israeliane gli hanno sparato. Coloni israeliani e residenti palestinesi si sono lanciati pietre reciprocamente e, secondo fonti locali, dopo che il 21enne palestinese era stato colpito, alcuni coloni lo hanno percosso. Nel corso di manifestazioni in cui i palestinesi hanno chiesto alle autorità israeliane la restituzione del corpo dell’ucciso, le forze israeliane hanno disperso la folla sparando proiettili veri, proiettili di gomma e gas lacrimogeni: diversi palestinesi hanno subito lesioni.

In Cisgiordania, in scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente almeno 981 palestinesi, tra cui 133 minori [seguono dettagli]. Del totale dei feriti, 892 sono stati registrati nel governatorato di Nablus, includendo i feriti nei suddetti eventi di Qusra, e quelli collegati alle proteste contro l’espansione degli insediamenti nei villaggi di Beita e Osarin; 19 sono rimasti feriti nei quartieri di Ras al ‘Amud e Silwan a Gerusalemme Est; 13 nel villaggio di Halhul (Hebron) e i rimanenti in altre località. Complessivamente, 36 palestinesi sono stati colpiti da proiettili veri, 214 da proiettili di gomma; i rimanenti sono stati curati principalmente per l’inalazione di gas lacrimogeni o sono stati aggrediti fisicamente. Oltre ai 981 feriti direttamente dalle forze israeliane, 58 sono rimasti feriti a Beita e Osarin cercando di sfuggire alle forze israeliane o in circostanze non verificabili.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 163 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 134 palestinesi, tra cui sei minori. La maggior parte delle operazioni è avvenuta a Nablus, seguita da Hebron e Gerusalemme Est; le restanti operazioni sono state effettuato in altri governatorati.

Il 4 luglio, nella Città Vecchia di Gerusalemme, le autorità israeliane hanno convocato un bambino palestinese di nove anni per un interrogatorio le cui ragioni restano sconosciute. Da metà aprile, a Gerusalemme Est, sono stati arrestati dalle autorità israeliane almeno 65 minori palestinesi, più della metà dei quali sono stati arrestati nel solo mese di giugno.

A Gaza, palestinesi hanno lanciato palloni incendiari verso Israele e le forze israeliane hanno effettuato quattro attacchi aerei, prendendo di mira siti militari, ferendo due persone e danneggiando case ed una manifattura. Vicino alla recinzione perimetrale e al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, in almeno nove occasioni; secondo quanto riferito per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [loro imposte]. Hanno anche svolto almeno quattro operazioni di spianatura del terreno vicino alla recinzione perimetrale, all’interno di Gaza.

Il 12 luglio, le autorità israeliane hanno esteso da 9 a 12 miglia nautiche la zona di pesca consentita [ai palestinesi] al largo della costa meridionale di Gaza, mentre l’hanno mantenuta a sei miglia nella parte settentrionale. Lo stesso giorno, le autorità israeliane hanno annunciato l’ampliamento della gamma di merci consentite in entrata e in uscita dalla Striscia di Gaza; le limitazioni erano state imposte dall’inizio del conflitto del 10-21 maggio.

In Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 59 strutture di proprietà palestinese, sfollando 81 persone e determinando ripercussioni su circa altre 1.300 [seguono dettagli]. 30 strutture sono state demolite a Humsa – Al Bqai’a (Valle del Giordano), una clinica mobile è stata confiscata nella Comunità di Umm Qussa (Hebron) e una scuola in costruzione è stata demolita a Shu’fat (Gerusalemme Est). L’8 luglio, nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), le forze israeliane hanno demolito, con motivazioni punitive, una casa appartenente alla famiglia di un palestinese (con cittadinanza statunitense), che era stato arrestato dopo che, il 2 maggio, aveva ucciso un colono e ferito altri due.

Il 2 luglio 2021, coloni israeliani, sotto scorta della polizia israeliana, si sono trasferiti in un edificio vuoto nella zona di Wadi Hilweh, nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. Dall’inizio dell’anno, questo è il secondo insediamento di coloni all’interno di Comunità palestinesi a Gerusalemme Est, ed entrambi in Silwan.

Coloni israeliani hanno ferito nove palestinesi, tra cui quattro minori e due donne, aggredendoli fisicamente, lanciando loro pietre o spruzzando liquido al peperoncino su di loro. Sei dei ferimenti sono avvenuti nella zona H2 di Hebron, due a Maghayir al Abeed, uno a Tuba (tutti in Hebron) e uno a Kisan (Betlemme). In Cisgiordania, autori conosciuti o ritenuti coloni israeliani hanno danneggiato almeno 1.120 alberi o alberelli, almeno cinque veicoli, oltre a pali elettrici, recinzioni ed altre proprietà palestinesi.

Palestinesi hanno ferito, lanciando pietre, almeno tre coloni israeliani che viaggiavano su strade della Cisgiordania. Secondo fonti israeliane, sono state danneggiate almeno 21 auto israeliane.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 14 luglio, le forze israeliane hanno confiscato almeno 49 strutture nella Comunità palestinese di Ras al Tin, sfollando 84 persone, tra cui 53 minori.

Il 15 luglio, a Humsa – Al Bqai’a, le forze israeliane hanno confiscato una struttura recentemente installata per ospitare una famiglia di otto persone, tra cui sei minori, che aveva già perso la casa in un precedente episodio avvenuto una settimana prima (vedi paragrafo 7 di questo Rapporto).

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Incontro truccato sul ring mediatico

Jean Stern

18 maggio 2021 – Orient XXI

Inchiesta. Gli attuali avvenimenti lo dimostrano ancora una volta: tra le intimidazioni da parte di un gruppetto di filo-israeliani sovreccitati e la riluttanza delle redazioni, ci vuole una volontà d’acciaio per occuparsi dell’informazione sull’attualità in Israele/Palestina. La violenza subita da Charles Enderlin dopo l’“affaire” Mohamed Al-Dura ha riguardato questo.

Dopo che le provocazioni dell’estrema destra israeliana a Gerusalemme est hanno rilanciato gli scontri tra l’esercito e Hamas, si constata ancora una volta l’importanza di sguardi indipendenti sul posto, cioè spesso di corrispondenti di agenzie di stampa e di media della stampa scritta. Le loro corrispondenze e i loro documenti dimostrano le menzogne del governo di Benjamin Netanyahu, ampiamente ritrasmesse tali e quali – in particolare in Francia da una parte dei media audiovisivi – dai sostenitori di Israele che formano una vasta lobby politica e mediatica che stiamo descrivendo da parecchie settimane [si riferisce a una serie di articoli su Orient XXI sulla lobby filo-israeliana in Francia, ndtr.]. L’incontro sembra impari, tanto è massiccio il rullo compressore della propaganda. Peraltro non è persa.

Tre giornalisti che hanno informato su Israele/Palestina, di tre redazioni in tre periodi diversi, raccontano, chiedendo l’assoluto rispetto dell’anonimato, le telefonate improvvise, le minacce a malapena velate, il doppio gioco dei loro capiredattori. Il primo, chiamiamolo Étienne, è stato corrispondente a Gerusalemme per un quotidiano nazionale, il secondo, Marc, di un media audiovisivo e il terzo, Philippe, inviato speciale fisso di un settimanale.

Come la maggior parte degli inviati speciali e dei corrispondenti da Israele, essi lodano la fluidità del lavoro in quel Paese: lì la stampa è diversificata, le fonti numerose e disponibili, gli argomenti vari. Solo le informazioni relative alla “sicurezza nazionale” sono sottoposte a una commissione di censura militare e a volte ne viene vietata la pubblicazione, principalmente per evitare l’identificazione di soldati nei media audiovisivi.

Ma ciò riguarda essenzialmente una stampa israeliana spesso tenace e che tale rimane, nonostante le grandi manovre di Benjamin Netanyahu e dei suoi amici miliardari dei mezzi d’informazione per normalizzarla. La manipolazione dell’esercito israeliano con l’intenzione di lasciar credere, giovedì 13 maggio, a un attacco terrestre contro Gaza è da questo punto di vista una novità, condannata con forza dalla stampa internazionale.

Al loro ritorno da Israele numerosi inviati di Le Monde, di Libération o di altre redazioni hanno pubblicato opere spesso tanto appassionate quanto critiche sulla società israeliana. Il problema è dunque meno in Israele, “dove si lavora bene, le persone sono abituate ai giornalisti, si può andare ovunque, tutto è aperto,” dice ad esempio René Backmann, a lungo al Nouvel Observateur [giornale francese di centro-sinistra, ndtr.] e oggi a Médiapart [rivista in rete francese di politica, ndtr.]. “È in Francia che ci rompono le scatole.” Per essere più precisi: si rompono le scatole ai giornalisti e si ignorano gli intellettuali critici con la politica israeliana.

Citiamo diffusamente questi tre giornalisti. Étienne, ex- corrispondente di un quotidiano:

Prima sorpresa quando mi sono sistemato a Gerusalemme: uno dei capiredattori del giornale mi viene a trovare e mi presenta a uno dei vecchi “amici” del Mossad. Quest’ultimo mi mette in contatto con un agente più giovane del contro-spionaggio israeliano che si fa chiamare Paul e che è uno degli ufficiali responsabili della stampa estera. Paul mi passa regolarmente dei documenti plastificati che io non utilizzo, sia perché non posso verificarli con una seconda fonte, sia perché le informazioni che contengono sono insignificanti. Ma varie volte trovo queste “rivelazioni” nel giornale, con la firma del suddetto caporedattore, che viene in Israele senza avvertirmi. Va persino ad intervistare il primo ministro senza di me, contrariamente alla consuetudine che vuole che l’inviato sia sempre presente per un’intervista nel Paese di sua competenza. Vengo avvertito da una telefonata del caporedattore: “Vuole vedere solo me,” e poi mi passa… l’ufficiale del Mossad che si occupa dei giornalisti stranieri, che mi dice: “Mi spiace, è vero, ecc.” E a ragione: i suoi editoriali riflettevano la posizione israeliana dell’epoca.

Qualche mese dopo ricevo un incarico inconsueto dal servizio “Società”: un articolo sugli ebrei francesi che emigrano in Israele a causa dell’incremento dell’antisemitismo in Francia. Una rapida inchiesta mi dimostra che le cose sono molto diverse. All’epoca il numero di immigrati provenienti dalla Francia non era aumentato, e tutti quelli che incontavo mi dicevano che non avevano fatto la loro aliyah [emigrazione verso Israele, ndtr.] per paura, ma per sionismo, e che d’altronde “il Paese in cui gli ebrei sono veramente in pericolo è qui.” Un contatto con l’Agenzia Ebraica mi fornisce delle statistiche recenti che mostrano il profilo molto militante degli immigrati: più del 90% ha frequentato in Francia scuole o organizzazioni ebraiche. Una grande maggioranza conferma di essere arrivata per ragioni ideologiche. Ciò non piace alla giornalista del servizio “società” incaricata di occuparsi del mio articolo, di cui non sapevo che era simpatizzante della destra israeliana. Il giorno dopo trovo nel giornale il mio pezzo censurato, senza le cifre scomode. La stessa giornalista pubblica inoltre un articolo condiscendente sulla “comunità ebraica francese in collera con la stampa.”

Siccome andavo regolarmente in Cisgiordania e a Gaza e davo la parola ai palestinesi, il CRIF (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche Francesi) ha protestato presso la mia direzione. Ma l’unico riscontro che ne ho avuto è stato direttamente dal presidente del CRIF. Alla fine di una conferenza alla quale partecipava a Gerusalemme, mi ha preso in disparte: “Il suo direttore l’ha chiamata?” Gli ho chiesto a quale titolo le comunicazioni interne del giornale lo potessero interessare e prima di piantarlo in asso gli ho risposto: “Il mio direttore non mi chiama mai, si fida totalmente di me”. Ho avuto una spiegazione della vicenda qualche tempo dopo, quando sono passato da Parigi. Ho incontrato il direttore della redazione che mi ha spiegato: “Sono stato invitato dal CRIF a fare un viaggio in Israele, ci sono andato per stare in pace, ma non ho voluto parlartene per non disturbarti né influenzarti, e ovviamente non ho scritto niente [in merito].” Quando questo direttore è stato sostituito in seguito a un cambiamento della proprietà, ero già tornato a Parigi. Il suo successore si è vantato ovunque di aver nuovamente fatto del quotidiano “un giornale filo-israeliano.”

Marc, corrispondente di un media audiovisivo:

Da molto tempo Israele cerca di normalizzare la sua immagine internazionale, ma in fin dei conti il problema non è tanto Netanyahu, quanto i suoi referenti in Francia. Quando si scrive un reportage dalla Cisgiordania si scatenano sulle reti sociali e sui loro siti, ci accusano di antisemitismo, di notizie false, sono assolutamente deliranti. Il problema per noi dell’audiovisivo è che, a differenza della stampa scritta, che non ha un controllo esterno, siamo seguiti dal Consiglio Superiore dell’Audiovisivo (CSA). I suoi membri non ne sanno niente, non sanno neppure come si lavora, ma ritengono che si debba “controllare che ci sia un trattamento equilibrato del conflitto” e possono inviarci degli “ammonimenti”. È una spada di Damocle.

Così nel luglio 2020 Radio-France è stata segnalata dal CSA riguardo a un servizio di France Inter [una delle maggiori radio pubbliche francesi, ndtr.] sulla distruzione di una clinica mobile anti-Covid da parte dell’esercito israeliano nei territori occupati. Il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (COGAT), il settore dell’esercito incaricato del governo nei territori, aveva smentito l’inchiesta documentata di France Inter, ma spesso racconta delle assurdità, un esercito d’occupazione non si preoccupa certo della trasparenza. Il CSA era stato scelto da Meyer Habib [deputato di centro-destra dei francesi all’estero e amico di Netanyahu, ndtr.], che ritiene che France Inter sia un covo di “stupidi” islamo-gauchistes [termine spregiativo che indica militanti di sinistra contrari all’islamofobia, ndtr.]. Ovviamente ciò crea un clima che però non bisogna drammatizzare. Ma faccio attenzione, devo pensarci due volte prima di proporre un argomento, non ho voglia di farmi tormentare in continuazione, e la mia caporedattrice non intende farsi censurare dal CSA.

Philippe, inviato speciale di un settimanale:

Sono andato spesso in Israele e in Palestina, anche se non erano al centro del mio lavoro. Ci sono andato per la prima volta più di venti anni fa con un viaggio di conoscenza organizzato dall’ l’American Jewish Committee [Comitato Ebreo Americano] (AJC) di Parigi. Nel mio giornale non ero il primo né l’ultimo a fare questo tipo di viaggio, era totalmente organizzato, tutto pagato. D’altronde l’AJC invitava ogni sorta di colleghi, non solo inviati dei servizi all’estero, ma anche editorialisti, capi redattori, “rubricisti” qualunque. Nel mio gruppo c’era un giornalista specializzato nei trasporti e una collega che si occupava di consumi e della vita quotidiana in una redazione televisiva. Era ben organizzato, veloce, abbiamo fatto un giro in elicottero nel Negev, incontrato qualche deputato e ministro, e persino, all’epoca, un rappresentante del campo pacifista. Che io mi ricordi nessuno ne ha scritto niente, e d’altronde niente ci veniva richiesto. Ma evidentemente essere invitato non fa necessariamente venir voglia di sputare nel piatto in cui mangi.

In primo luogo non ho mai avuto alcuna difficoltà a far pubblicare i miei articoli, anche se uno dei capi redattori pubblicava editoriali sempre più filo-israeliani, piuttosto in contraddizione con quello che scrivevo io…Su uno dei miei articoli ho avuto parecchi messaggi ostili, e so che li ha ricevuti anche il capo redattore, e senza dubbio delle telefonate di “amici” influenti del giornale. Allora, poco alla volta, senza che nessuno mi dicesse niente, è stato sempre più difficile andarci. “Sei sicuro?”, “Ciò non interessa più molto ai lettori”, “Non è un po’ caro?” Beh, ciò non valeva per gli editoriali. Sul giornale l’opinione filo-israeliana era diventata incontrollata, senza essere controbilanciata da servizi più sfumati.

Guillaume Gendron è stato corrispondente di Libération in Israele/Palestina tra il 2017 e il 2020 e in questi ultimi giorni ha scritto numerosi articoli sul suo giornale, sulla falsariga di questa osservazione iniziale pubblicata dal quotidiano il 16 dicembre 2020, che descriveva l’ascesa dell’estrema destra nella società israeliana:

Oggi Israele e Palestina sono più che mai interconnessi, delle realtà non parellele, bensì sovrapposte, dei destini legati uno all’altro. Mentre i coloni si radicano, dando alla Cisgiordania l’aspetto di un Texas kosher [cioè un Far West rispondente ai dettami delle norme religiose ebraiche, ndtr.], una Trumpland bis dove dei cowboy con la kippà di lana [zuccotto ebraico tipico dei coloni religiosi, ndtr.] perpetuano il mito della frontiera con pick-up e M16 [fucile d’assolto USA, ndtr.] contro degli indiani d’Arabia, il muratore di Jenin si guadagna da vivere nei cantieri di Tel-Aviv, dall’altra parte del muro, superato con o senza permesso. Nel frattempo la gioventù palestinese, la generazione Khalas (basta) senza prospettive, non sogna che il mare.

Accolto qualche settimana dopo da Dominique Vidal all’“Istituto di ricerca e di studio Mediterraneo Medio Oriente” (Iremmo) per raccontare un’esperienza professionale durata tre anni, Gendron ha lamentato, come tutti i giornalisti francesi che si occupano dell’attualità a Tel Aviv, Gerusalemme e Ramallah, le angherie di qualche zelota votato alla difesa di Israele… in Francia. “C’è un modo molto organizzato di gestire la calunnia, ci sono persone che lo fanno tutto il giorno sulle reti sociali,” vivisezionare i reportage degli inviati per la cosiddetta disinformazione. “All’inizio controbattevo,” ha proseguito Guillaume Gendron, “ma, di fronte a persone di una tale malafede pronte a deformare le tue affermazioni, ci sono momenti in cui non bisogna mettersi a discutere perché di fatto non si tratta di una discussione.”

Tra interruzioni audio e ricordi sfuggenti, il trattamento mediatico del rapporto Francia-Israele ha un bell’essere un “non-argomento”, come mi è stato ripetuto parecchie volte in vari modi in questi ultimi mesi; ciò non impedisce che qualche vedetta ben sistemata si incarichi di fare i conti con i giornalisti che non fanno altro che il proprio dovere, cioè informare: il giornalista Clément Weill-Raynal e il suo sito InfoEquitable, l’avvocato Gilles William Goldnagel, che setacciano le numerose piattaforme della destra audiovisuale, e l’immancabile deputato Meyer Habib, molto spesso impegnato a perseguitare i giornalisti e che a sua volta è una presenza fissa di I24News [canale televisivo satellitare israeliano, ndtr.]. Sono quasi sistematicamente ritrasmessi dal CRIF e da diverse personalità, come Alain Finkielkraut [filosofo e opinionista, ndtr.], Jacques Tarnero [ricercatore e saggista, ndtr.], Shmuel Trigano [sociologo e filosofo, ndtr.] e da numerosi internauti e siti franco-israeliani con un pubblico riservato, come JJS News, così come ovviamente sulle reti sociali.

Per loro, contro ogni ragionevolezza e semplice senso dell’osservazione, la demonizzazione di Israele sui giornali francesi è terrificante. Esigono un’informazione “equilibrata”, come se questo termine avesse un senso. “Hanno un’idea falsa dell’informazione ‘equilibrata’, che per loro deve essere sistematicamente favorevole a Israele,” spiega un collega inviato a Gerusalemme. Vari giornalisti ricordano la celebre formula attribuita a Jean-Luc Godard che definisce l’obiettività alla televisione: “Cinque minuti per gli ebrei, cinque minuti per Hitler”. Uno di loro mi assicura che Meyer Habib, per criticare il modo in cui informa sulla Palestina, lo ha pesantemente trasformato in “cinque minuti per gli ebrei, cinque minuti per Israele.” Eppure quelli che Piotr Smolar, ex-corrispondente di Le Monde da Gerusalemme, definisce “formiche astiose” “finiscono per provocare l’omertà. L’ho sentito molte volte dire da colleghi, hanno sempre più difficoltà a lavorare, gli si dice: ‘Pensi che la Palestina ne valga la pena? È finita, fottuta’”, commenta René Backmann.

L’“affaire” Mohamed Al-Dura ha vissuto questo. Dopo il suo reportage sulla morte di questo ragazzino palestinese di 12 anni ucciso da cecchini israeliani a Gaza nel 2000, Charles Enderlin, inviato di France 2, ha subito una lunga guerriglia pubblica e giudiziaria. Il giornalista racconta nel dettaglio le accuse di mentire in Un enfant est mort [Un bambino è morto] (Don Quichotte, 2010) e nelle sue recenti memorie professionali, De notre correspondant à Jérusalem [Dal nostro corrispondente a Gerusalemme] (Seuil, 2021). Ci sono voluti 13 anni di processi prima che Enderlin sia stato totalmente assolto dalla giustizia francese e il suo principale accusatore, Philippe Karsenty, smentito e condannato alle spese processuali.

Ma la ferita fu profonda e le dicerie persistenti. Essere trattato da manipolatore, da menzognero, da bugiardo, ascoltare “A morte Enderlin” durante gli incontri pubblici per questo giornalista è stato terribile. E, anche se il suo datore di lavoro lo ha sostenuto durante tutto il processo, così come la sua redazione che quasi all’unanimità ha firmato un appello promosso dall’SNJ [Sindacato Nazionale dei Giornalisti francesi, ndtr.], “tuttavia Charles è stato rapidamente messo da parte e non ha avuto la vita facile,” racconta Dominique Pradalié, segretaria generale dell’NSJ e una delle sue colleghe a France 2. “Non gli accettavano più reportage e Pujadas, allora presentatore del notiziario delle 20, l’aveva messo sulla lista nera,” aggiunge.

Un’altra petizione per sostenere Enderlin, lanciata da René Backmann, aveva raccolto centinaia di firme, tra cui molti giornalisti del Canard enchainé [noto settimanale satirico francese, ndtr.] , del Nouvel Observateur [giornale di centro-sinistra, ndtr.], dell’AFP [principale agenzia di stampa francese, ndtr.] e di media audiovisivi. Ma nessun editore, tranne Didier Pillet de La Provence [giornale del sud della Francia, ndtr.] e di Claude Perdriel (e del suo braccio destro di allora all’ Observateur, Denis Olivennes), aveva firmato quel testo. I “caporioni” dei giornali, per riprendere le parole di Dominique Pradalié, non manifestarono la minima solidarietà riguardo a Charles Enderlin, benché all’epoca fosse in gioco il dovere di informare, sulla Palestina e non solo. Al contrario Denis Jeambar, direttore de L’Express [settimanale di centro-sinistra, ndtr.], fu uno dei suoi principali accusatori e giornali come Le Figaro [giornale di centro–destra, ndtr.] hanno ripreso varie volte le argomentazioni di Karsenty e dei suoi compari, come Élisabeth Lévy del Causeur [settimanale di destra, ndtr.] o Luc Rosenzweig [giornalista di Libération e di Le Monde, ndtr.], poi deceduto. Senza parlare dei siti più di nicchia, la cui mole di disinformazione è quasi impossibile tracciare e che continuano ad accusare Enderlin. Segno dei tempi? Nel maggio 2021 France 2 ci ha messo più di 15 giorni a mandare lì [in Israele/Palestina] un inviato speciale…

Inoltre altri processi avviati da filo-israeliani, in particolare contro Edgar Morin [prestigioso sociologo francese, ndtr.], Danielle Sallenave [scrittrice e giornalista francese, ndtr.] e Samïr Naïr (assolti dalla Corte di Cassazione in nome della libertà di espressione per un editoriale su Le Monde nel 2002) o Daniel Mermet (anche lui assolto), allora su France Inter, certo non hanno portato a niente, ma hanno finito per convincere i capiredattori che fosse meglio tenersi alla larga. Tutti hanno vinto in tribunale contro i filo-israeliani, e tuttavia, amara ironia, essi [i filo-israeliani, ndtr.] sono usciti vincitori dalle disgustose polemiche che hanno iniziato. Purtroppo non è stato molto rumore per niente.

Quindi ormai silenzio nei ranghi. Lo si è già scritto qui: si è imposta l’omertà, molte informazioni semplicemente non vengono più date. Per esempio, dove si è letto in Francia alla fine di aprile del 2021, che uffici della “sicurezza” israeliana avevano utilizzato indebitamente l’identità di giornalisti per mettere in piedi operazioni segrete a favore di “clienti” di Abu Dhabi? L’informazione del sito americano The Daily Beast è stata ampiamente ripresa negli Stati Uniti, nel Regno Unito … e in Israele. Non in Francia, dove i media audiovisivi sembrano ancor più timorosi su Israele della stampa scritta, perché i loro capi sono più timorosi o troppo filo-israeliani. Di fatto la maggior parte delle voci critiche sono raramente presenti sulle piattaforme. Rony Brauman, franco-israeliano come Charles Enderlin, testimonia insieme a molti altri che “non mi si invita più sui media, sono persona non grata, salvo che su France 24. Una volta mi hanno invitato dopo un dossier di Complement d’enquete [settimanale informativo della televisione pubblica France 2, ndtr.] sugli ebrei e Israele. Hanno annullato l’invito il giorno prima e sono stato sostituito da Bernard Henri Lévy [noto filosofo filo-israeliano, ndtr.]. Pare che la società di produzione avesse ritenuto che io fossi un ‘tizio polemico’”…

È concesso criticare Israele in Francia, non si va in prigione per questo. Ma se si critica Israele si hanno alle costole gli amici di Israele, e sono numerosi i sostenitori di Israele,” spiega un ambasciatore francese in pensione. “Non drammatizzo, ognuno è libero di pensare quello che vuole, ma nel nostro Paese ci sono delle protezioni legali contro l’antisemitismo, dunque si potrebbe pensare che la discussione possa essere aperta, cosa che in realtà non è più così.” “L’offensiva politica per far passare l’antisionismo come nuovo antisemitismo ha permesso di guadagnare punti nell’opinione pubblica,” precisa la docente universitaria, anche lei franco-israeliana, Frédérique Schillo. “È un po’ tendenzioso, il colpo è riuscito ed è un doppio vantaggio per Israele: poter dire che oggi l’antisemitismo si maschera in vari modi e alzare il livello del divieto sulla critica politica.”

Il timore di essere accusati di antisemitismo paralizza numerosi colleghi, e l’adozione di vari enti locali – dall’inizio del 2021 le città di Parigi, Mulhouse, il consiglio generale delle Alpi Marittime – della definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo cui aderiscono 36 Paesi, ndtr.] (IHRA), che equipara la critica contro Israele all’antisemitismo, non facilita le cose, neppure nelle redazioni. Lo spettro politico schierato con la difesa cieca di Israele, da Manuel Valls [político socialista francese, ndtr.] a Gérard Darmanin [ministro del partito di Macron, ndtr.], da Anne Hidalgo [sindaca socialista di Parigi, ndtr.] a Emmanuel Macron [presidente della repubblica, ndtr.], non è ininfluente nella sfera dei media.

Quanto alla difesa della Palestina e del diritto dei palestinesi, “non è un argomento molto popolare,” aggiunge Bruno Joncour, deputato del Mouvement démocrate [Movimento Democratico, partito di centro, ndtr.] (Modem) di Saint-Brieuc [dipartimento bretone ndtr.]. “Quindi molti non vogliono immischiarsi troppo, non è molto coraggioso né molto glorioso.” “In Francia c’è ancora un profondo attaccamento alla causa palestinese, c’è un movimento di solidarietà spinto dalle associazioni, ma non c’è alcuna copertura mediatica, nessuno ne parla. La cappa è pesante. Una vera cappa di piombo,” afferma Jacques Fath, ex-responsabile internazionale del Partito Comunista Francese (PCF). I danni del terrorismo islamico hanno giocato un ruolo molto importante in questo silenzio. Sostenere i palestinesi ormai equivale, insistono continuamente i filo-israeliani, a sostenere Hamas e dunque il terrorismo. Questo argomento furoviante ha dato e continua a dare risultati.

I media non vi si impegnano più. Dopo il fallimento del processo di Oslo, l’argomento è diventato secondario e le minacce di intimidazioni da parte dei filo-israeliani più accaniti attraverso il CRIF portano i capiredattori a tenere un profilo basso e a imporlo alle loro redazioni. Autocensura? Viltà? Pigrizia? Accettazione? “Un po’ di tutto questo,” sospira Alain Gresh, direttore di Orient XXI, che segue la regione [mediorientale] da decenni e che, come Brauman, a volte ha avuto l’invito annullato da mezzi di comunicazione audiovisivi, fino a non essere più invitato del tutto.

Per proseguire con la metafora zoologica delle “formiche astiose”, si potrebbe parlare dei loro compari: le lucertole pigre e le talpe miopi. Sono soprattutto i numerosi capi e vice-capi di una professione molto gerarchizzata che fanno sapere che l’opinione pubblica non si interessa più all’argomento, il che è un modo per evitare di affrontarlo, aprendo nel contempo i loro giornali e le loro antenne ai numerosi filo-israeliani. Si può dar ragione a Frédéric Encel, noto filo-israeliano. Durante una conferenza a Strasburgo nel 2013 resa pubblica da Pascal Boniface [studioso di geopolitica e politico francese critico con Israele, ndtr.] si è vantato parlando dei media e di Israele:

Globalmente la situazione è… (stavo per dire sotto controllo) piuttosto favorevole. Si trovano ovunque, veramente ovunque, media favorevoli a Israele, equilibrati, onesti: è vero sulla carta stampata, è vero alla radio, è vero alla televisione.” Per Rony Bauman, “Encel parlava in modo obiettivo di una lobby che obiettivamente esiste. È ammesso, rivendicato.” D’altronde Frédéric Encel in quel periodo era ben conscio della sua gloria mediatica grazie alla direzione ad interim della cronaca geopolitica d’estate su France Inter, che lui doveva a Philippe Val, un altro filo-israeliano, all’epoca direttore della stazione.

Quegli stessi che pretendono dai giornalisti un’impossibile ‘oggettività’ riguardo ad Israele sono in genere i più intolleranti,” ha scritto Piotr Smolar, l’ex corrispondente di Le Monde, che non contava più gli insulti e le calunnie dopo alcuni dei suoi articoli. È una situazione molto francese, perché i media israeliani come quelli americani e britannici sono molto più liberi come tono e come scelta degli argomenti.

Anche se meno numerosi – TF1 ha chiuso il suo ufficio a Gerusalemme, il corrispondente permanente di Libération per il momento è stato sostituito da freelance di qualità – numerosi colleghi, soprattutto liberi professionisti, sono presenti a Tel Aviv, Gerusalemme e Ramallah e propongono una copertura esaustiva e diversificata della situazione sul posto. Devono destreggiarsi tra le viltà dei capi parigini e le invettive digitali dei lobbysti schierati con la destra israeliana, per non parlare della loro precarietà economica. I loro sguardi sono ancora più preziosi, anche se i mezzi di comunicazione che li ospitano sono sempre meno. Il loro silenzio sarebbe la più amara delle sconfitte. Non è ancora così.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Cannes: gli attori palestinesi protestano contro “la cancellazione culturale” della Palestina

Ci opponiamo ad ogni forma di repressione da parte del regime israeliano, che impedisce al popolo palestinese di vivere, esistere e creare”, hanno dichiarato i dodici attori principali del film ‘Let there be morning’.

MEE

12 luglio 2021- Middle East Eye

Gli attori palestinesi del lungometraggio Let there be morning [Che sia mattina] hanno boicottato il Festival di Cannes che si sta attualmente svolgendo per protestare contro “la cancellazione culturale” della Palestina.

Non possiamo ignorare la contraddizione della presentazione del film a Cannes con la dicitura ‘film israeliano’, mentre Israele continua a condurre da molti decenni la sua campagna coloniale di pulizia etnica, espulsioni e apartheid contro di noi, il popolo palestinese”, hanno dichiarato i dodici attori in una lettera indirizzata alla direzione del festival.

Noi resistiamo ad ogni forma di oppressione coloniale israeliana contro il diritto del popolo palestinese a vivere, esistere e creare”, proseguono gli attori Alex Bakri, Juna Suleiman, Ehab Elias Salameh, Salim Daw, Izabel Ramadan, Samer Bisharat, Yara Jarrar, Marwan Hamdan, Duraid Liddawi, Areen Saba, Adib Safadi e Sobhi Hosary, che denunciano “la cancellazione pregiudizievole che viene inflitta ai palestinesi” nel momento in cui il loro lavoro viene presentato sui media come “israeliano”.

Ogni volta che l’industria cinematografica ritiene che noi e il nostro lavoro ricadiamo sotto la dicitura etnico-nazionale di “israeliano”, viene per prima cosa perpetuata una realtà inaccettabile che assegna a noi, artisti palestinesi con cittadinanza israeliana, un’identità imposta dalla colonizzazione sionista per mantenere la continua oppressione dei palestinesi all’interno della Palestina storica, la negazione della nostra lingua, della nostra storia e della nostra identità,” hanno scritto in particolare gli attori.

Pretendere che noi restiamo inerti ed accettiamo questa etichetta (…) non soltanto normalizza l’apartheid, ma continua anche a consentire la negazione e il mascheramento della violenza e dei crimini inflitti ai palestinesi,” aggiungono.

Siamo uniti e facciamo appello alla comunità artistica ed internazionale perché amplifichino la voce dei palestinesi. Ci opponiamo ad ogni forma di repressione da parte del regime israeliano (che impedisce) al popolo palestinese di vivere, esistere e creare”, concludono gli attori.

Il regista del film, l’israeliano Eran Kolirin, ha condiviso sulla sua pagina Facebook la lettera dei suoi attori con questo messaggio: “Amo queste persone. Rispetto la loro decisione (anche se mi sarebbe piaciuto che fossero presenti per celebrare insieme a me il loro valore artistico) e sostengo la loro lotta. Grazie per le belle parole, bravissimi attori”.

Reazione indignata di un ministro israeliano

Let there be morning, tratto da un romanzo dello scrittore arabo israeliano Sayed Kashua, narra la storia di un cittadino palestinese di Israele costretto a riconciliarsi con la sua identità quando ritorna nel suo villaggio natale, che trova circondato da un muro.

Secondo il sito [israeliano] JForum, “fonti del Ministero della Cultura hanno confermato che il film è stato supportato dallo Stato di Israele”.

Chi ha chiesto un finanziamento allo Stato israeliano per fare film e utilizzare il suo denaro non dovrebbe vergognarsi di Israele. La libertà di espressione è importante, soprattutto per coloro che ne traggono profitto, l’opportunità di produrre in Israele, l’opportunità di ricevere un finanziamento dal nostro Paese”, ha reagito il ministro israeliano della Cultura e dello Sport, Hili Trooper [del partito centrista “Blue e Bianco”, ndtr.].

Il film è sostenuto dal Fondo cinematografico israeliano per la somma di due milioni di shekel (circa 500.000 euro) e da circa due milioni di shekel aggiuntivi da parte della Francia e della Germania (…). Di conseguenza al Festival di Cannes il film è registrato in catalogo come un film i cui Paesi di produzione sono Israele, la Germania e la Francia”, ha risposto il regista Eran Kolirin.

Il finanziamento israeliano, spiega ancora il regista, proviene anche dalle imposte che pagano quegli stessi attori, che in cambio “si vedono rifiutare il diritto di mostrare la loro identità palestinese, dato che lo Stato li costringe a salire sul palco e presentare la loro storia come ‘israeliana’”.

Eran Kilirin ha altresì denunciato “la paranoia del precedente governo (guidato da Benjamin Netanyahu), in cui il termine palestinese era bandito, espunto e taciuto”.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)