Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese mentre va al matrimonio di sua sorella

Akram Al-Waara

Abu Dis, Cisgiordania occupata

23 giugno 2020 – Middle East Eye

Ahmad Erekat stava andando a prendere sua madre, sua sorella e dei fiori quando gli hanno sparato a morte, dice la famiglia.

Era appena prima del suo matrimonio, e Eman Erekat stava ricevendo gli ultimi ritocchi ai capelli e al trucco nel salone di bellezza di Betlemme, quando il telefono di sua madre è squillato.

Sua madre ha risposto pensando di sentire suo figlio che diceva di essere là fuori pronto a portarle a casa. Invece ha sentito una voce dall’altra parte che le comunicava la tremenda notizia: suo figlio era stato ucciso.

Mentre stava andando a prendere sua madre e sua sorella, Ahmad, di 27 anni, era stato colpito e ucciso dalle forze israeliane al checkpoint militare ‘Container’, tra Betlemme e la casa della famiglia Erekat nella città di Abu Dis, fuori Gerusalemme est.

In una dichiarazione la polizia israeliana ha sostenuto che, quando è stato colpito, Ahmad aveva tentato di investire dei poliziotti israeliani che presidiavano il checkpoint. Sembra che una soldatessa sia rimasta lievemente ferita e sia stata trasferita in un ospedale di Gerusalemme.

Ma la sua famiglia ha detto di non poter assolutamente immaginare che Ahmad possa aver compiuto un simile attacco, ancor meno nel giorno delle nozze di sua sorella.

Quando abbiamo saputo la notizia non ci potevamo credere. Siamo ancora sotto shock”, ha detto a Middle East Eye Emad Erekat, cugina di Ahmad. “Ahmad non avrebbe mai potuto progettare di attaccare i soldati, come loro sostengono.”

La spiegazione più logica dello sbandamento fuori strada dell’auto di Ahmad, ha detto la famiglia, è che Ahmad aveva sicuramente fretta, e potrebbe aver avuto un lieve guasto o aver perso il controllo dell’auto, cosa che i soldati hanno scambiato per un attacco.

Aveva tempi stretti per prendere sua sorella, i fiori e tante altre cose da Betlemme”, ha detto Emad, aggiungendo che Ahmad guidava un’auto a noleggio con targa palestinese, che ha affittato apposta per fare acquisti nel giorno del matrimonio.

Siamo certi al cento per cento che non avrebbe mai fatto ciò. Perché avrebbe dovuto farlo nel giorno delle nozze di sua sorella?”, si chiede Emad.

Gli hanno sparato senza nemmeno pensarci’

Ad Abu Dis centinaia di familiari ed amici si sono radunati presso la casa degli Erekat per piangere la morte di Ahmad che, secondo la sua famiglia, era fidanzato e aveva programmato di sposarsi proprio il mese prossimo.

Nessuno qui riesce a crederci, la gente è sconvolta”, dice Emad. “Sua sorella Eman è svenuta quando ha saputo la notizia. Non riesce nemmeno a parlare, è in totale stato di shock”.

Doveva essere il giorno più felice della sua vita, ma ora è diventato il giorno del funerale di suo fratello”, afferma.

La cugina di Ahmad Noura Erekat, avvocatessa per i diritti umani e docente associata presso la Rutgers University del New Jersey, nel tardo pomeriggio di martedì ha condiviso i suoi pensieri con una serie di commossi post su Twitter.

Mentite. Uccidete. Mentite. Questo è il mio cuginetto”, ha detto.

Gli unici terroristi sono i vigliacchi che hanno sparato per uccidere un bellissimo giovane e lo hanno accusato di questo”.

E’ stato riferito che testimoni oculari della scena hanno detto all’agenzia [palestinese] M’an News che “ciò che è accaduto al [posto di controllo] ‘Container’ non è stato un tentativo di investire (i soldati), bensì l’auto ha sbattuto sul bordo dello spartitraffico dove si trovavano i soldati, facendo sì che le forze d’occupazione israeliane sparassero all’automobile.

Noi non abbiamo visto l’accaduto, ma pensiamo che Ahmad abbia perso il controllo dell’auto per un secondo, e quindi i soldati gli hanno subito sparato senza pensarci due volte”, ha detto Emad.

Organi di informazione locali palestinesi hanno riferito che Ahmad è stato lasciato steso in terra per molto tempo e non ha ricevuto cure mediche dai soldati. Quando le ambulanze israeliane sono arrivate, riportano le notizie, Ahmad era già morto.

Lo hanno lasciato morire’

Un video diffuso sui social media, presumibilmente ripreso da un testimone oculare dell’incidente, mostra Ahmad ferito che giace a terra, curvo in posizione fetale, con una scia di sangue che gli esce dal corpo.

Si vede una soldatessa che cammina avanti e indietro dinanzi a Ahmad con il fucile puntato, mentre dietro la sua auto si forma una fila di auto palestinesi in attesa di attraversare il checkpoint.

Si sente l’uomo che sta filmando dire: “Sono le 15,50 al ‘Container’, un giovane uomo è stato appena fatto diventare un martire. Gli hanno sparato proprio qui davanti a noi. Che riposi in pace.”

L’uomo continua dicendo: “lo hanno lasciato steso in terra finché è morto”.

L’uccisione di Ahmad non è certo la prima di questo genere. Negli scorsi anni in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est centinaia di palestinesi sono stati uccisi nel corso di presunti attacchi col coltello e con le auto ai checkpoint.

In parecchi casi le famiglie delle vittime palestinesi e i testimoni hanno sostenuto che i presunti “aggressori” sono stati colpiti dopo che incidenti stradali di poco conto sono stati scambiati per attacchi a soldati e coloni israeliani.

Tante persone sono state uccise a questo checkpoint”, dice a MEE Khuthifa Jamus, un’amica di Erekat. “Se sei palestinese, qualunque movimento sbagliato ad un checkpoint può farti uccidere”.

Ci ammazzano a sangue freddo e poi dicono che stavano solo difendendosi”, ha aggiunto Jamus.

Uccisi a sangue freddo’

Da molto tempo i soldati israeliani sono accusati da attivisti e associazioni per i diritti di uso eccessivo della forza contro palestinesi che nel momento in cui sono stati uccisi non costituivano un’immediata minaccia alla vita dei soldati.

Recentemente a Gerusalemme est la polizia israeliana ha sparato e ucciso Eyad al-Halak, un uomo palestinese autistico, mentre stava scappando dai poliziotti. Al-Halak era disarmato e la sua uccisione ha sollevato una diffusa indignazione in tutta la Palestina e all’estero, molti hanno paragonato la sua morte all’uccisione da parte della polizia di George Floyd negli Stati Uniti.

Quest’uomo è stato ucciso a sangue freddo. Stasera c’era il matrimonio di sua sorella”, ha detto martedì il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in una dichiarazione.

Quel che sostiene l’esercito di occupazione (l’esercito israeliano), cioè che tentava di investire qualcuno, è falso”, ha detto Erekat, un parente di Ahmad.

L’uccisione di Ahmad avviene in un contesto di accresciuta presenza dei soldati israeliani nei territori occupati in quanto Israele si prepara all’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr].

Mentre i generali dell’esercito israeliano prevedono una fiammata di violenza a causa delle politiche israeliane, molti soldati hanno elevato il livello di allerta per presunti attacchi da parte di palestinesi.

Anche se Ahmad avesse compiuto un attacco, cosa che non era, il problema è che i soldati e questi checkpoint prima di tutto non dovrebbero essere qui”, ha detto una commossa Jamus. “Questa è la colpa dell’occupazione, stare qui e ucciderci senza ragione, continuamente.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’aggressione con presa al collo nei confronti di un diplomatico rivela il particolare tipo di apartheid di Israele

Jonathan Cook

23 giugno 2020 – Mondoweiss

La scorsa settimana un diplomatico israeliano ha presentato una denuncia alla polizia dopo essere stato gettato a terra a Gerusalemme da quattro addetti alla sicurezza, i quali gli hanno tenuto il ginocchio premuto sul collo per cinque minuti mentre lui gridava: “Non riesco a respirare”.

È un evidente richiamo al trattamento nei confronti di George Floyd, un afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis il mese scorso. La sua morte ha innescato proteste di massa contro la brutalità della polizia e rafforzato il movimento Black Lives Matter. L’incidente di Gerusalemme, al contrario, ha risvegliato un interesse minore, anche in Israele.

Un’ aggressione da parte di agenti di sicurezza israeliani a un diplomatico suona come un’aberrazione, un raro caso di errore di identificazione, molto diverso da un modello consolidato di violenza della polizia contro le comunità di neri poveri negli Stati Uniti. Ma è un’impressione sbagliata.

L’uomo aggredito a Gerusalemme non era un normale diplomatico israeliano. Era beduino, parte dell’estesa minoranza palestinese di Israele. Un quinto della popolazione: questa minoranza gode di un livello molto inferiore di cittadinanza israeliana.

L’eccezionale successo di Ishmael Khaldi nel diventare diplomatico, così come la sua esperienza fin troppo familiare, in quanto palestinese, di abusi da parte dei servizi di sicurezza, esemplificano i paradossi di come si configuri la versione ibrida dell’apartheid israeliana.

Khaldi e altri 1,8 milioni di cittadini palestinesi discendono dai pochi palestinesi sopravvissuti a un’ondata di espulsioni nel 1948, quando sulle rovine della loro terra natale venne proclamato uno Stato ebraico.

Israele continua a considerare questi palestinesi, i suoi cittadini non ebrei, come un elemento sovversivo che deve essere controllato e sottomesso attraverso misure che ricordano il vecchio Sudafrica. Ma allo stesso tempo Israele ha un disperato bisogno di presentarsi come una democrazia di tipo occidentale.

Così, stranamente, la minoranza palestinese si è trovata ad essere trattata sia come cittadini di seconda classe sia come involontari manichini da mettere in vetrina su cui Israele può basare le sue pretese di equità e uguaglianza. Ciò ha determinato l’esistenza di due facce contraddittorie.

Da un lato Israele tiene separati i cittadini ebrei da quelli palestinesi, costringendo questi ultimi in poche di comunità strettamente ghettizzate che occupano una piccola frazione del territorio del Paese. Per impedire il mescolamento e l’incrocio delle etnie separa rigorosamente le scuole per bambini ebrei e palestinesi. Questa politica ha avuto un tale successo che i matrimoni misti sono quasi inesistenti. Attraverso un raro sondaggio l’ufficio centrale di statistica ha scoperto che nel 2011 hanno avuto luogo 19 matrimoni di questo tipo.

Anche la sfera economica è in gran parte segregata.

La maggior parte dei cittadini palestinesi è esclusa dal settore della sicurezza israeliano e da qualsiasi cosa sia collegata all’occupazione. I servizi pubblici, dal settore portuale a quello idrico, delle telecomunicazioni e dell’elettricità, sono in gran parte privi della presenza di cittadini palestinesi.

Le opportunità di lavoro si concentrano invece nei settori dei servizi a basso reddito e del lavoro occasionale. Due terzi dei bambini palestinesi in Israele vivono al di sotto della soglia di povertà, rispetto a un quinto dei bambini ebrei.

Questa faccia negativa è accuratamente nascosta all’esterno.

Dall’altro lato, Israele decanta a gran voce il diritto di voto dei cittadini palestinesi – una facile concessione dato che Israele ha costruito una schiacciante maggioranza ebraica nel 1948 costringendo la maggior parte dei palestinesi all’esilio. Si vanta di eccezionali “testimonianze sull’ emancipazione degli arabi”, sorvolando sulle più intime verità in essa contenute.

Durante la pandemia da Covid-19 Israele ha diffuso con entusiasmo il dato che un quinto dei suoi medici sono cittadini palestinesi, dato corrispondente alla loro percentuale nella popolazione. Ma in verità, il settore sanitario è l’unica grande sfera della vita in Israele dove la segregazione non è la norma. Gli studenti palestinesi più brillanti si rivolgono alla medicina perché almeno lì gli ostacoli all’affermazione possono essere superati.

Si confronti questo dato con l’istruzione superiore, dove i cittadini palestinesi occupano molto meno dell’uno per cento delle posizioni accademiche più elevate. Il primo giudice musulmano, Khaled Kaboub, è stato nominato alla Corte suprema solo due anni fa, 70 anni dopo la fondazione di Israele. Gamal Hakroosh è diventato il primo vice commissario di polizia musulmano di Israele nel 2016; il suo ruolo è stato ovviamente limitato alla gestione della polizia nelle comunità palestinesi.

Khaldi, il diplomatico aggredito a Gerusalemme, si inserisce in questo modello. Cresciuto nel villaggio di Khawaled in Galilea, alla sua famiglia venivano negati acqua, elettricità e permessi di costruzione. La sua casa era una tenda, dove ha studiato coll’illuminazione a gas. Molte decine di migliaia di cittadini palestinesi vivono in condizioni simili.

Indubbiamente, il talentuoso Khaldi ha superato molti ostacoli per ottenere un ambito posto all’università. Ha poi prestato servizio nella polizia di frontiera paramilitare, nota per aver commesso abusi sui palestinesi nei territori occupati.

È stato presto segnalato come un affidabile sostenitore di Israele in seguito ad una insolita combinazione di caratteristiche: la sua intelligenza e determinazione; un rifiuto molto determinato a farsi sconfiggere dal razzismo e dalla discriminazione; un codice etico flessibile che tollera l’oppressione dei compatrioti palestinesi; una cieca deferenza verso uno Stato ebraico la cui stessa definizione lo esclude.

Il ministero degli Esteri israeliano lo ha inserito in un percorso veloce, mandandolo presto a San Francisco e Londra. Lì il suo lavoro era quello di combattere la campagna internazionale per il boicottaggio di Israele, modellato sul sistema che aveva preso di mira l’apartheid in Sudafrica, citando la sua storia come prova che in Israele chiunque poteva avere successo.

Ma in realtà, Khaldi è un’eccezione che viene cinicamente sfruttata per confutare la regola. Forse quest’aspetto gli è venuto in mente mentre veniva soffocato nella stazione centrale degli autobus di Gerusalemme dopo aver obiettato al comportamento di una guardia.

In fondo tutti in Israele sanno che i cittadini palestinesi, persino l’atipico professore o parlamentare, vengono identificati su base razziale e sono trattati come nemici. Le storie dei loro maltrattamenti fisici o verbali sono insignificanti. L’aggressione nei confronti di Khaldi si distingue solo perché egli ha mostrato di essere un servitore così compiacente nei confronti di un sistema progettato per emarginare la sua comunità di appartenenza.

Questo mese, tuttavia, lo stesso Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scelto di strappare la maschera diplomatica e raffinata rappresentata da Khaldi. Ha nominato un nuovo ambasciatore nel Regno Unito.

Tzipi Hotovely, suprematista ebrea e islamofoba, sostiene l’annessione israeliana dell’intera Cisgiordania e l’acquisizione della moschea Al Aqsa [il terzo sito più santo dell’Islam, ndtr.] a Gerusalemme. Fa parte di una nuova ondata di inviati del tutto privi di diplomazia in capitali straniere.

A Hotovely interessa molto meno l’immagine di Israele che quella di rendere tutta la “Terra di Israele”, compresi i territori palestinesi occupati, esclusivamente ebrea.

La sua nomina segna in qualche modo dei progressi. Diplomatici come lei possono finalmente aiutare le persone all’estero a capire perché Khaldi, il suo collega diplomatico, sia stato aggredito nel proprio Paese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ammonisce Israele a rinunciare ai piani di annessione

23 giu 2020 – Al Jazeera

L’alto rappresentante dell’ONU afferma che una simile mossa sarebbe “devastante” per le speranze di nuovi colloqui e sull’eventuale soluzione dei due Stati.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha invitato Israele ad abbandonare il piano di annessione di parti della Cisgiordania occupata, affermando che tale mossa sarebbe una “grave violazione del diritto internazionale”.

L’alto rappresentante dell’ONU ha formulato queste affermazioni martedì nel corso di una relazione al Consiglio di sicurezza, un giorno prima che la commissione, composta da 15 membri, si riunisse per l’incontro semestrale sul conflitto israelo-palestinese.

Il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che il processo di annessione potrebbe avere inizio dal 1° luglio.

Nel documento, Guterres ha affermato che un’annessione israeliana sarebbe “devastante” per le speranze di nuovi negoziati e sull’eventuale soluzione dei due stati.

“Ciò sarebbe disastroso per palestinesi, israeliani e per la regione”, ha detto, aggiungendo che il piano è una minaccia contro “i tentativi di far progredire la pace nella regione”.

Le affermazioni di Guterres sono giunte il giorno dopo la protesta di migliaia di palestinesi a Gerico contro il piano israeliano, con una manifestazione alla quale hanno partecipato anche decine di diplomatici stranieri.

La scorsa settimana la leadership palestinese ha proposto un piano che mira a creare uno “Stato palestinese sovrano, indipendente e smilitarizzato”, con Gerusalemme est come capitale. Lascia inoltre la porta aperta a modifiche dei confini tra lo Stato proposto e Israele, così come a scambi di territori di uguale “dimensione, volume e valore – alla pari”.

La proposta palestinese è arrivata in risposta al controverso piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump che ha dato il via libera a Israele sull’annessione di ampie zone della Cisgiordania occupata, comprese le colonie considerate illegali ai sensi del diritto internazionale, e della Valle del Giordano.

Presentato alla fine di gennaio, il piano di Trump propone l’istituzione, sul restante mosaico di parti frammentate dei territori palestinesi, di uno Stato palestinese smilitarizzato, con l’esclusione di Gerusalemme est occupata. Il piano è stato respinto nella sua interezza dai palestinesi.

La riunione del Consiglio di sicurezza, che si terrà in videoconferenza, sarà l’ultima grande riunione internazionale sulla questione prima della scadenza del 1 luglio.

“Qualsiasi decisione sulla sovranità sarà presa solo dal governo israeliano”, ha detto martedì nel corso di una dichiarazione l’inviato israeliano alle Nazioni Unite Danny Danon.

I diplomatici si aspettano che mercoledì la stragrande maggioranza dei membri delle Nazioni Unite si opponga nuovamente al piano israeliano.

“Dobbiamo inviare un messaggio chiaro”, ha detto un inviato all’agenzia di stampa AFP [l’agenzia di stampa France Presse, ndtr.], aggiungendo che “non è sufficiente” limitarsi a condannare la politica israeliana, e ha prospettato la possibilità di portare il caso dinanzi alla Corte internazionale di giustizia.

Per decenni Israele ha goduto del sostegno bipartisan [sia dei democratici che dei repubblicani, ndtr.] degli Stati Uniti che gli ha permesso di ignorare le critiche internazionali e le numerose risoluzioni delle Nazioni Unite sulla sua occupazione dei territori palestinesi.

Quando Trump alla fine del 2017 ha cambiato la politica degli Stati Uniti riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, 14 dei 15 membri del Consiglio di sicurezza hanno adottato una risoluzione di condanna dell’iniziativa, ma gli Stati Uniti hanno posto il veto.

Una risoluzione simile è stata quindi presentata all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA), dove nessuna nazione ha il potere di veto: è stata approvata con 128 voti a favore, 9 contrari e 35 astensioni.

I diplomatici, tuttavia, sembrerebbero escludere la possibilità che per la prevista annessione Israele possa subire sanzioni, quali quelle imposte da alcuni Paesi dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia.

“Qualsiasi annessione avrebbe conseguenze piuttosto gravi per la soluzione dei due Stati contenuta nel processo di pace”, ha detto un altro ambasciatore in forma anonima all’AFP.

Ma l’inviato ha affermato che non è un'”operazione semplice” mettere a confronto la Cisgiordania con la Crimea.

All’inizio di questo mese, centinaia di docenti e studiosi di diritto internazionale hanno firmato una lettera aperta che condanna il piano israeliano di annessione dei territori della Cisgiordania, definendolo una “flagrante violazione delle regole fondamentali del diritto internazionale e costituirebbe anche una grave minaccia alla stabilità internazionale in una regione instabile”.

Kevin Jon Heller, docente di diritto internazionale, ha dichiarato ad Al Jazeera che l’annessione prevista da Israele è “una chiara e sostanziale violazione del diritto internazionale, che vieta l’annessione dei territori presi con la forza”.

“L’annessione da parte di Israele delle alture del Golan e di Gerusalemme,” ha affermato Heller, “e il contemporaneo silenzio internazionale e arabo, l’hanno incoraggiato a intraprendere ulteriori azioni in quella direzione, come sta ora pianificando”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli ebrei britannici esigono che la nuova ambasciatrice israeliana di destra non possa assumere l’incarico

22 giugno 2020 – Middle East Monitor

Circa 1.500 ebrei britannici hanno firmato una petizione in cui si chiede al governo di Boris Johnson di non accettare la nomina della ministra per le Questioni delle Colonie Israeliane, Tzipi Hotovely, come ambasciatrice di Tel Aviv a Londra perché “ha orribili precedenti di comportamenti razzisti e provocatori.”

Na’amod, un’organizzazione che dice di “cercare di porre fine all’appoggio della nostra comunità [ebraica] all’occupazione”, ha stilato la petizione che afferma: “I valori e la politica di Tzipi Hotovely non hanno posto nel Regno Unito. È fondamentale che il governo britannico invii il messaggio che le sue opinioni sono inaccettabili e rifiuti la sua nomina come ambasciatrice.”

Aggiunge che in passato Hotovely si è opposta pubblicamente ai rapporti tra ebrei ed arabi, ha definito “criminali di guerra” gli attivisti israeliani per i diritti umani ed ha accusato i palestinesi di essere “ladri di storia” che non hanno alcun patrimonio né legame con Israele-Palestina.

La settimana scorsa Israele ha nominato Hotovely nuova ambasciatrice nel Regno Unito, e alla fine della prossima estate sostituirà Mark Regev.

Nel 2015 Hotovely è stata nominata viceministro degli Esteri di Israele. In una conferenza a Gerusalemme si è vantata di aver trasformato, da quando ha assunto l’incarico, il ministero degli Esteri israeliano in un bastione dei diritti dei coloni, fatto che sta portando Israele verso l’annessione [del 30% della Cisgiordania, ndtr.].

Tutto il territorio che si trova a ovest del fiume Giordano può essere solo [proprietà] di una Nazione: il popolo ebraico,” ha affermato.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




“Il macabro piano di Israele culmina nell’annessione”

Richard Falk

24 giugno 2020 Nena News

Grazie a Trump, scrive l’ex relatore speciale delle Nazioni Unite, il governo israeliano insiste sui Territori palestinesi occupati: «Sono una necessità per la nostra sicurezza». Nessuno pensa ai diritti dei palestinesi, nessuno ha intenzione di ascoltarli. È una geopolitica da gangster nella giungla globale in aperta violazione della Carta dell’Onu.

Viviamo in tempi strani. In giro per il mondo le vite sono devastate dal Covid-19 oppure da crisi sociali, economiche e politiche. In momenti così, non sorprende che emergano il peggio e il meglio dell’umanità. Eppure la geopolitica da gangster nelle sue varie manifestazioni sembra spingersi ancora oltre.

Si pensi all’inasprimento delle sanzioni statunitensi nel bel mezzo della crisi sanitaria che colpisce società già gravemente provate e popolazioni sofferenti in Iran, Venezuela, Siria e Cuba.

Un’altra pagina nera è la danza macabra di Israele intorno alla plateale illegalità dell’annessione che il premier Benjamin Netanyahu ha promesso di avviare da luglio, grazie all’assenso del rivale e alleato di governo Benny Gantz. Israele è pronta ad annettere i territori senza nemmeno cercare di giustificare la violazione del diritto internazionale, secondo il quale uno Stato sovrano non può annettere un territorio estero occupato militarmente.

QUESTA MOSSA unilaterale di Israele per riclassificare il territorio che «occupa» nella West Bank e per incorporarlo stabilmente nell’autorità sovrana israeliana viola completamente il diritto internazionale umanitario della Quarta convenzione di Ginevra. Quella che perfino al tempo della Lega delle Nazioni era sempre stata una «norma sacra», nell’era della geopolitica post-coloniale da gangster diventa disprezzo patente per i popoli e i loro diritti.

LA MOSSA annessionista è così estrema che anche alcuni pesi massimi di Israele, fra i quali gli ex capi del Mossad e dello Shin Bet, e ufficiali in pensione delle Israel Defence Forces, lanciano l’allarme. Alcuni militanti sionisti sono contrari all’annessione in questo momento perché svelerebbe l’illusione della democrazia israeliana, e perché montano i timori che assorbire i palestinesi della West Bank minaccerebbe a tempo debito l’egemonia etnica ebraica. Naturalmente, nessuno di questi «ripensamenti» contesta l’annessione perché viola il diritto internazionale, scavalca e mina l’autorità dell’Onu e ignora i diritti inalienabili dei palestinesi. Le preoccupazioni riguardano gli impatti negativi per il paese, in termini di sicurezza a livello interno e regionale israeliana, e di status internazionale.

I critici nell’establishment della sicurezza nazionale temono di disturbare i vicini arabi e di alienarsi ulteriormente l’opinione pubblica internazionale, soprattutto in Europa; in una certa misura si dicono preoccupati anche della reazione dei «sionisti liberal», con il conseguente indebolimento dei legami di solidarietà con Israele da parte della diaspora ebraica che vive negli Stati uniti e in Europa.

ANCHE LA PARTE pro-annessione evoca la sicurezza, specialmente rispetto alla Valle del Giordano e agli insediamenti, ma in misura molto minore. Gli annessionisti fanno riferimento alla Giudea e alla Samaria di cui parla la Bibbia (il nome noto internazionalmente è West Bank). Il diritto verrebbe rafforzato dal riferimento alle profonde tradizioni culturali ebraiche nonché a secoli di connessioni storiche fra una piccola e stabile presenza ebraica in Palestina e questo territorio considerato sacro custode del popolo ebraico.

IN OGNI CASO, tanto gli israeliani critici sull’annessione quanto i favorevoli non sentono alcun bisogno di confrontarsi con i diritti e le istanze dei palestinesi. Come è sempre avvenuto lungo tutta la narrazione sionista, le aspirazioni e le rivendicazioni del popolo palestinese e la sua stessa esistenza non fanno parte dell’immaginario sionista: salvo quando si frappongono ostacoli o si crea una minaccia demografica alla regola della maggioranza ebraica. Se si considera l’evoluzione della principale corrente del sionismo, l’obiettivo di lungo periodo di emarginare i palestinesi in un unico Stato ebraico dominante che comprenda tutta la «terra promessa» di Israele non è mai stato abbandonato.

In questo senso il piano di partizione messo a punto dalle Nazioni unite, benché accettato nel 1947 dalla dirigenza sionista come soluzione del momento, è da interpretarsi piuttosto come una pietra miliare per il recupero della maggiore quantità possibile di terra promessa. Nel corso degli ultimi cent’anni, dal punto di vista israeliano l’utopia è diventata una realtà, mentre da quello palestinese è diventata una distopia.

IL MODO IN CUI Israele e Stati uniti affrontano questo preludio all’annessione sconcerta quanto la conseguente «scomparsa» dei palestinesi. Israele ha già privilegiato l’annessione nell’accordo di coalizione Gantz-Netanyahu, che prevede di presentare una proposta alla Knesset (Parlamento) a partire dal 1 luglio. L’unica precondizione accettata con l’accordo alla base del governo Gantz-Netanyahu fa coincidere l’annessione con le allocazioni territoriali incorporate nelle famose proposte unilaterali Trump-Kushher «Dalla pace alla prosperità».

COME PREVEDIBILE, gli Stati uniti di Trump non creano frizioni, né suggeriscono a Netanyahu di offrire una parvenza di giustificazione legale o di esplicitare gli effetti negativi dell’annessione sulle prospettive del processo di pace israelo-palestinese. Finora, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dato luce verde all’annessione della West Bank ancora prima che Israele formalizzasse il proprio piano, dichiarando provocatoriamente che sono gli israeliani a dover decidere in materia: come se né i palestinesi né la legge internazionale avessero la minima importanza. Ecco un’altra indicazione del fatto che le relazioni israelo-statunitensi sono all’insegna di una geopolitica da gangster.

Ma forse, i segnali di possibili ripercussioni indurranno Washington a chiedere a Netanyahu di posticipare l’annessione o ridimensionarne la portata. E, anche se questa geopolitica sembra esaurire le residue speranze palestinesi di un compromesso politico e di una diplomazia basata su un genuino impegno di equità ed eguaglianza, voci di resistenza e solidarietà si levano contro quest’ultimo oltraggio. Nena News




Annessione israeliana: se questa volta Abbas fa sul serio, i palestinesi dovrebbero appoggiare la reazione dell’ANP

Ghada Karmi

18 giugno 2020 – Middle East Eye

Se Israele procederà con la prevista annessione il presidente dell’ANP ha redatto una tabella di marcia per riportare la Cisgiordania occupata ai giorni pre-Oslo

Il mese scorso il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha tenuto un duro discorso a Ramallah, denunciando la prevista annessione di Israele e minacciando ritorsioni.

Abbas ha presentato un piano di ritorsioni, ma come nel caso del ragazzo che gridava al lupo, nessuno gli crederà fino a quando non accadrà davvero.

A prima vista, il piano non contiene molto che non sia già stato minacciato, ma che non è mai stato messo in pratica, nemmeno in momenti di gravi provocazioni, come nel 2017, quando Israele ha installato dei metal detector agli ingressi dell’area della moschea di al-Aqsa, o nel 2018, quando l’ambasciata americana fu trasferita a Gerusalemme in violazione del diritto internazionale. Questa volta sarà diverso?

Fine delle relazioni

C’è ragione di crederlo. Il piano di Abbas è più dettagliato delle minacce precedenti, e stabilisce le misure che riporterebbero la Cisgiordania occupata ai giorni precedenti [rispetto agli accordi di] Oslo se Israele procedesse con la progettata annessione.

Prima che nel 1993, con gli accordi di Oslo, fosse creata l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), era Israele, in quanto potenza occupante, ad essere responsabile del benessere quotidiano, dei servizi, degli stipendi e della polizia per la popolazione palestinese. Dopo Oslo, [Israele] è stato in grado di scaricare questi oneri sull’ANP, e questa è da allora la situazione. 

Il piano di Abbas prevede di porre fine a quegli accordi, interrompendo tutte le relazioni con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza, chiamandosi fuori da Oslo. Ciò potrebbe includere lo scioglimento dell’ANP, con il suo ruolo ridotto a funzioni civili come la gestione di scuole, ospedali e stazioni di polizia. La soluzione a due Stati, annientata dall’annessione israeliana, non sarebbe più un’opzione.

Ne dovrebbero seguire drastici tagli al bilancio dell’ANP, riducendo gli stipendi di migliaia di persone, impiegate nella sicurezza e altro. Il pagamento mensile di 105 milioni di dollari a Gaza verrebbe tagliato e il trasferimento delle tasse finora raccolte da Israele per conto della ANP si interromperebbe, causando gravi perdite finanziarie e forse addirittura la chiusura totale delle attività del governo.

In altri ambiti, l’ANP cesserebbe di pagare per le cure mediche dei palestinesi ricoverati negli ospedali israeliani. Le autorizzazioni per l’ingresso dei lavoratori palestinesi in Israele non verrebbero più trattate dall’ANP, che significherebbe la non ammissione e una conseguente perdita di redditi. I lavoratori disperati dovrebbero quindi richiedere i permessi direttamente all’amministrazione militare israeliana dei territori occupati.

Fine al coordinamento per la sicurezza

L’aspetto più significativo del piano, tuttavia, è la minaccia di porre fine al coordinamento per la sicurezza con Israele e gli Stati Uniti. Abbas questa volta sembra fare sul serio, e secondo fonti israeliane il processo è già iniziato.

Secondo quanto riferito, la CIA è stata informata dell’intenzione dell’Autorità Nazionale Palestinese che i suoi 30.000 agenti armati della polizia e dell’intelligence cessino di comunicare con le loro controparti israeliane e statunitensi già all’inizio del mese prossimo, essendo l’annessione prevista a partire dal 1 ° luglio. È stato riferito che le forze di sicurezza dell’ANP hanno iniziato a ritirarsi dall’area B, per la maggior parte controllata da Israele ma con un ruolo ridotto dell’ANP.

Se Abbas decide di continuare su questa strada, il prezzo per i palestinesi sarà alto: 80.000 impiegati dell’ANP – il 44 % di tutto il settore pubblico – che lavorano nel settore della sicurezza rimarranno senza stipendio, con tagli di bilancio di circa un terzo del totale delle uscite dell’ANP. La fine del coordinamento per la sicurezza sarà anche un duro colpo per Israele, che per decenni ha fatto affidamento sul subappalto all’ANP delle attività di polizia in Cisgiordania.

Il calcolo di Abbas è che sicuramente la violenza, premeditata o spontanea, sarà fomentata da queste difficoltà e inevitabilmente esploderà nella Cisgiordania occupata, costringendo Israele a controllare nuovamente la popolazione palestinese. Rimane senza risposta il dubbio se ciò accadrà veramente.

Hamas e molti all’interno di Fatah hanno manifestato il proprio appoggio al piano di Abbas, ma esso ha suscitato uno scarso interesse nella società civile palestinese nel suo complesso, che si ricorda di minacce simili in precedenza finite nel nulla. C’è una generale disillusione nei confronti della dirigenza palestinese, vista come incompetente e corrotta. Di conseguenza, nella stampa palestinese ci sono stati pochi commenti e analisi sul piano di Abbas.

Evitare il collasso

Il fatto che le precedenti minacce dell’ANP di porre fine alla cooperazione per la sicurezza con Israele siano state vane è comprensibile. Israele ha il controllo totale sul movimento di persone e beni all’interno dei territori occupati. Lo stesso Abbas deve chiedere il permesso a Israele per viaggiare e le competenze essenziali dell’ANP dipendono dall’autorizzazione di Israele. Senza di essa l’attività economica nella Cisgiordania occupata collasserebbe, paralizzando l’ANP.

Eppure Abbas non ha alternative. Se Israele procede all’annessione, ciò porrà fine alla ragione di esistere dell’ANP. L’Autorità è nata per costruire uno Stato palestinese; l’annessione renderebbe obsoleto questo progetto. In questo contesto la risposta dell’ANP è razionale e l’unico modo per salvare sé stessa dal crollo.

Questo triste ciclo di eventi risale ad Oslo, e prima di questo, all’inesplicabile autorizzazione concessa dal 1967 ad Israele dalla comunità internazionale di colonizzare i territori palestinesi e di imporre il controllo su ogni aspetto della vita dei palestinesi. In questo senso, l’ultima spinta verso l’annessione da parte di Israele non è una sorpresa – e il contro-progetto palestinese arriva semmai troppo tardi.

Ciò lascia aperta una serie di questioni fondamentali: come saranno affrontate le pesanti conseguenze per la popolazione? Che tipo di piano esiste per affrontare la risposta israeliana, che sarà brutale?

Anche con tutto questo, e nonostante tutte le sue lacune, il piano di Abbas merita che i palestinesi mettano da parte il loro scetticismo e lo appoggino, come dovrebbe fare chiunque sia solidale con loro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ghada Karmi è un’ex-assegnista di ricerca all’Istituto per gli Studi Arabi e Islamici dell’università di Exeter. È nata a Gerusalemme ed è stata obbligata a lasciare la sua casa con la sua famiglia in seguito alla creazione di Israele nel 1948. La famiglia andò in Inghilterra, dove lei è cresciuta ed ha studiato. Per molti anni Karmi ha esercitato la professione medica lavorando come specialista nella cura di migranti e rifugiati. Dal 1999 al 2001 Karmi è stata membro del Royal Institute of International Affairs [Istituto Reale di Affari Internazionali], dove ha guidato un importante progetto sulla riconciliazione tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israelizzare la politica americana, palestinizzare il popolo americano

Jeff Halper

19 giugno 2020 – Mondoweiss

Israele non ha influenzato le forze dell’ordine USA addestrandole ad essere più violente, ma piuttosto è stato un modello per la creazione dello Stato securitario americano.

Recentemente si è dedicata molta attenzione all’“addestramento” che la polizia americana ha ricevuto da Israele. È esteso e pervasivo. Tuttavia il punto non è che Israele abbia reso la polizia USA più violenta. Già oltre un secolo fa, prima ancora che venisse creato lo Stato di Israele, era violenta e repressiva. Non è neanche che Israele abbia contribuito alla militarizzazione della polizia USA. Lo fa, ovviamente, ma in risposta ai cambiamenti fondamentali sulla scena politica ed economica americana.

L’“israelizzazione” della polizia americana è iniziata in seguito all’11 settembre, ma tre sviluppi fondamentali negli USA spiegano il perché. Primo, dall’11 settembre gli effetti depressivi del neoliberismo, a iniziare dalla presidenza Reagan, ma che già avevano determinato gravissime disparità sociali e salariali negli anni di Bush e Clinton. Hanno iniziato a invocare “legge ed ordine”, guerre interne (alla droga, alla delinquenza, agli “estremisti di sinistra”) con la necessità di controllare e pacificare un precariato, una classe sottoccupata e sottopagata in costante aumento, i “lavoratori poveri” [working poor] e i molto poveri in buona parte razzializzati [cioè definiti e discriminati su base razziale, ndtr.]. I poliziotti sono gli scagnozzi del capitalismo.

In secondo luogo, dall’11 settembre gli USA hanno perso l’Unione Sovietica e il comunismo come minaccia esterna/interna che potesse essere sfruttata per giustificare politiche repressive e antidemocratiche in patria. Dato che la minaccia “terroristica” era diventata una questione poco importante ai tempi di Clinton, essa non era strettamente legata al livello nazionale. Questo legame, la terza causa dell’“israelizzazione” della polizia, è iniziato con l’11 settembre.

Il Patriot Act [legge antiterrorismo che ha rafforzato i sistemi di sicurezza e repressivi, ndtr.], che fino ad oggi limita i diritti civili e il giusto processo in America, è stato emanato meno di due mesi dopo. Esso era chiaramente già pronto nel cassetto in attesa dell’occasione buona. E di nuovo, il mantenimento dell’ordine pubblico diventa il veicolo per un complessivo nuovo compito paramilitare: la “sicurezza nazionale”.

Questo è lo scenario. Non è stato una creazione di Israele. Ma Israele è uno Stato securitario fin dalla sua fondazione nel 1948 – ed avrebbe persino messo le sue radici come società altamente militarizzata fin dall’inizio del Ventesimo secolo. È stato durante gli ultimi 125 anni di colonialismo d’insediamento che si è sviluppato lo Stato securitario israeliano. La continua guerra di Israele contro il popolo/nemico palestinese all’interno ed all’estero, con tutta l’intrinseca insicurezza e la preoccupazione securitaria che ne consegue, lo ha posto esattamente dove l’America post 11 settembre voleva trovarsi. Israele ha fornito agli USA – e in particolare alla polizia ed alle agenzie della sicurezza degli Stati Uniti – politiche, insegnamenti, strutture paramilitari ed armamenti già pronti di cui [gli USA] erano privi ma di cui avevano bisogno per costruire uno Stato securitario americano. Israele ha fornito il modello e l’armamentario.

Ma qual è stato il problema? Perché gli USA non avrebbero potuto semplicemente mettere in atto le politiche, creare la struttura e produrre le armi favorevoli a uno Stato securitario, soprattutto ora che ha la giustificazione per la “sicurezza nazionale”? La risposta è analoga al concetto di “color-blindness” [secondo il quale i cittadini non devono essere giudicati in base al colore della pelle, ndtr.]. In “The New Jim Crow” [La Nuova Jim Crow, in riferimento alle norme segregazioniste e razziste degli Stati del Sud prima della fine formale della segregazione razziale, ndtr.] Michelle Alexander descrive il dilemma di imporre politiche di repressione razziale in un momento in cui (gli anni ’60 e ’70) manifestazioni esplicite di razzismo non erano più accettabili. Documenta come la guerra contro la droga abbia accolto il programma razzista ma sotto l’etichetta della lotta alle droghe, contro cui pochi avrebbero potuto obiettare. Gli USA hanno avuto lo stesso problema nella transizione allo Stato securitario. Come avrebbero potuto subordinare le libertà civili a favore della repressione poliziesca conservando al contempo la loro immagine in quanto democrazia?

In particolare il problema che gli USA dovevano affrontare nel rafforzare la loro polizia perché si dedicasse alla sicurezza nazionale era il muro rappresentato dal Posse Comitatus Act [legge che pone dei limiti all’uso della forza militare all’interno del territorio USA, ndtr.] del 1878. Come leggi e norme simili in altri Stati europei, il Posse Act separa rigidamente l’applicazione della legge all’interno (sicurezza interna) dall’impiego dell’esercito (sicurezza esterna). È più o meno così:

Ciò non significa che l’esercito non possa essere utilizzato all’interno [del Paese]. La Guardia Nazionale gioca occasionalmente questo ruolo. Ma perché venga chiamato ad intervenire l’esercito vero e proprio, come ha cercato di fare Trump a Washington, doveva essere invocato un poco chiaro Insurrection Act [Legge contro l’insurrezione] e il Pentagono si è rifiutato [di farlo].

Quindi, benché le imprese USA abbiano la possibilità di produrre armi da guerra, il “muro” ha posto loro dei limiti nello sviluppo di armamenti di tipo militare per la polizia. Ciò apre un ampio mercato per Israele, non solo per l’armamento bellico per le forze dell’ordine su misura per il cliente, ma anche per il mercato civile. L’Israeli Weapons Industry [Industria Israeliana degli Armamenti] (IWI) ha aperto un fabbrica a Middletown, Pennsylania, in cui produce, per esempio, un mitra Uzi delle dimensioni di una pistola per la polizia. Questa fabbrica produce un’ampia gamma di armi da guerra per le forze dell’ordine, compresi modelli di fucili automatici Galil e Tavor e un fucile tattico [cioè per le forze di polizia, ndtr.] chiamato Zion-15. Israele è anche il leader mondiale per i droni, che produce al 60% per il mercato estero. I droni sono diventati fondamentali per i dipartimenti di polizia negli USA, ma anche in questo caso il “muro” rappresenta un intralcio: i droni sono in genere utilizzati per la sorveglianza, ma quelli armati sono ancora vietati alla polizia USA.

Una seconda fonte della militarizzazione israeliana della polizia USA viene dalla stessa esperienza israeliana. Il sionismo, come il “destino manifesto” degli USA, è un movimento di colonialismo d’insediamento. Poiché ogni popolo colonizzato resiste alla propria espulsione ed eliminazione, la comunità dei colonizzatori vive in una condizione di continua insicurezza, di permanente emergenza, in cui ogni aspetto della vita è militarizzato.

Buona parte della violenza nella cultura americana deriva dalle campagne di genocidio contro i nativi americani (Andrew Jackson [noto per la sua spietatezza nei confronti dei nativi americani, ndtr.] è il presidente preferito da Trump), e molti film western ruotano attorno a sceriffi e capi della polizia, mostrando proprio come polizia e colonizzazione violenta siano strettamente legati. Tuttavia dagli anni ’80 del XIX secolo il regime colonialista americano aveva complessivamente pacificato i nativi americani. Ciò gli rese possibile trasformarsi in un regime più civile: la promulgazione del Posse Act del 1878 servì a “rendere civile” la polizia. Ciò in Israele non è mai avvenuto. I palestinesi continuano ad essere una potente fonte di resistenza alla colonizzazione e quindi Israele è l’unico Paese dell’Occidente a non separare le forze dell’ordine civili dall’esercito. Al contrario, criminalizzando la resistenza palestinese come “terrorismo”, Israele associa il mantenimento dell’ordine pubblico all’esercito. Quindi in Israele la polizia non è separata dall’esercito ma è legata a un insieme di unità paramilitari che svolgono le due funzioni, come illustrato qui:

Questo è il tipo di ristrutturazione delle forze di polizia degli USA che Israele promuove. La polizia israeliana, lungi dall’essere solo un ente civile incaricato di mantenere la legge e l’ordine, è un’organizzazione paramilitare che risponde al ministero della Sicurezza Interna, integrata nei più complessivi organismi militari e per la sicurezza in base al regime di “emergenza permanente”. Israele vede come “nemico” la maggioranza della popolazione del Paese, i cittadini palestinesi di Israele e i non cittadini dei Territori Occupati, oltre ad altri segmenti della società israeliana, dai richiedenti asilo africani ai progressisti e alle persone di sinistra “filo-arabe”. La principale linea di condotta della polizia israeliana non è quindi principalmente di carattere civile – proteggere la società come un tutto unico – ma riguarda contro-insurrezione e controterrorismo.

A questo riguardo la polizia israeliana è all’avanguardia. Il suo sito ufficiate definisce il suo ruolo come “prevenzione di atti di terrorismo, smantellamento di ordigni esplosivi e impiego contro azioni terroristiche”, solo questi si allontanano da questioni tradizionalmente relative alla polizia come il mantenimento della legge e dell’ordine, la lotta contro il crimine e il controllo del traffico. Il controterrorismo è la “mentalità”, con una notevole sovrapposizione tra “mantenimento dell’ordine ad alta intensità” e “guerra a bassa intensità” che sono uno “spazio di intervento” securocratico. L’ex-direttore dello Shin Bet e all’epoca ministro della Sicurezza interna, Avi Dicher, parlando davanti a 10.000 agenti di polizia che partecipavano all’ [incontro dell’] Associazione Internazionale dei Capi della Polizia a Boston, ha utilizzato il termine “crimiterrorismo” per sottolineare “l’intimo rapporto tra la lotta contro la criminalità e contro il terrorismo”. “Crimine e terrorismo sono due facce della stessa medaglia,” ha affermato.

La mitica reputazione di Israele come principale potenza antiterrorista al mondo gli conferisce un grande potere al Congresso, al Pentagono, nei circoli della sicurezza nazionale e nella polizia. La polizia paramilitare israeliana rientra bene nelle tendenze paramilitari già presenti nei dipartimenti di polizia americani. Già a metà degli anni ’60 Filadelfia e Los Angeles organizzarono squadre SWAT – SWAT significava originariamente “Special Weapons Attack Team” [Squadra di Attacco con Armi Speciali], non proprio un concetto civile. Ciò diede inizio a quella che Radley Balko chiama “la nascita del poliziotto guerriero”. Oggi l’80% delle forze di polizia hanno squadre SWAT.

Diamo una breve occhiata a come le forze di polizia americane applicano i principi del manuale di antiterrorismo di Israele al controterrorismo nelle città americane. Accogliendo il concetto israeliano secondo cui l’intelligence è la chiave per la prevenzione e l’interdizione, all’inizio degli anni 2000 il NYPD [New York City Police Department, il più grande dipartimento di polizia urbano degli Stati Uniti, ndtr.] ha formato l’”Unità Demografica” che invia agenti in borghese, noti come “rastrelli”, per mappare il “terreno umano” dei quartieri delle minoranze prese di mira – “modellati”, secondo una fonte del NYPD, “su come le autorità israeliane operano in Cisgiordania.” Gli informatori, noti come “pulci delle moschee”, hanno monitorato sermoni e attività delle moschee. Un’“unità di interdizione del terrorismo” ha fatto indagini sui loro dirigenti, e un’altra squadra, l’Unità per i Servizi Speciali, conduce un lavoro sotto copertura – in qualche caso illegale – fuori da New York.

Nel 2012 il NYPD ha persino aperto un ufficio in Israele, situato nel quartier generale della polizia del distretto di Sharon a Kfar Saba, per “cooperare quotidianamente con la polizia israeliana”. “Se un attentatore suicida si fa esplodere a Gerusalemme, il NYPD accorre sul posto,” ha affermato Michael Dzikansky, un poliziotto del NYPD che presta servizio in Israele. “Sono stato lì per fare la domanda di New York: ‘Perché qui? C’era qualcosa di unico in quello che ha fatto l’attentatore suicida? C’era stato un qualche preavviso? Una falla nella sicurezza?’ In seguito Dzilansky è stato co-autore di un libro, Terrorist Suicide Bombings: Attack Interdiction, Mitigation, and Response [Attentati terroristici suicidi: blocco dell’attacco, riduzione del danno e risposta], un altro esempio di come le prassi securitarie israeliane entrino nelle forze dell’ordine negli Stati Uniti.

Cathy Lanier, capo della polizia di Washington, che una volta ha affermato che “nessun’altra esperienza della mia vita ha avuto tanto impatto sul modo di fare il mio lavoro quanto andare in Israele,” ha autorizzato posti di controllo nel quartiere difficile di Trinidad, nel nordest della capitale, per monitorare e controllare la violenza di strada e l’illegale traffico di droga.

Ovviamente “guerra” è stato a lungo un concetto politico americano, soprattutto per quanto riguarda le relazioni razziali. L’ordine pubblico americano diventò apertamente militarizzato quando Reagan dichiarò la “guerra alla droga”, che, a sua volta, venne accentuata ulteriormente fino a una vera e propria guerra da Bush [padre]. All’inizio degli anni ’90 egli inaugurò un programma che consentiva che ulteriori equipaggiamenti, armi e veicoli tattici militari venissero trasferiti alle forze dell’ordine per essere utilizzati nella “repressione della droga”. L’amministrazione Clinton militarizzò ulteriormente l’attività della polizia con l’approvazione del Violent Crime Control and Law Enforcement Act [Legge per il Controllo della Criminalità Violenta e Ordine Pubblico] del 1994 (redatto da Joe Biden). Secondo Alexander ciò pose le basi giuridiche per il sistema di caste su base razziale degli Stati Uniti, in quanto ebbe come risultato l’incarcerazione di massa e la privazione dei diritti civili di milioni di persone di colore. Nel 1997 l’amministrazione Clinton istituì il programma 1033, che estese il trasferimento di equipaggiamento militare alla polizia. Oggi la polizia ad Oxford, Alabama, ha un cellulare blindato e a Lebanon, Tennessee, ha un carro armato.

Ora in seguito all’11 settembre si aggiunge a tutto ciò la vera e propria “guerra contro il terrorismo” e in pratica ogni americano è sottoposto a un controllo dell’ordine pubblico e a una privazione dei diritti di tipo militare, soprattutto attraverso il Patriot Act, un’aggressione alle libertà civili che sottopone gli USA a uno stato di emergenza permanente. Esso concede alle autorità il potere di un giusto processo abbreviato– e ciò più di ogni altra cosa se non altro descrive il comportamento della polizia americana oggi. (Il Patriot Act è stato confermato dal Congresso sotto ogni amministrazione). Il modo militarizzato in cui sono stati smantellati i campi di Occupy [movimento internazionale contro il potere finanziario iniziato negli Usa nel 2011, ndtr.]. ha evidenziato che i giovani bianchi di classe media scontenti del neoliberismo possono essere repressi altrettanto facilmente della comunità nera.

In conseguenza di tutto ciò la polizia, che a lungo ha mal sopportato il “muro” che frenava la sua propensione alla violenza e alla repressione – che, di fatto, è stata in primo luogo l’intenzione originaria per la creazione della polizia – ora ha una giustificazione giuridica e ideologica per intaccarlo. Quindi il massimo “contributo di Israele alla polizia USA è il concetto di Stato securitario, il suo stesso modello di democrazia militarizzata. Lo Stato securitario spacciato da Israele è in realtà un sofisticato Stato di polizia la cui popolazione è facilmente manipolabile da un’ossessione per la “sicurezza”. È uno Stato guidato da una logica di guerra permanente, in cui la richiesta di “sicurezza” ha la meglio su ogni difesa della democrazia. La seguente figura mostra la logica circolare dell’evoluzione dello Stato securitario. 

In generale, il lavoro della polizia, con nomi diversi, è garantire l’ordine pubblico dell’endemica insicurezza del capitalismo predatorio. Guerra contro la droga, guerra contro il crimine, guerra globale contro il terrorismo, “guerre securitarie”, “guerre contro il popolo”, “guerre per le risorse,” repressione delle rivolte, campagne per la legge e l’ordine e altri eufemismi. Ciò che unisce comunità di colore povere e discriminate su base razziale, lavoratori in generale, precari della classe media e giovani che cercano solo di entrare nel mondo del lavoro è che l’economia neoliberista non ha posto per loro oltre il lavoro a tempo determinato, e che tutti voi, se minacciate il sistema che vi sta distruggendo, dovrete affrontare la polizia – gli scagnozzi del capitalismo. Questo è il vero atteggiamento della tolleranza zero circolare trasferito alla polizia dallo Stato securitario. Ciò corrisponde perfettamente nel corso della storia al ruolo della polizia, da cui proviene la sua cultura violenta. Se gli USA possono essere spronati lungo il loro percorso per diventare uno Stato securitario (non difficile da vendere), allora Israele non solo si guadagnerà un enorme mercato per le tecnologie repressive, ma un sicuro alleato nella sua lotta contro la resistenza palestinese. Addestramento della polizia e hasbara [propaganda in ebraico] sono intimamente legati.

E quindi ecco l’addestramento della polizia americana da parte di Israele. All’inizio del 2002, poco dopo l’11 settembre, iniziò una sfilza di programmi di addestramento. L’American Jewish Institute for National Security Affairs [Istituto Ebraico Americano per le Questioni di Sicurezza Pubblica] (JINSA), un’organizzazione che sostiene che non c’è differenza tra gli interessi della sicurezza nazionale di USA e di Israele, inaugurò il suo Law Enforcement Exchange Program [Programma di Scambi sull’Ordine Pubblico] (LEEP). Esso collabora con la polizia nazionale israeliana, il ministero della Sicurezza Interna israeliano e l’agenzia della sicurezza israeliana (Shin Bet), ed è appoggiato dall’Associazione Internazionale dei Capi della Polizia, dall’Associazione degli Sceriffi delle Principali Contee, dall’Associazione dei Capi delle Principali Città e dal Forum di Ricerca Esecutiva della Polizia per portare in Israele capi della polizia, sceriffi, importanti quadri delle forze dell’ordine, direttori della sicurezza nazionale a livello statale, commissari di polizia statali e dirigenti delle forze dell’ordine federali per la “formazione”. Finora oltre 9.500 funzionari delle forze dell’ordine hanno partecipato a dodici conferenze. “Le competenze raccolte dall’osservazione e dall’ addestramento durante il viaggio dell’LEEP,” ha proclamato il colonnello Joseph R. (Rick) Fuentes, sovrintendente della polizia dello Stato del New Jersey, sul sito del JINSA “hanno suggerito importanti cambiamenti della struttura organizzativa della polizia statale del New Jersey ed hanno portato alla creazione della sezione per la sicurezza nazionale.”

L’ Anti-Defamation League [organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] (ADL) ospita due volte all’anno una Scuola Avanzata di Addestramento a Washington. La sua “scuola” ha addestrato più di 1.000 professionisti dell’ordine pubblico USA, che rappresentavano 245 organismi federali, statali e locali. L’ADL gestisce anche un seminario nazionale di contro-terrorismo (NCTS) in Israele, portando funzionari di pubblica sicurezza da tutti gli USA in Israele per una settimana di intenso addestramento sull’antiterrorismo, mettendoli in rapporto con la polizia nazionale israeliana, l’IDF [esercito israeliano, ndtr.], l’intelligence e i servizi di sicurezza di Israele.

E ricordate l’IWI, il produttore dell’israeliana Uzi? Gestisce un’accademia di polizia a Pauldon, Arizona, aperta al pubblico come alla polizia. E poi c’è il Georgia International Law Enforcement Exchange [Scambio Internazionale delle Forze dell’Ordine della Georgia] (GILEE), situato in un cubo nero nell’edificio dello Stato della Georgia ad Atlanta, un altro importante centro israeliano di addestramento della polizia.

Quindi la questione non è l’uso della “violenza” nell’addestramento della polizia israeliana e statunitense. Paradossalmente la violenza interpersonale così caratteristica della polizia americana in situazioni di conflitto è assente in Israele. Raramente la polizia israeliana ammanetta persone o tira fuori le armi, la prima reazione dei poliziotti americani. La “violenza” nel controllo dell’ordine pubblico in Israele è più controllata, come lo è in combattimento. È meno un tipo di violenza da macho, e penso che sia una lezione fondamentale che Israele cerca di impartire alla polizia americana: colpisci ancora più in fretta di come fai. Giacché Israele non deve rispettare tutte le futili formalità di leggere ai sospettati i loro diritti o di interagire con loro, come abbiamo visto nell’uccisione di Rayshard Brooks ad Atlanta la scorsa settimana. Dato che i diritti civili continuano a condizionare la sicurezza nazionale negli USA, ciò può essere ancora più possibile. Ma al contempo la polizia israeliana non passa così improvvisamente dall’arrestare a sparare. Preferisce reagire solo con il controllo della situazione.

Ma quando c’è la necessità di sparare, la polizia israeliana passa rapidamente alla modalità militare. Un funzionario di polizia americano racconta quello che ha appreso durante il suo periodo in Israele con un’unità speciale di polizia “Yaman”, simile a una squadra SWAT:

Quando si tratta di sparare la principale differenza tra l’addestramento israeliano e quello americano è la nostra filosofia sulla distanza ravvicinata o il combattimento urbano. La maggior differenza tra quello che fanno gli israeliani e quello a cui siamo addestrati a fare noi americani è che loro spesso consiglierebbero di andare quasi a capofitto verso una postazione del nemico sparando all’impazzata. Ciò in genere dura una manciata di secondi, quindi ricaricare rapidamente ha un’importanza notevole nel successo dell’azione. Nell’addestramento avremmo avanzato di 40 o 50 metri alla volta in un contesto urbano, sparando nel contempo all’impazzata. Negli USA l’attacco è più controllato. Ci hanno insegnato di sparare eventualmente raffiche in colpi di tre secondi e poi cercare un posto per metterci al riparo. Non è così che fa il sistema di sicurezza israeliano, e sebbene possa essere troppo audace in qualunque circostanza, nel giusto contesto non posso pensare a un modo più efficace per conquistare terreno.”

Tutto ciò rientra in quello che chiamo Palestina Globale. Non penso che Israele stia sviluppando tutto il suo armamento sofisticato, le tecnologie di repressione, le tattiche di controllo della popolazione e il suo contesto di Stato securitario solo per il controllo dei palestinesi. Loro sono le cavie, i Territori Occupati solo un laboratorio. Questa parte del complesso militare-industriale israeliano è orientata all’esportazione, e la vostra polizia la sta comprando. Steven Graham conclude: “É in corso l’integrazione tra i complessi securitari – industriali e quelli militari-industriali di Israele e Stati Uniti. Ancor più di questo: i complessi securitari-militari-industriali delle due Nazioni sono diventati indissolubilmente connessi, al punto che ora sarebbe ragionevole considerarli come un’unica entità diversificata e transnazionale.” Perciò mettete insieme i pezzi. Come la polizia USA si è “israelizzata”, voi, il popolo americano, vi siete “palestinizzati”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’UE arricchisce le ricompense per i crimini di Israele

Ali Abunimah

18 giugno 2020 – Electronic Intifada

Dei membri del Parlamento europeo stanno manifestando una forte opposizione contro le ultime iniziative dell’Unione Europea volte ad accrescere il sostegno a Israele anche nel caso esso dovesse portare avanti i piani di annessione di una buona parte della Cisgiordania occupata, una flagrante violazione del diritto internazionale.

Sono, comunque, una minoranza poiché la Commissione, l’esecutivo dell’UE, e la maggioranza dei membri del Parlamento europeo sembrano propensi ad inviare a Israele un messaggio di sostegno incondizionato.

Lunedì la Banca Europea per gli Investimenti ha assegnato a Israele un prestito di 170 milioni di dollari per il finanziamento di un impianto di dissalazione.

E mercoledì il Parlamento europeo ha ratificato, con 437 voti contro 102, un nuovo accordo sul trasporto aereo che garantirà alle compagnie aeree israeliane un accesso ancora più esteso alle destinazioni europee e un ulteriore impulso all’economia israeliana.

Una precedente proposta di rinvio della ratifica è stata sconfitta con 388 voti contro 278.

Alcuni membri dell’UE stanno inoltre per elargire ad Israele delle ricompense.

Ad esempio, la Svezia, che gode dell’immeritato riconoscimento di aver additato le responsabilità di Israele, sta finanziando una nuova iniziativa per incoraggiare gli affari con le “startup” hi-tech di Israele, un settore indissolubilmente legato alla sua industria della guerra informatica e della sorveglianza.

L’ECCP, una coalizione europea di organizzazioni a favore dei diritti dei palestinesi, condanna le misure dell’UE.

Fatin Al Tamimi, presidente della campagna di solidarietà Irlanda-Palestina e membro dell’ECCP, ha detto che i membri del Parlamento europeo “hanno avuto l’opportunità di difendere la giustizia a favore del popolo palestinese e mostrare all’apartheid israeliana che verranno messe in luce le sue responsabilità per le violazioni del diritto internazionale.

Purtroppo, scegliendo di continuare gli affari con Israele come sempre, anche di fronte ad un piano di annessione ampiamente condannato, gli eurodeputati hanno dimostrato ancora una volta quanto l’UE non sia disposta ad agire in difesa dei diritti umani e dello stato di diritto”.

“Che si vergognino”

L’UE ha manifestato una forte opposizione al piano israeliano di annettere i territori palestinesi occupati, anche attraverso un’ammonizione, a febbraio, secondo cui l’’accaparramento dei territori”, se Israele lo portasse a termine, non potrebbe rimanere impunito”.

Tuttavia, sottoposta alle pressioni della lobby israeliana, l’UE ha fatto marcia indietro rispetto all’ammonizione ed è tornata alle sue solite vuote espressioni di “preoccupazione”.

Ma l’UE, in sostanza, non sta facendo nulla per fermare Israele. Sta alacremente premiando e incentivando i suoi crimini.

Manu Pineda, un parlamentare di sinistra spagnolo e presidente della delegazione per le relazioni con la Palestina del Parlamento europeo, ha presentato alla Commissione una domanda sul finanziamento dell’UE dell’impianto di dissalazione israeliano.

Ha definito l’iniziativa “inspiegabile” alla luce delle recenti azioni di Israele contro i palestinesi.

L’irlandese Clare Daly ha dichiarato che i suoi colleghi europarlamentari che hanno scelto col voto di “normalizzare i crimini israeliani” attraverso la ratifica dell’accordo sul trasporto aereo “hanno toccato il fondo”.

“Si vergognino”, ha aggiunto.

Appena un’ora dopo la ratifica del trattato sul trasporto aereo, gli eurodeputati hanno tenuto un dibattito sull’annessione a cui ha partecipato Josep Borrell, responsabile della politica estera dell’UE.

“Quegli stessi gruppi politici che abbiamo sentito esprimere preoccupazione per l’annessione avevano poco prima reso possibile l’annessione votando a favore dell’accordo UE-Israele sull’aviazione”, ha affermato la coordinatrice dell’ECCP Aneta Jerska.

“Questo è a tutti gli effetti il colmo dell’ipocrisia dell’UE.”

Borrell ha ribadito al parlamento che l’annessione “costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

Ha avvertito che “Dal punto di vista dell’Unione Europea, l’annessione avrebbe inevitabilmente conseguenze significative per le strette relazioni di cui attualmente godiamo con Israele”

Nell’ascoltare queste parole i funzionari israeliani si faranno quattro risate mentre si recano alla Banca Europea per gli investimenti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 giugno

In Cisgiordania, a motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 70 strutture di proprietà palestinese, sfollando 90 persone e creando ripercussioni su almeno oltre 280.

Ciò rappresenta un aumento del 250% rispetto alla media settimanale di strutture prese di mira dall’inizio dell’anno (10). 61 delle strutture colpite erano situate in Area C, e 9 [delle 61] erano state fornite come assistenza umanitaria. Tra le aree più colpite c’è Massafer Yatta, nel sud di Hebron, dove le autorità israeliane hanno demolito 17 abitazioni, cisterne e strutture collegate al sostentamento. Questa zona è designata da Israele come “Zona di tiro” per le esercitazioni militari israeliane, ed i suoi 1.300 residenti devono affrontare un contesto coercitivo che li mette a rischio di trasferimento forzato. Nove delle 70 strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; quattro di queste sono state demolite dai medesimi proprietari palestinesi, al fine di evitare oneri imposti dalla municipalità e possibili danni ad altre strutture adiacenti o ad effetti personali. Nel contesto della pandemia in corso, l’aumento delle demolizioni e degli sfollamenti desta serie preoccupazioni.

In Cisgiordania, 25 palestinesi, tra cui nove minori, sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane. Dei 25 feriti, 22 sono stati registrati durante le ormai consuete dimostrazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), tenute per protestare contro le restrizioni di accesso e l’espansione degli insediamenti. Dei tre rimanenti, uno è rimasto ferito nei pressi di Tubas, durante una protesta contro la prevista annessione ad Israele di parti della Cisgiordania, e due durante operazioni di ricerca-arresto svolte nel quartiere Al Isawiya di Gerusalemme Est e nella città di Qabatiya (Jenin). Rispetto alle cause delle lesioni, dodici dei feriti sono stati colpiti da proiettili di metallo rivestiti di gomma; dieci hanno inalato gas lacrimogeno (e sono stati sottoposti a trattamento medico); due sono stati aggrediti fisicamente ed uno è stato colpito da una bomboletta di gas lacrimogeno.

Durante il periodo in esame [2-15 giugno], le forze israeliane hanno effettuato 120 operazioni di ricerca-arresto, arrestando circa 190 palestinesi. Di queste operazioni, 28 sono state svolte a Gerusalemme Est, 26 nel governatorato di Hebron, 15 nel governatorato di Ramallah e le rimanenti in altre località della Cisgiordania.

Nella Striscia di Gaza, in aree adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 35 occasioni, presumibilmente per imporre le restrizioni di accesso. Non sono stati segnalati feriti. In altre cinque occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Gaza, Beit Lahiya, Jabaliya e Rafah ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Un gruppo armato palestinese ha lanciato un missile verso Israele, a seguito del quale le forze israeliane hanno bombardato alcuni siti militari ed aree aperte vicine alla recinzione perimetrale. Questi attacchi reciproci non hanno causato feriti, ma i siti di Gaza bombardati hanno subito danni. Inoltre, per la prima volta dopo diversi mesi, da Gaza sono stati lanciati un certo numero di palloncini incendiari verso il sud di Israele; non sono stati segnalati danni.

L’uscita di pazienti palestinesi da Gaza attraverso il valico di Erez è pregiudicata dalla sospensione, attuata dall’Autorità Palestinese (PA), di ogni forma di coordinamento con le Autorità israeliane. Quest’ultima misura è stata adottata [dalla PA] in risposta all’intento di Israele di annettersi parti della Cisgiordania. A partire dal 21 maggio, l’Autorità Palestinese concorda con Israele solo l’uscita di casi eccezionali di pronto soccorso. In qualche caso, richieste di uscita di pazienti sono state inoltrate alle Autorità israeliane da Organizzazioni per i Diritti Umani. Dall’11 marzo, nel contesto delle restrizioni imposte per contenere la pandemia di COVID-19, il valico di Rafah con l’Egitto è stato completamente chiuso per chi voleva uscire da Gaza, compresi i pazienti.

Dieci palestinesi sono rimasti feriti e almeno 90 alberi di ulivo e dieci veicoli sono stati vandalizzati da aggressori ritenuti coloni israeliani [segue dettaglio]. Tra i feriti c’è una bambina di dieci anni che, nella Città Vecchia di Gerusalemme, spinta da un colono, è rimasta ferita ad un occhio. I rimanenti nove feriti palestinesi sono stati colpiti da pietre o malmenati in varie località: vicino agli insediamenti di Asfar (Hebron) e Homesh (Nablus); vicino alla Comunità di pastori di Khirbet Tana (Nablus), nella zona del Mar Morto e nell’Area (H2) controllata da Israele della città di Hebron. In quest’ultimo caso, ripreso da una telecamera, un soldato israeliano ha fermato l’aggressione, aiutando il palestinese a fuggire. In due episodi verificatisi nei villaggi di Burin (Nablus) e Kafr ad Dik (Salfit), coloni hanno dato fuoco o abbattuto almeno 90 alberi. Inoltre, nei villaggi di Jamma’in, As Sawiya e Lifjim (tutti a Nablus), Al Mughayyir (Ramallah) e Kifl Hares (Salfit), nonché in Area H2 di Hebron, aggressori (si presume si tratti di coloni) hanno vandalizzato veicoli, tende e strutture idriche. In altri sei casi, coloni hanno pascolato le loro pecore su terreni appartenenti agli agricoltori della Comunità di Qawawis (Hebron), danneggiando almeno 2 ettari di colture stagionali.

Secondo una ONG israeliana, tre israeliani sono rimasti feriti e 17 veicoli hanno subito danni a seguito del lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani che percorrevano strade della Cisgiordania.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Comunicato Relatori speciali ONU contro l’annessione,l’apartheid e l’occupazione

Ginevra 16 giugno 2020

Comunicato Esperti Onu

L’annessione israeliana di parti della Cisgiordania palestinese violerebbe il diritto internazionale – gli esperti dell’ONU chiedono alla comunità internazionale che ne paghi le conseguenze.

GINEVRA (16 giugno 2020) – Oggi esperti dell’Onu hanno detto che l’accordo del nuovo governo di coalizione di Israele per annettere dopo il 1° luglio ampie zone della Cisgiordania palestinese occupata violerebbe un principio fondamentale del diritto internazionale e deve essere contrastato in modo efficace dalla comunità internazionale. Quarantasette degli inviati indipendenti per le procedure speciali nominati dalla Commissione per i diritti umani hanno rilasciato la seguente dichiarazione:

L’annessione dei territori occupati è una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite e delle Convenzioni di Ginevra ed è contraria alle norme fondamentali più volte affermate dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, secondo cui l’acquisizione di territori con la guerra o con la forza è inammissibile.

La comunità internazionale ha vietato l’annessione proprio perché incita a guerre, devastazioni economiche, instabilità politica, sistematiche violazioni dei diritti umani e diffuse sofferenze.

I piani dichiarati da Israele per l’annessione estenderebbero la sovranità su gran parte della Valle del Giordano e su tutti gli oltre 235 insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania. Ciò equivarrebbe a circa il 30% della Cisgiordania. L’annessione di questo territorio è stata approvata dal Piano Americano di Pace per la Prosperità, reso noto alla fine di gennaio 2020.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato in molte occasioni che l’occupazione israeliana, che risale a 53 anni fa, è fonte di gravissime violazioni dei diritti umani contro il popolo palestinese. Queste violazioni includono confisca di terre, violenza dei coloni, leggi di pianificazione urbanistica discriminatorie, confisca delle risorse naturali, demolizione delle case, trasferimento forzato della popolazione, uso eccessivo della forza e tortura, sfruttamento del lavoro, violazioni estese dei diritti alla privacy, restrizioni sui media e sulla libertà di espressione, prendere di mira le donne attiviste e i giornalisti, detenzione di minorenni, avvelenamento da esposizione a rifiuti tossici, sfratti ed espulsioni forzate, deprivazione economica e povertà estrema, detenzione arbitraria, mancanza di libertà di movimento, insicurezza alimentare, applicazione discriminatoria delle leggi e imposizione di un sistema a due livelli di diritti politici, legali, sociali, culturali ed economici diversi in base all’etnia ed alla nazionalità. I difensori dei diritti umani palestinesi e israeliani, che portano pacificamente l’attenzione dell’opinione pubblica su queste violazioni, sono calunniati, criminalizzati o etichettati come terroristi. Soprattutto, l’occupazione israeliana ha significato la negazione del diritto all’ autodeterminazione dei palestinesi.

Dopo l’annessione queste violazioni dei diritti umani non farebbero che intensificarsi. Ciò che rimarrebbe della Cisgiordania sarebbe un Bantustan palestinese, isole di territorio completamente scollegate, circondate da Israele e senza alcun legame territoriale con il mondo esterno. Recentemente Israele ha promesso che manterrà il controllo permanente della sicurezza tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Quindi il giorno dopo l’annessione sarebbe la cristallizzazione di una realtà già di per sé ingiusta: due popoli che vivono nello stesso spazio, governati dallo stesso Stato, ma con diritti profondamente disuguali. Questa è la visione di un’apartheid del XXI secolo.

Già per due volte in precedenza Israele ha annesso territori occupati – Gerusalemme Est nel 1980 e le Alture del Golan siriane nel 1981. In entrambe le occasioni il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha immediatamente condannato le annessioni come illegali, ma non ha preso alcuna contromisura significativa per opporsi alle azioni di Israele.

Allo stesso modo, il Consiglio di Sicurezza ha ripetutamente criticato le colonie israeliane in quanto flagrante violazione del diritto internazionale. Tuttavia, la sfida di Israele a queste risoluzioni e il suo continuo rafforzamento delle colonie è rimasto senza risposta da parte della comunità internazionale.

Questa volta deve essere diverso. La comunità internazionale ha la grave responsabilità giuridica e politica di difendere un ordine internazionale basato su regole, di opporsi alle violazioni dei diritti umani e dei principi fondamentali del diritto internazionale e di dare attuazione alle sue numerose risoluzioni che criticano la condotta da parte di Israele durante questa prolungata occupazione. In particolare, gli Stati hanno il dovere di non riconoscere, aiutare o assistere un altro Stato in qualsiasi forma di attività illegale, come l’annessione o la creazione di insediamenti civili in territorio occupato. Le lezioni del passato sono chiare: le critiche senza conseguenze non impediranno l’annessione né porranno fine all’occupazione.

La responsabilizzazione e la fine dell’impunità devono diventare una priorità immediata per la comunità internazionale. Essa ha a sua disposizione un’ampia gamma di misure di responsabilizzazione che sono state ampiamente applicate e con successo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU in altre crisi internazionali negli ultimi 60 anni. Le misure di responsabilizzazione che vengono selezionate devono essere prese in piena conformità con il diritto internazionale, essere proporzionate, efficaci, soggette a revisione periodica, coerenti con i diritti umani, umanitari e con il diritto dei rifugiati, progettate per annullare le annessioni e por fine all’occupazione e al conflitto in modo giusto e duraturo. I palestinesi e gli israeliani non meritano di meno.

Esprimiamo grande rammarico per il ruolo degli Stati Uniti d’America nel sostenere e incoraggiare i piani illegali di Israele per l’ulteriore annessione dei territori occupati. Negli ultimi 75 anni in molte occasioni gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante nel promuovere i diritti umani a livello mondiale. In questa occasione dovrebbero opporsi decisamente all’imminente violazione di un principio fondamentale del diritto internazionale, piuttosto che favorirne concretamente la violazione”.

(*) Gli esperti:

Mr. Michael Lynk, Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian Territory occupied since 1967; Ms. Agnès Callamard, Special Rapporteur on extrajudicial, summary or arbitrary executions; Mr. Ahmed Reid (Chair), Ms. Dominique Day, Mr. Michal Balcerzak, Mr. Ricardo A. Sunga III, and Mr. Sabelo Gumedze, Working Group of experts on people of African descent;Ms. Alena Douhan, Special Rapporteur on the negative impact of the unilateral coercive measures on the enjoyment of human rights; Ms Alice Cruz, Special Rapporteur on the elimination of discrimination against persons affected by leprosy and their family members, Ms. Anaïs Marin, Special Rapporteur on the situation of human rights in Belarus; Mr. Aristide NONONSI, Independent Expert on the situation of human rights in the Sudan; Mr. Alioune Tine,Independent Expert on the situation of human rights in Mali; Mr. Balakrishnan Rajagopal, Special Rapporteur on adequate housing as a component of the right to an adequate standard of living, and on the right to non-discrimination in this context; Mr. Baskut Tuncak, Special Rapporteur on human rights and hazardous substances and wastes; Ms. Catalina Devandas-Aguilar, Special Rapporteur on the rights of persons with disabilities; Ms. Cecilia Jimenez-Damary, Special rapporteur on the human rights of internally displaced persons; Mr. Chris Kwaja (Chair), Ms. Jelena Aparac, Ms. Lilian Bobea, Mr. Saeed Mokbil,Ms. Sorcha MacLeod, Working Group on the use of mercenaries as a means of violating human rights and impeding the exercise of the right of peoples to self-determination; Ms. Claudia Mahler, Independent Expert on the enjoyment of all human rights by older persons; Mr. Clément Nyaletsossi Voule, Special Rapporteur on the right to peaceful assembly and association; Mr. Dainius Pūras, Special Rapporteur on the right to physical and mental health; Mr. David Kaye, Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of expression; Mr. David R. Boyd, Special Rapporteur on human rights and the environment; Mr. Diego García-Sayán, UN Special Rapporteur on the independence of judges and lawyers; Ms. Dubravka Šimonovic, Special Rapporteur on violence against women, its causes and consequences; (Chair) Ms. Elizabeth Broderick (Vice Chair) Ms. Melissa Upreti, Ms. Alda Facio, Ms. Ivana Radačić, Ms. Meskerem Geset Techane, Working Group on discrimination against women and girls; Mr. Fernand de Varennes, Special Rapporteur on minority issues; Ms. Fionnuala D. Ní Aoláin, Special Rapporteur on the promotion and protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism; Mr. Githu Muigai (Chair), Ms. Anita Ramasastry (Vice-chair), Mr. Dante Pesce, Ms. Elżbieta Karska, and Mr. Surya Deva, UN Working Group on Business and Human Rights; Ms. Isha Dyfan, Independent Expert on the situation of human rights in Somalia; Mr. Joe Cannataci, Special Rapporteur on the right to privacy; Mr. José Francisco Calí Tzay, Special Rapporteur on the rights of indigenous peoples;Mr. José Antonio Guevara Bermúdez (Chair), Ms. Elina Steinerte (Vice-Chair), Ms. Leigh Toomey (Vice-Chair), Mr. Seong-Phil Hong, and Mr. Sètondji Adjovi, Working Group on Arbitrary Detention; Ms. Karima Bennoune, Special Rapporteur in the field of cultural rights; Ms. Kombou Boly Barry, Special Rapporteur on the right to education; Mr. Léo Heller,Special Rapporteur on the human rights to water and sanitation; Mr. Livingstone Sewanyana, Independent Expert on the promotion of a democratic and equitable international order; Ms. Mama Fatima Singhateh, Special Rapporteur on sale and sexual exploitation of children; Ms Maria Grazia Giammarinaro, Special Rapporteur on trafficking in persons, especially women and children; Ms. Mary Lawlor, Special Rapporteur on the situation of human rights defenders; Mr. Michael Fakhri, Special Rapporteur on the right to food; Mr. Nils Melzer, Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment; Mr. Obiora C. Okafor, Independent Expert on human rights and international solidarity,Mr. Olivier De Schutter, Special Rapporteur on extreme poverty and human rights; Mr. Saad Alfarargi, Special Rapporteur on the right to development; Ms. E. Tendayi Achiume, Special Rapporteur on Contemporary Forms of Racism; Mr. Thomas Andrews. Special Rapporteur on the situation of human rights in Myanmar; Mr. Tomás Ojea Quintana, Special Rapporteur on the situation of human rights in the Democratic People’s Republic of Korea; Mr. Tomoya Obokata, Special Rapporteur on contemporary forms of slavery, including its causes and consequences; Mr. Victor Madrigal-Borloz, Independent Expert on protection against violence and discrimination based on sexual orientation and gender identity; Ms. Yuefen LI, Independent Expert on the effects of foreign debt and other related international financial obligations of States on the full enjoyment of all human rights, particularly economic, social and cultural rights; Mr. Yao Agbetse, Independent Expert on the situation of human rights in Central African Republic

Gli osservatoti speciali fanno parte di quelle che sono note come le Procedure Speciali della Commissione per i Diritti Umani. Procedure Speciali, l’ente più grande di esperti indipendenti nel sistema dell’ONU per i Diritti Umani, è il nome complessivo del sistema di accertamento dei fatti e dei meccanismi di controllo che si occupano sia della situazione di Paesi specifici sia di questioni tematiche in ogni parte del mondo. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria: non fanno parte del personale dell’ONU e non ricevono uno stipendio per il loro lavoro. Non dipendono da nessun governo o organizzazione e prestano servizio nell’ambito delle loro competenze individuali.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)