Israele non può nascondere l’occupazione mettendo a tacere i giornalisti palestinesi

Haokets e Omri Najad

18 novembre 2019 – +972

Venerdì scorso [15 novembre, ndtr.] il fotografo palestinese Moath Amarnih si è recato a documentare una protesta degli abitanti di Surif, nella Cisgiordania occupata. Era la seconda volta in due settimane che cercavano di manifestare contro il furto della loro terra da parte dei coloni. Poco dopo l’inizio di una dimostrazione non violenta, alcuni giovani si sono messi a lanciare pietre contro gli agenti della polizia di frontiera che si trovavano nella zona.

I poliziotti hanno risposto con lacrimogeni e pallottole rivestite di gomma, e Amarnih – che stava fotografando gli scontri da una collina lì vicino – è stato colpito a un occhio da un proiettile. La pallottola Ruger da 0,22 pollici probabilmente era diretta contro uno dei manifestanti o è stata sparata a terra prima di rimbalzare in testa ad Amarnih. In quel momento indossava un giubbotto antiproiettile con la scritta “Stampa”. Da allora decine di giornalisti palestinesi e israeliani si sono uniti a una campagna in solidarietà con Amarnih e si sono fotografati con un occhio bendato.

Nelle ultime due settimane gli abitanti di Surif hanno manifestato contro una barriera costruita attorno a un largo tratto della loro terra coltivata per espandere la vicina colonia di Bay Ayin. Lo sparo contro Amarnih evidenzia la criminale indifferenza con cui le forze di sicurezza israeliane puntano le proprie armi – e spesso sparano – contro fotografi palestinesi in Cisgiordania e a Gaza.

Nel marzo 2019 una commissione d’inchiesta del Consiglio per i diritti umani dell’ONU ha pubblicato un rapporto sull’uccisione di manifestanti nei pressi della barriera di Gaza da parte di Israele nel 2018. Secondo il rapporto, le forze israeliane hanno ucciso due fotografi a Gaza, mentre altri 39 giornalisti sono stati feriti dai cecchini. Queste ferite sono state provocate nonostante il fatto che con molta probabilità i cecchini li avevano riconosciuti come giornalisti, dato che indossavano giubbotti antiproiettile. I cecchini israeliani continuano a sparare e a ferire giornalisti che documentano le proteste.

Il fotografo o la fotografa e la loro macchina fotografica sono spesso visti come nemici dai regimi oppressivi in tutto il mondo. In Israele-Palestina lo scorso anno le forze di sicurezza hanno sparato proiettili ricoperti di gomma contro giornalisti che informavano per l’agenzia di stampa francese AFP nei pressi di Ramallah, mentre in posti come la Siria e Hong Kong le forze di sicurezza commettono violenze contro i giornalisti, soprattutto i fotografi.

Durante i periodi di guerra i media israeliani vogliono far tacere e nascondere tali critiche. Per esempio, nell’ultima serie di violenze a Gaza agli spettatori della televisione è stata presentata una situazione distorta, che mostrava la Striscia come un luogo in cui vivono solo miliziani che lanciano missili, senza nomi o volti. Ancora una volta, quando si parla di Gaza, vediamo video di razzi sparati contro Israele, come se a Gaza non ci fossero persone, bambini, non ci fosse vita. Solo razzi.

Così otto membri della famiglia A-Swarkeh sono stati uccisi nella città di Deir al-Balah. Le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] hanno ammesso che pensavano che l’edificio bombardato fosse vuoto, dopo che il portavoce in lingua araba delle IDF aveva affermato che l’esercito aveva preso di mira il comandante di un’unità lanciarazzi della Jihad Islamica. Di fatto l’esercito ha bombardato un edificio in rovina in cui abitava una famiglia povera, che comprendeva bambini di 12 e 13 anni, così come due bimbi piccoli.

Impedire ai fotografi di fare il proprio lavoro è necessario per continuare a reprimere i palestinesi. I continui attacchi e le uccisioni di innocenti dipendono, tra le altre cose, dalla mancanza di documentazione, dalla disumanizzazione dell’altra parte. Le macchine fotografiche sono viste dalle forze di sicurezza come un bersaglio, per non consentire all’opinione pubblica israeliana di vedere chi c’è là.

L’attacco contro Amarnih rivela la necessità, tragica e simbolica, da parte di Israele di nascondere le ingiustizie che commette, di nascondere l’oppressione di milioni di palestinesi. Ma il danno provocato all’occhio di un fotografo non cancellerà l’ingiustizia del regime. Attaccare i fotografi non riuscirà mai a nascondere l’esproprio di terre, le espulsioni, le uccisioni o un’esistenza in cui il sangue di alcuni vale più del sangue di altri.

Haokets è una rivista israeliana in rete no-profit, indipendente, progressista [in lingua ebraica, ndtr.] che ospita discussioni critiche su questioni socioeconomiche, culturali e filosofiche, l’attivismo per i diritti umani, il femminismo e questioni politiche dei mizrahi [ebrei di origine araba che vivono in Israele, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi hanno il diritto legale alla lotta armata *

Stanley L. Cohen

20 luglio 2017 – Al Jazeera

È tempo che Israele accetti che, come popolo sotto occupazione, i palestinesi hanno il diritto di resistere – in ogni modo possibile.

*Nota redazionale: riteniamo significativo proporre ai lettori questo articolo che risale al luglio 2017 in quanto ogniqualvolta avvengono attacchi armati da parte dei palestinesi, in particolare recentemente da Gaza, i media vengono inondati da commenti aspramente critici nei confronti dei gruppi della resistenza palestinese. Indipendentemente dalla condivisione riguardo all’utilità politica di queste azioni, riteniamo sia importante ricordare, come fa l’autore di questo articolo con abbondanza di riferimenti storici, che esse sono legittimate dalle leggi internazionali che riconoscono il diritto di un popolo oppresso ad utilizzare tutti i mezzi necessari, compresa la violenza, per resistere ai propri oppressori. Ed anche che i primi ad utilizzare il terrorismo sistematico in Palestina contro inglesi e palestinesi furono i gruppi armati sionisti.

È stato da tempo stabilito che la resistenza e persino la lotta armata contro una forza di occupazione coloniale non siano solo riconosciute come legittime in base alle leggi internazionali, ma specificamente approvate.

Sulla base del diritto internazionale umanitario, le guerre di liberazione nazionale sono state espressamente riconosciute ovunque, attraverso l’adozione del primo protocollo aggiuntivo [relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, n.d.tr.] alle Convenzioni di Ginevra del 1949 come un diritto protetto e imprescindibile dei popoli sotto occupazione.

  Individuando la vitalità in sviluppo del diritto umanitario, per decenni l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (AG dell’ONU) – una volta descritta come la coscienza collettiva del mondo – ha evidenziato il diritto dei popoli all’autodeterminazione, all’indipendenza e ai diritti umani.

In effetti già nel 1974 la risoluzione 3314 dell’AG dell’ONU proibiva agli Stati “qualsiasi occupazione militare, per quanto temporanea”.

Nella sua parte relativa a questo diritto, la risoluzione non solo continuava ad affermare il diritto “all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza […] dei popoli privati con la forza di quel diritto, […] in particolare dei popoli sotto regime coloniale e razzista o altre forme di dominio straniero”, ma evidenziava anche il diritto di chi si trovi sotto occupazione, di ” lottare … e di chiedere e ricevere appoggio” per quel tentativo [di liberarsi].

Il termine “lotta armata” era implicito [pur] senza una citazione precisa in quella e in molte altre risoluzioni precedenti che sostenevano il diritto dei [popoli] autoctoni di cacciare gli occupanti.

Questa imprecisione sarebbe stata corretta il 3 dicembre 1982. A quel tempo la risoluzione 37/43 dell’AG dell’ONU rimosse qualsiasi dubbio o dibattito sul legittimo diritto dei popoli sotto occupazione a resistere alle forze di occupazione con qualsiasi mezzo legittimo. La risoluzione ribadiva “la legittimità della lotta dei popoli per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dal dominio coloniale e straniero e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.

Un evidente inganno

Sebbene Israele abbia tentato, periodicamente, di reinterpretare l’intento inequivocabile di questa precisa risoluzione – e quindi di considerare l’occupazione, durata ormai mezzo secolo, di Cisgiordania e Gaza esclusa dalla sua applicazione – si tratta di uno sforzo profondamente logorato fino allo stato di evidente inganno dalle parole esatte della stessa dichiarazione. Nella parte pertinente, la sezione 21 della risoluzione condanna fermamente “le attività espansionistiche di Israele in Medio Oriente e i continui bombardamenti di civili palestinesi, che rappresentano un grave ostacolo alla realizzazione dell’autodeterminazione e dell’indipendenza del popolo palestinese”.

I sionisti europei, coloro che non hanno mai avuto esitazioni nel riscrivere la storia, molto prima dell’istituzione delle Nazioni Unite, si considerarono un popolo sotto occupazione quando emigrarono in Palestina – una terra nei confronti della quale erano cessati, in seguito a migrazioni in gran parte volontarie, tutti i legami storici che avevano avuto molto tempo prima.

In effetti, ben 50 anni prima che le Nazioni Unite parlassero del diritto alla lotta armata come strumento di liberazione autoctona, i sionisti europei hanno fatto proprio il concetto in modo illegale, dal momento in cui l’Irgun [abbreviazione di Irgun Tzvai Leumi, “Organizzazione Militare Nazionale”, è stato un gruppo paramilitare sionista, giudicato terrorista dal Regno Unito, che operò nel corso del Mandato britannico sulla Palestina dal 1931 al 1948, n.d.tr.], il Lehi [Combattenti per la Libertà d’Israele, meglio nota come Banda Stern, fu un’altra organizzazione paramilitare sionista, n.d.tr.] e altri gruppi terroristici intrapresero un lungo periodo di dieci anni di caos mortale.

Durante questo periodo, massacrarono non solo migliaia di palestinesi autoctoni, ma presero anche di mira la polizia britannica e il personale militare che da tempo vi aveva mantenuto una presenza colonizzatrice.

Una storia di attacchi sionisti

Mentre gli israeliani si siedono a piangere la perdita di due dei loro soldati che sono stati uccisi a Gerusalemme la scorsa settimana a colpi di arma da fuoco [il 14/07/2017 due poliziotti appartenenti alla minoranza drusa israeliana vennero uccisi nel corso di un attentato sulla spianata delle moschee, n.d.tr.]- in quello che molti considerano un legittimo atto di resistenza – un viaggio nel percorso della memoria potrebbe forse ricollocare gli eventi nel loro giusto contesto storico.

Molto tempo fa, descrivendo gli inglesi come una forza di occupazione nella “loro patria”, i sionisti presero di mira la polizia e le unità militari britanniche con foga spietata in tutta la Palestina e altrove.

Il 12 aprile 1938, l’Irgun uccise due poliziotti britannici ad Haifa in un attentato dinamitardo contro un treno. Il 26 agosto 1939, due ufficiali britannici furono uccisi da una mina antiuomo dell’Irgun a Gerusalemme. Il 14 febbraio 1944, due poliziotti britannici furono uccisi a colpi di arma da fuoco mentre tentavano di arrestare delle persone per aver affisso dei manifesti ad Haifa. Il 27 settembre 1944, più di 100 membri dell’Irgun attaccarono quattro stazioni della polizia britannica, ferendo centinaia di ufficiali. Due giorni dopo un alto ufficiale di polizia britannico del dipartimento di intelligence criminale fu assassinato a Gerusalemme.

Il 1 ° novembre 1945 un altro ufficiale di polizia fu ucciso mentre cinque treni venivano attaccati con bombe. Il 27 dicembre 1945, sette ufficiali britannici persero la vita in un attentato dinamitardo al quartier generale della polizia a Gerusalemme. Tra il 9 e il 13 novembre 1946 ebrei facenti parte di un movimento clandestino lanciarono una serie di attacchi con mine e bombe nascoste all’interno di valigie in stazioni ferroviarie, treni e tram, uccidendo 11 soldati e poliziotti britannici e otto poliziotti arabi.

Altri quattro ufficiali furono uccisi in un altro attacco contro un quartier generale della polizia il 12 gennaio 1947. Nove mesi dopo, quattro poliziotti britannici furono assassinati durante una rapina in banca da parte dell’Irgun e tre giorni dopo, il 26 settembre 1947, altri 13 agenti vennero uccisi in un altro attacco terroristico contro una stazione di polizia britannica.

Questi sono solo alcuni dei molti attacchi diretti dai terroristi sionisti contro la polizia britannica che furono visti da molti ebrei in Europa come obiettivi legittimi di ciò che descrivevano come una lotta di liberazione contro una forza di occupazione.

Durante tutto questo periodo, i terroristi ebrei si impegnarono anche in innumerevoli attacchi che non risparmiarono nessuna delle infrastrutture britanniche e palestinesi. Assalirono installazioni militari e di polizia britanniche, uffici governativi e navi, spesso con bombe. Sabotarono ferrovie, ponti e installazioni petrolifere. Vennero attaccate decine di obiettivi economici, tra cui 20 treni danneggiati o deragliati e cinque stazioni ferroviarie. Vennero effettuati numerosi attacchi contro l’industria petrolifera, tra cui uno, nel marzo 1947, contro una raffineria di petrolio Shell ad Haifa che distrusse circa 16.000 tonnellate di petrolio.

I terroristi sionisti uccisero soldati britannici in tutta la Palestina, usando trappole esplosive, agguati, cecchini e esplosioni di veicoli.

Un attacco in particolare riassume il terrorismo di coloro che, all’epoca senza alcun supporto da parte del diritto internazionale, non vedevano alcun limite ai loro tentativi di “liberare” una terra in cui erano, in gran parte, immigrati solo di recente.

Nel 1947, l’Irgun rapì due sottufficiali delle truppe dell’intelligence britannica e minacciò di impiccarli se fossero state eseguite le condanne a morte nei confronti di tre dei loro membri. Quando questi tre membri dell’Irgun furono giustiziati per impiccagione, i due sergenti britannici furono impiccati per rappresaglia e i loro corpi furono lasciati in un boschetto di eucalipti con delle trappole esplosive.

Nell’annunciare la loro esecuzione, l’Irgun affermò che i due soldati britannici erano stati impiccati in seguito alla loro condanna per “attività criminali anti-ebraiche” che consistevano in: ingresso illegale nella patria ebraica e appartenenza a un’organizzazione criminale britannica – noto come esercito d’occupazione – “responsabile di tortura, omicidio, deportazione e negazione del diritto alla vita nei confronti del popolo ebraico”. I soldati furono anche accusati di possesso illegale di armi, spionaggio antiebraico in abiti civili e premeditazione di progetti ostili contro l’organizzazione clandestina.

Ben oltre i confini territoriali della Palestina, tra la fine del 1946 e il 1947 fu lanciata una prolungata campagna di terrorismo contro gli inglesi. Atti di sabotaggio furono compiuti contro vie di comunicazione militare britanniche in Germania. Il Lehi tentò anche, senza successo, di sganciare una bomba sulla Camera dei Comuni con un aereo decollato dalla Francia e, nell’ottobre del 1946, mise una bomba all’ambasciata britannica a Roma. Numerosi altri ordigni furono fatti esplodere dentro e intorno a obiettivi strategici a Londra. Circa 21 lettere esplosive furono inviate, in varie occasioni, a personaggi politici britannici di alto livello. Molte furono intercettate, mentre altre raggiunsero i loro obiettivi, ma furono scoperte prima che potessero esplodere.

Il prezzo salato dell’autodeterminazione

L’autodeterminazione è un percorso difficile e costoso per chi si trova sotto occupazione. In Palestina, indipendentemente dall’arma che scegli – la voce, la penna o una pistola – esiste un prezzo elevato da pagare per il suo utilizzo.

Oggi, “dire la verità al potere” è diventato un mantra molto popolare della resistenza nei circoli e nelle associazioni neo-progressisti. In Palestina, tuttavia, per chi è sotto occupazione e sotto l’oppressione, ciò rappresenta un percorso quasi scontato verso la prigione o la morte. Tuttavia, per generazioni di palestinesi derubati persino dell’anelito alla libertà, la storia insegna che semplicemente non c’è altra scelta.

Il silenzio è la resa. Tacere significa tradire tutti coloro che sono venuti prima e tutti quelli che ancora devono seguire.

Per coloro che non hanno mai provato il giogo assillante dell’oppressione o non l’hanno visto da vicino, è un’ immagine [che va] oltre la comprensione. L’occupazione è pesante per chi la subisce, ogni giorno in ogni modo, creando limiti alla propria esistenza e alla propria possibilità di crescita.

Le ferite continue [provocate] dai blocchi, dalle armi, dagli ordini, dalla prigione e dalla morte sono compagne di viaggio per chi si trova sotto occupazione, che si tratti di bambini, ragazzi nella primavera della vita, anziani o di chi si trovi intrappolato dai confini artificiali di barriere sulle quali non si possiede alcun controllo.

Alle famiglie dei due poliziotti drusi israeliani che hanno perso la vita mentre cercavano di controllare un luogo che non spettava a loro presidiare, porgo le mie condoglianze. Questi giovani uomini, tuttavia, non hanno perso la vita nella lotta della resistenza, ma sono stati sacrificati intenzionalmente da un’occupazione malvagia che non possiede nessuna legittimità.

Alla fine, se c’è da addolorarsi, deve essere per gli 11 milioni di persone sotto occupazione, sia in Palestina che fuori, come tanti rifugiati apolidi, privati di una voce e di opportunità significative, mentre il mondo porge delle scuse soprattutto sotto forma di una confezione regalo finanziaria contrassegnata dalla stella di David.

Non passa giorno senza i gemiti agghiaccianti di una Nazione che veglia su un bambino palestinese avvolto in un sudario, privato della vita perché l’elettricità o il transito sono diventati un privilegio perverso che tiene milioni [di persone] ostaggio dei capricci politici di pochi. Che si tratti di israeliani, di egiziani o di coloro che si ammantano della leadership politica sui palestinesi, la responsabilità dell’infanticidio a Gaza è esclusivamente loro.

“Senza lotta, non esiste progresso”

I tre giovani cugini che hanno sacrificato volontariamente la propria vita nell’attacco ai due ufficiali israeliani a Gerusalemme non lo hanno fatto come un gesto vuoto nato dalla disperazione, ma piuttosto come una propria dichiarazione di orgoglio nazionale che fa seguito ad una lunga serie di altri che hanno ben compreso che il prezzo della libertà può, a volte, significare tutto.

Per 70 anni, non è passato un giorno senza la perdita di giovani donne e uomini palestinesi che, tragicamente, hanno trovato maggiore dignità e libertà nel martirio piuttosto che in una vita passiva, obbediente, sotto il controllo di coloro che hanno osato dettare i parametri della loro vita.

Milioni di noi in tutto il mondo sognano un momento e un posto migliori per i palestinesi … liberi di spalancare le ali, di librarsi, di scoprire chi sono e cosa desiderano diventare. Fino ad allora, non piango per la perdita di coloro che interrompono il loro volo. Invece applaudo coloro che hanno il coraggio di lottare, il coraggio di vincere – con ogni mezzo necessario.

Non c’è niente di straordinario nella resistenza e nella lotta. Esse trascendono il tempo e il luogo e derivano il loro più grande significato e il loro ardore dall’inclinazione naturale, anzi, spingono tutti noi a essere liberi – a essere liberi di scegliere il ruolo della nostra vita.

In Palestina non esiste tale libertà. In Palestina, il diritto internazionale riconosce i diritti fondamentali all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza di chi si trova sotto occupazione. Ciò, in Palestina, comprende il diritto alla lotta armata, se necessario.

Molto tempo fa, il famoso abolizionista Frederick Douglass [politico, scrittore, sostenitore del diritto al voto per le donne negli Stati Uniti, nel 1882 fu il primo afro-americano ad essere candidato alla vicepresidenza negli USA, n.d.tr.], egli stesso ex schiavo, scrisse a proposito della lotta. Queste parole riecheggiano oggi non meno di allora, in Palestina, rispetto a 150 anni fa, nel cuore del sud ante-guerra degli Stati Uniti:

“Se non c’è lotta, non c’è progresso. Coloro che professano di favorire la libertà, eppure deprecano la mobilitazione, sono uomini che vogliono coltivare senza arare il terreno. Vogliono la pioggia senza tuoni e fulmini. Vogliono l’oceano senza il terribile ruggito delle sue possenti acque. Questa lotta può essere morale; o può essere fisica; o può essere sia morale che fisica; ma deve essere una lotta. Il potere non concede nulla senza che gli venga chiesto. Non lo ha mai fatto e mai lo farà.”

Stanley L Cohen è un avvocato e un attivista per i diritti umani che ha svolto un ampio lavoro in Medio Oriente e Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Dopo aver votato per dieci anni a favore di Israele, il Canada appoggia una risoluzione filopalestinese

Redazione di Middle East Monitor

20 novembre 2019 – Middle East Monitor

Ieri il governo Trudeau ha appoggiato una risoluzione di sostegno al diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU in una sessione della Terza Commissione.

La risoluzione è stata promossa dagli Stati di Palestina, Nord Corea, Zimbabwe ed altri, chiede una “composizione equa, duratura ed esaustiva” del conflitto israelo-palestinese e fa esplicito riferimento alle terre contese tra i due Paesi definendole “Territori Palestinesi Occupati”.

Il voto giunge dopo l’annuncio degli Stati Uniti di non considerare più illegali le colonie ebraiche in Cisgiordania e Gerusalemme est occupate, ribaltando decenni di politica estera USA.

La risoluzione di ieri, dal titolo “Il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione”, è stato avversato da Israele, USA e cinque Nazioni delle isole del Pacifico: le isole Marshall, Nauru e gli Stati Federati della Micronesia.

Hanno votato a favore in totale 164 Paesi, compresi Regno Unito e Germania.

Una portavoce del Ministero degli Esteri canadese, Krystyna Dodd, ha detto a Israeli Times [giornale indipendente israeliano in lingua inglese, ndtr.]: “Il Canada si impegna per l’obbiettivo di una esaustiva, equa e duratura pace in Medio Oriente, compresa la creazione di uno Stato palestinese che esista accanto ad Israele in pace e sicurezza.”

In un momento in cui si trova sempre più sotto attacco, è importante per il Canada sottolineare il nostro fermo impegno per una soluzione di due Stati.”

Il deputato del Nuovo Partito Democratico [partito canadese di orientamento socialdemocratico, ndtr.] Charlie Angus, di Timmins-James Bay [distretto federale dell’Ontario,ndtr.], ha sostenuto l’iniziativa e si è congratulato con il Primo Ministro Justin Trudeau per aver riconosciuto i diritti dei palestinesi opponendosi alle colonie illegali.

Il Canada si è sistematicamente dichiarato contrario o astenuto riguardo alle risoluzioni di sostegno ai palestinesi, comprese risoluzioni relative all’autodeterminazione, la sovranità sulle risorse naturali e l’illegalità delle colonie israeliane.

Nel novembre dello scorso anno il Canada si è unito ad una piccola minoranza di Stati, inclusi Israele, USA e Isole Marshall, nel voto contrario alla risoluzione dell’Assemblea Generale ONU (AG dell’ONU) dal titolo “Composizione pacifica della questione della Palestina.”

Le associazioni filoisraeliane hanno espresso delusione per la nuova iniziativa canadese, sostenendo che sia un tradimento di oltre dieci anni di forte appoggio.

Hillel Neuer, presidente fondatore del ‘Geneva Summit for Human Rights and Democracy’ [Vertice di Ginevra, incontro annuale di 20 Ong che si occupano di diritti umani e la democrazia. Neuer ha fondato una ong filoisraeliana, ndtr.], ha detto che Trudeau “sta scambiando i principi fondamentali canadesi di correttezza ed equità per un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU”, ed ha affermato che il Canada “si è unito agli sciacalli”.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




**La Corte Suprema emette una sentenza contraria a rivelare il ruolo di Israele nel genocidio in Bosnia

John Brown* (Tradotto da Tal Haran)

5 dicembre 2016 – +972 Magazine

Evocando un potenziale danno alla politica estera di Israele, la Corte Suprema respinge una petizione che chiede di rivelare dettagli sulle esportazioni di armi da parte del governo all’esercito serbo durante il genocidio in Bosnia.

**Nota redazionale: nonostante si tratti di un articolo che risale al dicembre 2016, riteniamo interessante tradurre questo articolo perché smentisce la rappresentazione ed autorappresentazione di sé di Israele come Stato etico e nato dal rifiuto di crimini contro l’umanità, e in particolare dell’Olocausto. Si tratta di un impegno selettivo, come dimostrano questo ed altri episodi. Ciò è ancora più significato oggi, nel momento in cui Israele e i suoi sostenitori utilizzano in modo strumentale e sempre più spudorato l’antisemitismo e l’antirazzismo per attaccare i palestinesi e chi ne sostiene la causa.

Il mese scorso la Corte Suprema israeliana ha respinto una petizione che chiedeva di rivelare i dettagli delle esportazioni israeliane per la difesa all’ex Jugoslavia durante il genocidio in Bosnia negli anni ’90. La Corte ha deliberato che rivelare il coinvolgimento israeliano nel genocidio avrebbe danneggiato la politica estera del Paese ad un punto tale da prevalere sull’interesse pubblico a conoscere quelle informazioni e la possibile incriminazione dei soggetti coinvolti.

I ricorrenti, l’avvocato Itay Mack e il professor Yair Oron, hanno presentato alla Corte prove concrete delle esportazioni della difesa israeliana alle forze serbe a quell’epoca, inclusi addestramento, munizioni e fucili. Tra le altre cose, hanno presentato il diario personale del generale Ratko Mladic, attualmente sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia per aver commesso crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Il diario di Mladic menziona in modo esplicito le vaste connessioni relative ad armamenti con Israele a quel tempo.

Le esportazioni sono avvenute molto tempo dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva posto un embargo sulle armi in varie parti della ex Jugoslavia, e dopo la pubblicazione di una serie di testimonianze che hanno rivelato il genocidio e la creazione di campi di concentramento.

La risposta del Procuratore di Stato israeliano e il respingimento del ricorso da parte della Corte sono un’ammissione de facto da parte di Israele di aver cooperato con il genocidio bosniaco: se il governo non avesse avuto niente da nascondere, i documenti in questione non avrebbero rappresentato nessuna minaccia per la politica estera.

I più tremendi atti di crudeltà dopo l’Olocausto

Tra il 1991 e il 1995 la ex Jugoslavia si dissolse, passando da una repubblica multi-nazionale ad un insieme di Nazioni in conflitto tra di loro in una sanguinosa guerra civile che incluse massacri e infine il genocidio.

I serbi combatterono una guerra contro la Croazia dal 1991 al 1992 e contro la Bosnia dal 1992 al 1995. In entrambe le guerre commisero genocidio e pulizia etnica dei musulmani nelle zone che occupavano, portando alla morte di 250.000 persone. Decine di migliaia di altre furono ferite e affamate, moltissime donne stuprate e molte persone incarcerate in campi di concentramento. Anche altre parti in conflitto commisero crimini di guerra, ma il ricorso si concentra sulla collaborazione di Israele con le forze serbe. Gli atti orribilmente crudeli in Jugoslavia sono stati la cosa peggiore che l’Europa abbia visto dopo l’Olocausto.

Uno dei massacri più noti fu perpetrato dai soldati agli ordini del generale serbo Ratko Mladic intorno alla città di Srebrenica nel luglio 1995. Le forze serbe comandate dal generale uccisero circa 8.000 bosniaci e li seppellirono in fosse comuni durante una campagna di pulizia etnica che stavano conducendo contro i musulmani in quella zona. Pur se la città doveva essere sotto la protezione delle Nazioni Unite, quando iniziò il massacro le truppe ONU non intervennero. Nel 2012 Mladic venne estradato alla Corte Internazionale di Giustizia all’Aja ed è tuttora sotto processo.

A quel tempo importanti organizzazioni ebraiche fecero appello per una immediata fine del genocidio e lo smantellamento dei campi di morte. Non così fece lo Stato di Israele. Esteriormente condannò il massacro, ma dietro le quinte stava fornendo armi ai massacratori e addestrando le loro truppe.

L’avvocato Mack e il professor Oron hanno raccolto molte testimonianze sulla fornitura di armi da Israele alla Serbia, che hanno presentato nel loro ricorso. Hanno fornito prove che tali esportazioni hanno avuto luogo molto dopo che l’embargo del Consiglio di Sicurezza ONU era entrato in vigore nel settembre 1991. Le testimonianze sono state sottoposte a verifiche incrociate e vengono qui riportate così come presentate nel ricorso, con le necessarie abbreviazioni.

Nel 1992 un’ex alta dirigente del Ministero della Difesa serbo pubblicò un libro, ‘The Serbian Army’ [L’esercito serbo], in cui scrisse dell’accordo sulle armi tra Israele e la Serbia, firmato circa un mese dopo l’embargo: “Uno dei più ampi accordi fu concluso nell’ottobre 1991. Per ovvi motivi l’accordo con gli ebrei non fu reso pubblico in quel momento.”

Un israeliano che al tempo era volontario in un’organizzazione umanitaria in Bosnia ha testimoniato che nel 1994 un dirigente dell’ONU gli chiese di vedere i resti di una granata da 120 mm – con sopra scritte in ebraico – che era esplosa sulla pista di atterraggio dell’aeroporto di Sarajevo. Ha anche testimoniato di aver visto dei serbi che giravano per la Bosnia muniti di fucili Uzi fabbricati in Israele.

Nel 1995 fu riferito che trafficanti d’armi israeliani in collaborazione coi francesi strinsero un accordo per fornire alla Serbia missili LAW. Secondo rapporti del 1992, una delegazione del Ministero della Difesa israeliano si recò a Belgrado e firmò un accordo per la fornitura di granate.

Lo stesso generale Mladic, che è attualmente incriminato per crimini di guerra e genocidio, scrisse nel suo diario che “da Israele hanno proposto di unirsi alla lotta contro gli estremisti islamici. Si sono offerti di addestrare i nostri uomini in Grecia e di fornirci gratis fucili di precisione.” Un rapporto stilato su richiesta del governo olandese durante l’inchiesta sugli eventi di Srebrenica contiene quanto segue: “Belgrado considerava Israele, la Russia e la Grecia come i suoi migliori amici. Nell’autunno 1991 la Serbia strinse un accordo segreto sulle armi con Israele.”

Nel 1995 fu riferito che trafficanti di armi israeliani fornirono armi al VRS – l’esercito della ‘Republika Srpska’, l’esercito serbo bosniaco. Questa fornitura deve essere stata eseguita con il benestare del governo israeliano.

I serbi non erano gli unici in questa guerra a cui i trafficanti di armi israeliani cercarono di vendere armi. In base ai rapporti, ci fu anche un tentativo di fare un accordo con il regime antisemita della Croazia, che alla fine andò in fumo. Il ricorso ha anche presentato rapporti di attivisti per i diritti umani sull’addestramento israeliano all’esercito serbo, e sul fatto che l’accordo sulle armi con i serbi consentì agli ebrei di lasciare Sarajevo, che era sotto assedio.

Mentre tutto ciò avveniva in relativa segretezza, pubblicamente il governo israeliano esprimeva in modo poco convincente la sua apprensione per la situazione, come se si trattasse di cause di forza maggiore e non di una carneficina per mano di uomini. Nel luglio 1994 l’allora capo della Commissione Relazioni Estere e Difesa del parlamento israeliano, deputato Ori Or, si recò a Belgrado e disse: “La nostra memoria è viva. Sappiamo cosa significa vivere sotto boicottaggio. Ogni Risoluzione dell’ONU contro di noi è stata decisa con la maggioranza di due terzi.” In quell’anno l’allora vice presidente degli Stati Uniti Al Gore convocò l’ambasciatore israeliano e intimò ad Israele di sospendere questa collaborazione.

Tra parentesi, nel 2013 Israele non si è fatto problemi ad estradare in Bosnia-Erzegovina un cittadino immigrato in Israele sette anni prima, che era ricercato per sospetto coinvolgimento in un massacro in Bosnia nel 1995. In altri termini, ad un certo punto lo Stato stesso ha riconosciuto la gravità della questione.

La Corte Suprema al servizio dei crimini di guerra

L’udienza della Corte Suprema in merito alla risposta dello Stato al ricorso si è svolta ex parte, cioè ai ricorrenti non è stato permesso di assistere. I giudici Danziger, Mazouz e Fogelman hanno respinto il ricorso ed hanno accettato la posizione dello Stato secondo cui rivelare i dettagli delle esportazioni della difesa israeliana alla Serbia durante il genocidio avrebbe danneggiato le relazioni estere e la sicurezza di Israele, e questo danno potenziale era prevalente rispetto all’interesse pubblico alla rivelazione di quanto accadde.

Questa sentenza è pericolosa per diverse ragioni. In primo luogo, l’accettazione della Corte della certezza dello Stato sul grave danno che sarebbe stato arrecato alle relazioni estere di Israele lascia perplessi. All’inizio di quest’anno la stessa Corte Suprema ha respinto un’accusa simile relativa alle esportazioni della difesa durante il genocidio del Rwanda, però un mese dopo lo Stato ha dichiarato che le esportazioni sono state sospese sei giorni dopo l’inizio del massacro. Se persino lo Stato non vede nessun pericolo nel rivelare – almeno parzialmente – queste informazioni riguardo al Rwanda, perché un mese prima è stata imposta una stretta riservatezza sulla questione? Perché i giudici della Corte Suprema hanno sottovalutato questo inganno, arrivando a rifiutare di accettarlo come prova come richiesto dai ricorrenti? Dopotutto, lo Stato ha ovviamente esagerato nel sostenere che questa informazione avrebbe danneggiato la politica estere.

In secondo luogo, è veramente di pubblico interesse rivelare il coinvolgimento dello Stato in un genocidio, per di più attraverso trafficanti d’armi, in particolare in quanto Stato fondato sulla devastazione del suo popolo in seguito all’Olocausto. È per questo motivo che Israele, per esempio, ha voluto disconoscere la sovranità dell’Argentina quando ha rapito Eichmann e lo ha portato in tribunale nel proprio territorio. È nell’interesse non solo degli israeliani, ma anche di coloro che sono state vittime dell’Olocausto. Quando la Corte si occupa dei crimini di guerra, è corretto che prenda in considerazione anche il loro interesse.

Quando la Corte sentenzia, in casi di genocidio, che il danno alla sicurezza dello Stato – cosa che resta tutta da provare – prevale sul perseguimento della giustizia per le vittime di tali crimini, manda un chiaro messaggio: che il diritto dello Stato alla sicurezza, reale o presunta, è assoluto e ha precedenza rispetto ai diritti dei suoi cittadini e di altri.

La sentenza della Corte Suprema potrebbe portare alla conclusione che più grave è il crimine, più facile è occultarlo. Più armi sono state vendute e più sono stati i massacratori addestrati, maggiore sarebbe il danno per le relazioni estere e per la sicurezza dello Stato se questi crimini venissero divulgati, ed il peso di un tale presunto danno prevarrà necessariamente sull’interesse pubblico. Questo è inaccettabile. Trasforma i giudici – come hanno detto i ricorrenti – in complici. In questo modo i giudici rendono anche un’ inconsapevole popolazione israeliana complice di crimini di guerra e le negano il diritto democratico di discutere nel merito.

Lo Stato deve affrontare simili ricorsi relativamente alla sua collaborazione con gli assassini della giunta argentina, del regime di Pinochet in Cile e dello Sri Lanka. L’avvocato Mack ha intenzione di presentare ulteriori casi entro la fine dell’anno. Anche se fosse interesse dello Stato respingere questi ricorsi, la Corte Suprema deve smettere di aiutare a coprire questi crimini – se non per il desiderio di perseguire gli autori delle atrocità del passato, almeno per fermarli nel tempo presente.

*John Brown è lo pseudonimo di un accademico e blogger israeliano. Questo articolo è comparso per la prima volta in ebraico su ‘Local Call’, di cui egli è un blogger.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Secondo gli USA le colonie non violano le leggi

Le colonie israeliane non violano le leggi internazionali, dice Pompeo

L’annuncio del Segretario di Stato Usa è stato criticato dai gruppi di diritti umani come un sostegno alle illegali colonie israeliane

Redazione di MEE e agenzie

18 novembre 2019 – Middle East Eye

 

Le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata non sono ” in contraddizione con le leggi internazionali, ” ha annunciato Mike Pompeo con una decisione che annulla decenni di decisioni di Washington e che è stata immediatamente condannata dai portavoce palestinesi.

Il Segretario di Stato Usa ha detto lunedì che l’amministrazione Trump crede “che quello che abbiamo fatto oggi sia un riconoscimento della realtà così com’è sul terreno”. “La creazione di insediamenti civili israeliani non è, in sé, in contraddizione con il diritto internazionale” ha detto Pompeo ai reporter.

La decisione annulla un parere legale del Dipartimento di Stato risalente al 1978, che affermava che gli insediamenti civili violano le leggi internazionali. Redatta da Hebert Hansell, l’allora consigliere legale del Dipartimento di Stato, l’opinione giuridica vecchia di 41 anni è stata a lungo la base delle decisioni degli USA sulle colonie israeliane.

All’epoca Hansell aveva detto che Israele era un “occupante belligerante” della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, così come della penisola egiziana del Sinai e delle Alture del Golan.

L’annuncio di Pompeo viene dopo una serie di provvedimenti decisamente filo-israeliani presi dal presidente Usa Donald Trump dal momento del suo insediamento, inclusa la controversa decisione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.

Trump a marzo ha anche riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan siriane occupate, una mossa che ha attirato critiche a livello internazionale e ha aumentato il timore che l’amministrazione Usa voglia dare il via libera all’annessione dei territori palestinesi occupati da parte di Israele.

Secondo la quarta Convenzione di Ginevra, di cui Washington è firmataria, una potenza occupante non può spostare la sua popolazione civile nel territorio che occupa.

Secondo l’ong israeliana per i diritti umani B’Tselem ci sono circa 200 insediamenti israeliani ufficiali nella Cisgiordania occupata, includendo Gerusalemme Est, con circa 620.000 residenti.

Lunedì l’associazione ha detto che l’amministrazione Trump con il suo “farsesco annuncio dà l’ok non solo al progetto israeliano degli insediamenti illegali, ma anche ad altre violazioni dei diritti umani in altre parti del mondo, annullando i principi delle leggi internazionali “.

Inoltre la mossa riporta “il mondo indietro di oltre 70 anni “, commenta B’Tselem.

‘Irresponsabile’

I palestinesi hanno inoltre attaccato l’annuncio dell’amministrazione Trump, per voce di Saeb Erekat, parlamentare e diplomatico di lungo corso, che ha definito la mossa “irresponsabile” e “una minaccia alla stabilità, sicurezza e pace globali “.

“Ancora una volta, con questo annuncio l’amministrazione Trump sta dimostrando la portata della sua [minaccia] al sistema internazionale,” ha dichiarato Erekat.

Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch, ong israeliana e palestinese, ha twittato che comunque la decisione “non cambia niente.”

“Trump non può spazzare via decenni di diritto internazionale con un decreto” ha detto Shakir.

Che gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati siano una violazione di leggi umanitarie internazionali è stato ampiamente documentato dalle organizzazioni di diritti umani.

Anche Amnesty International ha detto: “La decisione di Israele che dura da tempo di insediare i civili nei territori occupati è considerata un crimine di guerra in base allo statuto della Corte Penale Internazionale”

“Che fosse prevedibile non la rende meno provocatoria” ha aggiunto Omar Baddar, il vice-direttore dell’Arab American Institute, un’associazione di difesa con sede a Washington.

Baddar ha detto “che sarebbe stato più onesto” se l’amministrazione Trump “avesse annunciato che si considera Israele al di sopra della legge e di finirla qui”.

Anche il senatore americano Bernie Sanders, in corsa per la diventare candidato a presidente per il partito democratico nel 2020, si è espresso contro la decisione di lunedì. “Le colonie israeliane nei territori occupati sono illegali” ha twittato.

“Questo è chiaro in base al diritto internazionale e alle molte risoluzioni dell’Onu. Ancora una volta Trump sta isolando gli Stati Uniti e minando la diplomazia per assecondare la sua base [elettorale] estremista”.

Israele accoglie positivamente la decisione

Non sorprende che le autorità israeliane abbiano accolto positivamente l’annuncio Usa, e l’ufficio del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu l’ha definita “una decisione importante che corregge un errore storico”.

Il ministro degli esteri Israel Katz ha anche detto che la decisione ha chiarito che “non ci può essere alcun dibattito sul diritto del popolo ebraico alla Terra d’Israele”.

“Io vorrei ringraziare l’amministrazione Trump per il suo sostegno coerente e deciso a Israele e il suo impegno a incoraggiare le relazioni fra i popoli della regione per creare un Medio Oriente prospero e stabile” ha detto Katz.

Netanyahu non è riuscito a formare un governo di maggioranza in seguito alle elezioni di settembre in Israele, e ha dovuto permettere al rivale Benny Gantz di tentare di mettere insieme una coalizione. Se Gantz ci riuscisse, Netanyahu dovrebbe dimettersi dal suo incarico di primo ministro.

La rabbina Alissa Wise, vice-direttrice esecutiva di Jewish Voice for Peace [organizzazione di ebrei USA antisionisti, ndtr.], ha detto che l’annuncio Usa sugli insediamenti mira a fornire un sostegno politico sia a Netanyahu che a Trump, in vista della rielezione nel 2020.

“L’amministrazione Trump non si è mai dedicata alla promozione della pace, ma ha invece sostenuto le carriere politiche di Netanyahu e di Trump, perpetuando ad ogni costo il controllo e dominio israeliani sulla terra e sulle vite palestinesi ” ha dichiarato Wise.

“Pompeo e l’amministrazione Trump non possono riscrivere le leggi internazionali.”

Anche l’Unione Europea ha risposto agli Usa dichiarando che la sua posizione sulle colonie israeliane “è chiara e non è cambiata”. “Tutta l’attività di colonizzazione è illegale secondo il diritto internazionale ed erode la possibilità di una soluzione a due Stati e le possibilità di una pace durevole”. L’Unione ha anche richiesto a Israele di “porre fine a tutte le attività degli insediamenti, in linea con i suoi obblighi di potenza occupante”.

Il comunicato di lunedì giunge a meno di una settimana da quando il Dipartimento di Stato aveva condannato l’Alta Corte europea per aver dimostrato un “pregiudizio anti-israeliano” dopo che aveva deciso che i prodotti degli insediamenti israeliani devono essere chiaramente etichettati come tali.

Il Dipartimento ha avvertito che la decisione della Corte Europea di Giustizia “avrebbe incoraggiato, facilitato e promosso” il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi.

 

( Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




I palestinesi condannano il ribaltamento della politica USA sulle colonie israeliane

Al Jazeera e agenzie di informazione

19 novembre 2019 – Al Jazeera

Gli USA dicono di non considerare più illegali le colonie israeliane, provocando aspre critiche da parte dei palestinesi e delle associazioni per i diritti

Palestinesi, associazioni per i diritti, politici ed altri hanno aspramente criticato l’amministrazione Trump dopo l’annuncio che gli Stati Uniti non considerano più le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata come “incompatibili” con il diritto internazionale.

Dopo aver studiato attentamente tutti gli aspetti del dibattito legale, questa amministrazione concorda ….che l’insediamento di colonie civili israeliane in Cisgiordania non è di per sé in contrasto con il diritto internazionale”, ha detto lunedì il Segretario di Stato USA Mike Pompeo quando ha dato l’annuncio.

Ha detto che l’amministrazione del presidente USA Donald Trump non si atterrà più all’opinione legale del Dipartimento di Stato del 1978 che affermava che le colonie erano “contrarie al diritto internazionale”.

Secondo diverse Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, la più recente nel 2016, le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale, in quanto violano la Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione nell’area da essa occupata.

L’annuncio USA, l’ultimo di una serie di iniziative dell’amministrazione Trump a favore di Israele, ha sollevato critiche immediate da parte di palestinesi, associazioni per i diritti e politici in tutto il mondo.

Un portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che la decisione degli USA “è totalmente contraria al diritto internazionale.”

Washington “non è qualificata né autorizzata ad annullare le risoluzioni del diritto internazionale e non ha il diritto di concedere legittimità ad alcuna colonia israeliana”, ha dichiarato il portavoce della presidenza palestinese Nabil Abu Rudeinah.

Hanan Ashrawi, una importante negoziatrice palestinese e membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha scritto su Twitter, di fronte alla dichiarazione di Pompeo, che l’iniziativa rappresenta un altro colpo “al diritto internazionale, alla giustizia e alla pace.”

Il Ministro degli Esteri della Giordania, Ayman Safadi, ha avvertito che il cambiamento di posizione degli USA potrebbe comportare “pericolose conseguenze” sulle prospettive di riavviare il processo di pace in Medio Oriente.

Safadi ha detto in un tweet che le colonie israeliane nel territorio sono illegali ed annientano la prospettiva di una soluzione con due Stati, in cui uno Stato palestinese dovrebbe esistere a fianco di Israele, cosa che i Paesi arabi ritengono essere l’unica via per risolvere il pluridecennale conflitto arabo-israeliano.

‘Un regalo a Netanyahu’

Più di 600.000 israeliani vivono attualmente in colonie nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est occupata. Vi risiedono circa 3 milioni di palestinesi.

Le colonie sono state considerate per molto tempo un gravissimo ostacolo ad un accordo di pace israelo-palestinese.

Gruppi di monitoraggio hanno detto che, da quando Trump è diventato presidente, Israele ha accelerato la creazione di colonie.

L’annuncio di lunedì ha segnato un’altra significativa tappa in cui l’amministrazione Trump si è schierata a favore di Israele e contro le posizioni dei palestinesi e degli Stati arabi ancor prima di svelare il suo piano di pace israelo-palestinese a lungo rinviato.

Nel 2017 Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele e nel 2018 gli USA hanno aperto ufficialmente un’ambasciata nella città. La posizione politica USA precedentemente era stata che lo status di Gerusalemme doveva essere definito dalle parti in conflitto.

Nel 2018 gli USA hanno anche annunciato la cancellazione dei finanziamenti all’UN Relief and Works Agency [Agenzia ONU per l’Aiuto e il Lavoro] (UNRWA), l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

E in marzo Trump ha riconosciuto l’annessione israeliana delle Alture del Golan occupate nel 1981, facendo un favore al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, cosa che ha provocato una dura risposta da parte della Siria, che un tempo deteneva lo strategico territorio.

Lunedì Netanyahu ha plaudito al cambio di politica, dicendo che la mossa degli USA “corregge uno storico errore”.

Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna per i diritti dei palestinesi, ha definito l’annuncio di Pompeo “un altro regalo a Netanyahu e un semaforo verde ai leader israeliani per accelerare la costruzione di colonie e anticipare un’ annessione formale.”

Attualmente Netanyahu sta subendo pressioni interne su due fronti, dopo che all’inizio dell’anno in Israele si sono svolte elezioni inconcludenti. Il suo principale rivale politico, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, ha due giorni per cercare di formare un governo per sostituire Netanyahu, che sta anche affrontando una possibile incriminazione in tre casi di corruzione.

Nell’ultima campagna elettorale Netanyahu ha promesso di annettere ampie parti della Cisgiordania, una mossa che metterebbe ulteriormente a rischio una soluzione con due Stati.

Gantz ha accolto positivamente l’iniziativa statunitense, dicendo in un tweet che “il destino delle colonie dovrebbe essere deciso da accordi che rispettino le esigenze di sicurezza e promuovano la pace.”

Pompeo ha negato la volontà di dare sostegno a Netanyahu, dicendo: “La tempistica di questo (annuncio) non è collegata a niente che abbia a che fare con politiche interne in Israele o altrove.”

Reazioni

Un portavoce dell’Ufficio ONU per i Diritti Umani (OHCHR) ha detto di “condividere la posizione da tempo adottata dall’ONU sulla questione che le colonie israeliane violano il diritto internazionale.”

Rupert Colville ha detto anche che ci sono diverse risoluzioni ONU, come anche sentenze della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che si riferiscono alla questione.

Il 9 luglio 2004 la CIG nel suo parere consultivo ha affermato che la costruzione da parte di Israele del muro di separazione e l’espansione delle colonie sono illegali ed alterano la composizione demografica dei Territori Palestinesi Occupati (TPO), compromettendo in tal modo gravemente la possibilità per i palestinesi di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione”, ha detto martedì ai giornalisti.

Al contempo l’Unione Europea ha detto di continuare a credere che l’attività di colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati sia illegale in base al diritto internazionale e vanifichi le prospettive di una pace duratura.

La UE chiede ad Israele di porre fine all’attività di colonizzazione, in conformità con i suoi obblighi in quanto potenza occupante”, ha detto il capo della politica estera europea Federica Mogherini in una dichiarazione in seguito all’iniziativa USA.

Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, ha tweettato: “La fittizia dichiarazione di Pompeo non cambia niente. Trump non può spazzare via con questo annuncio decenni di diritto internazionale consolidato secondo cui le colonie israeliane sono un crimine di guerra.”

Anche il senatore USA Bernie Sanders, uno dei più importanti candidati democratici alle elezioni presidenziali USA, , ha detto la sua su Twitter: “Le colonie israeliane nei territori occupati sono illegali.

Risulta chiaro dal diritto internazionale e da molte risoluzioni delle Nazioni Unite. Ancora una volta il signor Trump sta isolando gli Stati Uniti e compromettendo la diplomazia per assecondare la propria base [elettorale] estremista”, ha detto Sanders.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




Come i media occidentali permettono a Israele di farla franca su Gaza

Ramzy Baroud

16 novembre, 2019 Middle East Monitor

Un attacco israeliano a Gaza era imminente e non a causa di qualche provocazione da parte di gruppi palestinesi nella impoverita e assediata striscia di Gaza. L’escalation dell’esercito israeliano era prevedibile perché si colloca perfettamente nel controverso scenario politico israeliano. La guerra non era una questione di “se”, ma di “quando”.

La risposta è arrivata il 12 novembre quando l’esercito israeliano ha lanciato un grave attacco contro Gaza, uccidendo il comandante della Jihad islamica Bahaa Abu al-Ata e la moglie Asma.

Sono seguiti altri attacchi contro quelle che l’esercito israeliano ha descritto come basi della Jihad islamica. Comunque le identità delle vittime, insieme a video incriminanti sui social media, foto e resoconti di testimoni indicano che sono stati bombardati anche civili e distrutte infrastrutture civili.

Quando il 14 novembre è stata annunciata la tregua, durante l’aggressione israeliana erano stati uccisi 32 e feriti oltre 80 palestinesi.

Quello che veramente ostacola ogni seria discussione sull’orrenda situazione a Gaza è la blanda reazione sia delle organizzazioni internazionali, che esistono con il solo scopo di mantenere la pace nel mondo, che dei principali media occidentali, che incessantemente celebrano la propria accuratezza ed imparzialità. Una reazione estremamente deludente alla violenza israeliana è stata quella di Nickolay Mladenov, il coordinatore speciale ONU per il processo di pace in Medio Oriente.

Mladenov, il cui compito da tempo avrebbe dovuto essere considerato inutile dato che non esiste al momento alcun “processo di pace”, ha espresso la sua “preoccupazione” circa la “seria e costante escalation fra la Jihad islamica palestinese e Israele”.

La dichiarazione di Mladenov non solo stabilisce un’equivalenza morale fra una potenza di occupazione, che per prima ha provocato la guerra, e un piccolo gruppo di poche centinaia di uomini armati, ma è anche disonesta.

Il lancio indiscriminato di razzi e colpi di mortaio contro centri abitati è assolutamente inaccettabile e deve cessare immediatamente” ha aggiunto Mladenov, dando grande enfasi al fatto che “non c’è alcuna giustificazione per degli attacchi contro civili”.

Sorprendentemente Mladenov si stava riferendo ai civili israeliani, non a quelli palestinesi. Quando questa dichiarazione è stata rilasciata ai media, c’erano già decine di civili palestinesi feriti e uccisi mentre i reportage dei media israeliani parlavano dei pochi israeliani che erano stati curati per “ansia”.

L’Unione Europea non ha fatto molto di meglio, ripetendo la solita reazione automatica americana di condanna “al fuoco di fila di attacchi di razzi che penetrano profondamente in territorio israeliano”.

Non è possibile che Mladenov e i vertici dei responsabili della politica estera dell’UE non capiscano correttamente il contesto politico dell’ultimo massacro israeliano, cioè che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sotto attacco sta usando l’escalation militare per rafforzare il suo controllo sul potere che si sta sempre più indebolendo.

Tenendo presente questo, cosa si deve pensare della scadente copertura mediatica, delle analisi inadeguate e dell’assenza di servizi equilibrati sui principali media occidentali?

In un servizio diffuso dalla BBC il 13 novembre, l’emittente britannica ha parlato di “violenza alla frontiera fra Israele e i militanti a Gaza”.

Ma Gaza non è un Paese indipendente e, secondo le leggi internazionali, è ancora occupata da Israele. Israele ha dichiarato Gaza un “territorio ostile” nel settembre 2007, stabilendo arbitrariamente un “confine” fra il Paese e il territorio palestinese assediato. Per qualche ragione la BBC pensa che questa definizione sia accettabile.

Dal canto suo, il 13 novembre la CNN ha riportato che “la campagna militare israeliana contro la Jihad islamica” è al suo secondo giorno, enfatizzando la condanna ONU degli attacchi con i razzi.

La CNN, come la maggior parte degli altri principali media americani, riporta le campagne militari israeliane come parte integrante di una immaginaria “guerra al terrorismo”. Perciò analizzare il linguaggio dei principali media USA allo scopo di sottolineare e enfatizzare i suoi errori e pregiudizi è un esercizio inutile. Purtroppo, i pregiudizi USA sulla Palestina si sono estesi ai media principali in quei Paesi europei che erano, in parte, più imparziali, se non più solidali con la situazione dei palestinesi.

Lo spagnolo El Mundo, per esempio, ha parlato di un certo numero di palestinesi, avendo cura di sottolineare che erano “quasi tutti miliziani” che sono “morti” e non che “erano stati uccisi” dall’esercito israeliano.

L’escalation ha fatto seguito alla morte del leader del braccio armato di Gaza” ha riportato El Mundo, omettendo, ancora una volta, di identificare i responsabili di queste morti apparentemente misteriose.

La Repubblica, che in Italia è considerata una testata di “sinistra”, sembrava più un giornale israeliano di destra nella sua descrizione degli eventi che hanno portato alla morte e al ferimento di molti palestinesi. Il quotidiano italiano ha usato una sequenza degli avvenimenti inventata che esiste solo nella mente dell’esercito e dei responsabili politici israeliani.

La violenza continua. Secondo “The Jerusalem Post” (un giornale israeliano di destra) e l’esercito israeliano parecchi razzi sono stati lanciati dai (miliziani) della Jihad islamica di Gaza verso Israele, violando la breve tregua”.

Resta poco chiaro a quale “tregua” si riferisse La Repubblica.

Il francese Le Monde ha fatto lo stesso, riportando le stesse frasi israeliane, fuorvianti e stereotipate e enfatizzando le dichiarazioni dell’esercito e del

governo israeliano. Stranamente la morte e il ferimento di molti palestinesi a Gaza non merita un posto sulla homepage del giornale francese.

Invece si è scelto di dare evidenza a una notizia relativamente poco importante, in cui Israele denunciava la definizione di prodotti delle colonie illegali come “discriminatoria”.

Forse si sarebbero potute scusare queste mancanze giornalistiche e morali ad ampio raggio se non fosse per il fatto che la storia di Gaza è stata una di quelle più ampiamente riportate ovunque nel mondo da oltre un decennio.

È ovvio che i “i quotidiani più importanti” occidentali non hanno volutamente fatto dei reportage onesti su Gaza e hanno intenzionalmente nascosto la verità ai loro lettori per molti anni, per non offendere la sensibilità del governo israeliano e dei suoi potenti alleati e lobby.

Se non si può che deplorare la morte del buon giornalismo in Occidente, è anche importante riconoscere con grande ammirazione il coraggio e i sacrifici dei giovani giornalisti e dei blogger di Gaza che, in più occasioni, sono stati presi di mira e uccisi dall’esercito israeliano per aver trasmesso la verità sulla situazione di emergenza dell’assediata, ma tenace Striscia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gli articoli del “NY Times” sull’uccisione di una famiglia a Gaza sono parte della riduzione del danno per l’esercito israeliano

James North

16 novembre 2019 – Mondoweiss

Il taglio dell’odierno articolo del New York Times su come l’aviazione di Israele abbia ucciso civili a Gaza inizia direttamente dal titolo. Nell’edizione in rete recita: “In un attacco che ha ucciso 5 bambini, Israele ha affermato di aver tolto di mezzo un miliziano di Gaza. Ora non è sicuro.”

Trovai per la prima volta “togliere di mezzo” come eufemismo per “ucciso” quando ero inviato nell’Africa meridionale negli anni ’70. Il regime della minoranza bianca in Rhodesia lo utilizzava per minimizzare la repressione contro il movimento nero di guerriglia che alla fine conquistò l’indipendenza e ribattezzò il Paese Zimbabwe. Il New York Times vuole davvero condividere questa orribile storia?

L’articolo del Times inizia con un rapido reportage di prima mano di un testimone del terribile attacco aereo notturno israeliano contro Deir-El-Balah, a Gaza. Ismail al-Swarka vi ha perso otto dei suoi parenti, cinque dei quali bambini.

Ma poi il giornale fa una digressione e un’operazione di riduzione del danno in associazione con l’esercito israeliano. Il Times afferma che l’esercito spiega che “vittime civili sono inevitabili nei brulicanti quartieri di Gaza.” Aggiunge che “Israele accusa i miliziani di utilizzare civili, compresi i loro stessi parenti, come scudi umani…” E, insistendo sull’argomento propagandistico, il giornale dice che Israele “adotta numerose precauzioni per evitare vittime civili inutili.”

Il giornale confonde anche le notizie veritiere, insinuando che, nonostante la morte di civili, ci doveva effettivamente essere stata “un’infrastruttura militare della Jihad Islamica”, nella zona che Israele ha attaccato. Il lettore si sente confuso, con l’impressione che l’aviazione israeliana potrebbe aver fatto un errore, ma forse no, e che in ogni caso simili errori sono rari.

La versione degli avvenimenti del Times è profondamente disonesta. Molte ore prima che il Times mettesse sul sito il suo articolo, il quotidiano indipendente israeliano Haaretz aveva già affermato chiaramente, nella sua prima frase:

Giovedì l’esercito israeliano ha ammesso di aver commesso un errore nel colpire mercoledì notte a Gaza un edificio che ospitava una famiglia di otto persone, tutte morte nell’attacco.”

I giornalisti di Haaretz, Yaniv Kubovich e Jack Khoury, hanno continuato a scrivere articoli veritieri, invece di stenografare i portavoce ufficiali dell’esercito israeliano. Si è scoperto che “l’edificio dove la famiglia (gli 8 gazawi uccisi nell’attacco, compresi 5 bambini) viveva era su una lista di potenziali bersagli, ma ufficiali israeliani della Difesa hanno confermato ad Haaretz che nell’ultimo anno non era stata aggiornata o controllata prima dell’attacco… Fonti della Difesa hanno confermato che in nessuna fase l’area è stata controllata per [verificare] la presenza di civili.”

Con buona pace delle “numerose precauzioni” dell’esercito israeliano per evitare di colpire civili palestinesi.

C’è stata ulteriore disonestà da parte del Times. La seconda frase dell’articolo del Times informa che “il portavoce dell’esercito israeliano in lingua araba ha postato su twitter la foto del comandante della Jihad Islamica palestinese che sostiene sia stato ucciso nel raid…” Poi cita la Jihad Islamica che nega le affermazioni di Israele. A te, lettore, decidere.

Ma Haaretz ha continuato a fare vera informazione. In un articolo di poche ore dopo Kubovich e Khoury hanno rivelato che l’esercito israeliano ha ammesso che la dichiarazione relativa al “comandante della Jihad Islamica” era una menzogna. “Funzionari della difesa ora ammettono che si è trattato di una dichiarazione falsa,” hanno detto.

L’inviato del Times David Halbfinger è in Israele da più di 2 anni. Non sarebbe ora che si creasse qualche fonte all’interno dell’esercito israeliano?

Questo orribile crimine di guerra israeliano – perché di questo si tratta – ricorda una storia rivelatrice raccontata da Yonatan Shapira, l’ex-pilota dell’aviazione israeliana che ora è un refusnik [israeliani che si rifiutano di fare il soldato o di partecipare ad attività nei territori palestinesi occupati, ndtr.], uno dei sempre più numerosi israeliani che non continueranno a prestare servizio nell’esercito. Nel 2003 Shapira, ancora in servizio, si scontrò con il comandante dell’aviazione riguardo a quelli che vengono anche eufemisticamente chiamati “assassinii mirati” – aerei da guerra avevano sparato missili contro leader palestinesi a Gaza, uccidendo anche passanti innocenti, alcuni dei quali bambini.

Shapira chiese al comandante: “Cosa sarebbe successo se i dirigenti palestinesi si fossero trovati a Tel Aviv? Avresti ordinato ai tuoi piloti di sparare lì, mettendo a rischio passanti israeliani?” Il comandante rispose di no. “Quindi tu attribuisci maggior valore agli israeliani che ai palestinesi,” rispose Yonatan. “Cercati qualcun altro per pilotare il tuo aereo.”

James North è un redattore generale di Mondoweiss e per quarant’anni è stato un inviato in Africa, America latina e Asia. Vive a New York.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quando l’esercito israeliano inizia ad attaccare lo fa anche la sua armata di troll in rete

Michael Arria

15 novembre 2019 – Mondoweiss

Act.IL [applicazione per telefonini rivolta a sostenitori di Israele, ndtr.] è una campagna internazionale filo-israeliana finanziata almeno in parte dal governo del Paese. Il progetto include un’applicazione che consente agli utenti di guadagnarsi punti e premi per la promozione dello Stato di Israele in rete, attaccando il BDS e altri movimenti filo-palestinesi. Secondo un reportage di Electronic Intifada [sito palestinese di notizie e commenti, ndtr.] dell’inizio dell’anno, opera con un bilancio di oltre un milione di dollari.

Michael Bueckert è uno studente di dottorato in sociologia ed economia politica alla Carleton University [università canadese con sede a Ottawa, ndtr.] e dall’aprile 2018 ha curato un account twitter che segue le “missioni” dell’applicazione. Bueckert ha parlato con Michael Arria di Mondoweiss della storia del progetto, del suo uso durante i recenti attacchi contro Gaza e della sua effettiva influenza o meno.

Arria: Solo per cominciare, penso che molte persone che stanno dalla nostra parte siano probabilmente a conoscenza del tuo lavoro. Ma per gente che non ne sa niente, puoi descrivere brevemente l’applicazione ACT:IL e spiegare chi la finanzia?

Bueckert: Sì. Ormai da un paio d’anni seguo le attività di propaganda dell’applicazione semiufficiale di Israele. Si chiama ACT.IL ed è stata creata con una sorta di collaborazione tra il governo israeliano e un certo numero di gruppi della lobby filoisraeliana negli USA finanziati da Sheldon Adelson [miliardario USA che finanzia Netanyahu e i coloni, ndtr.]. Forse c’è una mancanza di chiarezza riguardo all’esatta natura di quel rapporto. L’applicazione è stata finanziata in parte dal governo israeliano… Penso che il governo abbia pagato per lo sviluppo del sito web su cui è stata ospitata e per parecchie pubblicità, compresi contenuti sponsorizzati, come articoli sponsorizzati su giornali israeliani che sembrano proprio normali articoli ma sono stati pagati essenzialmente dal governo israeliano. All’epoca gli sviluppatori dell’applicazione stavano parlando con lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna di Israele) e con i funzionari della difesa israeliana di come avrebbero lavorato per identificare obiettivi in rete e per avere una sorta di compito per elaborare le reazioni. Ma su questo hanno fatto una parziale marcia indietro.

Ma fondamentalmente è un’applicazione che chiunque al mondo può scaricare sul proprio telefonino e identifica obiettivi in rete, le chiamano “missioni”, in cui singoli individui filoisraeliani possono molto facilmente partecipare a una discussione in rete. Quindi identificherà un tweet che loro devono leggere o un commento su Facebook riguardo a un articolo di notizie che gli può piacere. Essenzialmente, è un modo per coordinare in rete un comportamento in modo che sembri naturale, ma in realtà è assolutamente architettato da questa specie di organismo centralizzato con il sostegno del governo israeliano. Però l’obiettivo è condizionare molto rapidamente il discorso in rete in modo che sia a favore di Israele.

Arria: Hai una qualche idea di quante persone stanno usando l’applicazione e portando avanti queste “missioni”?

Bueckert: È difficile dirlo in ogni momento. Non sembra che ci siano molte persone. Sicuramente ci sono migliaia di persone che hanno scaricato l’applicazione, forse decine di migliaia. Ma è difficile valutare esattamente quanta gente sia attiva in modo continuativo. Molte missioni non sembrano avere molta diffusione, non tanti utenti hanno partecipato a molte di esse. Per cui è molto, molto difficile dirlo.

Arria: Ci sono momenti particolari in cui l’applicazione è più attiva che in altri?

Bueckert: Di nuovo, è difficile dirlo in termini di utilizzo, ma sicuramente lo si può dire magari in base alla quantità di missioni che l’applicazione sta producendo. Ci sono un sacco di argomenti diversi. Direi che le missioni sono più frequenti ogni volta che un musicista o un artista sta per andare in Israele. In genere c’è un numero di missioni per l’applicazione che danno indicazione agli utenti di fare commenti sui loro post di Instagram o dare loro il benvenuto in Israele, questo tipo di cose, per una sorta di lotta contro qualunque pressione che possano ricevere a favore del boicottaggio [contro Israele].

Poi c’è un’intera categoria di missioni più serie e importanti, dove viene veramente presa di mira una specifica questione locale, di solito in università dove devono colpire una specifica conferenza o gruppo di studenti in modo che sembri che ci sia una reazione spontanea contro un’organizzazione filo-palestinese, quando in realtà è tutto preordinato. E in qualche caso, intendo dire, l’applicazione si è vantata di aver fatto licenziare persone o di aver fatto annullare eventi. Per cui quando prende di mira una questione locale può realmente avere una grande impatto.

E poi penso che i momenti in cui si vede la maggiore attività sia come ora, quando c’è un’escalation di violenza, soprattutto con attacchi aerei contro Gaza e il lancio di razzi in risposta. È quando hai una risposta assai massiccia, con tutta una serie di missioni tutte in una volta. E forse c’è un’impennata negli utenti reali che sfruttano queste missioni, non so. Ma sicuramente l’applicazione è molto più attiva in questi momenti.

Arria: Su questo punto puoi parlare del tipo di missioni che hai visto di recente? È appena stato annunciato un cessate il fuoco, ma negli ultimi due giorni Israele ha lanciato missili contro Gaza. Com’è una tipica missione quando succede qualcosa del genere?

Bueckert: Certo. Quindi adesso ci sono circa 40 missioni relative a questo problema. La maggior parte di queste missioni sta prendendo di mira articoli di notizie, su Facebook o Twitter, in cui ti si chiede di lasciare un commento che metta in discussione la terminologia utilizzata. Se il titolo dell’articolo dice che è stato ucciso un miliziano della Jihad Islamica, ti viene chiesto di commentare: “Hai omesso un’informazione importante” o “È una prospettiva di parte.” Questo tipo di cose, E penso che il punto principale di questo tipo di missioni (soprattutto su Facebook) sia fare in modo che gli utenti normali scoprano le notizie e si imbattano in quegli articoli informativi, perché quello che stanno cercando di fare (e in questo caso, hanno molto successo) è ottenere questi commenti a sostegno per mettere in cima alla lista un commento proprio sotto all’articolo su Facebook. Così se sei un utente casuale di Facebook e ti imbatti in questi articoli di notizie, la prima cosa che vedi appena sotto il titolo sono questi commenti critici da parte di persone qualsiasi in rete e quella che sembra una normale reazione spontanea a quell’articolo è in realtà coordinata. Quindi direi che così è la maggioranza delle missioni.

E molte di loro intendono distogliere l’attenzione delle notizie dal fatto che sono state le uccisioni mirate di dirigenti della Jihad Islamica da parte di Israele che hanno deliberatamente scatenato quest’ultima serie di violenze. E così molti articoli stanno cercando di contrastare ciò dicendo che ci sono razzi tutto il tempo, Israele non ha colpito per primo. Ci sono anche parecchie missioni in cui, per esempio, condividono su Facebook video di razzi lanciati su Israele per dire che così è la vita sotto il terrorismo da Gaza, questo genere di cose.

Alcune missioni sono un po’ offensive. Una di loro riguarda la condivisione del video di un uomo in Israele e di come il suo cane sia stato emotivamente scioccato dal lancio di razzi, favorendo così il benessere dei cani in Israele. Nel frattempo penso che in quel preciso momento erano stati uccisi 36 palestinesi. Quattro di loro erano minorenni. E quindi (le missioni riguardano il fatto di) evitare qualunque domanda sulle vittime palestinesi e cercare di dare tutta la colpa a Gaza. E questo è il tipo di missioni che in questo momento stanno inondando l’applicazione.

Arria: So che è impossibile quantificare quale impatto cose del genere stiano avendo, ma personalmente hai la sensazione che stia in qualche modo facendo la differenza in termini di opinioni a favore di Israele?

Bueckert: È veramente impossibile dirlo. Ci sono stati una serie di tentativi di verificarlo. (Uno studio) ha suggerito che molto del traffico per la pagina di destinazione che hanno creato sia arrivato effettivamente dal mio account Twitter, mettendolo in evidenza, piuttosto che dall’applicazione stessa. E quindi ciò suggerisce che ci sia molto poco da ricavarne, almeno ciò è avvenuto in precedenti occasioni.

Anche Electronic Intifada ha fatto su ciò qualche articolo, che suscita qualche domanda sulla sua efficacia, considerando soprattutto la quantità di denaro e di risorse che sono stati impiegati. Penso sia veramente impossibile dire se commenti di “mi piace” su Facebook e Twitter facciano una qualche differenza o meno, ma sospetto che sia tutt’al più molto ridotta.

Tuttavia direi che quando si tratta di missioni più mirate, che attaccano determinati individui e riguardano la situazione lavorativa di persone o cercano di far annullare conferenze, queste sembrano essere piuttosto efficaci. C’è stato un caso all’inizio dell’anno, quando l’applicazione ha avuto molte missioni da perseguire (il Comitato Consultivo per il Modello di Programma di Studi Etnici della California) per la proposta di un programma di studi etnici che parlava in termini positivi dei palestinesi e del BDS come movimento sociale. E ci sono stati molte missioni che hanno preso di mira specifici consigli di amministrazione scolastici, mandando mail ai singoli individui sul comitato di programma. Quindi quando si tratta di questi specifici esempi, penso che l’applicazione possa essere piuttosto efficace. Ma quando si tratta solo di cercare di condizionare la reazione generale a un avvenimento come gli attuali raid aerei e razzi, non lo so proprio.

Arria: Il monitoraggio dell’applicazione ti ha dato la sensazione di quanto Israele stia prendendo seriamente il movimento BDS? Da una parte si sentono costantemente gruppi filo-israeliani prendersi gioco del movimento perché avrebbe un impatto insignificante, ma poi ci sono anche molte risorse che vengono utilizzate per combatterlo, come vediamo in questo caso.

Bueckert: È un dibattito che c’è anche in Israele e tra diversi ministeri, persino riguardo a se (il BDS) sia realmente una minaccia o qualcosa su cui valga la pena di impiegare risorse. Il ministero degli Affari Strategici, ovviamente, è quello che si occupa di tutta la faccenda. Ma al ministero degli Affari Esteri penso che la concezione sia che dovrebbero piuttosto semplicemente ignorarlo e lasciarlo perdere, per cui è difficile dire cosa effettivamente pensino.

Cosa suggerisce la quantità di risorse che mettono in questo tipo di campagne? Beh, non penso che suggerisca necessariamente che (credano che il BDS sia una reale minaccia), ma piuttosto che non hanno intenzione di lasciare che una qualunque opinione a favore dei palestinesi venga accolta all’interno dell’attuale discorso pubblico. La mia impressione è che tutto ciò riguardi meno la minaccia concreta del BDS e più l’assoluta intolleranza relativa a qualunque cosa positiva nei confronti dei palestinesi.

Michael Arria è il corrispondente dagli USA di Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La contestazione di Harvard: ‘I dirigenti israeliani alla fine hanno parlato ad una platea vuota’

Azad Essa da New York

15 Novembre 2019 – Middle East Eye

Dani Dayan, diplomatico israeliano ed ex leader del movimento dei coloni israeliani, ha parlato ad una platea semivuota dopo che gli studenti hanno inscenato una spettacolare protesta

Mercoledì circa 100 studenti hanno inscenato una spettacolare protesta durante un evento nella Scuola di Diritto di Harvard, dove avrebbe parlato Dani Dayan, console generale di Israele a New York.

Proprio quando Dayan stava per iniziare il suo intervento, i contestatori, che avevano occupato la maggior parte del centro della sala, si sono alzati, hanno sollevato cartelli dove era scritto “Le colonie sono un crimine di guerra”, quindi hanno voltato le spalle a Dayan e sono usciti in silenzio.

Quando la sala si è svuotata, si è potuto udire Dayan che diceva: “Ricordo che si faceva così all’asilo”.

Ma è stata l’azione silenziosa degli studenti a impressionare l’uditorio.

Dayan è stato lasciato a parlare su “La strategia legale delle colonie israeliane” ad una sala per lo più vuota.

Su internet il video dell’uscita degli studenti è diventato virale e sono piovute parole di incoraggiamento e congratulazioni per aver preso posizione e aver messo a disagio Dayan.

Vedere 100 persone alzarsi in piedi contemporaneamente e in silenzio ha avuto effetto”, ha detto a Middle East Eye Samer Hjouj, uno degli organizzatori della protesta. “Appena abbiamo saputo dell’evento ci siamo organizzati e questo ci è costato molto tempo, ma avevamo un gruppo in ogni scuola di Harvard che cercava persone che ci potessero aiutare a realizzare la protesta.”

Dayan, l’ex leader del movimento dei coloni israeliani, ritenuto uno dei principali ostacoli al processo di pace, nel 2012 ha scritto sul New York Times che “I coloni israeliani sono qui per restarci.”

Circa 650.000 israeliani vivono in colonie nella Cisgiordania occupata.

Le colonie sono illegali in base al diritto internazionale e sono considerate un crimine di guerra.

Menachem Butler e Noah Feldman, insieme al ‘Programma Julis-Rabinowitz sul diritto ebraico e israeliano’ (che hanno co-organizzato l’evento), hanno detto a MEE che, pur essendo assolutamente lecito che gli studenti abbiano espresso contrarietà e disapprovazione in quel modo, non hanno alcun rimorso per aver ospitato l’evento.

Il nostro programma invita persone di opinioni molto diverse su Israele e Palestina. Dayan è un diplomatico del governo israeliano che ha illustrato la politica del governo israeliano. Certamente delle organizzazioni internazionali considerano le colonie una violazione [delle Convenzioni] di Ginevra. Non è così per il governo di Israele”, ha detto Butler, che è il coordinatore del Programma per i Progetti Giuridici Ebraici.

Analogamente Feldman, che aveva presentato Dayan appena prima della contestazione, ha detto che il fatto che “qualcuno abbia posizioni sul diritto internazionale che io o il mio governo consideriamo errate non significa che tali posizioni non debbano essere affrontate”.

L’opinione di Dayan sulla legalità delle colonie è quella del suo governo – ed io ho piacere di ospitare rappresentanti del governo israeliano, esattamente come sono felice di ospitare rappresentanti palestinesi. Finché la posizione del governo israeliano è coinvolta nelle colonie, la pace sarà quasi impossibile da raggiungere”, ha detto Feldman, docente nella Scuola di Diritto.

Ma gli studenti attivisti dicono che le argomentazioni che suggeriscono che sia una questione di tolleranza di diverse opinioni accademiche sono una distorsione della verità.

Hjouj sostiene che avevano deciso di non invitare Dayan per evitare di dare credibilità ad una posizione insostenibile.

Rami Younis, uno studente della Harvard Divinity School [una delle scuole che fanno parte dell’università di Harvard, in Massachussets, ndtr.], che ha contribuito ad organizzare la contestazione silenziosa, ha detto che, dato che il console generale israeliano è una persona la cui intera vita si è incentrata sull’esproprio e il furto, “dovrebbe essere processato in un tribunale internazionale e non invitato a parlare di fronte ad un pubblico ‘progressista’.”

Allo stesso modo Amaya Arregi, studentessa della Fletcher School [scuola di specializzazione in affari internazionali, in Massachussets, ndtr.], che ha preso parte alla protesta, ha affermato che, anche se la libertà accademica è fondamentale, lei si è stupita di come la Scuola di Diritto potesse giustificare “l’invito ad un politico israeliano a parlare di come loro continuano a violare il diritto internazionale.”

Gli hanno dato un ampio spazio e avrebbe parlato impunemente. Il fulcro della sessione era esattamente quali metodi legali usa Israele per portare avanti il suo progetto coloniale. Abbiamo avuto l’impressione che la Scuola di Diritto di Harvard stesse aprendo la strada perché simili opinioni diventassero normali negli incontri accademici”, ha aggiunto Arregi.

Gli studenti hanno anche sostenuto che Harvard è stracolma di posizioni a favore di Israele, comprese conferenze di ex agenti del Mossad [servizio segreto israeliano, ndtr.].

Harvard invita molti relatori israeliani – di tutte le posizioni politiche. Ma i relatori palestinesi devono essere graditi all’amministrazione. Non inviterebbero mai uno come Omar Barghouti, che appoggia la campagna di boicottaggio”, ha detto Hjouj.

Ma Hamzah Raza, studente laureato della Harvard Divinity School, che ha partecipato alla protesta, ha detto che l’efficace azione di mercoledì gli ha indicato che sempre più giovani negli Stati Uniti stanno diventando sostenitori dei diritti umani dei palestinesi.

Il fatto che praticamente tutta la sala si sia svuotata significa qualcosa per lui. Le persone che continuano a mantenere simili posizioni si troveranno a parlare a platee sempre più vuote”, ha detto.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)