Un giudice multa i promotori di una petizione contro la vendita di armi di Israele alle Filippine

Orly Noy

17 ottobre 2019 – +972

Un giudice condanna i promotori di un ricorso, che hanno fatto causa al governo nel tentativo di porre fine all’esportazione di armi nelle Filippine, a pagare una multa, mandando un chiaro messaggio a quanti protestano contro la complicità di Israele con alcuni dei regimi più repressivi al mondo

Giovedì la giudice Gilia Ravid, del tribunale distrettuale di Tel Aviv, ha emesso una sentenza su un ricorso presentato dall’avvocato per i diritti umani Eitay Mack per conto di più di 50 attivisti per i diritti umani che chiedono che Israele smetta di esportare armi alle Filippine. Come avviene di solito nel caso di ricorsi di questo genere, l’udienza si è tenuta a porte chiuse e la sentenza è stata tenuta segreta. Tuttavia, con un’iniziativa inusuale, il giudice ha imposto ai ricorrenti il pagamento di 10.000 shekel (circa 2.500 euro) per le spese legali – l’unica parte della sentenza di cui è stata autorizzata la pubblicazione. 

In risposta alla richiesta dello Stato in questo senso, l’udienza si è tenuta a porte chiuse “per evitare danni alla sicurezza dello Stato e alle relazioni internazionali.” Mentre questa è la norma per simili processi, non si può fare a meno di chiedersi la ragione che ci sta dietro e la reale efficacia di una richiesta simile, dato che la maggior parte delle prove presentate dai ricorrenti era già di dominio pubblico ed è stata riferita sia dai media israeliani che internazionali.

Il ricorso era basato su comunicati stampa ufficiali delle autorità filippine che elencano in dettaglio le forniture di armi da Israele. Le prove includono post sulla pagina Facebook della polizia e della guardia costiera filippine e di un’industria bellica che agevola le vendite da Israele, oltre a informazioni ufficiali pubblicate dalla polizia filippina, dal ministero della Difesa e da fonti di informazione ufficiali.

Nel settembre 2019, durante la sua visita in Israele, il presidente filippino Rodrigo Duderte ha ammesso di aver ordinato alle forze di sicurezza di acquistare armi solo da Israele, dato che, a differenza di Stati Uniti, Germania e persino Cina, Israele non pone nessuna restrizione sul suo traffico d’armi. Ha fatto questa dichiarazione durante una conferenza stampa a Gerusalemme, davanti al presidente israeliano Reuven Rivlin e a molti leader mondiali.

Non è neppure un segreto come il governo di Duderte utilizzi queste armi. Secondo i gruppi per i diritti umani, da quando nel giugno 2016 Duderte ha preso il potere, la polizia e le milizie filippine che con essa collaborano hanno ucciso senza un regolare processo almeno 12.000 persone come parte della “lotta alla droga” del regime.

Se tutte le informazioni del ricorso sono note e disponibili all’opinione pubblica, perché l’udienza si è svolta a porte chiuse? E perché non è stato reso pubblico il verdetto del giudice? Come sempre la parola magica è “sicurezza dello Stato”, sufficiente a rendere i giudici acquiescenti nei confronti della volontà dei servizi di sicurezza e del governo. L’ufficio del pubblico ministero del distretto, che rappresenta lo Stato, ha argomentato a favore del silenzio stampa affermando che, dato che lo Stato non può rispondere pubblicamente all’azione legale, il suo silenzio potrebbe essere mal interpretato dai media.

Ciò presuppone che i mezzi di comunicazione israeliani abbiano un qualche interesse in questo tipo di denunce. Storicamente i media locali non hanno mai sfidato la pesante censura dello Stato su informazioni riguardanti le vendite di armi ad alcuni dei regimi più repressivi al mondo, nonostante il fatto che i ricorsi siano stati presentati in “tempo reale”, e che i Paesi che comprano le armi stiano commettendo gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e contro l’umanità.

Altrettanto irragionevole della decisione del tribunale di accogliere la censura sul caso è la decisione della giudice Ravid di imporre un’ammenda ai promotori. Ciò manda un chiaro e sconfortante messaggio all’opinione pubblica: “Siete stati avvertiti: protestare ha un prezzo.”

Questo tipo di ricorsi viene presentato con un’intrinseca mancanza di equilibrio dei poteri, perché lo Stato presenta i suoi documenti al tribunale senza notificarli alla parte avversa,” ha detto Mack. “Il tribunale ora è andato oltre, punendo i cittadini che hanno esercitato il proprio dovere civico cercando di impedire la complicità del loro Paese in crimini contro l’umanità,” ha aggiunto.

Secondo Mack i promotori hanno quasi finito di raccogliere di fondi necessari per coprire le spese legali imposte dal tribunale. “Ho avuto l’appoggio di ogni gruppo sociale, veramente da tutti, compresi personaggi di destra che stanno facendo una lotta per proprio conto su questo problema,” ha affermato.

C’è qualcosa di anacronistico riguardo alle ripetute richieste da parte dei ministeri degli Esteri e della Difesa dell’imposizione del silenzio stampa. L’opinione pubblica percepisce questo comportamento come rivoltante. I ministeri possono anche vincere la battaglia, però stanno perdendo la guerra. Nessun divieto può cancellare le orribili immagini che arrivano dalle Filippine,” ha aggiunto Mack.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.]

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’Associazione Rabbinica Ricostruzionista appoggia la legge USA che protegge i minori palestinesi dalla prigione militare israeliana

16 ottobre 2019 – Comunicato stampa di Jewish Voice for Peace

Filadelfia (Pennsylvania), 16 ottobre 2019: Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, gruppo di ebrei americani contro l’occupazione, ndtr.] è entusiasta del fatto che oggi l’Associazione Rabbinica Ricostruzionista [scuola rabbinica progressista statunitense, ndtr.] ha appoggiato la proposta di legge del Congresso [americano] per la protezione dei diritti dei bambini palestinesi incarcerati dall’esercito israeliano.

Promossa dalla deputata Betty McCollum, la legge HR 2407 vieterebbe che i finanziamenti USA contribuiscano a “detenzione militare, interrogatori, violenze o maltrattamenti di minori in violazione del diritto umanitario internazionale”.

La deputata Betty McCollum ha ringraziato l’Associazione Rabbinica Ricostruzionista: “Questo è da parte dell’Associazione Rabbinica Ricostruzionista una grande spinta per la promozione della Legge HR 2407. Ringrazio questi autorevoli rabbini per l’aiuto alla lotta per i diritti umani. Il loro appoggio invia un segnale forte alla gente di ogni fede sul fatto che ogni minore merita di essere trattato con dignità e rispetto. Ora è tempo per gli Stati Uniti di mandare un chiaro segnale che nessun dollaro delle tasse USA possa consentire la detenzione e il maltrattamento dei minori palestinesi da parte dell’esercito israeliano.”

La “Legge per la promozione dei diritti umani per i minori palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana” (HR 2407) garantisce che nessun finanziamento militare USA sia destinato all’arresto militare e all’ incriminazione di minori – in Israele o in ogni altro Paese. Dal 2000 si stima che circa 10.000 minori palestinesi tra i 12 e i 17 anni siano stati arrestati, incriminati e incarcerati dall’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata. Molti di questi minori vengono trascinati fuori dalle loro case nel pieno della notte da soldati armati e per giorni viene loro impedito di parlare con le proprie famiglie. Subiscono violenze verbali, umiliazioni, intimidazioni e violenza fisica. Questi minori vengono interrogati senza la presenza di familiari o avvocati, nel tentativo di estorcere confessioni forzate, e alla fine possono essere detenuti per mesi.

La rabbina Alissa Wise, Vicedirettrice esecutiva di Jewish Voice for Peace, ha sottolineato: “Alcuni anni fa l’idea di proporre al Congresso USA una legge per i diritti dei palestinesi era inconcepibile, per non parlare della possibilità che un’ importante associazione rabbinica la appoggiasse. La decisione dell’Associazione Rabbinica Ricostruzionista di appoggiare la Legge HR2407 è la dimostrazione più evidente che la comunità ebraica americana sta accrescendo il proprio sostegno ai diritti dei palestinesi.”

La rabbina Wise continua: “L’appoggio dell’Associazione Rabbinica Ricostruzionista contraddice fortemente i postulati precedenti riguardo alle comunità ebraiche americane e alla difesa dei palestinesi ed è un segnale di un mutamento radicale per quanto possibile. In questo momento politico di precarietà ed incertezza, questo è un richiamo auspicato e necessario al dinamismo della comunità ebraica di Washington e più in generale dell’America. Oggi sono molto orgogliosa di essere una rabbina ricostruzionista”.

La direttrice delle questioni istituzionali di Jewish Voice for Peace, Beth Miller, ha detto: “Questa coraggiosa e storica presa di posizione dell’Associazione Rabbinica Ricostruzionista indica chiaramente che il terreno si sta modificando. I movimenti progressisti in tutti gli USA, compresi gli ebrei americani progressisti, chiedono passi concreti verso la giustizia e l’equità per i palestinesi. La proposta di legge della deputata McCollum per proteggere i minori palestinesi dalle violazioni israeliane dei diritti umani va proprio in questa direzione. Siamo entusiasti e grati all’Associazione per aver mandato un chiaro messaggio al Campidoglio [sede del Congresso a Washington, ndtr.] che il cieco appoggio ad Israele non è più lo ‘status quo’ ed il Congresso deve prenderne atto.”

Jewish Voice for Peace è orgogliosamente membro della campagna ‘Non è il modo di trattare i minori’, condotta da ‘Defense for Children International – Palestina’ e ‘American Friend Service Commettee’.

Jewish Voice for Peace è un’organizzazione nazionale di base ispirata alla tradizione ebraica che lavora per una pace giusta e duratura in base ai principi dei diritti umani, dell’eguaglianza e del diritto internazionale per tutto il popolo di Israele e Palestina. JVP conta oltre 500.000 sostenitori online, più di 70 sedi locali, un gruppo giovanile, un Consiglio rabbinico ed uno artistico, un Consiglio di consulenza accademica ed un Comitato consultivo formato da importanti intellettuali e artisti statunitensi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’ultima àncora di salvezza: la vera ragione dell’appello di Abbas alle elezioni

Ramzy Baroud

14 ottobre, 2019 – Middle East Monitor

L’appello alle elezioni nei territori occupati da parte del Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] Mahmoud Abbas è uno stratagemma politico. Non ci saranno elezioni veramente democratiche sotto la leadership di Abbas. La vera domanda è: innanzitutto, perché lo ha fatto?

Il 26 settembre Abbas ha scelto la sede politica più importante al mondo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per proporre “elezioni generali in Palestina – in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza.”

Il leader palestinese ha fatto precedere al suo annuncio una nobile enfasi sulla centralità della democrazia nei suoi pensieri. “Fin dall’inizio abbiamo creduto nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato e della nostra società”, ha detto con inconfondibile disinvoltura. Ma, a conti fatti, è stata solo Hamas a rendere impossibile la missione democratica di Abbas – non Israele, e certo non il retaggio antidemocratico, evidente e corrotto della stessa ANP.

Al suo rientro da New York Abbas ha creato una commissione il cui compito, secondo i media ufficiali palestinesi, è di svolgere consultazioni con varie fazioni palestinesi riguardo alle elezioni che ha promesso.

Hamas ha immediatamente accettato l’invito alle elezioni, pur chiedendo maggiori delucidazioni. La principale richiesta del gruppo islamico, che controlla la Striscia di Gaza assediata, è di svolgere elezioni che comprendano contemporaneamente il Consiglio Legislativo Palestinese (CLP), la presidenza dell’ANP e soprattutto il Consiglio Nazionale Palestinese (CNP) – la componente legislativa dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Mentre l’OLP è caduta sotto lo stretto controllo di Abbas e di una cricca interna al suo stesso partito Fatah, le altre istituzioni hanno operato senza alcun mandato democratico e popolare per quasi 13 anni. Le ultime elezioni del CLP si sono tenute nel 2006, seguite da uno scontro tra Hamas e Fatah che ha portato all’attuale rottura politica tra i due partiti. Quanto al mandato di Abbas, anch’esso è scaduto nel 2009. Ciò significa che Abbas, che apparentemente crede “nella democrazia come fondamento della costruzione del nostro Stato”, è un presidente che regna in modo antidemocratico senza alcun mandato per governare i palestinesi.

Non è che i palestinesi rinuncino a esplicitare i propri sentimenti. Più volte hanno chiesto ad Abbas di andarsene. Ma l’ottantatreenne è deciso a rimanere al potere – per quanto si possa definire ‘potere’ sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana.

L’opinione prevalente dopo la richiesta di Abbas di elezioni è che, date le circostanze, una simile impresa sia semplicemente impossibile. Tanto per cominciare, dopo aver ottenuto il riconoscimento degli USA di Gerusalemme come capitale, è difficile che Israele permetta ai palestinesi di includere Gerusalemme est occupata in qualunque futura votazione.

D’altro lato, è probabile che Hamas rifiuti l’inclusione di Gaza nelle elezioni se esse fossero limitate al CLP e escludessero la carica di Abbas e il CNP. Senza un voto per il CNP la riorganizzazione e la rinascita dell’OLP resterebbero fantomatiche, un’opinione condivisa da altre fazioni palestinesi.

Essendo consapevole di questi ostacoli, Abbas sa già che le possibilità di reali elezioni eque, libere e veramente inclusive sono minime. Ma la sua proposta è l’ultima, disperata mossa per fermare il crescente risentimento tra i palestinesi e la sua incapacità per decenni di utilizzare il cosiddetto processo di pace per ottenere i diritti del suo popolo a lungo negati.

Ci sono tre principali ragioni che spingono Abbas a compiere questa mossa in questo specifico momento.

Primo, la fine del processo di pace e della soluzione dei due Stati, attraverso una serie di iniziative israeliane e americane, hanno lasciato l’ANP, e soprattutto Abbas, isolati e con scarse disponibilità finanziarie. I palestinesi che hanno sostenuto simili illusioni politiche non sono più la maggioranza.

Secondo, lo scorso dicembre la corte costituzionale dell’ANP ha stabilito che il presidente avrebbe dovuto indire le elezioni entro i prossimi sei mesi, cioè entro giugno 2019. La corte, anch’essa sotto il controllo di Abbas, ha inteso fornire al leader palestinese uno strumento giuridico per sciogliere il parlamento precedentemente eletto – il cui mandato è scaduto nel 2010 – e predisporre nuove basi per la sua legittimazione politica. Tuttavia egli non ha rispettato la decisione della corte.

Terzo, e più importante, il popolo palestinese è chiaramente stufo di Abbas, della sua autorità e di tutti gli intrighi politici delle fazioni. Infatti, secondo un sondaggio dell’opinione pubblica svolto a settembre dal Centro palestinese per la Ricerca Politica e di Opinione, il 61% di tutti i palestinesi in Cisgiordania e Gaza vuole che Abbas si dimetta.

Lo stesso sondaggio indica che i palestinesi rifiutano l’intero discorso politico che è stato alla base delle strategie politiche di Abbas e della sua ANP. Inoltre, il 56% dei palestinesi è contrario alla soluzione dei due Stati; quasi il 50% ritiene che l’azione dell’attuale governo dell’ANP di Mohammed Shtayyeh sia peggiore del precedente e il 40% vuole che l’ANP venga sciolta.

Significativamente, il 72% dei palestinesi vuole che le elezioni legislative e presidenziali si svolgano in tutti i territori occupati. La stessa percentuale vuole che l’ANP interrompa la sua partecipazione all’assedio imposto alla Striscia di Gaza.

Abbas si trova ora nella posizione politica più debole da quando ha preso il potere, molti anni fa. Privo del controllo sugli esiti politici che sono decisi da Tel Aviv e Washington, ha fatto ricorso ad una vaga richiesta di elezioni che non hanno possibilità di successo.

Mentre l’esito è prevedibile, Abbas spera che, per ora, potrà ancora una volta apparire come il leader impegnato che rivolge l’attenzione al consenso internazionale e ai desideri del suo popolo.

Ci vorranno mesi di spreco di energie, di contese politiche e di un imbarazzante circo mediatico prima che l’imbroglio delle elezioni vada in pezzi, lasciando il campo ad un gioco al massacro tra Abbas ed i suoi rivali che potrebbe durare mesi, se non anni.

È difficile che questa sia la strategia che il popolo palestinese – che vive sotto una brutale occupazione ed un soffocante assedio – necessiti o desideri. La verità è che Abbas e qualunque classe politica egli rappresenti sono diventati un vero ostacolo nel cammino di una nazione che ha un disperato bisogno di unità e di una strategia politica seria. Ciò che il popolo palestinese chiede con urgenza non è una timida chiamata al voto, ma una nuova leadership, una richiesta che ha ripetutamente espresso, benché Abbas rifiuti di ascoltare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele si appresta a trasformare i cittadini beduini in rifugiati nel loro stesso Paese

Jonathan Cook

16 ottobre 2019 – Mondoweiss

La pluridecennale lotta di decine di migliaia di israeliani contro l’espulsione dalle loro case – per alcuni per la seconda o la terza volta – dovrebbe essere la prova sufficiente che Israele non è una democrazia liberale occidentale, come sostiene di essere.

La scorsa settimana 36.000 beduini – tutti cittadini israeliani – hanno scoperto che il loro Stato sta per farne rifugiati nel loro stesso Paese, spostandoli in campi vigilati. Questi israeliani, a quanto pare, sono del tipo sbagliato.

Il loro trattamento ha dolorosamente ricordato il passato. Nel 1948 750.000 palestinesi vennero espulsi dall’esercito israeliano fuori dai confini del recentemente fondato Stato ebraico costituito sulla loro patria – quella che i palestinesi definiscono la Nakba, o catastrofe.

Israele viene regolarmente criticato per la sua aggressiva occupazione, la sua espansione incessante delle colonie illegali sulla terra palestinese e i suoi ripetuti e spietati attacchi, soprattutto contro Gaza. Di rado gli analisti notano anche le sistematiche discriminazioni di Israele contro gli 1.8 milioni di palestinesi i cui progenitori sopravvissero alla Nakba e vivono all’interno di Israele, apparentemente come cittadini.

Ma ognuno di questi soprusi viene affrontato singolarmente, come se non fossero collegati tra loro, invece che come differenti sfaccettature di un progetto complessivo. Si può individuare un modello guidato da un’ideologia che disumanizza i palestinesi ovunque Israele li trovi.

Questa ideologia ha un nome. Il sionismo fornisce il filo rosso che mette in rapporto il passato – la Nakba – con l’attuale pulizia etnica dalle loro case da parte di Israele a danno dei palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, la distruzione di Gaza e i tentativi coordinati dello Stato di cacciare i cittadini palestinesi di Israele fuori da ciò che è rimasto delle loro terre storiche e dentro a ghetti.

La logica del sionismo, anche se i suoi più ingenui sostenitori non riescono a comprenderla, è sostituire i palestinesi con ebrei – quella che Israele definisce ufficialmente ebraizzazione.

La sofferenza dei palestinesi non è uno sfortunato effetto collaterale del conflitto. È il reale obiettivo del sionismo: incentivare i palestinesi ancora presenti ad andarsene “volontariamente”, per sfuggire a oppressione e miseria ulteriori.

L’esempio più evidente di questa strategia di sostituzione della popolazione è il trattamento di lunga data che Israele riserva a 250.000 beduini che formalmente hanno la cittadinanza. I beduini sono il gruppo più povero di Israele, vivono in comunità isolate per lo più nella vasta area semiarida del Negev, il sud del Paese. In gran parte non visibili, Israele ha avuto relativamente mano libera nei suoi tentativi di “spostarli”.

È per questo che, per un decennio dopo che aveva apparentemente finito le sue operazioni di pulizia etnica del 1948 e guadagnato il riconoscimento dalle capitali occidentali, Israele ha segretamente continuato ad espellere migliaia di beduini fuori dai suoi confini, nonostante il loro diritto alla cittadinanza.

Nel contempo altri beduini in Israele sono stati cacciati a forza fuori dalle loro terre ancestrali per essere spostati sia in circoscritte zone controllate, sia in townships [termine che riprende il nome delle zone urbane destinate ai neri nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] che sono diventate le comunità più deprivate di Israele.

È difficile definire nei beduini, semplici contadini e pastori, una minaccia per la sicurezza, come è stato fatto con i palestinesi sotto occupazione.

Ma Israele ha una definizione più ampia di sicurezza della semplice sicurezza fisica. Essa si fonda sulla conservazione di un’assoluta predominanza demografica degli ebrei. I beduini possono essere tranquilli, ma il loro numero pone una gravissima minaccia demografica e il loro modo di vivere pastorale ostacola la sorte prevista per loro – tenerli ben chiusi in ghetti.

La maggior parte dei beduini ha titoli di proprietà di molto precedenti alla creazione di Israele. Ma Israele ha rifiutato di rispettare queste rivendicazioni e molte decine di migliaia sono stati criminalizzati dallo Stato, ai loro villaggi è stato negato il riconoscimento legale.

Per decenni sono stati obbligati a vivere in baracche o tende perché le autorità rifiutano di autorizzare [la costruzione di] case adeguate e vengono loro negati servizi pubblici come scuole, acqua ed elettricità.

Se vogliono vivere in modo legale i beduini hanno un’unica alternativa: devono abbandonare le loro terre ancestrali e il loro modo di vita per spostarsi in una povera township. Molti beduini hanno fatto resistenza, rimanendo attaccati alla loro terra storica nonostante le durissime condizioni impostegli.

Uno di questi villaggi non riconosciuti, Al Araqib, è stato utilizzato per dare l’esempio. Lì le forze israeliane hanno demolito le case di fortuna più di 160 volte in meno di un decennio. Ad agosto un tribunale israeliano ha approvato il fatto che lo Stato faccia pagare a sei abitanti 370.000 dollari come multa per le ripetute espulsioni.

Il leader di Al Araqib, il settantenne Sheikh Sayah Abu Madhim, recentemente ha passato mesi in carcere dopo essere stato arrestato per occupazione illegale di suolo, benché la sua tenda sia a pochi passi dal cimitero dove sono sepolti i suoi antenati.

Ora le autorità israeliane stanno perdendo la pazienza con i beduini.

Lo scorso gennaio sono stati svelati piani per lo sgombero dalle loro case urgentemente e con la forza di circa 40.000 beduini in villaggi non riconosciuti, sotto il pretesto di progetti di “sviluppo economico”. Sarà la più vasta espulsione da decenni.

Come “sicurezza”, anche “sviluppo” ha una connotazione diversa in Israele. In realtà significa sviluppo per gli ebrei, o ebraizzazione – non sviluppo per i palestinesi.

Il progetto include una nuova autostrada, una linea elettrica ad alta tensione, una struttura per la sperimentazione di armamenti, una zona militare di tiro e una miniera di fosforo.

La scorsa settimana è stato rivelato che le famiglie verrebbero obbligate a stare dentro centri di trasferimento nelle township, a vivere per anni in sistemazioni di fortuna mentre viene deciso il loro destino finale. Questi centri sono già stati paragonati ai campi di rifugiati costruiti per i palestinesi in seguito alla Nakba.

Il malcelato scopo è di imporre ai beduini condizioni di vita tali per cui alla fine accetteranno di essere rinchiusi definitivamente nelle township alle condizioni imposte da Israele.

Quest’estate sei importanti esperti per i diritti umani delle Nazioni Unite hanno inviato una lettera a Israele per protestare in base alle leggi internazionali contro le gravi violazioni dei diritti delle famiglie beduine e per sostenere che sarebbero possibili approcci alternativi.

Adalah”, l’associazione giuridica per i palestinesi in Israele, nota che Israele ha espulso a forza i beduini per settant’anni, trattandoli non come esseri umani ma come pedine nella sua battaglia senza fine per sostituirli con coloni ebrei.

Lo spazio vitale dei beduini si è incessantemente ridotto e il loro modo di vita è stato distrutto. Ciò contrasta crudamente con la rapida espansione delle città e fattorie di singole famiglie ebraiche sulla terra da cui i beduini sono stati cacciati.

È difficile non concludere che quello che sta avvenendo sia una versione amministrativa della pulizia etnica che i funzionari israeliani mettono in atto in modo più palese nei territori occupati sulla base di cosiddetti problemi di sicurezza.

Queste interminabili espulsioni sembrano meno una politica necessaria e ragionata e più un orribile tic nervoso ideologico.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente”] (Pluto Press), e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana”] (Zed Books).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I nostri ragazzi: un’altra storia della superiorità morale di Israele

Joseph Massad

10 Ottobre 2019 – Middle East Eye

I tentativi cinematografici dei sionisti americani di rappresentare la colonizzazione della Palestina come una “lotta ebraica per la liberazione nazionale” ottennero un enorme successo con il film “Exodus” del 1960. Il film rese popolare la causa sionista e rimane d’ispirazione per i giovani sionisti americani ed europei.

Exodus” non fa menzione della conquista della terra dei palestinesi e dell’espulsione della maggioranza della popolazione nativa, in quanto i nativi palestinesi vengono mostrati come se non fossero altro che odiosi ostacoli per gli ebrei che costruivano una patria solo per sé.

Superiorità morale 

Un progetto cinematografico più recente che, benché di successo, non ha avuto lo stesso effetto di “Exodus”, è stato il film di Steven Spielberg “Monaco” del 2005.

Il film riguarda lo spirito degli ebrei in Israele negli anni ’70, nel contesto della campagna di Golda Meir [primo ministro israeliano dal 1969 al 1974, ndtr.] per assassinare intellettuali palestinesi in tutta Europa e vendicare l’attacco contro gli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco del 1972.

Come ho sostenuto nella mia recensione al film, concentrandosi sulla superiorità morale degli ebrei, “Monaco” non si allontana molto dalla propaganda israeliana, che sostiene che i soldati ebrei “sparano e piangono”. Il fatto che la violenza palestinese sia sempre stata in risposta alla conquista e agli assassini sionisti nella logica di “Monaco” è irrilevante.

Il bombardamento da parte dell’aviazione israeliana dei campi di rifugiati in Libano e Siria, che uccise centinaia di rifugiati palestinesi immediatamente dopo la morte degli atleti israeliani, non compare affatto nel film e non sembra compromettere lo spirito degli ebrei israeliani.

Monaco” si chiede se la politica terroristica contro singoli palestinesi scatenata da Meir possa essere stata sbagliata, ma insiste sul fatto che furono i palestinesi che imposero a Israele la scelta del terrorismo. La tesi di “Monaco” è che, poiché gli ebrei hanno un codice morale superiore, Israele non avrebbe dovuto rispondere ai palestinesi nello stesso modo.

I nostri ragazzi”

Questa è esattamente la premessa sottintesa alla nuova serie coprodotta dalla HBO [rete televisiva e di produzione USA, ndtr.] israeliana “I nostri ragazzi”, che recentemente è stata messa in onda su HBO e su Canale 12 in Israele. La serie inizia con il rapimento e l’uccisione di tre giovani coloni ebrei israeliani in Cisgiordania nel 2014 ad opera di due uomini palestinesi che, benché membri di Hamas, agirono di loro iniziativa.

Non veniamo a sapere molto sul rapimento degli adolescenti, la cui condizione di coloni viene appena menzionata, mentre i loro rapitori vengono semplicemente identificati come palestinesi. Questi ultimi non sono nominati fino all’ultimo episodio, quando veniamo informati che l’esercito israeliano li ha uccisi ed ha distrutto con un bulldozer le case delle loro famiglie.

Ma non sappiamo niente delle ragioni per cui i due palestinesi hanno rapito i tre giovani coloni, per non parlare delle loro vicende personali, o delle loro famiglie che vivono a Al-Khalil (Hebron) e della loro lotta contro l’occupazione israeliana e la violenza dei coloni ebrei.

La campagna israeliana che fece seguito al rapimento portò a incursioni dell’esercito israeliano in 1.300 case e negozi palestinesi, all’arresto di più di 800 palestinesi e all’uccisione di 9 di loro. Ma tutto questo non interessa a “I nostri ragazzi”, che si concentra sull’angoscia dell’opinione pubblica ebreo-israeliana.

É in seguito alla scoperta che i tre adolescenti erano stati uccisi, e alla successiva violenza popolare ebraica nelle strade di Gerusalemme e altrove contro civili palestinesi, che si sviluppa la storia dell’uccisione per “vendetta” del sedicenne palestinese Mohammad Abu Khdeir, bruciato vivo da tre coloni ebrei (due cugini adolescenti e il loro zio).

Il rapimento per vendetta

La storia dei tre adolescenti uccisi aleggia sulla serie come la causa principale di tutto quanto si svolge. La serie descrive angosciosamente la macabra vendetta del rapimento del ragazzo palestinese, che si trovava di fronte a casa sua quando venne rapito e strangolato dai due ragazzi ebrei, e poi picchiato con un piede di porco dallo zio che gli diede fuoco quando era ancora vivo.

L’angoscia della serie, e quella dell’opinione pubblica israeliana, è che non avrebbe potuto essere un crimine commesso da ebrei, perché, se gli ebrei lo avessero commesso, lo spirito e la moralità degli ebrei israeliani sarebbero stati compromessi.

Ci viene fornito ogni dettaglio sui terroristi ebrei. Vediamo lo zio suonare la chitarra e cantare per la figlia, preoccuparsi dei nipoti, lottare contro il sentimento di inadeguatezza con il padre (un rabbino mizrahi [ebreo di origini arabe, ndtr.] che tiene una propria scuola religiosa), preoccuparsi per la madre malata, cenare il sabato, fumare con i nipoti nel giardino della sua casa in una colonia ebraica in Cisgiordania, costruita su terra rubata ai palestinesi.

Scopriamo persino che ha traslocato là non per ideologia sionista, che motiva i coloni di destra ashkenaziti [ebrei di origine europea, ndtr.], ma per il basso costo delle case.

Vediamo anche i nipoti adolescenti nel loro contesto familiare. Il più giovane balbetta ed è emotivamente gravato dal peso delle aspettative dei suoi genitori ortodossi perché vada ad una scuola religiosa. Lo vediamo combattere con sentimenti di colpa e disperazione che manifesta durante sedute di cura con un terapista ashkenazita che si occupa della comunità ortodossa.

Sono preoccupazioni e problemi condivisi dal detective ortodosso dello Shabbak (servizio segreto interno di Israele) che risolve il caso. Proviene anche lui da un contesto ebreo ortodosso marocchino e si sente in colpa riguardo alla cura della sua anziana madre e per le aspettative di costei e del fratello ortodosso.

Disumanizzare i palestinesi

Nessuna di queste scene che rendono umani i personaggi riguarda i palestinesi che hanno ucciso i giovani coloni ebrei. In effetti gli unici palestinesi che meritano una piccola parte di scene umanizzanti sono quelle che riguardano i genitori di Abu Khdeir, ma non i suoi fratelli, salvo una minima attenzione per il fratello maggiore. Non vediamo la vita familiare di Abu Khdeir, se non nel contesto del lutto, con palestinesi anonimi che vanno a porgere le condoglianze.

Non li vediamo mai mentre cantano, cenano o si comprano regali a vicenda. Tuttavia li vediamo lavorare per clienti e padroni ebrei e assistiamo alla discussione tra il padre e il giovane Mohammad Abu Khdeir, innamorato di una ragazza profuga siriana a Istanbul, a cui ossessivamente scrive sul suo cellulare trascurando il lavoro.

Apprendiamo che Mohammad ama il ballo di gruppo, o dabkeh. Ma a parte questo, a Mohammad viene dedicata poca attenzione. Altri palestinesi che vengono fatti parlare non hanno una storia personale, tranne Abu Zuhdi, il cui figlio era stato ucciso dall’esercito israeliano e la cui casa è stata demolita come punizione per la sua resistenza all’occupazione.

Abu Zuhdi racconta rapidamente la sua storia, ma senza scene che umanizzino lui o la sua famiglia. A parte questo, i palestinesi vengono mostrati come una folla violenta che sconvolge la tranquillità della loro città occupata, dichiarata capitale di Israele.

Questa serie è trionfalista nel suo rispettare l’obiettività solo a parole, mostrando alcuni aspetti della sofferenza dei palestinesi e della situazione kafkiana in cui si trovano gli Abu Khdeir e gli interrogatori a cui vengono sottoposti.

Tuttavia la simpatia mostrata per gli Abu Khdeir impallidisce rispetto a quella mostrata per i tre terroristi ebrei e per le loro famiglie, al cui strazio e dolore “I nostri ragazzi” dedica la maggior parte delle scene.

Proteste contro la trasmissione

Eppure le discriminazioni che i palestinesi devono sopportare da parte della polizia, dell’apparato di sicurezza, delle leggi e dei tribunali israeliani sono ampiamente mostrati. Di conseguenza ciò ha suscitato la condanna da parte di israeliani che hanno scritto centinaia di lettere di protesta contro la trasmissione e da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu, che l‘ha definita “antisemita” e ha chiesto il boicottaggio del canale israeliano che la mette in onda. L’uccisione degli adolescenti israeliani scatenò l’attacco israeliano contro Gaza nell’estate 2014, provocando l’uccisione di 2.251 palestinesi, compresi almeno 551 minorenni, e il ferimento di 11.231 palestinesi, tra cui 3.436 minori.

I nostri ragazzi” mostra di sfuggita, senza dettagli, come i bombardamenti su Gaza siano stati raccontati dalla televisione israeliana. In realtà il giorno prima dell’uccisione di Mohammad la deputata israeliana Ayelet Shaked aveva invocato su Facebook il genocidio del popolo palestinese, una dichiarazione che ottenne migliaia di condivisioni. Meno di un anno dopo diventò ministra della Giustizia di Israele. Per quanto riguarda la serie, questi avvenimenti non sembrano minacciare la moralità israeliana.

Ma la morale della storia che “I nostri ragazzi” vuole raccontare è che i palestinesi che non si oppongono al razzismo e al colonialismo israeliani e che lavorano con o per gli ebrei (lo stesso Mohammad lavorava in un ristorante di proprietà di un israeliano) non meritano di avere un figlio bruciato vivo, in quanto ciò pregiudica la superiorità morale ebraica e danneggia lo spirito degli ebrei israeliani.

Un progetto ideologico

Invece i palestinesi che resistono ad Israele sembrano meritare di essere bruciati vivi con le bombe israeliane senza che ciò rappresenti alcuna minaccia per la superiorità morale di Israele. In effetti la serie, intitolata in ebraico “Ha-Ne’arim”, che significa “giovani uomini”, e maldestramente tradotto in arabo come “Fityan” [che significa “novizi”, ndtr.], è reso in inglese con “I nostri ragazzi”, dove il pronome possessivo si riferisce a Israele.

Il titolo inglese tradisce il progetto ideologico dei produttori della serie (nessuno di loro è palestinese) e dei suoi tre registi israeliani, uno dei quali è un palestinese cittadino di Israele, l’altro un ebreo israeliano ashkenazita e il terzo un colono ebreo americano arrivato da New York con la sua famiglia ortodossa quando aveva 5 anni.

Alla fine della trasmissione i principi morali superiori di Israele e delle sue anime ebraiche sono vittoriosi, vista la condanna del tribunale contro i tre terroristi ebrei, anche se la corte si è rifiutata di accettare la richiesta degli Abu Khdeir di demolire le case degli assassini come Israele fa con i “terroristi” palestinesi.

A parte ciò, “I nostri ragazzi”, come il film “Monaco”, non si stanca di ricordarci che la minaccia alla superiorità morale di Israele e della sua anima ebraica viene dai palestinesi violenti che resistono e non dalle conquiste coloniali, dall’occupazione militare e dal razzismo istituzionalizzato di Israele.

Così facendo, “I nostri ragazzi” segue le orme dell’affermazione razzista di Golda Meir che riassunse perfettamente l’argomento principale della serie: “Possiamo perdonarvi di uccidere i nostri figli, ma non potremo mai perdonarvi di farci uccidere i vostri.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Joseph Massad è professore di politica araba contemporanea e di storia del pensiero alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e di articoli accademici e giornalistici. I suoi libri comprendono: ‘Colonial effects: the making of National identity in Jordan’ [Effetti colonialisti: la creazione di un’identità nazionale in Giordania], ‘Desiring arabs’ [Arabi desideranti], ‘The persistence of the palestinian question: essays on zionism and the palestinians’ [La persistenza della questione palestinese: saggi su sionismo e palestinesi], ed il più recente ‘Islam in liberalism’ [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e i suoi articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 1- 14 ottobre 2019 (due settimane)

Il 4 ottobre, ad est di Jabalia (Gaza nord), vicino alla recinzione israeliana di Gaza, un palestinese 28enne è stato ucciso dalle forze israeliane durante una manifestazione della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR).

Un altro palestinese, 20enne, è morto il 7 ottobre per le ferite riportate durante una protesta svolta nell’aprile 2019. Dal marzo 2018, data di inizio delle proteste GMR, sono stati complessivamente uccisi 210 palestinesi, tra cui 46 minori. Inoltre, nel corso delle proteste tenute durante il periodo di riferimento [1-14 ottobre], sono stati feriti dalle forze israeliane 261 palestinesi (di cui 127 minori); 48 di loro presentavano ferite di arma da fuoco. Fonti israeliane hanno riferito che contro le forze israeliane sono stati lanciati ordigni esplosivi improvvisati, bombe a mano e bottiglie incendiarie; inoltre ci sono stati diversi tentativi di forzare la recinzione: non sono state riportate vittime israeliane. Jamie McGoldrick, Coordinatore umanitario per i Territori palestinesi occupati, in una dichiarazione rilasciata prima della protesta dell’11 ottobre, organizzata sul tema “Our Child Martyrs”, ha invitato Israele e Hamas a proteggere i minori, ribadendo che “i minori non devono mai essere il bersaglio di violenza, né dovrebbero essere messi a rischio di subire violenza o essere incoraggiati a partecipare alla violenza”.

In almeno 18 occasioni non collegate alla GRM, allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi], le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso aree [interne] di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e [in mare] al largo della costa; non sono state riportate vittime. In un’altra occasione, le forze israeliane hanno arrestato tre civili palestinesi, incluso un minore che, presumibilmente, avevano tentato di entrare illegalmente in Israele attraverso la recinzione.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 37 palestinesi, tra cui almeno due minori. Tale numero [37] rappresenta una riduzione significativa rispetto alla media bisettimanale di ferimenti di palestinesi (129), registrata dall’inizio del 2019. 14 dei 37 ferimenti si sono verificati venerdì 4 e 11 ottobre a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le proteste settimanali contro l’espansione degli insediamenti [colonici] e contro le restrizioni di accesso. Altre 10 persone sono rimaste ferite nei giorni 1 e 4 ottobre, vicino al checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah), in due manifestazioni tenute in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame. In un altro caso, avvenuto il 5 ottobre nel villaggio di Azzun (Qalqiliya), un bambino di un anno e una donna hanno subìto lesioni causate da inalazione di gas: la loro casa è parzialmente bruciata a causa di un incendio innescato da candelotti lacrimogeni lanciati dalle forze israeliane durante scontri con i residenti palestinesi. Complessivamente, quasi la metà dei feriti è stata curata per inalazione di gas lacrimogeno, il 38% per lesioni provocate da proiettili di gomma; i rimanenti erano stati aggrediti fisicamente o feriti con armi da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 152 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 101 palestinesi, tra cui quattro minori. La maggior parte delle operazioni sono state condotte nel governatorato di Ramallah (42), seguita dai governatorati di Hebron (35) e Gerusalemme (33).

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o costretto le persone ad autodemolire 31 strutture; come conseguenza, 52 persone sono state sfollate ed altre 98 hanno subito ripercussioni [segue dettaglio]. L’episodio più consistente si è verificato nel quartiere di Jabal al Mukabbir, a Gerusalemme Est, dove sono state prese di mira 13 strutture, tra cui una abitazione; rappresentanti delle famiglie colpite hanno riferito di non aver ricevuto ordini di demolizione, né alcun preavviso. Sempre a Gerusalemme Est, nel quartiere di Beit Hanina, palestinesi sono stati costretti ad autodemolire tre edifici abitativi, provocando lo sfollamento di sei famiglie di rifugiati. A Gerusalemme Est, oltre un quarto delle demolizioni di quest’anno (46 su 173 strutture) sono state eseguite dagli stessi proprietari palestinesi, principalmente per evitare di pagare al Comune il costo della demolizione. In Area C, una delle undici strutture demolite era un pannello solare finanziato da donatori, fornito come assistenza umanitaria in risposta a una precedente demolizione avvenuta nella Comunità di Shib al Harathat (Hebron). Ad oggi, il numero di strutture demolite quest’anno in Cisgiordania rappresenta un aumento di quasi il 40% rispetto al corrispondente periodo del 2018.

Durante il periodo di riferimento, in occasione delle festività ebraiche, le autorità israeliane hanno bloccato su larga scala, per cinque giorni, gli spostamenti tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania; il provvedimento ha colpito i titolari di permessi palestinesi, compresi i commercianti. Sono state fatte eccezioni per emergenze sanitarie e, in Cisgiordania, anche per studenti e impiegati palestinesi presso ONG internazionali e agenzie delle Nazioni Unite. Per israeliani e titolari di documenti di identità di Gerusalemme, coloni compresi, gli spostamenti tra Israele e la Cisgiordania sono proseguiti senza restrizioni. Inoltre, a Tulkarm e Jenin, a causa delle festività ebraiche, le autorità israeliane hanno rimandato fino al 23 ottobre l’apertura dei cancelli della Barriera della Cisgiordania, interrompendo l’accesso degli agricoltori alle loro terre per la raccolta delle olive.

La stagione della raccolta delle olive, iniziata ai primi di ottobre, è stata interrotta in diverse aree dalla violenza di coloni israeliani. Gli episodi includono l’aggressione fisica ed il ferimento di tre contadini palestinesi a Tell e Jit (entrambi a Nablus) e Al Jab’a (Betlemme). Includono inoltre l’incendio di circa 100 ulivi e sette furti di raccolti nei villaggi di Kafr ad Dik (Salfit) e Burin (Nablus). Per i palestinesi, la stagione della raccolta delle olive, che si svolge ogni anno tra ottobre e novembre, è un evento chiave, sia dal punto di vista economico che sociale e culturale.

Altri cinque attacchi di coloni hanno provocato ferimenti di palestinesi e danni alle proprietà. In due di questi attacchi, verificatesi nella zona della città di Hebron controllata da Israele e nella Comunità di Khirbet al Marajim, quattro palestinesi, tra cui un minore e una donna, sono stati aggrediti e feriti fisicamente da coloni israeliani. In altri due casi, avvenuti nei villaggi di Qira e Marda (entrambi a Salfit) oltre 20 veicoli e alcune abitazioni sono stati vandalizzati; in altri due casi separati due veicoli sono stati colpiti da pietre e danneggiati. Finora, nel 2019, OCHA ha registrato 243 episodi in cui coloni israeliani hanno ucciso o ferito palestinesi o danneggiato proprietà palestinesi. Questo numero indica un limitato aumento rispetto al corrispondente periodo del 2018 (213 casi), ma un numero di casi quasi doppio rispetto al 2017 (124).

Media israeliani hanno riportato tre episodi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli o case di coloni israeliani: non sono state segnalate vittime o danni. Finora, nel 2019, OCHA ha registrato 84 episodi in cui palestinesi hanno ucciso o ferito coloni o altri civili israeliani oppure danneggiato le loro proprietà: un declino rispetto al numero di episodi verificatisi nei corrispondenti periodi del 2018 (141 episodi) e 2017 (211 episodi).

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Per proteggere i suoi alleati curdi, Israele deve scendere in campo contro la Turchia

Eitay Mack

15 ottobre 2019 – +972

Israele ha ripetutamente contribuito a genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di guerra vendendo armi, addestramento e competenze tecniche a regimi omicidi. Questo rende difficile credere che farà la cosa giusta per quanto riguarda i curdi.

Il mondo sta guardando con allarme l’esercito turco che inizia l’invasione militare della roccaforte curda nel nord-est della Siria; molti osservatori paventano imminenti crimini di guerra, crimini contro l’umanità e persino genocidio contro i curdi. Non c’è assolutamente alcun dubbio che il successo della Turchia nell’impedire il riconoscimento internazionale del genocidio armeno tra il 1915 e il 1923 abbia incoraggiato Erdoğan a commettere orribili crimini contro il popolo curdo nel 2019.

È probabile che l’invasione rafforzi anche l’ISIS e porti al ristabilimento del cosiddetto Stato islamico, dopo che tanti curdi hanno sacrificato le loro vite per distruggerlo.

Il governo israeliano si trova ora nella difficile posizione di dover scegliere tra due alleati storici. La storica alleanza di Israele con i curdi risale agli anni ’50, quando David Ben Gurion stabilì la sua dottrina regionale, secondo la quale il ministero degli Esteri perseguì alleanze strategiche con attori non arabi in Medio Oriente. Con gli auspici di questa dottrina, Israele ha fornito supporto militare, politico e morale ai curdi. Nel 2017 Netanyahu è arrivato al punto di annunciare che Israele appoggia l’istituzione di uno Stato curdo indipendente.

Allo stesso tempo, e sempre con l’etichetta di dottrina regionale, Israele ha stretto un’alleanza diplomatica e di sicurezza con la Turchia. Tale rapporto si è approfondito dopo la firma degli Accordi di Oslo. Nel 1996 i due Paesi hanno firmato un accordo di cooperazione militare, e la Turchia negli anni successivi ha acquistato miliardi di dollari di armamenti e tecnologia di difesa da Israele. Secondo vari rapporti, Israele ha aggiornato i velivoli e i carri armati turchi e ha venduto al Paese sistemi radar, missili, droni e munizioni. Inoltre l’esercito israeliano ha inviato del personale per addestrare ufficiali e soldati dell’esercito turco.

Nel 1950, Israele ha approvato una legge sulla prevenzione e la punizione del genocidio. Ha anche ratificato la Convenzione sul Genocidio, che ha stabilito il dovere di fare tutto ciò che è in suo potere per prevenire un genocidio.

Al di là delle implicazioni legali e morali, lo Stato di Israele non ha mai abbandonato un alleato. Se ignorasse il genocidio dei curdi nella Siria nord-orientale, Israele stabilirebbe un pericoloso precedente storico con conseguenze di vasta portata per la sua politica estera e la sicurezza nazionale.

I successivi governi israeliani e i ministri della Difesa hanno sfidato la fiducia dell’opinione pubblica aiutando ripetutamente genocidi, crimini contro l’umanità e crimini guerra in tutto il mondo vendendo armi, addestramento e competenza tecnica a regimi omicidi. Questi precedenti rendono difficile credere che faranno la cosa giusta per quanto riguarda i curdi.

L’apoteosi di questo cinismo è stata la decisione di Israele di sostenere la Turchia nel negare il genocidio armeno. Secondo gli stessi dati del ministero, nel 1987 i funzionari del ministero degli Esteri israeliano hanno aiutato la Turchia a fare pressioni affinché il Congresso degli Stati Uniti abolisse il voto per istituire il 24 aprile come giorno commemorativo del genocidio armeno.

In un telegramma del 7 giugno 1987 Yitzhak Laor, vicedirettore del settore del Medio Oriente presso il Ministero degli Esteri, scrisse che gli israeliani hanno agito in modo molto discreto in questa faccenda perché sapevano che se fossero stati associati al tentativo di negare il genocidio armeno “anche indirettamente”, Israele avrebbe “dovuto affrontare un grande scandalo”, sia a livello nazionale che internazionale.

Oded Eran, allora vice capo dell’ambasciata israeliana a Washington, il 12 agosto 1987 scrisse di sentirsi “molto a disagio” per essere intervenuto a bloccare la decisione di stabilire un giorno di commemorazione del genocidio armeno. “Non è opportuno che un rappresentante dello Stato ebraico sia coinvolto in questo argomento,” riassunse.

In un altro inquietante incidente, il ministero degli Esteri israeliano collaborò con la Turchia per esercitare forti pressioni sul Museo per la Memoria dell’Olocausto degli Stati Uniti per annullare il progetto di una mostra sul genocidio armeno. Un documento del ministero degli Esteri del marzo 1988 riporta che Abe Foxman, allora direttore dell’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, importante associazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] si unì a Israele nel tentativo di bloccare una mostra sul genocidio armeno, arrivando al punto di minacciare di dimettersi dal consiglio di amministrazione del museo. Diciotto anni dopo, sotto il successore di Foxman, Jonathan Greenblatt, l’Anti-Defamation League modificò completamente la propria posizione e riconobbe ufficialmente il genocidio armeno.

I testimoni di un imminente massacro non hanno il diritto di stare in silenzio. L’assicurazione di Netanyahu secondo cui Israele fornirà aiuto umanitario ai curdi non è sufficiente. Ricorda una situazione simile nel luglio 1994, quando Israele inviò aiuti umanitari alla frontiera del Rwanda per aiutare i sopravvissuti al genocidio perpetrato dagli hutu armati con armi israeliane.

L’opinione pubblica israeliana deve immediatamente chiedere che i suoi parlamentari prendano le seguenti iniziative:

  1. Inviare un messaggio inequivocabile a Erdoğan: la Turchia non deve perpetrare crimini contro il popolo curdo con armi israeliane;

  2. Annunciare che Israele congelerà i propri rapporti commerciali con la Turchia (nel 2017 ammontavano a 1,4 miliardi di dollari);

  3. Israele deve espellere l’ambasciatore turco in Israele e richiamare l’ambasciatore israeliano in Turchia;

  4. Israele deve riconoscere il genocidio armeno.

Eitay Mack è un giurista israeliano dei diritti umani che lavora per interrompere l’aiuto militare israeliano a regimi che commettano crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano )




Settant’anni a sparare ai rifugiati

Jake Batinga 

8 ottobre 2019 – The Electronic Intifada 

Dal marzo del 2018 si sono tenute a Gaza delle proteste settimanali, note come la Grande Marcia del Ritorno.

I dimostranti esigono che alle persone sradicate dalle forze sioniste durante la Nakba, la pulizia etnica della Palestina nel 1948 sia permesso di tornare a casa. Questo diritto al ritorno era stato riconosciuto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 194, approvata nel dicembre del 1948.

Israele ha risposto con brutalità alle richieste che sia rispettato questo diritto fondamentale. Oltre 210 palestinesi sono stati uccisi durante la Grande Marcia del Ritorno e oltre 9000 sono stati feriti da proiettili veri.

Oltre a pretendere che il diritto al ritorno sia rispettato, negli ultimi settant’anni i rifugiati palestinesi hanno cercato, di tanto in tanto, di esercitare quel diritto e sono stati trattati con estrema violenza.

Negli anni seguenti l’adozione della risoluzione 194 dell’ONU, molti abitanti di Gaza hanno cercato di attraversare il confine con Israele, Stato di recentissima costituzione. Con un’espressione di sapore orwelliano le autorità israeliane hanno definito questi rifugiati che cercavano di tornare degli “infiltrati.”

Nel suo libro Le guerre di confine di Israele. 1949-1956, lo storico Benny Morris scrive che le cosiddette infiltrazioni erano “una conseguenza diretta dell’espropriazione di centinaia di migliaia di palestinesi.”

I rifugiati cercavano di ricongiungersi con le proprie famiglie, di coltivare i campi, di recuperare le proprietà perdute e naturalmente di rivedere le loro vecchie case.

Sparare a “tutto ciò che si muove”

Le guerre di confine di Israele fu pubblicato nel 1997 – sette anni prima che Morris sostenesse che le forze sioniste avrebbero dovuto espellere tutti i palestinesi negli anni ’40. Nonostante i suoi tentativi di difendere la pulizia etnica, Morris non ha mai ripudiato gli importanti fatti che aveva in precedenza scoperto.

Grazie al suo lavoro noi continuiamo a scoprire molto sui crimini commessi nel nome di Israele e della sua ideologia di Stato, il sionismo.

Egli racconta, per esempio, di come Israele abbia applicato la politica di “fuoco a volontà” contro i rifugiati che cercano di ritornare a casa. Secondo Morris, le forze israeliane “sparavano a tutto ciò che si muoveva” e spesso giustiziavano “sul posto” dei rifugiati feriti. 

In conseguenza di questa politica di fuoco indiscriminato, dal 1949 al 1956 sono stati uccisi tra i 2700 e i 5000 rifugiati, per la gran parte civili disarmati. Morris scrive inoltre che “nessun soldato, poliziotto o civile israeliano è mai stato processato per aver sparato e ucciso un infiltrato arabo disarmato.”

Mentre i rifugiati palestinesi venivano massacrati quando tentavano di esercitare il loro diritto al ritorno, il parlamento israeliano, la Knesset, nel 1950 approvò la legge cinicamente chiamata “ del ritorno” che garantiva agli ebrei in tutto il mondo il diritto di ottenere la cittadinanza israeliana e vivere in Israele.

Quelli che immigravano in Israele, molti dei quali erano sopravvissuti all’Olocausto, spesso si insediavano nelle case vuote dei rifugiati palestinesi.

Un’altra politica implementata contro i rifugiati palestinesi che cercavano di tornare a casa era nota come “ritorsione.”

Israele “operava rappresaglie” facendo incursioni nei villaggi in Giordania, Egitto, Gaza e Siria. Questi raid avevano lo scopo di punire le comunità che si presumeva avessero aiutato il rientro dei rifugiati.

Nel suo libro Il muro di ferro. Israele e il mondo arabo lo storico Avi Shlaim scrive che le rappresaglie erano in realtà “una forma di punizione collettiva contro interi villaggi.”

Un caso di “rappresaglia” degno di nota è avvenuto nell’ottobre del 1953 nel villaggio giordano di Oibya.

Secondo il libro di Shlaim, i commando israeliani assalirono Oibya e costrinsero gli abitanti a restare nelle proprie case, che poi furono fatte saltare in aria con dentro la gente. Almeno 69 persone furono uccise, la maggioranza donne e bambini.

Il capo di questo raid era un giovane comandante di nome Ariel Sharon, che in seguito fu soprannominato “il macellaio di Beirut” per il suo ruolo nel massacro di massa del 1982 in Libano nei campi di rifugiati palestinesi di Sabra e Shatila.

Addossare la colpa agli altri

Israele ha costantemente cercato di dare la colpa delle sue violenze agli altri.

Negli anni ’50, il governo israeliano incolpava i governi arabi e gli stessi rifugiati palestinesi. Secondo Shlaim, Israele sosteneva che l’uccisione di civili era “una forma legittima di auto-difesa.”

Parole identiche, o quasi, vengono usate oggi dai leader politici di Israele.

Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele, ha invocato “l’auto-difesa” per cercare di giustificare l’uccisione di manifestanti disarmati a Gaza. L’anno scorso, dopo un massacro israeliano a Gaza, Netanyahu ha affermato che lo Stato stava agendo per “proteggere la sua sovranità e la sicurezza dei suoi cittadini.”

Quando è stato trasmesso un video che mostrava le truppe israeliane esultare allegramente e ridere mentre un cecchino sparava a un manifestante, i politici israeliani si sono affrettati a difendere i soldati.

Avigdor Lieberman, l’allora ministro della Difesa israeliano, dichiarò che il cecchino nel video “meritava una decorazione.” Naftali Bennett, anche lui all’epoca ministro del governo, disse che “giudicare i soldati perché non si esprimono elegantemente mentre stanno difendendo i nostri confini non è serio.”

Oggi il governo di Israele denigra i manifestanti di Gaza chiamandoli “terroristi.” Benny Morris ha fatto notare che “infiltrato”, il termine usato per i rifugiati palestinesi che cercano di tornare a casa, è rapidamente diventato sinonimo di “terrorista.”

Nello stesso modo in cui le autorità israeliane hanno tentato di sfuggire alla responsabilità dei loro attacchi sui vicini arabi negli anni ’50, i politici di oggi cercano di dare la colpa delle morti dei manifestanti a Gaza ad Hamas.

Lieberman ha asserito che “nessun civile innocente” ha preso parte alle proteste a Gaza, che lui ha soprannominato la “marcia del terrorismo.” Tutti i manifestanti, secondo Lieberman, sono membri di Hamas.

Si può interpretare in modo diverso: i palestinesi hanno combattuto per i loro diritti negli anni immediatamente dopo la Nakba, così come stanno facendo nel ventunesimo secolo.

La brutalità di Israele continua e così fa anche la lotta contro Israele.

Jake Batinga è uno scrittore e attivista basato in California. È vissuto nella città di Hebron nella Cisgiordania occupata quando lavorava con l’International Solidarity Movement, [movimento internazionale di solidarietà e lotta non violenta per la liberazione della Palestina, ndtr.] per documentare le violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito israeliano e dei coloni.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Israele non ha mai avuto intenzione di rispettare né il Piano di partizione del 1947 né i confini del 1967

Thomas Suárez

10 ottobre 2019 Middle East Monitor

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva promesso che avrebbe annesso parti della Cisgiordania occupata se fosse stato rieletto alle elezioni del mese scorso, suscitando indignazione nei leader di tutto il mondo. Tuttavia, quella “promessa” di usurpare non solo la Cisgiordania ma tutta la Palestina, è una notizia vecchia di un secolo, una promessa mantenuta e comunque nessuna indignazione internazionale ha mai avuto una qualche importanza.

Un logoro capitolo del mito della creazione di Israele spiega così le sue conquiste: quando, nel novembre del 1947, le Nazioni Unite proposero di dividere la Palestina in due Stati (Risoluzione dell’Assemblea Generale 181), i fondatori di Israele accettarono l’offerta con gratitudine, mentre i palestinesi la derisero e attaccarono il nascente “Stato ebraico”.

Il risultato di questa presunta intransigenza palestinese? La “cosa fondamentale”, come affermano gli spin-doctor israeliani di CAMERA [Comitato per la correttezza di corrispondenze e analisi in Medio Oriente,ndtr.], è che se i palestinesi avessero accettato la divisione, dal 1948 ci sarebbe stato uno Stato palestinese, “e non ci sarebbe stato neppure un rifugiato palestinese”.

Questa è più che una bizzarra razionalizzazione di sette decenni di imperialismo e pulizia etnica; è un’invenzione storica. Il movimento sionista non ha mai avuto alcuna intenzione di rispettare qualsiasi accordo che gli “desse” meno dell’intera Palestina. Importanti leader come il “moderato” Chaim Weizmann e l’iconico David Ben-Gurion finsero di accettare la partizione perché consegnava loro un’arma abbastanza potente per ostacolare la divisione: lo Stato.

Quando la Gran Bretagna accettò di diventare un benefattore del sionismo, codificato con l’ambigua Dichiarazione Balfour del 1917, i suoi negoziatori sapevano benissimo che i sionisti avevano pianificato di usurpare e ripulire etnicamente la Palestina, e che al contrario le assicurazioni della Dichiarazione erano una bugia. Come lamentava Lord Curzon [politico conservatore britannico e ministro degli Esteri dal 1919 al 1924, ndtr.], i propagandisti del sionismo “hanno cantato una melodia diversa in pubblico” – una melodia che i principali media continuano a canticchiare oggi.

Nel 1919, gli attivisti come Weizmann erano già esasperati dall’incapacità della Gran Bretagna di stabilire uno Stato sionista dal Mediterraneo al fiume Giordano [cioè su tutta la Palestina storica, ndtr.] – per cominciare – e spingevano perciò verso un “piano di emigrazione globale” dei non ebrei per avere la pulizia etnica fatta e finita. La menzogna pubblica fu mantenuta; il colonnello britannico Richard Meinertzhagen assicurò Weizmann che il vero piano era “ancora taciuto al grande pubblico”. Né il pubblico fu informato quando, nello stesso anno, la commissione King-Crane degli Stati Uniti andò nella regione per scoprire da sé che “i sionisti non vedevano l’ora di una espropriazione praticamente completa degli attuali abitanti non ebrei della Palestina”. Il rapporto della Commissione venne insabbiato.

Fu nel 1937 che i disordini causati dall’espropriazione portarono gli inglesi a proporre di spartire la terra. Ben-Gurion vide il potenziale nascosto nella partizione: “A seguito dell’istituzione dello Stato”, disse all’esecutivo sionista, “aboliremo la divisione e ci espanderemo in tutta la Palestina”. Fece la stessa promessa a suo figlio Amos.

Quando Ben-Gurion, Weizmann e gli altri si incontrarono a Londra nel 1941 per discutere un piano futuro, il cinico distacco fu agghiacciante. Avrebbero gli “arabi” avuto uguali diritti nello “Stato ebraico”? Certo, ma solo dopo che non ne fosse rimasto più nessuno. La partizione sarebbe stata ragionevole? Certamente, se il confine fosse stato il fiume Giordano (che significava il 100 % della Palestina ad Israele), estensibile perfino nel regno hascemita della Giordania. Un partecipante sfidò i sionisti; l’industriale Robert Waley Cohen li accusò di seguire un’ideologia nazista.

Nel 1944, gli inglesi sapevano che l’opposizione alla spartizione si era “indurita a tutti i livelli dell’opinione pubblica ebraica [sionista]” e che le nuove risoluzioni tra i leader dei coloni ponevano “un’enfasi speciale sul rifiuto della spartizione”. Ma il fallimento della spartizione sarebbe diventato un problema palestinese. Gli inglesi sarebbero tornati a casa.

Ben-Gurion descrisse lo Stato come uno “strumento”, non il “fine”, una distinzione “particolarmente rilevante per la questione dei confini”, che sarebbero invece stati fissati “prendendo il controllo del paese con la forza delle armi”. Quasi nessun pretesto è stato accampato fuori dalle mura delle Nazioni Unite: il presidente dell’Organizzazione Sionista d’America Abba Silver condannò pubblicamente qualsiasi menzione di partizione e chiese una “linea di azione aggressiva e militante” per prendere possesso di tutta la Palestina. Le milizie dell’Agenzia Ebraica erano impegnate a fare proprio questo, stabilendo freneticamente roccaforti in aree che le Nazioni Unite avevano assegnato ai palestinesi.

“La pace del mondo”, mise in guardia il futuro primo ministro israeliano Menachem Begin alle Nazioni Unite nell’estate del 1947 – dopo che il terrorismo sionista aveva già raggiunto l’Europa e la Gran Bretagna – sarà minacciata se “la [biblica] Patria Ebraica” non fosse stata data completamente ai sionisti. “Qualunque cosa possa essere firmata o promessa” alle Nazioni Unite, avvertì il Jewish Standard, sarebbe stata annullata da “il potere e la passione che si oppongono alla partizione” per una “risoluzione senza compromessi”.

Questo fanatismo di massa per “ristabilire” un antico regno ed essere la sua ipotetica popolazione era il risultato di quello che potrebbe essere descritto come un lavaggio del cervello. Già nel 1943 l’intelligence americana aveva segnalato che il sionismo stava alimentando “uno spirito molto simile al nazismo, (per) irreggimentare la comunità (e) ricorrere alla forza” per raggiungere i propri obiettivi. Avvertimenti simili sulla morsa fascista del sionismo sugli ebrei provenivano da individui interni ad esso, tra cui J.S. Bentwich, ispettore capo delle scuole ebraiche e presidente dell’Università ebraica Judah Magnes.

Il giorno prima che fosse approvata la risoluzione 181, la CIA avvertì nuovamente che i sionisti avrebbero ignorato la divisione e “intraprenderanno una forte campagna di propaganda negli Stati Uniti e in Europa” per ottenere più territorio. Poi però, come oggi, gli americani furono mantenuti all’oscuro: “Gli americani”, ha osservato nel 1948 Kermit Roosevelt, esponente dell’intelligence statunitense, non si rendono conto “della misura in cui è stata rifiutata l’accettazione della partizione come soluzione definitiva da parte dei sionisti in Palestina”.

Ironicamente, è stato perché le Nazioni Unite non hanno mai creduto che i sionisti avrebbero onorato i confini della spartizione che hanno “dato loro” un’area di terra sproporzionatamente ampia, sperando che ciò potesse ritardare la loro inevitabile aggressione. Ma l’inchiostro era a malapena asciutto quando il sindaco di Tel Aviv, presunta capitale del nuovo Stato, annunciò che la sua città “non sarebbe mai stata la capitale ebraica”. Lo sarebbe stata Gerusalemme, una violazione diretta della risoluzione delle Nazioni Unite per la partizione, che l’aveva designata come zona internazionale. L’Agenzia Ebraica affermò anche che “un certo numero di istituzioni nazionali” sarebbero state a Gerusalemme.

Il duplice atteggiamento nei confronti della loro “vittoria” alle Nazioni Unite non fu particolarmente celato. Sia il “liberale” Haaretz che il quotidiano sionista [della destra, ndtr.] Haboker, diedero un medesimo messaggio: “I giovani dello Yishuv [l’insediamento ebraico in terra d’Israele, ndtr.] devono mantenere nei loro cuori la profonda convinzione che le frontiere non sono state fissate per l’eternità”, affermava Haboker. Indipendentemente dal tempo ci vorrà, il resto sarà “restituito all’ovile”.

Una volta garantito uno Stato israeliano, gli avvertimenti della CIA si fecero anche più infausti: gli agenti sionisti si stavano infiltrando fra il personale militare americano e dell’American Airlines. L’ex senatore americano Guy Gillette lavorava apertamente per il gruppo terroristico Irgun e spinse per il riconoscimento generale della sovranità israeliana su tutte le terre che le sue milizie potessero conquistare.

Gerusalemme rimaneva la preoccupazione più pressante di Israele. Mentre la terra sotto il dominio “arabo” avrebbe potuto essere ad un certo punto usurpata, una Gerusalemme amministrata dalle Nazioni Unite no. E così quando il mediatore delle Nazioni Unite conte Folke Bernadotte stilò un nuovo piano di pace nell’autunno del 1948, il gruppo terroristico Lehi [noto anche come Banda Stern, ndtr.] lo minacciò, opponendosi ad una “amministrazione non ebrea”. Tuttavia, nella Risoluzione 181 Bernadotte mantenne la zona internazionale e il giorno successivo il Lehi, sotto la guida del futuro primo ministro israeliano Yitzhak Shamir, lo assassinò.

Alla fine del 1948 Israele aveva rubato più di metà della terra che aveva “accettato” di lasciare ai palestinesi e si rifiutò di lasciarla. Questo fu all’origine del termine fuorviante “confini del 1967”; in verità erano la linea del cessate il fuoco. La partizione era una farsa e i negoziatori palestinesi avevano ragione a respingerla, ma la loro onestà fu, dal punto di vista machiavellico, un errore tattico su cui i sionisti contavano. In breve, Israele non ha mai avuto intenzione di rispettare né il piano di partizione del 1947 né i confini del 1967. Il cosiddetto Grande Israele in tutta la Palestina storica e oltre è sempre stato l’obiettivo del sionismo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele guarda con nervosismo come Trump abbandoni i suoi alleati siriani

Lily Galili – Tel Aviv, Israele

 10 ottobre 2019 – Middle East Eye

Negli ultimi giorni la leadership israeliana ha imparato due cose: a non credere di sapere cosa farà il presidente USA e a non fidarsi di lui come alleato.

Durante il Capodanno ebraico è successa una cosa incredibile: per la prima volta il presidente Trump è stato paragonato, nei media israeliani, al suo predecessore, Barack Obama.

Non è cosa di poco conto. Per la maggioranza degli israeliani, che si colloca fra il centro e l’estrema destra, Trump è un idolo americano, il migliore amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca.

Barack Hussein Obama era, per quegli stessi israeliani, l’epitome di tutti i mali.

Secondo il Pew, un centro di ricerca con sede a Washington, uno studio recente ha rilevato che solo 2 Paesi su 37 preferiscono Trump a Obama: Russia e Israele.

E probabilmente è ancora così. Ma il senso di preoccupazione e di tradimento incombente, innescato dal ritiro improvviso delle truppe americane dal nord della Siria e dall’abbandono senza scrupoli dei curdi, alleati sia dell’America che di Israele, ora cancella l’iniziale adorazione.

Né i militari né i politici israeliani considerano la riduzione delle truppe Usa e l’offensiva militare turca che ne è seguita come un pericolo imminente per Israele.

Finora ‘i disordini’, come le fonti ufficiali tendono a descrivere la situazione, sono confinati a una regione lontana dal confine tra Israele e la Siria.

Ci sono comunque due elementi che preoccupano notevolmente Israele.

Uno è il fatto che questa mossa drammatica ha sorpreso persino i più alti livelli decisionali in Israele. Un altro è che Trump si è rivelato una delusione, in pratica un alleato inaffidabile.

Il giorno prima del drammatico annuncio di Trump, il governo israeliano aveva tenuto un lungo incontro di emergenza per discutere dell’Iran.

Fonti del governo ammettono che la decisione di Trump non era neanche stata menzionata, probabilmente perché neppure gli ufficiali più alti in grado ne erano a conoscenza.

È stata una totale sorpresa, cosa che l’ex direttore del dipartimento della sicurezza e diplomazia presso il Ministero della Difesa, il generale maggiore Amos Gilad, ha definito come “un errore nella valutazione e nella politica ai più alti livelli fra Israele e gli USA”.

Secondo Gilad, la politica estera di Trump ha impattato Israele in senso negativo più che positivo.

La sua politica di non reagire, quando l’Iran ha attaccato le installazioni petrolifere dell’Arabia Saudita o quando l’Iran ha abbattuto un drone americano, ha rivelato la sua debolezza. Questo è un male per Israele dato che il deterrente americano è anche un deterrente israeliano” ha detto il militare.

D’altro lato Trump è ancora un punto di forza quando abbiamo bisogno di lui nel Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite. Così la lezione per Israele ora è l’autosufficienza.”

Paura e tradimento

Sebbene “tradimento” non sia la parola ufficialmente pronunciata nel gergo politico, il sentimento è profondamente diffuso, insieme alla paura di quello che succederà.

Non c’è spazio per le sorprese”, ha detto a MEE il generale maggiore Amiram Levin, ex comandante militare del comando nord.

Per due anni ho denunciato che la politica di Israele è basata sulla falsa convinzione che Trump sia un grande amico. È ora che Israele capisca che, fino a quando Trump è al potere, Israele non ha nessuno su cui contare.”

Levin dice che gli israeliani devono abbandonare l’idea che Israele e gli USA siano un’unica cosa. Aggiunge inoltre che è stato “un grande errore” credere che Israele avrebbe diretto la lotta comune contro l’Iran.

È ora di limitarsi a obiettivi più realistici e limitati, e di focalizzarsi su situazioni che pongono un vero pericolo per Israele. L’Iran, così com’è ora, non lo è” ha detto Levin.

In sostanza il nocciolo della questione è non andare oltre il necessario solo perché possiamo, e certamente non vantarsene e non darsi delle arie.”

La reazione a livello popolare è non meno significativa di quella ufficiale e i commenti sui social hanno insinuato che, per Israele, Trump sia persino peggio di Obama.

Nel frattempo un articolo su “Mida”, un sito di destra molto vicino a Netanyahu ha insinuato che, dopo tutto, non c’è molta differenza fra i due presidenti USA.

Trump, come Obama, vuole far uscire l’America dal Medio Oriente, una regione che ha perso la sua importanza strategica. La differenza è che Trump lo fa con la sua inimitabile retorica” ha scritto Alex Greenberg sul sito.

Siamo ben lontani dai giorni, solo pochi mesi fa, quando Trump ha fatto un regalo a Netanyahu riconoscendo formalmente la sovranità israeliana sulle alture di Golan occupate.

L’atto fu suggellato da un bacio, un bacio vero, gesto non molto comune nella diplomazia occidentale.

Netanyahu ha ricambiato non solo con un bacio. Ha annunciato la fondazione di un nuovo insediamento nel Golan che prenderà il nome di Trump.

Questa potrebbe essere la parte divertente di una storia d’amore politica. Più seriamente, Netanyahu è stato il primo premier israeliano a giocare esclusivamente la carta repubblicana, a differenza dei decenni di politiche bipartisan adottate dal suo Paese in precedenza.

Si presumeva che quella love story sarebbe durata per sempre, sopravvivendo agli avvertimenti dell’opposizione israeliana e degli esperti, che ricordavano a Netanyahu che la sua relazione con Trump era basata su interessi che tendevano a cambiare.

Ma i loro consigli si sono rivelati preveggenti a settembre, quando Netanyahu non è riuscito a vincere nelle seconde elezioni parlamentari dell’anno.

Trump, l’uomo di “grande e incomparabile saggezza”, come lui stesso si è descritto in un tweet di pochi giorni fa, ama i vincitori. E Netanyahu improvvisamente non era più uno di loro.

A poche ore dagli exit poll, il presidente USA è diventato gelido con Netanyahu, nonostante il suo alleato fosse afflitto dalla crisi politica e dalle incombenti accuse di corruzione.

E tutto ciò proprio prima che Trump rendesse noto il suo piano di pace a lungo atteso fra Israele e la Palestina e siglasse un trattato di difesa che sarebbe stato una manna per Netanyahu.

Ora arriva il ritiro, l’abbandono dei curdi e la licenza di uccidere data ai turchi.

Confusi? È solo l’inizio, prima che le politiche internazionali siano tradotte in politiche interne da un primo ministro che sta ancora faticando a formare un governo.

(Traduzione di Mirella Alessio)