Sionismo e studi africani globali

Samar Al-Bulushi, Peter James Hudson, Zachary Mondesire, Corinna Mullin, Jemima PierreI

21 luglio 2019, Africa is a Country

Il 27 e 28 giugno di quest’anno, abbiamo partecipato a una conferenza dal titolo “Razzializzazione e Dimensione Pubblica in Africa e nella Diaspora Africana”, ospitata dal Centro Studi Africani dell’Università di Oxford e dalla sua Scuola di Studi Globali e di Area. La conferenza si è tenuta per “affrontare il problema contemporaneo della razzializzazione in Africa e nella diaspora africana”. Gli organizzatori intendevano analizzare come “le persone di origine africana vengano razzializzate … [e] perché e come in Africa e nella diaspora africana le identità e le categorie razziali siano costruite, immaginate e inscritte all’interno di processi, pratiche e rapporti sociali, politici ed economici.”

In realtà, una conferenza accademica internazionale sull’Africa Globale è stata cooptata in un progetto teso a legittimare lo Stato israeliano [fondato] sugli insediamenti coloniali e l’apartheid e a operare un “black-wash” [ripulita attraverso la matrice nera, n.d.tr.] delle sue politiche e pratiche razziste. In quanto tale, e alla luce dei continui tentativi di Israele di normalizzare le sue relazioni con gli Stati africani in coordinamento con l’imperialismo USA, ingraziandosi alle comunità della diaspora africana, vogliamo dare un monito ai futuri organizzatori della conferenza Black Studies e African Studies, i quali potrebbero avere a che fare con simili tattiche da parte delle organizzazioni sioniste.

Nell’invito originale, gli organizzatori della conferenza hanno usato i linguaggi dell’antirazzismo, anticolonialismo, panafricanismo e intersezionalità. Hanno invocato l’omicidio di Trayvon Martin e la detenzione illegale da parte del Regno Unito e le deportazioni di membri della generazione Windrush [bambini importati dai Caraibi in Gran Bretagna nel 1948, n.d.tr.], e hanno fatto riferimento al lavoro di intellettuali neri radicali tra cui W.E.B. Du Bois e Frantz Fanon. I 12 seminari della conferenza dovevano essere introdotti da linee guida dell’antropologa Faye V. Harrison e del filosofo Achille Mbembe (Mbembe non ha potuto partecipare).

Dei 12 seminari, due erano elencati sotto un solo titolo (con una Prima Parte e una Seconda Parte): “Nozioni di Diaspora e Patria: l’Impatto dell’Emergenza Contemporanea del (dei) Razzismo (Razzismi), Antisemitismo (Antisemitismi), Nazionalismo (Nazionalismi) e Supremazia Bianca nell’Era della Globalizzazione.” A prima vista, il titolo generale appariva innocuo. Sembrava correttamente accademico, anche se leggermente obsoleto, e sembrava rientrare nei temi espliciti della conferenza. Tuttavia, uno sguardo più attento alla composizione dei seminari ha rivelato alcune cose sorprendenti.

Entrambi i dibattiti erano organizzati da un gruppo chiamato Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy (ISGAP) – un’associazione di parte, non un’istituzione accademica. È stato fondato da Charles Asher Small, un canadese senza un definito ruolo accademico che ha conseguito una laurea presso il St. Anthony’s College a Oxford. In un’intervista del 2019, Small ha descritto l’ISGAP come “un movimento di base intellettuale all’interno dell’università” i cui obiettivi principali includono la lotta al movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), un movimento che Small ha identificato come anti-semita. L’ISGAP lavora “conducendo ricerche strategiche e fornendo informazioni” al fine di “influire sulle future generazioni di politici, studiosi e leader di comunità”.

Mentre altre organizzazioni sioniste hanno usato strumenti giuridici e ostracismo per smorzare la solidarietà verso i Palestinesi nei campus universitari, la strategia adottata dall’ISGAP sembra essere leggermente diversa. Da un lato, il suo approccio è di infiltrarsi negli ambiti studenteschi e di appropriarsi del linguaggio accademico. Dall’altro, mira a incitare al dissenso e al conflitto all’interno dei circoli accademici ai fini dell’auto-promozione e della propaganda, usando la bandiera del “libertà di parola accademica” come randello contro la critica.

I partecipanti dell’ISGAP alla conferenza di Oxford costituivano una strana compagine. Tra di loro c’erano un membro del partito Likud alla Knesset, uno psicologo clinico e un componente del consiglio dell’ISGAP che non aveva mai scritto niente sull’Africa, un antropologo del Grinnell College interessato alla “doppia coscienza” [concetto che si riferisce ai gruppi marginalizzati in una società oppressiva, n.d.tr.] e alla diversità israeliana, uno scienziato politico dell’università di Tel Aviv, nonché lo stesso Charles Small. Molti dei relatori dei due seminari dell’ISGAP provenivano dagli Historically Black Colleges and Universities (HBCUs) [College e Università Storicamente Neri, n.d.tr.] negli Stati Uniti. Tra questi c’erano Harold V. Bennett del Morehouse, Valerie Ann Johnson del Bennett College, Carlton Long, un consulente educativo un tempo del Morehouse, e Ansel Brown della North Carolina Central University. Brown ha utilizzato tutto il tempo assegnatogli per il primo dibattito dell’ISGAP per una presentazione di cinquanta minuti intitolata “Sionismo e Pan-Africanismo: Un Viaggio Comune per la Riconquista dell’Auto-Realizzazione Etnica”.

La connessione coll’ HBCU è importante. Negli ultimi anni, l’American Israel Public Affairs Committee [Commissione per gli Affari Pubblici Israeliani (AIPAC), principale gruppo lobbystico filoisraeliano negli U.S.A., n.d.tr.], di destra, ha fatto proselitismo nei college neri, puntando su studenti e docenti interessati alla politica internazionale. L’AIPAC ha sponsorizzato un viaggio a Washington DC per incontrare i politici che sono sostenitori di Israele e ha fornito viaggi completamente gratuiti in Israele. Il suo obiettivo è coltivare la simpatia per il sionismo mettendo nel frattempo in conflitto le lotte di liberazione dei neri e quelle dei Palestinesi.

Anche prima dell’inizio dei seminari dell’ISGAP, molti partecipanti alla conferenza hanno espresso preoccupazione per la loro inclusione nel programma. Erano turbati dalle asserite connessioni tra Israele, uno Stato fondato sulla pulizia etnica e sulla disumanizzazione ed espropriazione della popolazione palestinese autoctona, e le vicende radicali del Pan-Africanismo. Ed erano sorpresi e preoccupati per la preminenza data a questo tipo di visione dagli organizzatori della conferenza. Molti partecipanti alla conferenza hanno discusso del modo in cui i seminari sponsorizzati dall’ISGAP sembravano progettati per infiltrarsi ed interferire con il programma, rispecchiando ciò che si era visto in precedenti conferenze, specialmente quando si trattava di questioni relative al BDS.

Di conseguenza, i partecipanti alla conferenza hanno richiesto un dibattito pubblico con gli organizzatori al fine di discutere la relazione dell’ Oxford African Studies Centre con l’ISGAP. Ma le nostre domande e preoccupazioni sono state travisate, e in alcuni casi accolte con sprezzante ilarità, e siamo stati francamente sorpresi dalla riluttanza a sostenere una discussione aperta. Nel frattempo, alcuni partecipanti affiliati all’ISGAP hanno tentato di affossare le nostre richieste di chiarimento sostenendo che le nostre preoccupazioni incoraggiavano l’antisemitismo, il razzismo e, ironicamente, negavano la “libertà di espressione”.

Il secondo giorno della conferenza, diversi relatori hanno rinunciato al tempo a loro dedicato per l’intervento, dandoci l’opportunità di incontrarci per discutere delle nostre preoccupazioni. La maggioranza dei partecipanti alla conferenza ha preso parte alla riunione, durante la quale ha espresso soddisfazione per il fatto di essere stati in grado di riunirci come collettivo, soprattutto perché gli ambienti accademici spesso incoraggiano l’isolamento, l’atomizzazione e l’alienazione. Abbiamo redatto collettivamente una dichiarazione in cui ci dissociavamo dall’ ISGAP e abbiamo chiesto al Centro Studi Africani di Oxford di pubblicare la nostra dichiarazione sul loro sito web. Il Centro ha rifiutato di farlo. La direzione del Centro ha, invece, rilasciato una propria dichiarazione, negando qualsiasi connessione con l’ISGAP affermando nel contempo il proprio impegno a favore del libero scambio intellettuale.

Crediamo fermamente che parte della risposta del Centro Studi Africani avesse lo scopo di ovviare al fatto che così tanti partecipanti alla conferenza fossero infastiditi dalla presenza preminente dell’ISGAP. A tal fine, alcuni organizzatori della conferenza hanno persino insinuato che un eminente studioso di sesso maschile di alto livello avesse guidato questa protesta.

Non è stato affatto così. In realtà, nonostante gli sforzi degli organizzatori, come gruppo abbiamo spontaneamente preso il controllo della conferenza e l’abbiamo trasformata in un forum collettivo, auto-organizzato e multi-generazionale per l’educazione politica, imparando e facendo noi tutti nuove valutazioni e interventi in risposta all’opposizione da parte dell’African Studies Center e delle affiliate ISGAP. La nostra risposta scritta collettivamente è stata pubblicata sul sito web della Fondazione Frantz Fanon il 4 luglio 2019.

A dire il vero, c’era una certa ansia manifestata riguardo alla dichiarazione collettiva. Alcuni partecipanti erano preoccupati che se avessimo reso pubbliche le nostre obiezioni, avremmo coinvolto l’Oxford African Studies Centre, che avrebbe avuto gravi conseguenze sui tentativi di imprimere dei cambiamenti nell’università. In effetti, Charles Small dell’ISGAP, seduto tra il pubblico a seguire le nostre discussioni, ha suggerito di non fare nulla che potesse mettere a repentaglio la posizione del direttore del Centro (il primo docente nero della cattedra Rhodes di Oxford), che ha descritto come un vecchio amico.

Eravamo preoccupati della possibile reazione da parte di Oxford e altrove per quegli studenti laureati e per i docenti precari che volevano appoggiarci. Un certo numero di docenti senior era preoccupato per le rappresaglie e uno studioso, che all’ultimo minuto ha chiesto che il suo nome venisse rimosso dalla dichiarazione, ci ha invitati a “riconoscere l’atmosfera di intimidazione e paura alimentata durante questa vicenda”.

Ma alla fine, tra i firmatari (e tra i molti che hanno espresso sostegno, ma hanno ritenuto di non poter firmare), c’era la sensazione che non potessimo lasciare che lo studio sull’Africa Globale fosse ostaggio dei sionisti. Inoltre, non abbiamo potuto accettare la diffamazione e la profanazione della storia del pan-Africanismo da parte di finti accademici e agenti di uno Stato razzista e colonialista.

L’infiltrazione della conferenza da parte dell’ISGAP è stata poco più che una continuazione del razzismo sionista, rivestito della raffinatezza del linguaggio accademico e, in particolare, con gli abiti eleganti di Oxford. Ma dovremmo sottolinearne l’importanza e capire che tali infiltrazioni accadranno di nuovo.

Se vogliamo mantenere l’integrità politica e intellettuale dello studio dell’Africa Globale, dobbiamo diffidare in futuro di tali infiltrazioni – e, per combatterle, dobbiamo continuare a rafforzare e rinnovare, in tutto il mondo, le connessioni tra le lotte contro il neocolonialismo, il capitalismo basato sulla razza e l’imperialismo.

Traduzione: Aldo Lotta




La corsa di Israele in Africa: vendere acqua, armi e menzogne

Ramzy Baroud

23 luglio 2019 – Al Jazeera

Israele sta cercando di riscrivere la storia per entrare nei cuori dei cittadini africani, ma non ci riuscirà

Per anni, il Kenya è stato la porta di Israele verso l’Africa. Israele ha usato le forti relazioni politiche, economiche e di sicurezza tra i due Stati per espandere la sua influenza sul continente e mettere altre Nazioni africane contro la Palestina. Malauguratamente la strategia di Israele sembra, almeno in apparenza, avere successo: il sostegno storico e dichiarato dell’Africa alla lotta palestinese sulla scena internazionale sta diminuendo.

Il riavvicinamento del continente a Israele è una sventura, perché, per decenni, l’Africa è stata all’avanguardia nell’opporsi a tutte le ideologie razziste, incluso il sionismo, ideologia alla base della fondazione di Israele sulle rovine della Palestina. Se l’Africa cedesse alle lusinghe e alle pressioni israeliane e accettasse pienamente lo Stato sionista, il popolo palestinese perderebbe un partner prezioso nella lotta per la libertà e i diritti umani.

Ma non tutto è perduto.

Il mese scorso ho visitato Nairobi, capitale del Kenya, per partecipare a incontri con giornalisti, intellettuali, attivisti per i diritti umani e cittadini comuni del Paese, nel tentativo di contrastare parte della propaganda imposta negli ultimi anni dalla macchina israeliana dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.]. Considerando il successo di Israele nel penetrare i vari strati della società keniota, volevo indagare se fosse ancora in qualche modo possibile una solidarietà.

Alla fine della mia visita sono rimasto piacevolmente sorpreso, poiché ho scoperto che la “storia del successo” di Israele in Kenya e nel resto dell’Africa è superficiale e l’affinità tra Africa e Palestina è troppo profonda perché sia facilmente sradicata da una qualsiasi “campagna d’immagine” da parte di Israele.

La lunga storia della solidarietà africana con la Palestina

Secondo l’analista politico israeliano Pinhas Anbari, la “campagna d’immagine in Africa” di Israele è iniziata dopo che Israele ha fallito nel convincere gli Stati europei a sostenere le sue politiche nei confronti dei palestinesi.

“Quando l’Europa espresse apertamente il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese”, ha detto Anbara, “Israele ha preso la decisione strategica di rivolgersi all’Africa”.

Ma il sostegno dell’UE a uno Stato palestinese e le critiche occasionali alle colonie ebraiche illegali nei territori occupati non sono state le uniche ragioni alla base della decisione di Israele di concentrarsi sull’Africa.

La maggior parte dei Paesi africani, come la maggior parte dei paesi del sud del mondo, ha votato a lungo a favore delle risoluzioni filo-palestinesi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA), contribuendo ulteriormente al senso di isolamento di Israele sulla scena internazionale. Di conseguenza, riconquistare l’Africa – “riconquistare” perché l’Africa non è sempre stata ostile a Israele e al sionismo – è diventato un modus operandi delle relazioni internazionali israeliane.

Il Ghana riconobbe ufficialmente Israele nel 1956, otto anni appena dopo la sua nascita, e iniziò una tendenza che continuò tra i Paesi africani negli anni seguenti. All’inizio degli anni ’70, Israele aveva conquistato una posizione forte nel continente. Alla vigilia della guerra arabo-israeliana del 1973, Israele aveva rapporti diplomatici con 33 Paesi africani.

“La guerra di ottobre”, tuttavia, ha cambiato tutto. Allora, i Paesi arabi, sotto la guida egiziana, agivano, in certa misura, con una strategia politica unitaria. E quando i Paesi africani dovettero scegliere tra Israele, un Paese nato da intrighi coloniali occidentali, e gli arabi, che soffrivano per mano del colonialismo occidentale quanto l’Africa, scelsero naturalmente la parte araba. Uno dopo l’altro, i Paesi africani iniziarono a recidere i legami con Israele. Ben presto nessuno Stato africano tranne Malawi, Lesotho e Swaziland intrattenne relazioni diplomatiche ufficiali con Israele.

In seguito, la solidarietà del continente con la Palestina è andata anche oltre. L’Organizzazione dell’Unità Africana – il precursore dell’Unione Africana – nella sua dodicesima sessione ordinaria, tenutasi a Kampala nel 1975, fu il primo organo internazionale a riconoscere su larga scala il razzismo intrinseco nell’ideologia sionista di Israele, adottando la Risoluzione 77 (XII) [di sostegno alla popolazione palestinese e forte condanna di Israele, ndtr]. La stessa risoluzione è citata nella risoluzione UNGA 3379, adottata nel novembre dello stesso anno, che stabiliva che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. La risoluzione 3379 è rimasta in vigore fino a quando non è stata revocata dall’Assemblea nel 1991, dietro una veemente pressione americana.

Purtroppo, la solidarietà dell’Africa con la Palestina ha iniziato a erodersi negli anni ’90. In quegli anni il processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti ebbe un grosso slancio, dando luogo agli Accordi di Oslo e ad altri accordi che normalizzarono l’occupazione israeliana senza dare ai palestinesi i diritti umani fondamentali. Con molti incontri e strette di mano tra palestinesi e raggianti funzionari israeliani, presentati regolarmente sui media, molte Nazioni africane ebbero l’illusione che una pace duratura fosse finalmente a portata di mano. Alla fine degli anni ’90, Israele aveva riattivato i legami con ben 39 Paesi africani. Mentre i palestinesi perdevano sempre più terra grazie a Oslo, Israele ottenne molti nuovi alleati importanti in Africa e in tutto il mondo.

Eppure per Israele una “lotta per l’Africa” a tutto campo – come alleata politica, partner economico e cliente delle sue tecnologie della “sicurezza” e di armamenti – non si è manifestata apertamente che poco tempo fa.

La lotta di Israele per l’Africa

Il 5 luglio 2016, Benjamin Netanyahu ha dato il via alla corsa di Israele per l’Africa con una storica visita in Kenya, che ha fatto di lui il primo ministro israeliano a visitare l’Africa negli ultimi 50 anni. Dopo aver trascorso un po’ di tempo a Nairobi, dove ha partecipato al Forum economico Israele-Kenya accanto a centinaia di leader israeliani e kenioti, si è trasferito in Uganda, dove ha incontrato i leader di altri Paesi africani tra cui il Sud Sudan, il Ruanda, l’Etiopia e la Tanzania. Nello stesso mese, Israele ha annunciato il ripristino dei rapporti diplomatici tra Israele e Guinea.

La nuova strategia israeliana è iniziata lì. Sono seguite altre visite ad alto livello in Africa e annunci trionfali su nuove joint venture e investimenti economici.

Tuttavia, il primo ministro israeliano ha presto rilevato come gli sforzi diplomatici ed economici per conquistare l’Africa fossero insufficienti. Quindi, si è arreso alla riscrittura della storia per migliorare la posizione di Israele nel continente.

Nel giugno 2017, Netanyahu ha preso parte alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS), che si tiene nella capitale liberiana Monrovia. “Africa e Israele godono di una naturale affinità”, ha affermato Netanyahu nel suo discorso. “Abbiamo, sotto molti aspetti, storie simili. Le vostre Nazioni hanno sofferto duramente sotto il dominio straniero. Avete vissuto guerre e massacri orribili. La nostra storia è molto simile.”

Con queste parole, Netanyahu ha cercato non solo di coprire la brutta faccia del colonialismo sionista e di ingannare gli africani, ma anche di derubare i palestinesi della loro storia.

Nonostante l’evidente falsità delle “storie simili” di Netanyahu, l’offensiva del fascino di Israele in Africa è proseguita di successo in successo. Nel gennaio di quest’anno, ad esempio, il Ciad, nazione a maggioranza musulmana e geograficamente la più importante dell’Africa centrale, ha stabilito legami economici con Israele.

Cercando di affermarsi come partner delle Nazioni africane, Israele ha fornito alcuni aiuti a beneficio degli africani, come la fornitura di tecnologie solari, idriche e agricole alle regioni bisognose. Tuttavia, questi contributi hanno avuto un alto costo.

Quando, ad esempio, nel dicembre 2016, il Senegal ha sottoscritto la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che condannava la costruzione di insediamenti ebrei illegali nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, Netanyahu ha richiamato l’ambasciatore israeliano a Dakar e prontamente cancellato tutti i progetti di irrigazione a goccia del Mashav [l’Agenzia israeliana per lo Sviluppo e la Cooperazione Internazionale, ntr.] – i progetti erano stati precedentemente “ampiamente pubblicizzati come parte importante del contributo di Israele alla ‘lotta contro la povertà in Africa’ “.

Israele non solo si è servito così di progetti come questi per punire le nazioni africane quando queste abbiano mancato di fornire supporto cieco a Israele nei contesti internazionali, ha anche usato le sue nuove relazioni per trasformare l’Africa in un nuovo mercato per la vendita di armi.

Paesi africani come Ciad, Niger, Mali, Nigeria e Camerun, tra gli altri, sono diventati clienti delle tecnologie israeliane di “antiterrorismo”, gli stessi strumenti mortali attivamente utilizzati per reprimere i palestinesi nella loro eterna lotta per la libertà.

E tutto questo mentre Israele continua a promuovere la medesima mentalità razzista e coloniale che ha asservito e soggiogato l’Africa per centinaia di anni. La cosa sembra essere sfuggita ai leader africani che si sono messi in fila per ricevere sussidi e appoggio israeliani nella loro dubbia “guerra al terrorismo”. Inoltre, lo sfacciato razzismo anti-africano che impronta in generale la politica e la società israeliane non sembra avere alcuna conseguenza per il crescente fan-club di Israele in Africa.

Molti governi africani, compresi quelli di Nazioni a maggioranza musulmana, stanno dando a Israele esattamente ciò che vuole: un modo per uscire dal suo isolamento e legittimare l’apartheid.

“Israele si sta facendo strada nel mondo islamico”, ha detto Netanyahu durante la prima visita di un leader israeliano nella capitale del Ciad, Ndjamena, il 20 gennaio 2019. “Stiamo facendo la storia e stiamo trasformando Israele in una potenza globale in crescita”.

I palestinesi e gli arabi, naturalmente, hanno una parte di colpa in tutto ciò, per aver abbandonato i loro alleati africani nell’ inseguimento insensato, dopo le promesse di Stati Uniti e Occidente, di una pace che non si è mai realizzata. La politica araba è enormemente cambiata dalla metà degli anni ’70. Non solo i Paesi arabi non parlano più con una sola voce e, quindi, non hanno una strategia unificata per quanto riguarda l’Africa o il resto del mondo, ma alcuni governi arabi stanno attivamente tramando con Tel Aviv e Washington contro i palestinesi. La conferenza economica del Bahrain, che si è tenuta a Manama dal 25 al 26 giugno, è stata l’ultimo di questi eventi.

La stessa leadership palestinese ha allontanato la propria attenzione politica dal sud del mondo, soprattutto dopo la firma degli Accordi di Oslo. Per decenni, l’Africa ha avuto poca importanza nei calcoli angusti e auto-referenziali dell’Autorità Nazionale Palestinese. Per l’ANP, solo Washington, Londra, Madrid, Oslo e Parigi avevano un’importanza strategica – un errore politico deplorevole sotto tutti gli aspetti. Questo errore storico deve essere corretto prima che la storia del successo di Israele escluda i palestinesi da qualsiasi influenza in Africa e nel resto del sud del mondo.

Eppure, nonostante i molti successi nell’attirare governi africani nella propria rete di alleati, Israele non è riuscito a entrare nei cuori degli africani, che ancora vedono la lotta palestinese per la giustizia e la libertà come un’estensione della propria lotta per la democrazia, l’uguaglianza e i diritti umani.

È vero, Israele ha ottenuto il sostegno di parte della classe dirigente in Africa, ma non è riuscito a conquistare il popolo africano, che rimane dalla parte dei palestinesi. Durante la mia visita di 10 giorni nel loro Paese, i kenioti di ogni estrazione sociale mi hanno dimostrato il loro sostegno alla Palestina nel modo più confortante, autentico e naturale. 

A Nairobi, studenti, accademici e attivisti per i diritti umani si rapportano al popolo palestinese non come osservatori esterni simpatizzanti della loro lotta, ma come partner in una battaglia collettiva per giustizia, libertà e diritti. La sanguinosa lotta del Kenya contro il colonialismo britannico, la sua orgogliosa guerra di liberazione e i molti sacrifici per ottenere la libertà sono un’immagine quasi speculare dell’attuale lotta palestinese contro un altro nemico coloniale e razzista.

La Palestina sarà sempre vicina al cuore di tutti gli africani a causa della dolorosa e orgogliosa storia di colonialismo e resistenza che condividiamo. Con questa considerazione, i palestinesi dovrebbero rendersi conto del fatto che Israele sta attivamente cercando di riscrivere la loro storia e privarli della solidarietà di popoli che forse comprendono la loro situazione meglio di chiunque altro.

Sarebbe un’ingiustizia morale alla quale non dovrebbe essere permesso di avere la meglio. 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è editorialista noto a livello internazionale, consulente per i media e scrittore.

(traduz. di Luciana Galliano)




I manifestanti chiedono che Israele ammetta il rapimento di bambini yemeniti

2 Agosto 2019, Middle East Monitor

Alcuni Israeliani di origine yemenita hanno protestato di fronte alle residenze del presidente israeliano Reuven Rivlin e del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. La loro richiesta era il riconoscimento da parte di Israele di ciò che hanno definito come un rapimento, sostenuto dallo Stato, di bambini yemeniti durante i primi anni dell’istituzione dello Stato di Israele.

Giovedì Haaretz riportava che mercoledì sera circa 200 persone hanno preso parte alla marcia vicino alle abitazioni di Rivlin e Netanyahu.

Il giornale ha riferito che “I manifestanti portavano dei cartelli con le foto dei bambini e le date asserite in cui secondo loro i bambini sarebbero stati rapiti”.

Nel 2001 è stata costituita una commissione governativa per l’esame delle accuse di sparizione dei minori. La commissione ha successivamente concluso che “non esiste alcuna prova riguardo il rapimento sistematico di bambini yemeniti”.

Secondo il documento, “la commissione e i due precedenti comitati hanno concluso che la maggior parte dei bambini sia deceduta a causa di malattie”.

Le famiglie ed alcuni esperti legali hanno messo in dubbio l’efficacia e la professionalità della commissione e dei media che hanno pubblicato una serie di rapporti investigativi sulla questione.

Nel 2016 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “La questione dei bambini yemeniti è una ferita aperta che continua a sanguinare. Molte famiglie non conoscono il destino dei bambini scomparsi e cercano la verità “.

La manifestazione è stata organizzata dalla Fondazione Amram per celebrare “una giornata di sensibilizzazione su centinaia o migliaia di bambini scomparsi nati da immigrati ebrei provenienti dallo Yemen, da altri paesi del Medio Oriente e dai Balcani”. Amram aveva annullato in precedenza un incontro programmato con il presidente israeliano Reuven Rivlin quando, riferisce Haaretz, “[lui] ha rifiutato di chiedere il riconoscimento ufficiale di ciò che la fondazione ha descritto come un’ingiustizia per queste comunità”.

Le minoranze in Israele si lamentano regolarmente di ciò che descrivono come “discriminazioni praticate nei loro confronti da parte delle istituzioni ufficiali israeliane “.

(traduzione di Aldo Lotta)




L’iniziativa del Canada di etichettare i vini delle colonie è un passo positivo. È necessario fare molto di più

Kamel Hawwash

2 Agosto 2019 – Middle East Eye

La comunità internazionale deve prendere provvedimenti per ricordare a Israele e ai suoi sostenitori statunitensi la fondamentale importanza delle leggi internazionali

In quello che è uno dei loro peggiori momenti, i palestinesi sono alla ricerca di qualunque iniziativa da parte della comunità internazionale a sostegno della loro richiesta di libertà, giustizia e uguaglianza.

Ogni volta che un membro dell’amministrazione Trump dice qualcosa, rimangono collettivamente a bocca aperta, in quanto concezioni di lunga data sono spazzate via, mentre le richieste israeliane vengono appoggiate e messe in pratica con una velocità sorprendente.

È per questo che i palestinesi vedono la recente decisione di un tribunale federale canadese di etichettare i vini della Cisgiordania come “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità.”

Sì, esagero, ma la sentenza del tribunale – che ha stabilito che etichettare un vino dalla Cisgiordania come un “prodotto di Israele” è fuorviante e ingannevole – è significativa perché rispetta le leggi internazionali sull’occupazione illegale della Palestina.

Negare l’occupazione

È proprio quello contro cui l’amministrazione USA dissente. Nel 2017 il presidente Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele; più di recente, ha riconosciuto l’annessione delle Alture del Golan siriane a Israele, ed è stato ricompensato con la promessa di dare il suo nome a una colonia illegale.

L’ambasciatore USA in Israele, David Friedman, ha negato l’occupazione e il Dipartimento di Stato ha dovuto eliminare il termine nel suo rapporto annuale sui diritti umani. Sia Friedman che Jason Greenblatt, l’inviato per il Medio Oriente di Trump, appoggiano l’impresa di colonizzazione e preferiscono riferirsi alla Cisgiordania con il suo nome biblico, Giudea e Samaria.

Recentemente Greenblatt ha manifestato la propria preferenza per definire le colonie “quartieri e cittadine”, descrivendo la parola “insediamenti” come “peggiorativa”. Ha anche rifiutato il termine “occupata” in riferimento alla Cisgiordania, affermando: “Ritengo che la terra sia contesa… Chiamarla territorio occupato non contribuisce a risolvere il conflitto.”

Recentemente Friedman ha detto che Israele ha il diritto di conservare “parte della Cisgiordania, ma probabilmente non tutta”. Parlando alla CNN, ha escluso uno Stato per i palestinesi, notando: “Crediamo nell’autonomia palestinese, crediamo nell’autogoverno civile, crediamo che l’autonomia debba essere estesa fino al punto in cui non interferisce con la sicurezza di Israele.”

La sua posizione è contraria alle leggi e al consenso internazionali, ma quello che importa a questa amministrazione USA è l’opinione degli USA, e poi di Israele.

Israele una vittima?

Greenblatt è andato oltre nello smentire l’importanza delle leggi internazionali per risolvere il conflitto israelo-palestinese. In un recente discorso al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che ha scatenato l’opposizine di altri membri, ha affermato che la pace non può essere raggiunta “attraverso l’imposizione delle leggi internazionali o queste risoluzioni (ONU) verbosissime e poco chiare.”

A quanto risulta Greenblatt avrebbe detto: “Israele è in realtà più la vittima che il responsabile” del conflitto mediorientale. Ai suoi occhi, mentre Israele non è “perfetto”, riguardo al governo israeliano egli non ha “trovato niente da criticare che vada oltre i limiti”.

È stato bello vedere alcuni membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU respingere il disprezzo di Greenblatt nei confronti delle leggi internazionali. “Per noi, le leggi internazionali non sono un menu da cui uno sceglie quello che vuole,” ha detto al Consiglio l’ambasciatore tedesco all’ONU Christoph Heusgen. “Ci sono altri esempi in cui i rappresentanti degli USA insistono qui sulle leggi internazionali, sulla messa in pratica delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, ad esempio riguardo alla Corea del Nord.”

Se questa posizione si fosse tradotta in un reale tentativo di imporre ad Israele la messa in pratica delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, il conflitto sarebbe già stato risolto. Invece altri Paesi stanno a guardare mentre Israele, protetto e ora incoraggiato dagli USA, continua a ignorare le risoluzioni [dell’ONU] e le leggi internazionali.

Se i membri del Consiglio di Sicurezza fossero seri, avrebbero interrotto ogni rapporto e imposto sanzioni a Israele fino a quando non le rispetterà. Invece giocano a nascondino. Vogliono apparire come rispettosi dei principi, ma si nascondono quando Israele costruisce più colonie o demolisce le case dei palestinesi, provocando inimmaginabili sofferenze a chi viene colpito.

Vietare i prodotti delle colonie

La recente decisione del Canada è un piccolo passo – un modo per fare pressione su Israele, che tutti i Paesi che credono nelle leggi internazionali dovrebbero seguire. Però riguarda solo l’etichettatura dei prodotti invece del necessario blocco dei beni delle colonie illegali, che molti Paesi non si sentono di adottare.

In giugno la Corte di Giustizia Europea ha emesso una dichiarazione che conferma la richiesta che in base alle leggi UE i prodotti dei territori occupati vengano chiaramente etichettati come tali. Nel contempo in Irlanda un divieto totale di importazione dei prodotti delle colonie sta per diventare legge.

Mentre i palestinesi accoglierebbero positivamente “un grande passo per l’umanità” in appoggio alle loro richieste di libertà, giustizia e uguaglianza, una serie di piccoli passi serve a ricordare a Israele e ai suoi sostenitori negli USA che i diritti e le leggi internazionali sono fondamentali.

L’amministrazione USA dovrebbe ricordare che la bibbia di oggi, che garantisce l’ordine mondiale, sono le leggi internazionali – non quella a cui Friedman, Greenblatt e compagnia fanno riferimento per realizzare il Grande Israele.

Riguardo al ruolo del Canada nell’insistere per l’etichettatura dei vini delle colonie, evviva!

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Kamel Hawwash è un professore anglo-palestinese di ingegneria all’università di Birmingham. Hawwash è da molto tempo un attivista per la giustizia, soprattutto per il popolo palestinese. È il presidente della Palestine Solidarity Campaign [Campagna per la Solidarietà con la Palestina] (PSC) e membro fondatore del British Palestinian Policy Council [Consiglio Britannico per la Politica Palestinese] (BPPC).

(traduzione di Amedeo Rossi)




Non punire i rifugiati palestinesi per il malfunzionamento dell’UNRWA

Yara Hawari

1 agosto 2019 – Al Jazeera

All’inizio della settimana un rapporto etico interno riguardo all’Agenzia ONU per il Sostegno e il Lavoro (UNRWA) per i rifugiati palestinesi è stato fatto filtrare sia ad Al Jazeera che all’agenzia di notizie AFP. In base a testimonianze di ex-dipendenti e dipendenti, come anche a una serie di altri documenti che le confermano, il rapporto dettaglia gravi abusi di autorità all’interno della dirigenza dell’agenzia.

Cosa più importante, esso accusa il commissario generale Pierre Krahenbuhl ed altri della sua cerchia ristretta di essere “coinvolti in scorrettezze, nepotismo (e) rappresaglie.” Il rapporto nota anche che la situazione è peggiorata nel 2018, in seguito alla decisione degli Stati Uniti, il principale donatore dell’UNRWA, di tagliare i finanziamenti all’agenzia. Ciò ha consentito ai dirigenti di giustificare “un’estrema concentrazione del potere di decisione nelle mani dei membri della ‘cricca’…un incremento dell’inosservanza delle regole dell’agenzia e delle procedure stabilite, con l’eccezione che è diventata la norma, e continui viaggi troppo frequenti del commissario generale.”

Molti palestinesi non sono rimasti particolarmente stupiti dal contenuto trapelato del rapporto. Nel corso degli anni abbiamo sentito molti aneddoti sulla cultura piuttosto problematica di abusi e irregolarità perpetrati dal ben pagato personale straniero dell’UNRWA e di altre agenzia dell’ONU.

Oltre a nepotismo e abuso di potere, ci sono gravissimi problemi nella distribuzione delle scarse risorse economiche destinate a questi enti. Per esempio, in tempi di austerità, i programmi di supporto vengono in genere tagliati prima dei salari del personale straniero e dei dirigenti.

Funzionari di alto livello sono anche ben noti per essersi impegnati in una serie di azioni ipocrite, compreso il fatto di aver affittato a Gerusalemme (soprattutto nel quartiere popolare di Musrara) case rubate ai rifugiati palestinesi nel 1948 e di aver consentito al negozio duty free dell’ONU di vendere prodotti delle colonie israeliane illegali, come il vino israeliano prodotto nelle Alture del Golan occupate.

Questo tipo di comportamenti scorretti, tuttavia, non è una peculiarità dell’UNRWA ed è stato denunciato in altre agenzie dell’ONU e in grandi organizzazioni umanitarie. Le rivelazioni del rapporto sono sicuramente condannabili e i responsabili non dovrebbero rimanere impuniti. Ma ciò non significa che l’UNRWA debba essere privata dei fondi o chiusa.

L’UNRWA, in quanto agenzia rivolta esclusivamente ai rifugiati palestinesi, ha uno status e una funzione particolari. Venne fondata nel 1949 per fornire assistenza ai palestinesi espulsi dalla loro patria in seguito alla creazione dello Stato di Israele. Ora opera in Cisgiordania, a Gaza, in Giordania, in Libano e in Siria, e fornisce educazione primaria e secondaria, servizi sanitari e vari progetti per infrastrutture nei campi a circa 5 milioni di palestinesi. Dà anche lavoro a 30.000 persone, per lo più palestinesi.

Il mandato all’UNRWA perché si occupi dei rifugiati viene periodicamente rinnovato in attesa dell’applicazione della risoluzione 194 dell’ONU, che afferma il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare nelle proprie case e a ricevere un giusto indennizzo.

Per molti l’agenzia non è solo un’importante ancora di salvezza, ma anche un ente ufficiale che protegge dalle potenze che vogliono abolire il diritto dei palestinesi al ritorno.

Infatti, da quando Donald Trump ha assunto la presidenza, i tentativi di obbligare i rifugiati palestinesi a rinunciare al proprio diritto al ritorno hanno subito un’accelerazione. Gli attacchi all’UNRWA sono stati incessanti e questo rapporto fatto filtrare ha soffiato sul fuoco.

L’ex-ambasciatrice USA all’ONU Nikki Haley ha rapidamente commentato il rapporto affermando che questa era “esattamente la ragione per cui noi (gli USA) abbiamo smesso di finanziarla”, mentre l’inviato di Trump per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha twittato l’articolo di Al Jazeera, affermando che “il modello dell’UNRWA è difettoso/insostenibile e basato sull’espansione infinita dei beneficiari.” 

Nessuna di queste affermazioni è vera: il finanziamento è stato tagliato per punire collettivamente i palestinesi e la loro dirigenza e il malfunzionamento dell’UNRWA non è peggiore di quello di qualunque altra agenzia dell’ONU.

Gli USA stanno traendo ispirazione da Israele, che, da quando è stato fondato, ha cercato di eliminare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. All’inizio di quest’anno, per esempio, il governo israeliano ha annunciato che avrebbe chiuso le scuole gestite dall’UNWRA nella Gerusalemme est occupata, che forniscono servizi a oltre 3.000 minori palestinesi, violando chiaramente la convenzione sui rifugiati del 1946. Nir Barkat, l’allora sindaco israeliano di Gerusalemme, ha sostenuto che avrebbe “messo fine alla menzogna del problema dei rifugiati palestinesi.”

Evidentemente nelle più alte sfere dell’UNRWA è all’opera una cultura sistematica di irregolarità che deve essere affrontata e contrastata. Tuttavia questo rapporto non può e non dovrebbe portare ad ulteriori tagli ai finanziamenti. Alla luce di questo rapporto sia Olanda che Svizzera hanno scorrettamente sospeso l’aiuto all’agenzia.

I milioni di rifugiati e di dipendenti palestinesi, molti dei quali stanno lottando per mantenere le proprie famiglie, non dovrebbero essere puniti collettivamente per le violazioni e l’egoismo dei massimi dirigenti dell’UNRWA, molti dei quali sono stranieri.

Chiamare a rispondere i responsabili per la cattiva gestione dell’agenzia è fondamentale, anche se molti temono che le persone potenti denunciate in questo rapporto verranno semplicemente riciclate all’interno del sistema dell’ONU, solo per continuare il proprio comportamento scorretto in un’altra agenzia.

Nel contempo l’attenzione dovrebbe essere rivolta ai sette milioni di palestinesi che vivono un perpetuo esilio dalla loro patria, molti dei quali devono affrontare un’ulteriore espulsione. Sono il loro benessere ed il loro diritto al ritorno che dovrebbero essere in cima alle considerazioni dei donatori.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica sulla Palestina di Al-SHabaka, la rete di politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele istiga a minacciare di morte i difensori dei diritti umani

Ali Abunimah

1 agosto 2019 – Electronic Intifada

La propaganda governativa israeliana istiga a minacciare con violenza i difensori dei diritti umani.

Sulla pagina Facebook per il sito web 4IL i visitatori hanno scritto commenti che invitano a uccidere Shawan Jabarin, direttore dell’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq.

Tra queste [minacce] figuravano: “Quando gli piantiamo una pallottola in testa?”, “Perché gente simile respira ancora?” e “Perché non è stato ancora fatto fuori?”

4IL è un organo di propaganda del Ministero per gli Affari Strategici di Israele.

Il ministero, guidato da Gilad Erdan, conduce la campagna israeliana di diffamazione e sabotaggio contro le associazioni per i diritti umani e il movimento mondiale di solidarietà con la Palestina.

Al-Haq definisce questi commenti “discorsi di incitamento all’odio”.

Le associazioni per i diritti umani dicono che l’aumento delle minacce di morte si è verificato dopo che 4IL ha pubblicato un articolo che accusava Jabarin, un difensore dei diritti umani che ha meritato riconoscimenti e premi internazionali, di “terrorismo”.

Il governo israeliano ha pubblicato l’articolo che diffama Al-Haq dopo che l’organizzazione ha tenuto un evento per festeggiare il suo 40esimo anniversario, a cui hanno partecipato accademici, diplomatici e dirigenti, anche delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea.

Secondo Al-Haq “l’attacco è l’ultimo di una campagna su larga scala contro organizzazioni della società civile palestinesi e altre, che lavorano per promuovere e difendere lo stato di diritto e gli standard dei diritti umani per il popolo palestinese”.

La settimana scorsa la rete internazionale per i diritti umani FIDH ha diffuso un allarme per condannare la campagna di diffamazione e le minacce di morte contro Jabarin e chiedere a Israele di “porre immediatamente fine ad ogni atto di aggressione contro di lui, contro Al-Haq e contro tutti i difensori dei diritti umani.”

Al-Haq è stata presa di mira in modo particolare da parte di Israele a causa del suo ruolo nel raccogliere prove di crimini israeliani contro i diritti umani per la Corte Penale Internazionale.

In Olanda, dove ha sede la Corte, alcuni organi competenti si sono messi a fare indagini sulle minacce di morte nei confronti di un avvocato che lavora con Al-Haq.

Secondo un giornalista israeliano esperto di intelligence, la campagna di aggressione contro l’avvocato è probabilmente opera del Ministero per gli Affari Strategici di Israele.

Un obbiettivo centrale della campagna di diffamazione è costringere i governi a interrompere i finanziamenti alle associazioni per i diritti umani collegandole al “terrorismo”.

Il mese scorso l’UE ha detto di essere “al corrente delle accuse” contro Al-Haq, ma che la verifica dei rappresentanti dell’organizzazione con le liste delle persone sottoposte a sanzioni dall’ONU e dall’UE non hanno rivelato alcun problema.

Mercoledì Amnesty International ha chiesto che le autorità israeliane “indaghino urgentemente sulle minacce di morte nei confronti di tre organizzazioni della società civile, compresa la sezione israeliana di Amnesty International a Tel Aviv.”

L’organizzazione ha detto che minacce di morte anonime sono state scritte con lo spray fuori dagli uffici di Amnesty International Israele e di ASSAF, un’organizzazione che lavora con rifugiati e richiedenti asilo.

Amnesty Israele ha postato su Facebook una foto del graffito in ebraico fuori dal suo ufficio.

Vi è scritto: “Le persone malvagie moriranno per i loro peccati” – una citazione dalla Bibbia.

Inoltre una scatola contenente minacce di morte ed un topo morto è stata lasciata all’ingresso del Centro di attività per i rifugiati Elifelet.

Amnesty ha sottolineato che negli ultimi anni “il clima per i difensori dei diritti umani sia in Israele che nei territori palestinesi occupati è rapidamente peggiorato.”

“Le autorità israeliane hanno preso misure per restringere indebitamente i diritti di libertà di espressione e di associazione all’interno di Israele, con funzionari che intimidiscono i difensori dei diritti umani che criticano il governo e approvano leggi per mettere a tacere il dissenso”, ha aggiunto Amnesty.

Come Al-Haq, Amnesty è stata vittima di aggressioni e rappresaglie da parte dei pubblici poteri per aver documentato le violazioni israeliane.

Ali Abunimah

Co-fondatore di ‘The Electronic Intifada’ e autore di ‘La lotta per la giustizia in Palestina’, in uscita per Haymarket Books.

Ha anche scritto ‘Un solo Paese: una proposta coraggiosa per porre fine all’impasse israelo-palestinese’.

Le opinioni sono esclusivamente dell’autore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele approva 6.000 nuove case per coloni israeliani in Cisgiordania*

31 luglio 2018 – Al Jazeera

L’annuncio prima di una visita dell’inviato USA Jared Kushner in Israele per discutere di un piano di ‘pace’ tra israeliani e palestinesi

Israele ha approvato la costruzione di 6.000 nuove case per coloni israeliani e 700 per i palestinesi in una zona della Cisgiordania occupata su cui ha il controllo totale. L’annuncio da parte di un anonimo funzionario israeliano mercoledì è arrivato prima di una prevista visita in Israele dell’inviato degli Stati Uniti Jared Kushner per discutere di un piano della Casa Bianca per un accordo di pace israelo-palestinese.

L’approvazione riguarda l’Area C della Cisgiordania, di cui Israele controlla l’amministrazione civile e la sicurezza e dove si trovano le sue colonie. Corrisponde a più del 60% della Cisgiordania, il territorio palestinese che, in base alla cosiddetta soluzione dei due Stati, dovrebbe far parte di un futuro Stato palestinese.

Al momento non è ancora chiaro se tutte le case saranno nuove costruzioni o se alcune esistono già e stanno per ottenere un’approvazione retroattiva.

In base alle leggi internazionali le colonie sono illegali e sono i principali ostacoli per un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. Sono costruite su terra che i palestinesi considerano parte del loro futuro Stato.

Più di 600.000 israeliani vivono nelle colonie della Cisgiordania, compresa Gerusalemme est occupata, che sono viste come il maggiore ostacolo per la pace tra Israele e i palestinesi. Essi vivono accanto a circa tre milioni di palestinesi.

Piano di pace

Raramente Israele concede l’approvazione alle costruzioni dei palestinesi in quella zona.

Il piano per i palestinesi – benché relativamente ridotto e ampiamente compensato dalle nuove case per israeliani – potrebbe consentire al primo ministro Banjamin Netanyahu di sostenere che sta facendo sforzi per favorire il piano di pace a lungo atteso di Kushner.

Nel 2016 il governo israeliano approvò piani di costruzione per 5.000 unità abitative per palestinesi nella zona di Qalqilia, in Cisgiordania, ma la dura opposizione di politici di destra e dirigenti dei coloni bloccarono il progetto.

Gli USA hanno lasciato intendere che potrebbero appoggiare l’annessione a Israele di alcune colonie in base a un futuro accordo di pace.

Non sono ancora stati resi noti i dettagli della visita di Kushner, ma egli ha affermato che il suo piano non farà menzione della soluzione dei due Stati perché “ciò significa una cosa per gli israeliani e un’altra per i palestinesi.”

È previsto che questa settimana Kushner visiti anche altri cinque Paesi del Medio Oriente. Secondo il quotidiano israeliano “Yediot Ahronot”, la visita anticipa un vertice per la pace tra israeliani e palestinesi che l’amministrazione Trump intende ospitare a Camp David prima delle elezioni israeliane di settembre.

*Vedi su questo stesso argomento  anche l’ articolo di Umberto De Giovannangeli

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 16 – 29 luglio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, il 26 luglio, un palestinese 23enne è stato colpito con arma da fuoco ed ucciso durante la manifestazione settimanale della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR) che si svolge vicino alla recinzione perimetrale con Israele. Dal 10 maggio 2019, questa è stata la prima uccisione registrata nelle manifestazioni GMR.

Durante il periodo di riferimento, altri 473 palestinesi sono stati feriti nelle suddette manifestazioni e in attività correlate; per 188 di loro si è reso necessario il ricovero in ospedale.

In almeno dodici occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [imposte da Israele] sulle aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa. In un caso, due pescatori sono stati arrestati e la loro barca è stata confiscata; in un altro episodio, un uomo è stato arrestato mentre stava tentando di infiltrarsi in Israele attraverso la recinzione. Le forze israeliane hanno effettuato due incursioni [nella Striscia] ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno vicino alla recinzione; in un’altra occasione hanno lanciato razzi illuminanti, danneggiando una abitazione nell’Area Centrale [della Striscia].

Tra il 17 e il 23 luglio, le autorità israeliane hanno restituito 35 barche da pesca che la marina israeliana aveva confiscato nell’applicazione delle restrizioni di accesso. Secondo il Sindacato palestinese dei Pescatori, ciò porta a 66 il numero totale di pescherecci restituiti dall’inizio del 2019.

Nei villaggi e nelle città della Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno effettuato 146 operazioni di ricerca-arresto, di cui 36 a Hebron e 30 a Gerusalemme, soprattutto ad Al ‘Isawiya. Durante queste operazioni almeno 200 palestinesi sono stati arrestati.

In Cisgiordania, 75 palestinesi, tra cui 22 minori, hanno subìto lesioni da parte delle forze israeliane o per inalazione di gas lacrimogeno o perché colpiti con proiettili di gomma o proiettili di arma da fuoco o perché aggrediti fisicamente [di seguito il dettaglio]. Ad Al ‘Isawiya, durante scontri, due poliziotti di frontiera israeliani sono stati feriti da pietre; in questo villaggio, negli ultimi due mesi, le forze israeliane sono entrate quasi quotidianamente, innescando scontri con i residenti. Trentatré palestinesi [dei 75] sono rimasti feriti in operazioni di ricerca-arresto: 24 in Al ‘Eizariya ed in Al’ Isawiya (Gerusalemme), 5 nei Campi Profughi di Ad Duheishah (Betlemme) e Jenin e 3 in altrettante località diverse. Altri sei palestinesi sono rimasti feriti il 22 luglio, nel quartiere di Sur Bahir a Gerusalemme Est, nel corso di scontri innescati dalla demolizione di dieci strutture (vedi sotto). Altri 31 [sempre dei 75] palestinesi sono rimasti feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la protesta settimanale contro l’espansione degli insediamenti; questi ferimenti sono stati causati principalmente da proiettili di gomma e inalazione di gas lacrimogeni. Infine, 5 palestinesi sono rimasti feriti nella Comunità di Fasayil (Gerico), nel corso di scontri con le forze israeliane; i residenti protestavano contro la mancanza di elettricità in quell’area.

Un detenuto palestinese 31enne è morto il 16 luglio in una prigione israeliana. L’uomo era stato arrestato nel giugno 2019; dopo l’arresto la sua salute era peggiorata e, secondo il Comitato dei prigionieri, sarebbe morto per negligenza medica. Secondo resoconti dei media israeliani, il Servizio penitenziario israeliano avrebbe fornito al detenuto adeguata assistenza medica e starebbe indagando sulla sua morte.

In un episodio avvenuto il 16 luglio, un colono israeliano ha aggredito e ferito fisicamente un bambino di 6 anni nella zona di Batn al Hawa, nel quartiere Silwan di Gerusalemme Est. In altri quattro episodi, agricoltori palestinesi e residenti hanno riferito che sospetti coloni israeliani hanno vandalizzato circa 150 ulivi appartenenti a residenti di Yasuf e Wadi Qana (Salfit), e Susiya e Ash Shuyukh (Hebron). Inoltre, durante il periodo di riferimento, l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto una petizione avanzata da palestinesi per liberare una casa occupata da coloni nella zona (H2) di Hebron controllata da Israele. Dopo la sentenza, coloni hanno installato una roulotte vicino alla casa.

In Cisgiordania, durante il periodo in esame, un totale di 44 strutture di proprietà palestinese sono state demolite, sfollando 38 persone e causando ripercussioni di varia entità su oltre 6.000 altre persone [segue dettaglio]. 34 demolizioni [delle 44] erano motivate dalla mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele; 32 di queste si trovavano in Area C e due a Gerusalemme Est. In Area C, le demolizioni includevano 14 strutture finanziate da donatori, tra cui quattro cisterne d’acqua che approvvigionavano le comunità di Umm al Kheir e Khashem ad Daraj (1.750 persone). Entrambe le Comunità già affrontano gravi carenze idriche; così come altre Comunità situate nel sud di Hebron. Inoltre, nel villaggio di Asira Ash Shamaliya (Nablus), le autorità israeliane hanno fatto spianare tratti di quattro strade (finanziate da donatori) che portano a terreni agricoli, colpendo oltre 4.000 residenti; le strade sono state riaperte dagli abitanti il giorno seguente.

Le restanti dieci strutture [delle 44] sono state demolite il 22 luglio, citando problemi di sicurezza. Queste includevano nove edifici residenziali (tre dei quali abitati); tutti, tranne uno, si trovavano sul “lato Gerusalemme” della Barriera, in Aree A, B e C del quartiere di Sur Bahir. Queste demolizioni hanno comportato lo sfollamento di quattro famiglie (24 persone, di cui 14 minori) e sono conseguenti ad una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia israeliana. La sentenza è imperniata su un ordine militare che, in prossimità della Barriera, fissa una zona cuscinetto di sicurezza in cui qualunque edificio è vietato. In risposta a questa vicenda, le Nazioni Unite hanno emesso una dichiarazione, in cui si afferma che “la politica israeliana di distruggere la proprietà palestinese non è compatibile con i suoi obblighi derivanti dal Diritto umanitario internazionale”.

Secondo fonti israeliane, in tre occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre, fuochi d’artificio e barattoli di vernice su veicoli israeliani che viaggiavano su strade della Cisgiordania, in prossimità di Gerusalemme, Hebron e Ramallah. Almeno tre auto sono state danneggiate.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

 




Perché gli americani dovrebbero appoggiare il BDS

Omar Barghouti

29 luglio – The Nation

Ispirato ai movimenti per i diritti civili e contro l’apartheid, chiede la liberazione dei palestinesi nei termini di una piena uguaglianza con gli israeliani e si oppone in modo netto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo.

Martedì scorso la Camera dei Rappresentanti [USA, ndtr.] ha approvato una risoluzione, la “H.Res. 246”, che prende di mira il movimento internazionale di base per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi che ho contribuito a fondare nel 2005. Purtroppo la H.Res. 246, che fondamentalmente travisa i nostri obiettivi e le mie opinioni personali, è solo l’ultimo tentativo da parte dei sostenitori di Israele nel Congresso di demonizzare e reprimere la nostra lotta pacifica.

La H. Res. 246 è una radicale condanna degli americani che sostengono i diritti dei palestinesi utilizzando le tattiche del BDS. Rafforza altre misure incostituzionali contro il boicottaggio, comprese quelle approvate da circa 27 Stati, che, secondo l’“American Civil Liberties Union” [Unione per le Libertà Civili Americane, storica associazione USA a favore dei diritti e delle libertà costituzionali, ndtr.] ricordano le “tattiche dell’epoca di McCarthy”. Esaspera anche l’atmosfera oppressiva che i palestinesi e i loro sostenitori già devono affrontare, scoraggiando ulteriormente i discorsi che criticano Israele in un momento in cui il presidente Donald Trump sta pubblicamente calunniando membri del Congresso che si esprimono a favore della libertà dei palestinesi.

In risposta alla H.Res. 246 e a misure legislative simili, la deputata Ilhan Omar, affiancata da Rashida Tlaib, dall’icona dei diritti civili John Lewis [deputato afro-americano della Georgia, ndtr.] e da altri 12 co-firmatari, ha presentato la H.Res. 496, che difende “il diritto di partecipare a boicottaggi a favore di diritti civili e umani in patria e all’estero, in quanto protetto dal Primo emendamento della Costituzione.”

Ispirato al movimento USA per i diritti civili e a quello sudafricano contro l’apartheid, il BDS chiede la fine dell’occupazione militare israeliana del 1967, la piena uguaglianza per i cittadini palestinesi di Israele e il diritto stabilito dall’ONU al ritorno dei rifugiati palestinesi alla patria da cui vennero cacciati.

Il BDS si oppone nel modo più assoluto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Contrariamente alle false affermazioni della H.Res. 246, il BDS non prende di mira i singoli individui, ma piuttosto le istituzioni e le compagnie che sono coinvolte nella sistematica violazione dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.

La H.Res. 246 include anche una specifica calunnia contro di me, sostenuta dai gruppi della lobby israeliana come l’AIPAC, estrapolando un’unica frase fuori di contesto da un discorso che ho fatto nel 2013. La stessa affermazione falsa viene ripetuta in una risoluzione simile del Senato, la S.Res. 120.

In quel discorso ho sostenuto un unico Stato democratico che riconosca e accetti gli ebrei israeliani come cittadini uguali e partner a pieno diritto nella costruzione e nello sviluppo di una nuova società condivisa, libera da ogni sottomissione colonialista e discriminazione razziale e in cui Stato e chiesa siano separati. Chiunque, compresi i rifugiati palestinesi rimpatriati, saranno titolari degli stessi diritti indipendentemente dall’identità etnica, religiosa, di genere, sessuale o altre. Ho affermato che qualunque “Stato musulmano”, “Stato cristiano” o “Stato ebraico” escludente e suprematista negherebbe per definizione uguali diritti ai cittadini con identità differenti e precluderebbe la possibilità di una vera democrazia, che è la condizione per una pace giusta e duratura. Le risoluzioni della Camera e del Senato, così come il video propagandistico dell’AIPAC, cancellano tutto quel contesto, distorcendo intenzionalmente le mie opinioni.

Ad ogni modo questa è la mia opinione personale, non la posizione del movimento BDS. In quanto movimento per i diritti umani ampio ed inclusivo, il BDS non prende posizione su una soluzione politica definitiva per palestinesi ed israeliani. Include sostenitori sia dei due Stati che di uno Stato democratico unico con uguali diritti per tutti.

In quanto difensore dei diritti umani, non sono solo oggetto di una costante denigrazione da parte di Israele e dei suoi sostenitori anti-palestinesi. Sono anche stato sottoposto, con le parole di Amnesty International, a un “arbitrario divieto de facto di viaggiare da parte di Israele”, anche nel 2018, quando mi è stato impedito di andare in Giordania per accompagnare la mia defunta madre per un’operazione per un tumore. Nel 2016 il ministero dell’Intelligence di Israele mi ha minacciato di “eliminazione civile mirata”, attirando la condanna da parte di Amnesty. E per la prima volta in assoluto lo scorso aprile mi è stato vietato di entrare negli Stati Uniti, impedendomi di partecipare al matrimonio di mia figlia e a un incontro al Congresso.

Israele non ha semplicemente intensificato il suo pluridecennale sistema di occupazione, apartheid e pulizia etnica contro i palestinesi, sta sempre più esternalizzando le sue tattiche repressive all’amministrazione USA.

Trump sta sfacciatamente appoggiando e proteggendo dall’essere chiamato a rispondere delle proprie azioni il governo israeliano di estrema destra, mentre esso annienta le vite e i mezzi di sostentamento di milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione e sotto l’assedio a Gaza, di fronte alla spoliazione e l’espulsione nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est e a pari diritti negati nell’Israele attuale. Solo due settimane fa egli [Trump, ndtr.] ha accentuato il suo incitamento contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi, attaccando quattro nuovi membri progressisti del Congresso, tutte donne di colore, dicendo loro di “chiedere scusa” a Israele e di “tornare” ai loro Paesi d’origine, benché tre di esse siano nate negli Stati Uniti.

Nonostante tutto ciò, la disperata guerra di Israele contro il BDS, combattuta con la falsificazione, la demonizzazione e l’intimidazione, come esemplificato da parte di questa risoluzione della Camera da poco approvata, sta fallendo. La nostra speranza rimane viva in quanto assistiamo a un promettente cambiamento nell’opinione pubblica a favore dei diritti umani dei palestinesi, anche negli Stati Uniti. L’orribile situazione del regime di apartheid israeliano e delle sue alleanza con forze xenofobe e palesemente antisemite stanno diventando incompatibili ovunque con valori liberali e democratici.

Guidati da comunità di colore, gruppi progressisti ebraici, importanti chiese, sindacati, associazioni accademiche, gruppi LGBTQI, movimenti per la giustizia per gli indigeni e studenti universitari, molti americani stanno abbandonando la posizione eticamente insostenibile dell’“eccezione progressista sulla Palestina”. Al contrario stanno adottando il principio moralmente conseguente di essere progressisti anche sulla Palestina.

Oggi essere progressisti comporta essere moralmente coerenti, stare dalla parte giusta della storia appoggiando noi che lottiamo per la nostra libertà, giustizia ed uguaglianza a lungo negate.

Omar Barghouti è un palestinese difensore dei diritti umani e co-fondatore del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi. È stato uno dei vincitori del premio Gandhi per la Pace del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele, gli Stati Uniti e il rompicapo della successione nell’ANP

Adnan Abu Amer

28 luglio 2019 – Al Jazeera

Gli USA e Israele vogliono estromettere dal potere il presidente Mahmoud Abbas, ma questo potrebbe non essere per loro la soluzione migliore.

Da quando a gennaio 2017 si è insediata l’amministrazione Trump, la pressione sul presidente palestinese Mahmoud Abbas perché si dimetta è salita. E’ ormai chiaro che Washington non vuole più trattare con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sotto la sua direzione.

Il principale consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner, di recente ha definito la decisione di Abbas di boicottare il convegno in Bahrain, in cui è stato presentato l’aspetto economico del piano di pace, “isterica e incoerente.”

Nel frattempo anche diversi dirigenti israeliani hanno fatto capire che sperano che Abbas lasci l’incarico. Alcuni, come l’ex Ministro degli Esteri Dore Gold, sono arrivati a sostenere che entro i prossimi sei mesi gli stessi palestinesi chiederanno un cambio di leadership.

L’attuale governo israeliano ha tentato attivamente di destabilizzare l’ANP attraverso diverse misure ostili, compreso il blocco del versamento di 140 milioni di dollari di entrate fiscali destinate al pagamento mensile dei salari. Questo, insieme ai tagli degli aiuti USA, ha posto Ramallah sotto una crescente pressione finanziaria.

Mentre è evidente che i governi americano e israeliano stanno cercando di spingere Abbas sull’orlo del precipizio, il loro piano per dopo la sua caduta è come minimo piuttosto vago. Anzi, diversi soggetti all’interno dell’apparato di sicurezza israeliano hanno avvertito che una simile mossa potrebbe avere conseguenze pericolose.

La lotta per la successione

Il dibattito sulla successione per la leadership nell’Autorità Nazionale Palestinese prosegue da dieci anni. Il termine della presidenza Abbas è ufficialmente scaduto nel 2009 ed è stato provvisoriamente prorogato in quell’anno dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina [che riunisce le principali fazioni della resistenza palestinese tranne Hamas, ndtr.]. Da allora la Palestina non è stata in grado di svolgere elezioni presidenziali e parlamentari a causa dei continui dissidi tra Fatah e Hamas.

L’ottantatreenne presidente palestinese ha finora fatto resistenza non solo a dare le dimissioni, ma anche a nominare un suo vice e delineare un chiaro percorso per la sua sostituzione. Ma dato che la sua salute sta peggiorando, prima o poi la questione della successione dovrà essere risolta. Le forti pressioni da parte delle manovre americane e israeliane probabilmente accelereranno il processo, mentre all’interno della Cisgiordania sta crescendo il malumore, che negli ultimi due anni ha provocato molte grandi proteste di piazza.

Ci sono parecchie figure importanti all’interno di Fatah che negli ultimi anni sono emerse come contendenti per la carica di Abbas.

Mahmoud al-Aloul, vice capo del partito [al-Fatah, ndtr.] e governatore di Nablus, è uno dei favoriti. È assai popolare tra i sostenitori di Fatah per la sua posizione anti israeliana e finora ha anche evitato di essere coinvolto in scandali per corruzione.

Un altro candidato è Jibril Rajoub, uno dei principali leader di Fatah, presidente della Federazione Calcio palestinese ed ex capo delle forze di sicurezza preventive in Cisgiordania. È noto che ha molta influenza nell’ambito dei servizi di intelligence palestinese e gode della fiducia delle agenzie di sicurezza sia USA che israeliane.

Majed Faraj, capo del Servizio Generale di Intelligence, è un altro candidato forte alla successione di Abbas. E’ stato fidato collaboratore del presidente palestinese e ha guidato la delegazione palestinese che ha incontrato dirigenti americani, nonostante l’attuale boicottaggio dei colloqui con l’amministrazione Trump da parte dell’ANP.

Anche Saeb Erekat, segretario generale dell’OLP, è stato dato come possibile candidato. Tuttavia nel 2011 indiscrezioni note come ‘Palestinian Papers’, che hanno rivelato la volontà di Erekat di fare maggiori concessioni a Israele durante i negoziati, hanno lasciato una macchia indelebile sulla sua reputazione ed è improbabile che raccolga molto consenso popolare. Allo stesso modo Mohammed Dahlan, a lungo arcinemico di Abbas, è stato anch’egli un aspirante alla sua carica, almeno in passato. Ma le sue chances si sono recentemente ridotte a causa dei suoi stretti legami con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che attualmente sono impopolari in Palestina perché premono per la normalizzazione con Israele.

Benché tutti questi candidati (eccetto Dahlan) appoggino il boicottaggio dell’attuale amministrazione USA da parte di Abbas, la loro posizione potrebbe cambiare se uno di loro assumesse la presidenza dell’ANP. Con questa prospettiva Washington ha spinto attivamente per un cambio di leadership a Ramallah.

Il futuro dell’ANP

Se l’amministrazione Trump non è riuscita a impegnarsi direttamente con nessuno dei principali contendenti alla presidenza dell’ANP, ha invece coinvolto altre importanti figure palestinesi al di fuori della cerchia di Abbas. Negli ultimi due anni vi sono stati parecchi incontri tra dirigenti USA e vari rappresentanti dell’ élite politica e imprenditoriale palestinese.

Al tempo stesso personaggi politici che pare abbiano stretti legami con Washington, compresi l’ex Primo Ministro Salam Fayyad e l’imprenditore palestinese Adnan Majali, sono riapparsi sulla scena politica. L’anno scorso il secondo si è spinto fino a tentare di mediare un accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Prima dell’incontro in Bahrain l’amministrazione USA è riuscita a trovare un uomo d’affari palestinese disposto a saltare il fosso e a partecipare: Ashraf al-Jabari di Hebron. All’inizio di quest’anno al-Jabari, che è stato definito un “amico” dall’ambasciatore USA in Israele David Friedman, ha annunciato che stava creando un partito in Cisgiordania chiamato ‘Riforma e Sviluppo’, che si contrapporrà al programma di Fatah per costituire uno Stato.

Washington probabilmente si rende conto che nessuno di questi personaggi ha una reale possibilità di succedere ad Abbas, perché è improbabile che vincano le elezioni, ma sono comunque utili per fare pressione sull’ANP. In fin dei conti, l’amministrazione Trump vuole che la leadership palestinese accetti le sue proposte di “pace” con Israele ed è scarsamente interessata a chi prenderà il potere dopo Abbas.

D’altro lato, in Israele diversi interlocutori non solo auspicano un cambio di leadership a Ramallah, ma sperano anche in un completo crollo dell’ANP. Parecchi dirigenti israeliani, attuali e del passato, hanno ripetutamente dichiarato “morti” gli accordi di Oslo ed hanno suggerito che è ora che i palestinesi accettino la sconfitta e smettano di pretendere uno Stato. Una soluzione che è stata proposta è che parti della Cisgiordania abitate da palestinesi siano connesse alla Giordania e godano di qualche forma di autonomia amministrativa.

Altri si sono spinti oltre, suggerendo che Israele cerchi di sciogliere l’ANP e stabilisca un governo palestinese a livello comunale sulla base di clan e famiglie. Questo presuppone una forma di autogoverno in cui Israele aiuti i leader locali in varie città della Cisgiordania a gestire le questioni quotidiane, come avveniva prima della creazione dell’ANP.

Mentre è sempre più chiaro che l’establishment israeliano spinge per la fine non solo dell’ANP, ma anche di ogni apparenza di Stato nei territori palestinesi occupati, alcuni, soprattutto nel settore della sicurezza, avvertono che questo potrebbe non essere la miglior soluzione per lo Stato israeliano. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz c’è il timore che, se l’ANP iniziasse a perdere il controllo sulla Cisgiordania, il coordinamento sulla sicurezza tra Israele e Ramallah potrebbe essere compromesso e altri elementi di opposizione potrebbero cercare di assumere il controllo.

Per questo motivo le agenzie di intelligence israeliane sono state solerti nel proteggere l’ANP e la presidenza di Abbas dai tentativi di indebolirli e a volte hanno paradossalmente agito contro le politiche ufficiali sia di Washington che di Tel Aviv.

Sebbene la leadership politica israeliana e i suoi alleati USA siano felici di dichiarare morto Oslo e pensino alla dissoluzione dell’ANP, ignorano però il fatto che per decenni Tel Aviv ha tratto i maggiori benefici dalle disposizioni stabilite da questi accordi. Esse hanno di fatto indebolito la lotta palestinese, imbrigliato l’attivismo politico e reso l’ANP il principale garante della passività politica palestinese.

Se Israele e Stati Uniti riusciranno ad infrangere questo status quo con le loro politiche aggressive, ciò che avverrà dopo potrebbe non essere di loro gradimento.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Adnan Abu Amer è capo del Dipartimento di Scienze Politiche dell’università Ummah a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)