Rapporto OCHA del periodo 2 – 15 luglio 2019 (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante il periodo di riferimento, 359 palestinesi sono stati feriti da forze israeliane in manifestazioni svolte nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno”,

un calo significativo di feriti da quando, nel marzo 2018, iniziarono le dimostrazioni.

In almeno undici occasioni, non collegate alla “Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco [di avvertimento] verso agricoltori e pescatori, allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso ai terreni [della Striscia] prossimi alla recinzione perimetrale con Israele e, in mare, alle zone di pesca interdette [ai palestinesi]; non sono stati segnalati feriti. Due pescatori, di cui uno minorenne, sono stati arrestati e la loro barca confiscata; uno è stato rilasciato il giorno stesso. In un altra occasione, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno svolto operazioni spianatura del terreno e di scavo in prossimità della recinzione. In un altro episodio, un palestinese è stato arrestato mentre tentava di infiltrarsi in Israele.

L’undici luglio, un 28enne palestinese, membro di Hamas, è stato ucciso con arma da fuoco dalle forze israeliane vicino alla recinzione perimetrale, ad est di Beit Hanoun, nel nord della Striscia. Secondo fonti dell’esercito israeliano, l’uomo è stato ucciso per una errata identificazione.

A Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la protesta settimanale contro l’espansione degli insediamenti colonici e le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi], le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco un ragazzo di 10 anni, ferendolo alla testa. Testimoni oculari palestinesi hanno dichiarato che il ragazzo non era coinvolto negli scontri quando è stato colpito. Complessivamente, durante proteste e scontri in Cisgiordania, le forze israeliane hanno ferito 18 palestinesi, tra cui almeno nove minorenni [di seguito il dettaglio]. Questi 18 ferimenti includono: quattro palestinesi feriti nella zona di Al Isawiya a Gerusalemme Est, durante scontri con forze israeliane che stavano rimuovendo un memoriale di un palestinese ivi ucciso da un poliziotto israeliano il 27 giugno; una madre ed il figlio 14enne, aggrediti fisicamente e feriti da forze israeliane nella zona di Ras al Amud, a Gerusalemme Est, mentre resistevano all’arresto del ragazzo per presunto lancio di pietre; tre palestinesi feriti a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la dimostrazione settimanale; cinque palestinesi, tra cui quattro minori, sono stati feriti in scontri innescati da tre operazioni di ricerca e arresto (le forze israeliane hanno condotto 142 di tali operazioni, arrestando oltre 167 palestinesi, tra cui sei minori); due palestinesi sono rimasti feriti da forze israeliane negli scontri che hanno fatto seguito all’ingresso di israeliani in un sito religioso nella città di Nablus.

Il 6 luglio, cinque soldati israeliani di pattuglia nei pressi del checkpoint di Hizma (Gerusalemme), sono stati investiti e feriti da un veicolo guidato da un palestinese. Le forze israeliane hanno svolto operazioni di ricerca nella zona e, ad un checkpoint volante vicino a Gerusalemme, hanno arrestato la persona sospettata.

Il 10 luglio, dopo 24 anni di procedure legali, le autorità israeliane hanno sfrattato una madre e i suoi quattro figli adulti dalla loro casa nella zona di Wadi al Hilweh del quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. La casa è stata consegnata ad una organizzazione israeliana di coloni, Elad, che ne aveva rivendicato la proprietà.

Citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele (quasi impossibili da ottenere), le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato undici strutture di proprietà palestinese nella zona C e Gerusalemme Est; non ci sono stati sfollati, ma 1.270 persone hanno subìto ripercussioni di varia entità. Tre delle strutture prese di mira dal provvedimento erano cisterne per acqua finanziate da donatori e si trovavano in Area C, nelle comunità di Dkaika, Kashem al Karem ed An Najada. Circa 1.200 persone, tra cui 400 bambini, sono state colpite dalle demolizioni o sequestri delle cisterne. Dieci delle [11] strutture prese di mira si trovavano in otto diverse Comunità dell’Area C [di seguito il dettaglio]. Era inclusa una struttura commerciale nel villaggio di Idhna (Hebron), demolita poiché si trovava all’interno di un’area designata da Israele come “zona 309A per esercitazioni a fuoco”. Le restanti nove strutture interessate in Area C [delle 10 citate] includevano una residenza disabitata, quattro strutture di sostentamento e quattro strutture agricole. Altri due edifici in costruzione sono stati demoliti nella città di Az Zaayyem ed in As Sawahira ash Sharqiya, in aree situate all’interno della zona definita da Israele come municipalità di Gerusalemme.

In otto episodi, di cui sono stati autori coloni israeliani, sono stati feriti due palestinesi e danneggiati 200 ulivi di proprietà palestinese [segue dettaglio]. Due palestinesi, tra cui un minore, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni in due diversi episodi avvenuti nella zona H2 della città di Hebron e vicino alla città di Hizma (Gerusalemme). In altri due episodi separati, fonti della Comunità locale palestinese hanno riferito che sospetti coloni israeliani hanno vandalizzato 200 ulivi e fichi e alberelli appartenenti a contadini dei villaggi di Susiya (Hebron) e dell’Area B di Turmus’ayya (Ramallah). In altri episodi, avvenuti nei villaggi di Deir Jarir (Ramallah) e Yanun (Nablus), è stato riferito che coloni hanno fatto pascolare le loro pecore su terreni agricoli palestinesi, vandalizzando circa 3,5 ha di terra coltivata a grano e orzo. In altri due episodi, coloni israeliani sono entrati nei villaggi di Awarta (Nablus) e Deir Qaddis (Ramallah), entrambi in Area B [cioé, con amministrazione palestinese e controllo israeliano per la sicurezza], hanno bucato le gomme di 25 veicoli palestinesi e spruzzato graffiti tipo “questo è il prezzo [che dovete pagare]” su quattro case, una scuola ed un asilo nido.

Media israeliani hanno riferito di nove episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani; due coloni sono rimasti feriti e diversi veicoli sono stati danneggiati.

252

 

 

252




I tribunali israeliani possono garantire la giustizia ai palestinesi?

Ben White

17 luglio 2019 – Al Jazeera

Critiche mettono in dubbio il ricorso alla Corte Suprema dopo che essa ha consentito la demolizione di edifici sotto controllo palestinese

La demolizione di edifici di proprietà di palestinesi da parte delle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est è un avvenimento frequente.

Ma a Sur Baher, un quartiere sudorientale di Gerusalemme, incombe una demolizione di massa senza precedenti, con l’approvazione della Corte Suprema israeliana.

Dieci edifici abitati o in via di costruzione, che contano decine di appartamenti, sono stati segnati per essere distrutti, dopo aver contravvenuto a un ordine militare israeliano del 2011 che proibisce la costruzione all’interno di una zona cuscinetto di 100-300 metri dal muro di separazione.

Mentre la maggior parte di Sur Baher si trova all’interno dei confini municipali della Gerusalemme est unilateralmente annessa da Israele, parte della terra della comunità è in Cisgiordania – terreno che tuttavia è finito sul lato “israeliano” del muro condannato internazionalmente che è stato dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Lo scorso mese la Corte Suprema israeliana ha dato il permesso di demolizione a Sur Baher, benché gli edifici in questione siano stati costruiti su terreni destinati al controllo civile dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), da cui sono stati regolarmente ottenuti permessi edilizi.

Le autorità israeliane hanno fissato la scadenza per giovedì 18 luglio.

La documentazione parla chiaro”

La decisione della Corte Suprema non corrisponde alla sua fama internazionale come difensore di diritti umani. In effetti la Corte è stata a lungo una maledizione per parte della destra israeliana, che si è lamentata di una presunta tendenza progressista e di un’interferenza giudiziaria con le leggi.

Ma Hagai El-Ad, direttore esecutivo dell’Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani “B’Tselem”, dice ad Al Jazeera che per “avere una visione adeguata riguardo alla Corte Suprema, è necessario esaminare quello che ha fatto finora.

E questi dati parlano chiaro, dimostrano in modo inequivocabile come la Corte abbia costantemente respinto i ricorsi presentati dai palestinesi, mentre ha fornito il beneplacito legale a sistematiche violazioni dei diritti umani, compresi trasferimenti forzati, punizioni collettive, impunità generalizzata per le forze di sicurezza israeliane e tortura,” aggiunge.

Sawsan Zaher, vice direttrice esecutiva del centro per i diritti giuridici “Adalah”, con sede ad Haifa, è d’accordo. “Se si guarda alla Corte Suprema riguardo ai territori palestinesi occupati, nella grande maggioranza dei casi essa ha respinto ricorsi che contestavano violazioni delle leggi umanitarie internazionali, indipendentemente dal fatto che i giudici fossero conservatori o più “progressisti”, dice ad Al Jazeera.

Secondo Zaher l’approccio della Corte alle petizioni presentate da cittadini palestinesi è differenziato. “Alcune sono accolte, in genere quelle riguardanti i classici casi di discriminazione, come quelli riguardanti la destinazione dei fondi,” dice Zaher.

Ma aggiunge che la Corte usa “ogni genere di scusa e di interpretazione per giustificare il rigetto” quando si tratta di “casi che sono al centro del conflitto nazionale tra lo Stato e i cittadini palestinesi come minoranza” e dell’“esistenza di Israele come ‘Stato ebraico’”, comprese le questioni relative a “terra e demografia”.

Pianificazione discriminatoria

Ma è l’intervento – o il mancato intervento – della Corte sul sistema discriminatorio di pianificazione di Israele e sulle conseguenti demolizioni di case palestinesi che recentemente forse è stato più sotto i riflettori, anche nei casi particolarmente gravi in attesa di espulsione forzata, come nel caso del villaggio di Khan al-Ahmar.

In aprile i giudici hanno respinto un ricorso sulla demolizione di case palestinesi costruite senza permesso, chiarendo che non avrebbero discusso il sistema di pianificazione in cui tali demolizioni avvengono – ma solo se le strutture erano state costruite “legalmente” o meno.

In un rapporto di quest’anno sulla “responsabilità” della Corte Suprema per la “spoliazione dei palestinesi”, B’Tselem ha affermato che, per quanto a sua conoscenza, “non c’è stato neppure un singolo caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro la demolizione delle loro case.”

Per Dalia Qumsieh, un’esperta consulente giuridica dell’Ong per i diritti dei palestinesi “Al-Haq”, il caso di Sur Baher “dimostra uno schema costante della Corte (Suprema) che si rifiuta di prendere le distanze dai progetti del governo e accoglie persino ogni sua richiesta: “In generale la Corte non mette in discussione la legalità di politiche o misure in sé,” dice ad Al Jazeera. “Al contrario, si concentra su dettagli tecnico-legali che riguardano la messa in pratica di tali politiche.

Il massimo risultato che si può ottenere essendo palestinese con una causa nel sistema israeliano non può andare oltre le tutele minime, ora ancora più difficili da ottenere,” aggiunge.

Altri dicono che persino quelle “tutele minime” sono minacciate.

“La composizione della Corte Suprema è cambiata,” afferma Zaher, indicando le nomine giudiziarie del 2017 fatte dall’allora ministra della Giustizia Ayelet Shaked [esponente del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

“Oggi la critica dei conservatori alla Corte è cambiata: invece di accuse riguardo a un approccio “progressista” verso le richieste della minoranza araba, la destra sta criticando persino la facoltà della Corte di discutere della costituzionalità delle leggi,” aggiunge Zaher, descrivendo come negativa la parabola della Corte.

Complicità nel rafforzamento

Secondo Qumsieh, mentre la Corte “non è mai stata un vero luogo in cui è stata fatta giustizia per i palestinesi,” gli ultimi anni hanno visto “gravi sviluppi riguardanti il lavoro della Corte”, e in particolare lo “legame sempre più stretto” tra essa e il governo israeliano.

“Questo legame è passato dal fare pressione sui ricorrenti palestinesi perché accettino i progetti dell’esercito israeliano a dettare effettivamente al governo quello che deve fare per legalizzare politiche illegali,” aggiunge, citando il caso della revoca della residenza a Gerusalemme a politici affiliati ad Hamas. Per qualcuno, come El-Ad di B’Tselem, la situazione dell’attività giurisprudenziale della Corte significa che “la domanda è: per quale fine realistico si avvia una causa davanti ad essa?”

Per avvocati e gruppi per i diritti umani, palestinesi e israeliani, il vantaggio di impegnarsi in un giudizio con la Corte Suprema rimane una questione aperta.

“La Corte non ha mai sinceramente messo in discussione nessuna delle principali politiche che tengono in piedi l’occupazione,” afferma Qumsieh, “fino a diventarne un pilastro.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La “crisi ambientale” di Israele è colpa sua

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

7 luglio 2019 – Al Jazeera

La distruzione da parte di Israele dell’ambiente nei territori palestinesi ora minaccia le vite israeliane.

La crescente crisi umanitaria di Gaza viene finalmente percepita in Israele come un problema pressante che richiede un’azione “chiara ed immediata”. Tuttavia non è l’impatto della crisi sulla popolazione di Gaza che desta l’allarme a Tel Aviv, ma il potenziale danno ambientale che la perdurante povertà di Gaza può causare ad Israele.

Il 3 giugno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele.”

Ci si aspetterebbe che qualunque rapporto sulla situazione ambientale a Gaza si concentrasse sul fatto che quasi due milioni di palestinesi nella Striscia vivono in condizioni disumane a causa del blocco israeliano che dura ininterrottamente da 12 anni e dei continui attacchi militari devastanti, che rendono l’area “inabitabile entro il 2020” [secondo un documento ONU del 2015, ndtr.].

Invece il rapporto presuppone che gli abitanti del luogo siano gli unici responsabili dell’imminente catastrofe ambientale a Gaza, che sta minacciando la sicurezza e il benessere dei cittadini israeliani. Anche il giornale israeliano Haaretz, che ha pubblicato un rapporto dettagliato sulla presentazione, ha trattato la questione come problema di sicurezza nazionale.

Ma ciò che adesso Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. L’occupazione, la colonizzazione, lo spossessamento e l’aggressione contro la Palestina e i palestinesi hanno provocato un tale danno ambientale che ora anche l’occupante israeliano ne sta soffrendo.

Inquinare Gaza

In questo momento la situazione ambientale a Gaza è certo tragica, ma non sono i palestinesi che l’ hanno causata. Né la “rapida crescita della popolazione”, né l’incuria o l’ignoranza degli abitanti locali ne sono le cause principali. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni hanno documentato dettagliatamente come e perché il principale colpevole sia Israele, i suoi violenti attacchi a Gaza ed il suo spietato assedio.

Consideriamo la questione delle acque reflue non trattate che finiscono in mare, che causano problemi agli israeliani che vanno al mare e agli impianti di desalinizzazione. Il motivo per cui le acque reflue vengono smaltite in questo modo “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio.

Le acque reflue non trattate sono parte della più ampia crisi idrica di Gaza. Come correttamente sottolinea il rapporto, gli abitanti di Gaza fanno uso eccessivo della falda acquifera sotto la Striscia, che è divenuta sempre più inquinata da acqua di mare e prodotti chimici e che costituisce l’unica fonte di acqua pulita per gli abitanti a causa della separazione non voluta dalla Cisgiordania.

La ragione per cui i palestinesi di Gaza non sono in grado di creare un adeguato sistema di gestione dell’acqua ancora una volta non è una loro responsabilità. Israele ha ripetutamente bombardato le infrastrutture idriche, comprese le tubature dell’acqua, i pozzi e altre strutture, e l’estenuante assedio israeliano ha impedito alle autorità locali di ripararle e di costruire un impianto di desalinizzazione.

Il problema dell’acqua a Gaza non è soltanto una seccatura per gli israeliani, ma una potenziale causa di epidemie per i palestinesi. Secondo il Ministero della Sanità palestinese sono già raddoppiate le patologie diarroiche, raggiungendo livelli epidemici, mentre anche la salmonella e la febbre tifoidea stanno aumentando.

Poi c’è il problema dell’immondizia, che i palestinesi bruciano e quindi “inquinano l’aria israeliana”. Come ha evidenziato l’accademico dell’università di Cambridge Ramy Salemdeeb, Gaza non ha potuto sviluppare un’adeguata gestione dei rifiuti a causa delle restrizioni economiche dovute all’assedio israeliano e di una “limitata disponibilità di terra” per via del suo isolamento dal resto dei territori palestinesi occupati.

Ciò che il rapporto israeliano non menziona è che, oltre ai problemi delle acque di scarico e dei rifiuti, Gaza soffre anche di una serie di altri danni ambientali, che di nuovo sono legati all’occupazione israeliana e all’aggressione contro i palestinesi.

L’esercito israeliano spruzza sistematicamente erbicidi sui terreni coltivabili palestinesi vicino alla barriera di separazione tra il territorio assediato e Israele. Il più delle volte il prodotto chimico utilizzato è il glifosato, che è provato essere cancerogeno. Secondo la Croce Rossa queste attività non solo danneggiano i raccolti palestinesi, ma contaminano il suolo e l’acqua.

Anche i ripetuti attacchi israeliani con pesanti bombardamenti sulla Striscia hanno contribuito all’inquinamento. Vi sono prove che l’esercito israeliano abbia usato nei suoi attacchi a Gaza uranio impoverito e fosforo bianco, che non solo provocano danni immediati alla popolazione civile, ma costituiscono una fonte di rischio per la salute per molto tempo dopo che il bombardamento è terminato.

Inoltre le armi usate nelle operazioni militari israeliane hanno contaminato l’ambiente di Gaza con metalli pesanti come tungsteno, mercurio, cobalto, bario e cadmio, che notoriamente causano cancro, malformazioni congenite, infertilità, ecc.

Colonialismo e devastazione ambientale

Che Israele, che è orgoglioso perché avrebbe “fatto fiorire il deserto”, sia il responsabile di un gravissimo disastro ambientale in quello stesso “deserto”, non sorprende molto. Posto che si tratta di un progetto di colonialismo di insediamento, il supersfruttamento della terra colonizzata a scapito dell’ambiente e della popolazione locale è parte intrinseca del suo modus operandi.

Certamente, tutta la terra che Israele ha preso ed occupato ha subito in un modo o nell’altro un degrado ambientale, e i suoi effetti dannosi vengono opportunamente scaricati sulla terra, sui villaggi e sulle città palestinesi.

L’aggressiva prassi israeliana di costruzione di insediamenti non solo ha sradicato, segregato e spossessato centinaia di migliaia di palestinesi, ma ha anche danneggiato l’ambiente. Ha causato un eccessivo consumo di acqua, che non solo ha significativamente ridotto l’accesso all’acqua per i palestinesi, spingendo alcuni a parlare di “apartheid dell’acqua”, ma ha anche impoverito le risorse idriche in generale.

L’uso aggressivo di acqua per l’agricoltura – per lo più da parte di coloni illegali in Cisgiordania – ha causato l’impoverimento delle falde acquifere ed una drastica riduzione dei livelli del lago di Tiberiade e del fiume Giordano.

Israele inquina la terra palestinese anche utilizzandola letteralmente come discarica. È stato stimato che circa l’80% dei rifiuti prodotti dalle colonie israeliane viene scaricato in Cisgiordania. Si sa che anche diverse industrie israeliane e l’esercito scaricano rifiuti tossici in terreni palestinesi.

Inoltre negli ultimi anni Israele ha sistematicamente trasferito fabbriche inquinanti in Cisgiordania. Lo ha fatto costruendo cosiddette “aree industriali”, che non solo utilizzano manodopera palestinese a buon mercato, ma rilasciano le loro scorie tossiche nell’ambiente senza alcun riguardo per la salute dei palestinesi che vivono nelle vicinanze.

Israele ha anche proseguito la sua decennale pratica di sradicare gli ulivi e gli alberi da frutto palestinesi. Questa strategia, mirata a recidere il legame dei palestinesi con la loro terra, ha provocato non solo la perdita delle risorse vitali per migliaia di agricoltori palestinesi, ma anche l’erosione del suolo e l’accelerazione della desertificazione di zone della Palestina occupata.

Tutte queste attività che danneggiano l’ambiente in cui vive il popolo palestinese si vanno accumulando nel tempo. Oggi mettono a rischio le vite dei palestinesi, ma domani minacceranno anche le vite degli israeliani.

Se Israele continua a trattare la questione come “un problema di sicurezza” non lo risolverà mai, perché alla sua base vi è la logica distruttiva di un’impresa coloniale che cerca di sfruttare sia la terra che la popolazione senza riguardo per la natura ed il benessere degli esseri umani.

In altri termini, Israele non otterrà mai la sicurezza – dell’ambiente o di altro – finché continuerà ad opprimere i palestinesi, ad occupare la loro terra e a devastare l’ambiente. L’aria, l’acqua e l’ambiente israeliano nel suo complesso non saranno mai immuni dai disastri perpetrati da Israele nella Palestina occupata.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista internazionalmente accreditato, consulente dei media, scrittore.

Romana Rubeo è una scrittrice e traduttrice freelance che vive in Italia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli etiopi hanno l’opportunità di essere solidali con i palestinesi

Ashraf Ghandour – +972mag

Solomon Tekah è stato ucciso da un poliziotto israeliano perché era nero. I palestinesi che fanno notare che, in queste due forme di oppressione, l’oppressore è lo stesso hanno incontrato resistenza da parte della comunità etiope. Ma se questa prenderà coscienza della causa palestinese e del suo ruolo nel dramma di un popolo, potrà unirsi a un movimento trasversale

15 luglio 2019, Nena News – Da più di una settimana sto seguendo la battaglia, rumorosa e legittima, che gli etiopi israeliani stanno portando avanti contro il razzismo sistematico che li tiene sottomessi da 35 anni. Da palestinese, e da persona di colore, non posso che provare empatia per la loro sofferenza, oltre a uno strano senso di smarrimento perché noto che gli israeliani di ogni tipo non riescono a collegare la giusta lotta degli etiopi con quelle di altri gruppi oppressi da Israele.

Ma a Solomon Tekah hanno sparato perché era nero e, dato che io sono palestinese, non potevo che seguire la cosa molto attentamente.

Tekah, un etiope israeliano di 19 anni, è stato colpito la scorsa settimana, nel suo quartiere alla periferia di Haifa, da un poliziotto fuori servizio. Dopo gli spari, migliaia di persone della comunità etiope sono scese in strada per protestare contro il trattamento riservato alla loro gente dalle forze dell’ordine, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’oppressione che gli israeliani di origine etiope devono affrontare da quando hanno iniziato a migrare in Israele, alla metà degli anni ’80.

Tuttavia, i media israeliani hanno scelto immediatamente di concentrarsi sulla violenza e sugli atti vandalici di alcuni manifestanti etiopi contro la polizia, disumanizzando i manifestanti con appellativi come “animali”. Gran parte della copertura mediatica si è concentrata molto più sulle conseguenze sofferte dai civili bianchi, dei disordini nelle strade principali di Israele che sulla drammatica situazione dei manifestanti stessi.

Ho sentito professori di origine etiope parlare a nome dei manifestanti, paragonando la loro battaglia a quella delle comunità nere in America, a migliaia di chilometri di distanza. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, chi fa dichiarazioni pubbliche ignora apertamente il dramma di quattro milioni di palestinesi rinchiusi in Cisgiordania e Gaza, prigioni a cielo aperto, così come del milione e novecentomila palestinesi cittadini di Israele: sono il 20% della popolazione, ma rappresentano oltre la metà della popolazione carceraria.

I palestinesi che fanno notare che, in queste due forme di oppressione, l’oppressore è lo stesso, hanno incontrato resistenza da parte della comunità etiope, che preferisce mantenere le distanze da tali associazioni.

L’assassinio di Solomon e la reazione della maggior parte degli israeliani ricordano l’assassinio, da parte della polizia, di Michael Brown a Ferguson, Missouri, a cui sono seguite proteste di massa della comunità nera. Mentre crescevano le proteste, molti bianchi americani erano occupati a discutere sulla validità dell’uso della violenza da parte dei manifestanti neri, distogliendo l’attenzione dalla brutalità della polizia e dalla storia di un diciottenne assassinato, che sarebbe stato loro dovere proteggere.

Nel frattempo, i manifestanti di Ferguson imparavano via Twitter dagli abitanti di Gaza – che erano nel bel mezzo della guerra di Gaza del 2014 – come affrontare i lacrimogeni. È stato un momento politico che ha contribuito a rafforzare la solidarietà tra il movimento di solidarietà con la Palestina e il Black Lives Matter. Questo tipo di solidarietà, però, sembra essere totalmente svanito in coloro che hanno parlato a nome della comunità etiope in Israele la scorsa settimana.

I palestinesi non hanno bisogno di dimostrare competenza in Teoria Politica per sapere dove condurrà la battaglia degli etiopi. Siamo troppo abituati alla persecuzione, all’incarcerazione, alla disumanizzazione e alla mancanza di alleati israeliani veramente solidali con noi. Abbiamo visto la nostra condizione trasformarsi in una discussione annacquata sull’uso della violenza nelle proteste; abbiamo sentito la frase “perdi quando tiri la prima pietra”; siamo vittime a cui viene data la colpa, e ci mettono alle strette per farci condannare le azioni violente da parte di una manciata di manifestanti, il tutto mentre il nostro messaggio viene lentamente sepolto insieme alle vittime dell’occupazione e della crudeltà. Siamo stati gasati con i lacrimogeni, arrestati, e ci hanno sparato, e quando abbiamo visto il giovane manifestante etiope in piedi su una macchina in corsa, mentre batteva i pugni sul parabrezza, la sua frustrazione e la sua rabbia ci sono suonate anche troppo familiari.

Ma la distanza tra empatia e solidarietà è grande. Dopotutto, sono vostre le facce che vediamo, e vostre le mani sotto i nostri vestiti ai check-point. I vostri uomini armati, molti della stessa età di Solomon, vengono spediti a proteggere gli insediamenti e a fare irruzione a casa nostra, nei nostri campi profughi. Forse la vostra cecità verso la nostra situazione è il risultato della promessa di combattere un nemico comune.

Quando Mohammed Ali rifiutò di combattere in Vietnam, disse chiaramente che “non aveva niente contro i Vietcong”, piuttosto ce l’aveva con la guerra. Ora, ve lo devo chiedere: che problema avete con il popolo palestinese? Riuscite a passare al prossimo livello, a fare vostro il valore della giustizia per tutti e a rifiutarvi di partecipare alla prevaricazione di un intero popolo? Perché prendete le distanze da una battaglia contro la stessa supremazia bianca che ha distrutto villaggi palestinesi, rinchiuso gli arabi israeliani in campi profughi, sottratto i figli agli immigrati yemeniti e portato la disperazione nella vostra comunità?

C’è una via di uscita per tutto questo. Se prenderete coscienza della causa palestinese e del vostro ruolo nel dramma della popolazione palestinese, potrete unirvi a un movimento che è davvero trasversale e che incontra la solidarietà internazionale. Potrete unirvi a una voce sempre più forte che dà potere alle persone, non attraverso la repressione del prossimo, ma con l’abbattimento di sistemi di oppressione rivolti contro tutti coloro che non appartengono alla classe dominante.

In caso contrario, sarete condannati a vivere le vostre vite compiacendo i vostri alleati bianchi, che vi riserveranno condizioni di vita cui loro non si sottoporranno mai. Vi rivolgeranno un sorriso beffardo ogni volta che sarete troppo chiassosi, troppo violenti o troppo sensibili. Nel frattempo, continueranno a bombardare Gaza, ad arrestare bambini e a puntare la pistola contro il prossimo Solomon Tekah

(Traduzione di Elena Bellini) da NenaNews



Rassegna della stampa israeliana: ministro definisce i matrimoni con non-ebrei un “secondo Olocausto”

Da un corrispondente di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

Nel contempo ai richiedenti asilo è vietato iscrivere i bambini a scuola e il governo approva iniziative USA contro Hezbollah

Cittadina chiude scuole ai richiedenti asilo

Il giornale israeliano Haaretz ha informato che la cittadina israeliana di Petah Tikva sta impedendo ai richiedenti asilo, la maggioranza dei quali provenienti da Paesi africani, di iscrivere i figli nelle scuole della cittadina.

Secondo Haaretz i genitori di 129 bambini eritrei non hanno potuto iscrivere i propri figli negli asili e nelle scuole, aggiungendo che le famiglie hanno avviato un ricorso legale contro il Comune.

Benché la legge israeliana preveda che i genitori devono mandare i propri figli a scuola dai tre ai diciotto anni e stabilisca che l’educazione di base debba essere gratuita, a Petah Tikva i richiedenti asilo hanno scoperto di non poter iscrivere i propri figli, anche se hanno frequentato la scuola della città durante l’anno scorso.

La città utilizza due meccanismi per impedirne l’iscrizione: rifiuta di riconoscere i documenti che dimostrano che i richiedenti asilo sono residenti a Petah Tikva o sostiene che i bambini non possono completare l’anno scolastico perché i loro genitori sono in possesso di un visto che scade prima della fine dell’anno scolastico.

Il ministero dell’Interno israeliano emette permessi di permanenza a tempo determinate per periodi da tre a sei mesi.

In febbraio il Canale 13 israeliano ha informato che il sindaco di Petah Tikva Rami Greenberg ha chiesto agli abitanti della cittadina di dare notizia di richiedenti asilo nei loro quartieri per organizzare la loro deportazione.

Un ministro sostiene che i matrimoni misti sono un secondo Olocausto

Secondo notizie che hanno avuto ampio risalto, durante una recente riunione del governo il neoministro dell’Educazione, Rafi Peretz, ha affermato che i matrimoni tra ebrei e non ebrei – noti anche come matrimoni misti – sono un “secondo Olocausto”, che mette a rischio di distruzione il popolo ebraico.

Per anni l’organizzazione di destra contro i matrimoni misti “Lehava”, guidata dal Benzi Gupstein, è stata coinvolta in incitamenti all’odio e anche in attacchi fisici contro coppie miste in Israele. Tuttavia l’ufficio del procuratore generale israeliano, persino dopo che è stato presentata una denuncia ufficiale, rifiuta di incriminare Gupstein.

Prima delle elezioni Peretz ha tentato di prendere le distanze da Gupstein per mantenere un’immagine presentabile dell’Unione dei Partiti di Destra di cui è segretario, ma da quando è ministro ha apertamente manifestato le stesse opinioni sull’importanza della purezza razziale degli ebrei.

Netanyahu ammonisce l’Iran

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha usato lo sfondo di un gruppo tattico di caccia Stealth F-35 (importato dagli USA) per registrare un video in cui rivolge un monito all’Iran, affermando che “l’Iran deve ricordare che i nostri aerei da guerra lo possono raggiungere.”

Ben Kaspit, del giornale Maariv, sostiene che Netanyahu sta cercando di convincere il presidente USA Donald Trump ad affermare esplicitamente che esiste un’“alleanza militare” tra gli USA e Israele per aumentare le possibilità di Netanyahu nelle prossime elezioni.

In cambio Netanyahu farebbe una dichiarazione in appoggio al piano di Washington denominato “accordo del secolo” per risolvere la crisi israelo-palestinese.

Anche la decisione della Casa Bianca di imporre sanzioni a due deputati libanesi e ad un ufficiale della sicurezza del partito Hezbollah è stata ampiamente riportata ed in Israele è vista come una tacita accettazione dell’opinione del governo israeliano riguardo a Hezbollah come nient’altro che un rappresentante dell’Iran.

Silverstein rivela il nome del presunto uccisore di un ebreo etiope

Gli ebrei israeliani di origine etiope continuano a protestare in Israele e chiedono che il poliziotto che il 30 giugno avrebbe sparato e ucciso il diciottenne Salomon Teka ad Haifa venga chiamato a risponderne.

Su richiesta delle autorità israeliane l’identità del poliziotto sospettato è stata tenuta segreta, ma il blogger residente negli USA ed editorialista di Middle East Eye Richard Silverstein ha rivelato che il suo nome è Baruch Ben Azari.

Tuttavia Silverstein ha informato che, in conformità con le norme israeliane sulla censura, il motore di ricerca Google ha impedito alla gente in Israele di leggere il suo post.

L’identità di Ben Azari non è un segreto ben custodito, in quanto il suo nome è filtrato anche sulle reti sociali ed egli è stato identificato in un hotel. Si è anche lamentato di aver ricevuto minacce di morte.

A titolo di confronto, anche Mahmoud Qatusa, un palestinese falsamente accusato dello stupro di una bambina di sette anni in una colonia israeliana illegale nella Cisgiordania occupata, ha ricevuto minacce di morte, mentre delinquenti hanno fatto scritte nella sua città chiedendo la sua esecuzione e danneggiando veicoli nella zona.

A differenza di Ben Azari, l’identità di Qatusa non è stata protetta quando la polizia israeliana lo ha sospettato di un crimine che non aveva commesso e il suo nome e la sua foto sono stati pubblicati dai mezzi di comunicazione israeliani.

* La rassegna della stampa israeliana è un compendio di notizie la cui accuratezza non è stata verificata in modo indipendente da Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele afferma che l’uccisione di un membro di Hamas a Gaza è stata frutto di un ‘malinteso’

MEE e agenzie di stampa

11 luglio 2019 – Middle East Eye

Hamas dice che la morte di un membro del suo braccio armato, che stava seguendo altri palestinesi che si avvicinavano alla barriera, “non resterà impunita”

Giovedì un portavoce dell’organizzazione ha detto che un membro palestinese del braccio armato di Hamas è stato colpito a morte dalle forze israeliane vicino alla barriera di confine nel nord della Striscia di Gaza.

Hamas ha indicato il nominativo dell’uomo ucciso come Mahmoud al-Adham.

In una dichiarazione ha affermato che non lascerà questa morte “impunita” e che Israele “pagherà le conseguenze di questo atto criminale.”

Secondo una fonte di Hamas che ha parlato con Haaretz, il compito di Adham era di “impedire (ai palestinesi) di oltrepassare la barriera di confine.”

L’esercito israeliano lo ha confermato al sito di informazioni, dicendo che “una prima indagine evidenzia che un membro di Hamas si è avvicinato alla zona della barriera di confine seguendo due palestinesi che si avvicinavano alla barriera.”

Le truppe dell’esercito israeliano sono giunte sul luogo e hanno identificato il membro di Hamas come un terrorista armato. Hanno iniziato una sparatoria che è nata da un equivoco. Sull’incidente verranno fatte indagini.”

Il braccio armato di Hamas ha dei punti di osservazione vicino alla barriera di confine.

Da quando massicce proteste sostenute da Hamas sono iniziate lungo la barriera di confine nel marzo 2018, a Gaza sono stati uccisi dal fuoco israeliano almeno 295 palestinesi.

La maggior parte di loro è stata uccisa nel corso delle manifestazioni, ma altri sono stati uccisi da attacchi aerei o dal fuoco di carri armati. Sono stati uccisi sei israeliani.

L’enclave è sotto assedio dal 2007, il che ha causato grave penuria e stagnazione economica.

In base ad un accordo informale raggiunto a novembre, Israele avrebbe dovuto alleggerire le restrizioni in cambio di una tregua, ma da allora Hamas ha accusato Israele di non rispettare l’accordo.

lLe forniture di combustibile, che sono coordinate con le Nazioni Unite e pagate dallo Stato del Golfo del Qatar, facevano parte di quell’accordo di tregua.

Secondo l’ONU, esse hanno migliorato la fornitura di elettricità nell’enclave, dove gli abitanti attualmente usufruiscono di circa 12 ore di elettricità al giorno.

Prima dell’accordo la fornitura quotidiana di elettricità era abitualmente solo di sei ore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele isola università palestinesi

Maureen Clare Murphy

11 luglio 2019 – Electronic Intifada

Israele sta isolando le università palestinesi per obbligare studiosi internazionali a lasciare i propri incarichi accademici nella Cisgiordania occupata.

Due gruppi palestinesi per i diritti umani, così come l’università di Birzeit, stanno chiedendo a Israele di togliere le restrizioni che impediscono ad accademici internazionali di lavorare in Cisgiordania e di rendere nota “una procedura chiara e legale per il rilascio di visti di ingresso e di lavoro.”

La politica di Israele di negare a stranieri l’ingresso in Cisgiordania, così come di negare e non trattare per tempo le richieste per l’estensione dei visti, ha colpito decine di studiosi che lavorano nelle università palestinesi.

Ranking a rischio

L’istituzione educativa e i gruppi per i diritti affermano che le restrizioni israeliane minacciano il ranking di Birzeit, inclusa nel 3% delle migliori università del mondo. La percentuale di docenti e studenti internazionali è un indicatore fondamentale per determinare il livello dell’università.

Impedendo a Birzeit di assumere corpo docente straniero, Israele sta ostacolando la sua possibilità di funzionare come un’università che risponda agli standard internazionali,” hanno affermato l’università e i gruppi per i diritti “Al-Haq” e “Adalah”.

Negli ultimi due anni quattro docenti a tempo pieno e tre a tempo parziale di Birzeit, la più antica università palestinese aperta in Cisgiordania, sono stati obbligati a lasciare il Paese e non hanno potuto continuare ad insegnare dopo che Israele ha rifiutato di rinnovare i loro visti.

Quest’anno Israele ha negato l’ingresso a due [docenti] stranieri con contratti a tempo pieno alla Birzeit. Sei membri del corpo docente sono attualmente senza visto valido e altri cinque, compreso un direttore di dipartimento, “sono all’estero senza chiare indicazioni se potranno tornare.”

Decine di membri del personale e docenti stranieri sono stati “colpiti durante gli ultimi due anni dalle restrizioni israeliane riguardo alle richieste di nuovi visti o di prolungamento del visto o dal rifiuto di consentire loro di entrare in Cisgiordania.”

Molti sono palestinesi con passaporto internazionale e la maggioranza proviene dagli USA e da Stati membri dell’Unione Europea.

La politica di Israele nei confronti degli accademici stranieri “viola la libertà delle università di espandere le aree di ricerca e di studio che offrono agli studenti sia palestinesi che stranieri. Di conseguenza Israele sta impedendo alla popolazione palestinese occupata di decidere da sé che tipo di educazione voglia avere.”

Un regolamento emanato dal COGAT, il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana, consente a “docenti ed esperti” stranieri di presentare domanda per un visto di soli tre mesi. Nel contempo le università israeliane “possono reclutare professori stranieri con una procedura separata che consente l’ingresso e il lavoro di stranieri per periodi fino a cinque anni.”

Regime dei permessi

Il regime dei permessi israeliani impedisce ai palestinesi di Gaza di studiare nelle università della Cisgiordania e viceversa.

Una volta gli studenti di Gaza rappresentavano il 35% degli iscritti nelle università della Cisgiordania. A causa del blocco israeliano che dura da più di 10 anni, lo scorso anno la disoccupazione tra i neolaureati ha raggiunto a Gaza circa l’80%.

Le associazioni internazionali di docenti, comprese l’“Associazione per gli Studi sul Medio Oriente”, con sede negli USA, “Docenti della California per la Libertà Accademica” e la “Società Britannica per gli Studi sul Medio Oriente”, hanno condannato le restrizioni israeliane sui docenti stranieri nelle università palestinesi. Nel contempo accademici e ricercatori europei hanno chiesto la fine dei finanziamenti dell’UE alle istituzioni accademiche israeliane con “stretti legami con l’industria militare israeliana.”

L’Unione Europea ha destinato più di 800 milioni di dollari ai ricercatori israeliani, soprattutto attraverso il suo programma di finanziamenti “Horizon 2020”.

Dal 2004 gruppi della società civile palestinese hanno chiesto un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane.

L’appello al boicottaggio afferma che tali istituzioni “hanno contribuito direttamente a mantenere, difendere o comunque giustificare” l’oppressione dello Stato di Israele o “con il loro silenzio” sono state complici.

In quella che si dice sia la prima volta, un’associazione di studiosi della salute mentale ha appena annullato il progetto di tenere la sua conferenza del 2021 a Gerusalemme.

ENMESH” avrebbe preso la decisione dopo la reazione fortemente negativa di alcuni membri della direzione che non vogliono che l’organizzazione passi i prossimi due anni sotto pressione da parte di attivisti solidali con i palestinesi.

Secondo il giornale israeliano Haaretz, “è la prima volta che un’organizzazione di questo genere fa marcia indietro su sulla decisione già approvata di tenere un convegno in Israele, dimostrando il fatto che la campagna di boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane forse sta prendendo piede.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




La polizia israeliana espelle una famiglia palestinese a Gerusalemme est, mentre entra un gruppo di coloni

Redazione di MEE

10 luglio 2019 – Middle East Eye

La famiglia Siyam ha sostenuto una battaglia legale di 24 anni sulla proprietà contro il potente gruppo di coloni “Elad”

Mercoledì la polizia israeliana ha espulso una madre con i suoi quattro figli dalla loro casa nel quartiere della Gerusalemme est occupata di Silwan per consegnarla all’organizzazione di coloni “Elad”.

Negli ultimi 24 anni Jawad Siyam, un importante attivista locale che ha condiviso la titolarità della proprietà con la sua famiglia, è stato impegnato in una interminabile battaglia legale contro la ricca e potente “Elad” riguardo alla proprietà.

Secondo i media locali, è stato arrestato durante lo sfratto di sua sorella e dei suoi figli.

Dagli anni ’90 la famiglia Siyam ha vinto vari ricorsi nei tribunali israeliani contro Elad, ma il gruppo di coloni ogni volta ha presentato appello e esibito documenti ai giudici per dimostrare il proprio possesso della proprietà.

Lo scorso mese il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha sentenziato a favore di Elad, una potente organizzazione il cui patrimonio è stimato ammontare a oltre 300 milioni di shekel (circa 74 milioni di euro).

Ora alla famiglia Siyam sono rimaste solo due unità abitative di un edificio di otto unità, dopo che Elad ne ha ottenute quattro.

Altre due unità immobiliari sono andate alla “Custodia israeliana delle proprietà di assenti” – un ente coloniale istituito in seguito alla Nakba (Catastrofe) del 1948 per prendere il controllo delle proprietà di palestinesi fuggiti dalla repressione durante la creazione dello Stato di Israele.

Secondo testimoni, mercoledì membri di Elad hanno occupato l’ultimo appartamento dei Siyam, buttando fuori gli effetti personali della famiglia, cambiando le serrature, erigendo cancelli tra loro e i Siyam e tagliando alberi in giardino.

Il capo di Elad, David Beeri, è stato filmato mentre esaminava la proprietà e poi stringeva la mano a un ufficiale della polizia israeliana. Nel 2017 Beeri ha ricevuto il Premio Israel alla carriera.

Jawad Siyam è il fondatore e direttore del centro d’informazione “Wadi al-Hilweh”, una Ong che intende fornire informazioni ai media e all’opinione pubblica sulle attività israeliane di colonizzazione nei quartieri di Silwan e Wadi al-Hilweh e e sugli scavi e i tunnel realizzati sotto le case palestinesi dalle autorità israeliane.

A lungo i palestinesi hanno accusato Israele di cercare di “ebraicizzare” la Gerusalemme est occupata e di cacciare i suoi 300.000 abitanti palestinesi per avere il controllo totale sulla città santa.

I due quartieri si trovano a sud delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi della moschea di Al-Aqsa. Il quartiere è stato una zona di attività dei coloni e delle autorità israeliane, dove vengono tuttora effettuati scavi sotto le case dei palestinesi per trovare la perduta Città di Davide.

Negli ultimi 30 anni Elad ha occupato circa 75 case palestinesi. Lo scorso mese l’ambasciatore USA in Israele David Friedman e l’inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente Jason Greenblatt hanno partecipato all’inaugurazione di un discusso tunnel sotto Silwan.

Il progetto del tunnel, chiamato dal governo israeliano “Via del pellegrinaggio”, è stato costruito nel corso degli ultimi otto anni con il sostegno di Elad. Passa sotto il quartiere in maggioranza palestinese di Wadi al-Hilweh.

Dal 1995 l’Autorità Israeliana per le Antichità, con l’appoggio della fondazione di coloni “Ir David”, ha scavato siti archeologici a Wadi al-Hilweh, ufficialmente per creare una nuova attrazione turistica e scoprire nella zona prove dell’esistenza della trimillenaria “Città di David”.

Il completamento del progetto della nuova “Città di David”, compreso un viale di stile romano costruito su strade che hanno ospitato generazioni di palestinesi, rafforzerebbe la posizione dei 450 coloni illegali che attualmente vivono a Silwan sotto scorta pesantemente armata, ed emarginerebbe i 10.000 abitanti palestinesi del quartiere.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come i cristiani evangelici rischiano di incendiare il Medio Oriente

Jonathan Cook

8 luglio 2019 – Middle East Eye

TB Joshua è l’ultimo di una serie di predicatori filo-sionisti che si interessano a Israele – e i palestinesi ne pagheranno le conseguenze

Il recente arrivo del più popolare telepredicatore evangelico africano, TB Joshua, per rivolgersi a migliaia di pellegrini stranieri a Nazareth, ha prodotto un insieme di costernazione e di rabbia nella città dell’infanzia di Gesù.

C’è stata un’opposizione generalizzata da parte di movimenti politici di Nazareth, così come tra i gruppi comunitari e i leader religiosi, che hanno invocato un boicottaggio dei suoi due raduni. Si è aggiunto anche il consiglio dei mufti [autorità religiosa islamica, ndtr.], che ha descritto gli eventi come “una linea rossa per la fede nei valori religiosi.”

I raduni di Joshua, che includono episodi di esorcismo in pubblico, hanno avuto luogo in un anfiteatro all’aria aperta su una collina sopra Nazareth originariamente costruita per i fedeli del papa. Il luogo è stato utilizzato da papa Benedetto nel 2009.

Il pastore nigeriano, che ha milioni di seguaci in tutto il mondo e si autodefinisce un profeta, ha sollevato l’ostilità locale non solo perché il suo modello di cristianesimo si allontana di molto dalle più tradizionali dottrine delle chiese mediorientali. Rappresenta anche una tendenza dei cristiani stranieri, guidati da una lettura apocalittica della Bibbia, che si intromettono ancor più esplicitamente in Israele e nei territori palestinesi occupati – e in un modo che aiuta direttamente le politiche del governo israeliano di estrema destra.

Incremento del turismo di cui c’è molto bisogno

Nazareth è la più grande comunità palestinese in Israele sopravvissuta alla Nakba, o catastrofe, del 1948, che cacciò la maggioranza della popolazione autoctona da gran parte della propria patria e la sostituì con uno Stato ebraico. Oggi un quinto dei cittadini israeliani è palestinese.

La città e le sue immediate vicinanze includono la più alta concentrazione di palestinesi cristiani della regione. Ma ha a lungo patito dell’ostilità delle autorità israeliane, che hanno privato Nazareth di risorse per impedire che diventasse una capitale politica, economica o culturale della minoranza palestinese.

La città praticamente non ha terre su cui espandersi o zone industriali per ampliare le proprie risorse economiche, e Israele ha rigidamente limitato le sue possibilità di sviluppare un’adeguata industria turistica. La maggioranza dei fedeli vi passa brevemente per visitare la basilica dell’Annunciazione, il luogo in cui l’angelo Gabriele avrebbe detto a Maria che avrebbe portato in grembo Gesù.

Le autorità municipali di Nazareth hanno approfittato dell’occasione di sfruttare la pubblicità, e le entrate, fornite dalla visita di Joshua. La speranza a lungo termine del Comune è che, se la città potesse attirare almeno una piccola parte dei più di 60 milioni di cristiani evangelici degli USA e gli altri milioni in Africa ed Europa ciò fornirebbe un’enorme spinta all’economia della città.

Dati recenti mostrano che il turismo evangelico verso Israele è costantemente aumentato, rappresentando ora circa un settimo di tutti i visitatori dall’estero.

Giocare con il fuoco

Ma, come indicano le conseguenze negative della visita di Joshua, Nazareth potrebbe giocare con il fuoco incoraggiando questo tipo di pellegrini a interessarsi maggiormente alla regione. La maggior parte dei cristiani locali comprende che gli insegnamenti di Joshua non sono rivolti a loro – e, di fatto, probabilmente li danneggiano.

Il pastore nigeriano ha scelto Nazareth per diffondere il suo messaggio, ma si è trovato di fronte la viva opposizione di quanti credono che stia utilizzando la città solo come scenario per la sua più grande missione – che appare totalmente indifferente al dramma dei palestinesi, sia di quelli che vivono in Israele in luoghi come Nazareth o di quelli sotto occupazione.

A Nazareth le fazioni politiche hanno sottolineato i “legami di Joshua con circoli di estrema destra e dei coloni in Israele.” Egli avrebbe avuto incontri riguardo al fatto di avviare attività nella Valle del Giordano, il luogo in cui si ritiene che sia stato battezzato Gesù, ma anche la spina dorsale agricola della Cisgiordania. L’area è presa di mira dal governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu per l’espansione delle colonie e la possibile annessione, condannando di conseguenza i tentativi di creare uno Stato palestinese.

Una visione dell’Apocalisse

Durante la sua visita in Israele, Joshua ha anche avuto modo di parlare con figure importanti del governo, come Yariv Levin, uno stretto alleato di Netanyahu, che è stato titolare di due ministeri considerati fondamentali dalla comunità evangelica: quello del turismo e quello dell’integrazione in Israele di nuovi ebrei immigrati dagli USA e dall’Europa.

Nella comunità evangelica molti, compreso Joshua, pensano che sia loro dovere incoraggiare gli ebrei a spostarsi dai loro Paesi d’origine alla Terra Promessa per anticipare la fine del mondo, che sarebbe stata profetizzata dalla Bibbia.

Questa è l’Assunzione in cielo, quando Gesù ritornerà per costruire il suo regno sulla terra e i buoni cristiani prenderanno il loro posto al suo fianco. Tutti gli altri, compresi gli ebrei che non si saranno pentiti, è implicito, bruceranno nel fuoco eterno dell’inferno.

Il dirupo sulla valle di Megiddo, dove Joshua e i suoi discepoli si sono riuniti, offre una veduta su Tel Megiddo, il nome attuale del sito biblico di Armageddon, dove molti evangelici credono avverrà presto la fine del mondo.

Accelerare la seconda venuta

Questi cristiani non sono semplici osservanti di un progetto divino rivelato, sono parte attiva, cercando di avvicinare la fine del mondo.

Difatti i traumi del conflitto israelo-palestinese – i decenni di spargimenti di sangue, colonizzazione ed espulsione violenta dei palestinesi – non possono essere compresi separandoli dall’influenza dei dirigenti cristiani dell’Occidente in Medio Oriente nello scorso secolo. Essi hanno progettato in molti modi l’Israele che oggi conosciamo.

Dopotutto i primi sionisti non furono ebrei, ma cristiani. Un forte movimento cristiano-sionista – noto allora come “restaurazionismo” – sorse all’inizio del XIX° secolo, anticipando e influenzando pesantemente la sua successiva controparte ebraica.

La particolare lettura “restaurazionista” della Bibbia comportava che essi credessero che la seconda venuta del Messia avrebbe potuto essere accelerata se il popolo eletto da dio, gli ebrei, fosse tornato alla Terra Promessa dopo 2.000 anni di presunto esilio.

Charles Taze Russell, un pastore USA della Pennsylvania, viaggiò in tutto il mondo dagli anni ’70 dell’Ottocento in poi implorando gli ebrei di fondare un focolare nazionale per sé stessi in quella che allora era la Palestina. Produsse persino un progetto su come uno Stato ebraico potesse essere creato là. Lo fece circa 20 anni prima che il giornalista ebreo viennese Theodor Herzl pubblicasse il suo famoso libro che delineava uno Stato Ebraico.

Il laico Herzl non si interessava molto di dove questo Stato ebraico sarebbe stato fondato. Ma i suoi seguaci – profondamente consapevoli della presa del sionismo cristiano nelle capitali occidentali – concentrarono la propria attenzione sulla Palestina, la Terra Promessa biblica, nella speranza di conquistarsi potenti alleati in Europa e negli USA.

Parola d’ordine per i seguaci di Herzl

L’appoggio dell’impero britannico era particolarmente prezioso. Nel 1840 Lord Shaftesbury, che grazie a sua moglie era in rapporto con Lord Palmerston, in seguito primo ministro, pubblicò sul “London Times” un’inserzione che sollecitava il ritorno degli ebrei in Palestina.

Il sionismo cristiano fu un importante fattore che influenzò il governo inglese nel 1917 per l’emanazione della Dichiarazione Balfour – di fatto un impegno della Gran Bretagna che divenne la matrice per la creazione di uno Stato ebraico sulle rovine della patria della popolazione autoctona.

Scrivendo a proposito della dichiarazione, lo storico israeliano Tom Segev ha osservato: “Gli uomini che l’hanno prodotta erano cristiani e sionisti e, in molti casi, antisemiti.” Ciò perché i cristiani sionisti partivano dal presupposto che gli ebrei non si potessero integrare nei loro Paesi d’origine. Invece avrebbero potuto servire come strumenti del volere di dio, spostandosi in Medio Oriente in modo che i cristiani potessero essere redenti.

Edwin Montagu fu l’unico ministro del governo britannico ad opporsi alla Dichiarazione Balfour, ed era anche l’unico membro ebreo. Avvertì – per buone ragioni – che il documento si sarebbe “dimostrato un terreno comune per gli antisemiti in ogni Paese al mondo.”

Lotta fino all’Assunzione”

Mentre un secolo fa gli ebrei sionisti guardavano alla potenza imperiale britannica perché li appoggiasse, oggi il loro patrono sono gli USA. I portabandiera del sionismo cristiano hanno goduto di una crescente influenza a Washington a partire dalla guerra dei Sei Giorni del 1967.

Questo processo ha raggiunto il suo apice sotto la presidenza di Donald Trump. Si è circondato di una miscela di estremisti ebrei e cristiani sionisti. Il suo ambasciatore in Israele, David Friedman, e il suo inviato in Medio Oriente, Jason Greenblatt, sono ferventi sostenitori ebrei delle colonie illegali. Ma, a quanto pare, alla Casa Bianca ci sono anche importanti cristiani, come il vice presidente Mike Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo.

Prima che entrasse nel governo, Pompeo era stato chiaro riguardo alla sua fede evangelica. Nel 2015 ha detto a una congregazione: “È una lotta senza fine…fino all’Assunzione in cielo. Siatene parte. Partecipate alla lotta.”

Lo scorso marzo ha appoggiato l’idea che Trump possa essere stato mandato da dio per salvare Israele da minacce come l’Iran. “Confido che dio stia lavorando qui,” ha detto alla Rete Televisiva Cristiana [CBN una rete televisiva americana di produzione religiosa evangelica molto conservatrice ndtr].

Nel contempo Pence ha affermato: “La mia passione per Israele sgorga dalla mia fede cristiana…È veramente il più grande privilegio della mia vita essere il vicepresidente di un presidente che si preoccupa così profondamente del nostro più prezioso alleato.”

Il gigante addormentato si risveglia.

Lo scorso anno lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme da parte di Trump, svuotando di significato qualunque accordo negoziato del conflitto israelo-palestinese, era inteso a compiacere la sua base cristiana sionista. Circa l’80% degli evangelici bianchi ha votato per lui nel 2016 ed egli avrà bisogno del loro appoggio di nuovo nel 2020 se spera di essere rieletto.

Non a caso la nuova ambasciata USA a Gerusalemme è stata consacrata da due importanti telepredicatori evangelici, John Hagee e Robert Jeffress, noti per il loro appoggio fanatico a Israele – così come per i loro occasionali accessi antisemiti.

Più di un decennio fa Hagee, fondatore di “Cristiani Uniti per Israele”, disse ai delegati di una conferenza organizzata dall’AIPAC, principale gruppo lobbystico di Israele a Washington: “Il gigante addormentato del sionismo cristiano si è svegliato. Ci sono 50 milioni di cristiani che applaudono in piedi lo Stato di Israele.”

Le attività del gruppo di Hagee includono pressioni sul Congresso per dure leggi a favore di Israele, come la recente legge “Taylor Force” che taglia drasticamente il finanziamento USA all’Autorità Nazionale Palestinese, il governo provvisorio palestinese. Il gruppo è anche attivo nel contribuire a far pressione a favore di leggi a livello statale e federale che penalizzino chiunque boicotti Israele. Per gli evangelici USA e altrove Israele è sempre più una questione fondamentale. Un sondaggio del 2015 mostrava che circa i tre quarti credono che avvenimenti in Israele siano stati profetizzati nel Libro dell’Apocalisse della Bibbia.

Molti si aspettano da Trump che completi una catena di eventi messi in movimento da politici britannici un secolo fa – e in numero sempre maggiore sono direttamente coinvolti nella speranza di accelerare il processo.

Legami più stretti con i coloni

La visione israeliana di una “riunificazione degli esiliati” – incoraggiando gli ebrei di tutto il mondo a spostarsi nella regione in base alla “legge del ritorno” – corrisponde perfettamente alla fede dei cristiani sionisti in un progetto divino per il Medio Oriente.

Anche gli sforzi dei coloni estremisti ebrei di colonizzare la Cisgiordania, la maggior parte di un qualunque futuro Stato palestinese, si accorda con la concezione dei cristiani sionisti della Cisgiordania come il “cuore biblico”, un’area che gli ebrei devono possedere prima che Gesù ritorni.

Per queste ragioni gli evangelici stanno sviluppando rapporti sempre più stretti con gli estremisti religiosi ebrei israeliani, soprattutto nelle colonie. Recenti iniziative hanno incluso programmi di studio della Bibbia, on line e presenziali, condotti da ebrei ortodossi, spesso coloni, destinati specificamente a cristiani evangelici. I seminari sono disegnati per rafforzare la narrazione dei coloni, così come per demonizzare i musulmani e, per estensione, i palestinesi.

Il corso più popolare offerto da “Root Source” [Sorgente Principale], una di queste iniziative, è intitolato “Islam: idee e inganni”. Utilizza il Vecchio e il Nuovo Testamento per sostenere l’argomentazione secondo cui l’Islam “è estremamente pericoloso”.

Pochi mesi fa Haaretz, il principale giornale progressista israeliano, ha pubblicato un’inchiesta sul crescente afflusso di volontari e finanziamenti evangelici nelle colonie illegali in Cisgiordania – il principale ostacolo per raggiungere una soluzione dei due Stati.

Una sola organizzazione USA, “Hayovel”, ha portato più di 1.700 volontari cristiani negli ultimi 10 anni per contribuire a una colonia nei pressi di Nablus, nel cuore della Cisgiordania.

Affluisce denaro degli evangelici

Un crescente numero di iniziative simili è stato agevolato da nuove norme introdotte lo scorso anno dal governo israeliano per finanziare gruppi cristiani sionisti come Hayovel perché promuova all’estero le colonie.

È molto più difficile sapere esattamente quanto denaro degli evangelici affluisca nelle colonie, a causa della mancanza di trasparenza riguardo alle donazioni USA fatte da chiese e istituzioni benefiche. Ma l’inchiesta di Haaretz stima che nell’ultimo decennio siano stati investiti più di 65 milioni di dollari.

Dieci anni fa Ariel, una colonia posta nel pieno centro della Cisgiordania, ha ricevuto da John Hagee Ministries [Sermoni di John Hagee] 8 milioni di dollari per un centro sportivo. Un altro gruppo evangelico, “J. H. Israel”, vi ha speso 2 milioni di dollari per un centro per una leadership nazionale.

Altre associazioni benefiche cristiane che storicamente hanno finanziato progetti in Israele stanno sempre più prendendo in considerazione anche l’assistenza alle colonie.

Se un piano di pace di Trump, che dovrebbe essere reso pubblico alla fine di quest’anno, sostenesse l’annessione di parti della Cisgiordania, come ampiamente previsto, probabilmente scatenerebbe un nuovo e anche maggiore flusso di denaro degli evangelici nelle colonie.

Immune alla ragione

Proprio questo è il problema per i palestinesi, e per il Medio Oriente in generale. I cristiani sionisti si stanno ancora una volta immischiando, che si tratti di funzionari del governo, leader o comunità di una chiesa. L’influenza degli evangelici si può riscontrare dagli USA e il Brasile all’Europa, all’Africa e al Sudest asiatico.

I governi europei generalmente hanno preoccupazioni più concrete e pressanti che realizzare profezie bibliche per giustificare politiche di divide et impera in Medio Oriente. Vogliono soprattutto il controllo sulle risorse petrolifere della regione, e possono garantirsele solo attraverso il potere militare per impedire che Nazioni rivali vi si affermino.

Ma l’acritico sostegno di decine di milioni di cristiani in tutto il mondo, la cui passione per Israele è immune alla ragione, fanno il lavoro per quei governi accettando come niente fosse guerre e furto di risorse.

Sia Israele che l’Occidente hanno tratto beneficio dall’aver creato l’immagine di un impavido Stato ebraico circondato da barbari arabi e musulmani decisi a distruggerlo. In conseguenza di ciò, Israele ha goduto di una sempre crescente integrazione nel blocco delle potenze occidentali, mentre ai governi occidentali sono stati offerti facili pretesti per interferire nella regione, direttamente o delegando questa intromissione a Israele.

La ricompensa per Israele è stata l’appoggio incondizionato da parte degli USA e dell’Europa, mentre opprime ed espelle dalle loro terre i palestinesi.

Con una base evangelica dietro di lui, Trump non ha la necessità di offrire argomenti plausibili prima di agire. Può spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme o approvare l’annessione della Cisgiordania, o attaccare l’Iran.

Schierarsi contro i nemici di Israele

Da questo punto di vista qualunque nemico Israele sostenga di avere – i palestinesi o l’Iran – diventa automaticamente acerrimo nemico di decine di milioni di cristiani evangelici. Netanyahu comprende la crescente importanza di questa acritica lobby straniera, mentre la posizione sua e di Israele precipita tra gli ebrei USA progressisti, inorriditi dalla deriva verso destra dei governi che vi si susseguono.

Nel 2017 Netanyahu ha detto a una folla di evangelici a Washington: “Quando dico che non abbiamo migliori amici dei sostenitori cristiani di Israele, so che siete sempre stati con noi.” Per i palestinesi questa è una brutta notizia. La maggior parte di questi evangelici, come T.B. Joshua, sono in larga misura indifferenti o ostili al destino dei palestinesi – anche dei palestinesi cristiani, come quelli di Nazareth.

Un recente editoriale di Haaretz ha evidenziato che Netanyahu e i suoi politici stanno ora “adoperandosi per rendere gli evangelici – che appoggiano il rifiuto radicale di Israele riguardo ai palestinesi – l’unica base dell’appoggio americano per Israele.”

La verità è che questi cristiani sionisti vedono la regione attraverso un unico, esclusivo prisma: qualsiasi cosa contribuisca all’imminente arrivo del messia è ben accetta. L’unico problema è tra quanto tempo il “popolo eletto” da dio si riunirà nella Terra Promessa.

Se i palestinesi ostacolano Israele, queste decine di milioni di cristiani stranieri saranno assolutamente contenti di vedere la popolazione autoctona di nuovo cacciata – come lo è stata nel 1948 e nel 1967.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. È l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come “colonie archeologiche” stanno distruggendo case palestinesi

Mersiha Gadzo

 8 luglio 2019 – Al Jazeera

Secondo una Ong, Israele sta creando una “realtà storica immaginaria” con scavi di tunnel nella Gerusalemme est occupata.

Fayyad Abu Rmeleh, 60 anni, teme che un giorno il pavimento e il cortile della sua casa crollino. Ogni giorno, dice, dalla mattina fino al tardo pomeriggio, la famiglia sente scavare e trivellare tunnel sotto l’edificio.

Gli scavi condotti dalle autorità israeliane sono iniziati per la prima volta nel 2000, ma è stato solo cinque anni fa che loro hanno iniziato a notare danni alla casa.

“Sta mettendo in pericolo le nostre vite,” dice Abu Rmeleh ad Al Jazeera. “Se ti guardi intorno trovi nuove crepe. Non sappiamo quanti tunnel ci siano sotto la nostra casa, ma crediamo che siano almeno tre.”

I cinquanta membri della famiglia Abu Rmeleh vivono nel quartiere Wadi Hilweh di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, pubblicizzato come l’attrazione turistica della “Città di Davide”, dove secondo alcuni israeliani il re Davide biblico costruì l’“originaria città di Gerusalemme”, circa 3000 anni fa.

Sotto la loro casa le autorità israeliane hanno scavato tunnel, cercando le tracce dell’epoca del Secondo Tempio.

Nella sua casa si sono formate lunghe crepe irregolari in ogni direzione – sulle scale, vicino alle finestre in bagno e in sala, mentre in certi punti si sono staccati dal muro dei calcinacci.

Fuori di casa una crepa lunga un metro e mezzo si snoda sul terreno.

Ma la casa di suo nipote, che si trova nello stesso edificio, è stata ancora più danneggiata. All’inizio del 2018 è stato obbligato ad andarsene con la moglie e i cinque figli, in quanto il terreno ha ceduto e può a malapena sostenere i muri.

“Ho sempre paura, sono sempre preoccupato. Chiedo ai bambini di non giocare molto nel cortile o di non correre troppo, in quanto il pavimento potrebbe crollare in qualunque momento,” dice Umm Jihad, la moglie di Abu Rmeleh.

Da anni gli abitanti palestinesi di Silwan sono allarmati dai danni che le loro case hanno subito a causa degli scavi nel sottosuolo.

La scorsa settimana le autorità israeliane hanno inaugurato il tunnel scavato da poco, “il Cammino dei Pellegrini”, che si estende da Wadi Hilweh al Muro del Pianto, appena fuori dal complesso di Al Aqsa nella Città Vecchia della Gerusalemme est occupata.

Fonti ufficiali israeliane – compresi membri dell’organizzazione dei coloni “Elad”, che finanzia gli scavi e gestisce il sito – affermano che la strada era percorsa dai pellegrini ebrei verso il Secondo Tempio, che credono si trovasse dove ora c’è il complesso di Al Aqsa.

L’Autorità Nazionale Palestinese ha condannato la presenza di funzionari USA all’inaugurazione, definendo l’avvenimento come parte della “ebreizzazione” di Gerusalemme.

Il consigliere della Casa Bianca Jason Greenblatt ha risposto in un tweet che la protesta è “ridicola”, aggiungendo: “Non possiamo ‘ebreizzare’ quello che la storia/archeologia mostrano. Possiamo attestarlo e voi potete smettere di fare finta che non sia vero! La pace può essere costruita solo sulla verità.”

Cattiva archeologia”

Mentre Greenblatt e membri di “Elad” sono certi che il nuovo tunnel servisse come cammino dei pellegrini verso il Secondo Tempio, molti archeologi non lo sono, come ha notato in un articolo Yonathan Mizrachi, che vive a Gerusalemme.

Mizrachi, direttore dell’Ong israeliana “Emek Shaveh”, dice ad Al Jazeera che i tunnel che Israele ha scavato dentro e attorno alla Città Vecchia e a Silwan sono “problematici”.

Finora non è stato pubblicato nessun articolo accademico o scientifico sui tunnel, né è stato pubblicato alcun dato su quello che è stato scoperto. Secondo “Emek Shaveh”, riguardo al “Cammino dei Pellegrini” non ci sono certezze relative alla datazione del canale di drenaggio.

Oltretutto i tunnel sono stati scavati orizzontalmente, rompendo in pratica con il metodo di scavo verticale dalla superficie in giù accettato da un secolo, secondo Mizrachi il metodo utilizzato dagli archeologi in tutto il mondo. Le informazioni ottenute da scavi orizzontali sono quasi senza alcun valore.

“Quando scavi orizzontalmente, non puoi capire esattamente come i vari periodi si sono sviluppati nel sottosuolo, non capisci correttamente quello che trovi perché lo vedi da una sezione laterale, non dall’alto,” dice Mizrachi.

“Non è il modo di fare archeologia. Quando scavi orizzontalmente commetti fin dall’inizio un errore.” In precedenza due importanti funzionari dell’Autorità Israeliana delle Antichità, Jon Seligman e Gideon Avni, avevano criticato l’escavazione dei tunnel, affermando che, contrariamente alla prassi accettata, è “cattiva archeologia” e “le autorità non dovrebbero essere orgogliose di questi scavi.”

Realtà storica immaginaria”

L’ultima inaugurazione è emblematica del più complessivo problema: ai visitatori dei luoghi archeologici accompagnati nella Gerusalemme est occupata viene detto che gli scavi sono esclusivamente relativi alla storia ebraica, ignorando i diversi capitoli multiculturali della storia di Gerusalemme, come i periodi bizantino e omayyade.

“La gente della fondazione “Elad” ha creato una realtà storica immaginaria fondata sulle sue convinzioni religiose e sui suoi obiettivi nazionalisti piuttosto che su ritrovamenti archeologici e altre prove storiche,” ha osservato Emek Shaveh in un suo rapporto del 2017.

Per esempio, secondo Emek Shaveh presso i famosi tunnel del Muro del Pianto resti di periodi non relativi alla storia ebraica rimangono per lo più ignorati dai visitatori, nonostante gli archeologi concordino sul fatto che la maggior parte dei reperti sia successiva alla distruzione del Secondo Tempio.

In realtà la maggior parte degli scavi presso i tunnel del Muro del Pianto sono al di sotto di strati che sono totalmente musulmani, strutture dei Mamelucchi del XIV° e XV° secolo, nota Mizrachi.

Eppure quello che viene raccontato ai visitatori si concentra quasi esclusivamente sulla storia del Secondo Tempio. Uno degli spazi più vasti scavati nei tunnel del Muro del Pianto è un hammam (bagno turco) del periodo mamelucco, nel XIV° secolo.

Eppure è stato convertito in un’esposizione dell’eredità ebraica, dedicato a raccontare la storia del pellegrinaggio degli ebrei a Gerusalemme, “ignorando quindi completamente il significato storico del sito in cui si trova”, ha scritto Emek Shaveh.

Non ci sono indicazioni per fare in modo che il visitatore sappia che si tratta di una struttura mamelucca o che è stata costruita dal governatore di Damasco, Sayf al-Din Tankaz, responsabile di alcuni degli edifici più considerevoli del tempo, ha scritto Mizrachi in un articolo.

Allo stesso modo nel 2012 il governo israeliano ha deciso di progettare un Centro Biblico all’ingresso di Silwan, che avrebbe presentato storie bibliche e la loro importanza per gli israeliani.

Eppure, secondo Emek Shaveh, nessun resto significativo di periodi biblici è stato scoperto in quel luogo.

A Silwan continuano gli scavi sotto le case palestinesi per trovare prove storiche di re Davide per pubblicizzarla come la “Città di Davide”, nonostante il fatto che gli archeologi mettano in discussione le testimonianze di un regno nel X° secolo a.C.

“C’è un dibattito molto acceso tra gli archeologi su quanto avvenne a Gerusalemme nel X° secolo a.C., il periodo che intendo come l’epoca di Davide e del regno di Salomone,” dice Mizrachi.

“Le testimonianze archeologiche sono molto poche e non ci forniscono il quadro di una vera e propria città, né assolutamente di una città vasta, grande, importante.

“Ci sono stati 150 anni di scavi (alla ricerca della città di Davide), ci sono certamente ancora molte testimonianze mancanti riguardo al tempo di Davide e Salomone. Questo è sicuramente un problema.”

Colonia archeologica”

Mizrachi afferma che gli scavi del tunnel fanno “tutti parte di un progetto politico”.

“Sfortunatamente Israele sta utilizzando questi tunnel mascherati da scavi archeologici, ma in realtà ciò fa parte dell’obiettivo politico di impedire che Gerusalemme rientri in qualunque soluzione politica,” afferma Mizrachi. “Pensiamo che sia un’altra forma di colonizzazione. È una colonia senza persone, ma si tratta di una colonia archeologica. Non è meno problematica, ma persino di più, rispetto ad altre colonie.”

Riguardo alla famiglia Abu Rmeleh, pensa che la sua vita sia in pericolo ma non sa a chi rivolgersi per essere aiutata.

Oltre alle crepe che il loro edificio ha subito, nella casa del nipote hanno anche trovato un buco che porta ai tunnel.

“Lo abbiamo coperto con questo pezzo di legno e qualche pietra perché temiamo quello che potrebbe uscire da quel buco,” dice Abu Rmeleh.

In marzo l’agenzia di notizie Ma’an ha informato che a Silwan un campo giochi è crollato in seguito a 12 anni di scavi sotterranei.

“La cosa più importante nella vita di una persona è vivere in sicurezza e con stabilità. Una casa dovrebbe essere il luogo in cui ci possiamo sentire (sicuri), ma non è il nostro caso,” afferma Abu Rmeleh, aggiungendo che continueranno a vivere nell’edificio nonostante la sua fragilità.

“Questa casa vuol dire tutto per un anziano come me…Il legame tra me e la casa è come quello tra padre e figlio,” dice Abu Rmeleh.

Sull’autrice

Mersiha Gadzo è una giornalista e produttrice in rete di Al Jazeera in inglese.

(traduzione di Amedeo Rossi)