La lobby israeliana attacca un sopravvissuto di Auschwitz per diffamare Corbyn

Adri Nieuwhof

7 agosto 2018, Electronic Intfada

 

Nella loro campagna per diffamare in quanto antisemita il leader del partito Laburista Jeremy Corbyn, i media britannici hanno utilizzato in modo scorretto il mio defunto amico Hajo Meyer, sopravvissuto ad Auschwitz,.

Nel 2010 Corbyn ha ospitato a Londra un incontro del “Holocaust Memorial Day” [“Giorno di Commemorazione dell’Olocausto”], in cui Meyer era il principale oratore.

Negli scorsi giorni The Times ha suscitato scalpore con un articolo in cui si dichiarava che Meyer “aveva paragonato la politica israeliana al regime nazista.”

Deputati della destra laburista avversari di Corbyn sono partiti all’attacco.

Il parlamentare John Mann ha dichiarato che l’evento ha violato “qualunque forma di normale decenza”, mentre la sua collega Louise Ellman ha affermato che l’incontro l’ha portata a “chiedersi se questa è la ragione per cui il partito Laburista ha voluto attenuare tanto la definizione di antisemitismo.”

Ellman – da molto tempo apologeta delle violazioni israeliane dei diritti umani – è una funzionaria di “Labour Friends of Israel” [“Amici laburisti di Israele”], un gruppo lobbystico in stretti rapporti con l’ambasciata israeliana.

Ellman si riferiva alla definizione profondamente fallace di antisemitismo della “International Holocaust Remembrance Alliance [“Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto”] (IHRA), che cita come esempio di fanatismo antiebraico “paragoni tra l’attuale politica israeliana e quella dei nazisti”.

Sotto pressione da parte di gruppi della lobby filoisraeliana, il Comitato Esecutivo Nazionale del partito Laburista [NEC] ha adottato la definizione dell’IHRA come parte del regolamento del partito.

Ma il NEC non ha accolto uno degli esempi inclusi nella definizione dell’IHRA, secondo cui “sostenere che lo Stato di Israele è un’iniziativa razzista” è una forma di antisemitismo.

Alcuni attivisti hanno sottolineato che, se adottata dal partito, questa clausola avrebbe potuto essere usata per vietare un gran numero di critiche contro le politiche razziste di Israele e contro le violazioni dei diritti fondamentali dei palestinesi.

In un post su Twitter, Henry Zeffman, l’autore dell’articolo del Times, ha ringraziato “quanti hanno passato gli ultimi tre anni a impegnarsi per verificare cosa il possibile prossimo primo ministro ha fatto quando era un oscuro parlamentare di secondo piano” – una conferma che si tratta di una campagna di lungo corso contro Corbyn.

Zeffman segnala in particolare James Vaughan, che si autodefinisce “storico della propaganda e dei rapporti tra il Regno Unito e Israele.”

Corbyn cede

Gli ultimi attacchi contro Corbyn sottintendono che lo stesso Meyer fosse un antisemita – un’affermazione scandalosa ed assurda.

La calunnia di antisemitismo contro Meyer è disgustosa e dovrebbe essere trattata col massimo disprezzo.

Invece Corbyn ha fatto quello che continua a fare sistematicamente da quando è diventato capo del partito, cioè essere accomodante e battere in ritirata di fronte alle pressioni della lobby israeliana.

Il leader del partito Laburista ha chiesto scusa per il suo ruolo nell’evento e ha preso le distanze dalle opinioni esposte da Meyer nell’incontro, lasciando l’onere della difesa sulle spalle di Meyer.

Ma Hajo Meyer non può più difendersi perché è morto nel 2014.

Zittire un sopravvissuto

L’evento dell’” Holocaust Memorial Day” del 2010 ha avuto luogo un anno dopo l’attacco israeliano contro Gaza, che ha ucciso più di 1.400 palestinesi e ne ha ferite altre migliaia.

Meyer era molto turbato dall’attacco perché i palestinesi erano intrappolati a Gaza a causa del blocco imposto da Israele sul territorio dal 2007.

Non poteva fare a meno di fare un confronto tra gli ebrei rinchiusi dai nazisti in ghetti come quello di Varsavia e la situazione dei palestinesi intrappolati sotto l’occupazione e i bombardamenti israeliani.

L’incontro del 2010 era co-organizzato dalla IJAN, l’“International Jewish Anti-Zionist Network” [“Rete Internazionale degli Ebrei Antisionisti”].

In una dichiarazione della scorsa settimana, la IJAN ha evidenziato che un certo numero di dirigenti della lobby britannico-israeliana era presente all’incontro, ma che “la maggior parte di loro evidentemente non era andata per ascoltare.”

La maggior parte dei sionisti era chiaramente venuta per far tacere il dottor Meyer, sopravvissuto all’Olocausto,” ha scritto dopo l’evento una dei partecipanti, Yael Khan. “Appena ha iniziato a parlare si sono messi a gridare contro di lui.”

Il fanatico filoisraeliano Jonathan Hoffmanex-vicepresidente della Federazione Sionista, noto per la sua violenza, è stato uno dei molti disturbatori accompagnati fuori dalla polizia.

Secondo l’IJAN, un altro disturbatore, Martin Sugarman, è stato fatto uscire per aver gridato contro Meyer.

Mentre usciva [Sugarman] ha sbalordito tutti facendo il saluto nazista e gridando: ‘Sieg Heil’ [“Saluto alla vittoria”, slogan nazista, ndtr.],” ha affermato l’IJAN.

Non avevo mai visto un simile disprezzo e mancanza di rispetto nei confronti di un sopravvissuto all’Olocausto,” ha osservato Kahn. “Gli aggressori avrebbero etichettato un simile comportamento come antisemita, se Hajo non fosse stato un antisionista.”

Amanda Sebestyen, che aveva partecipato all’incontro del 2010, ha confermato a The Electronic Intifada che la deputata Louise Ellman era stata lì “per tutto il tempo.”

Infatti nel 2010 Sebestyen ha scritto una lettera al giornale del partito Laburista Tribune, mettendo in evidenza come Ellman e gli altri “siano rimasti seduti impassibili senza fare in minimo tentativo di calmare i loro colleghi sostenitori di Israele e per creare uno spazio di dibattito.”

Le annotazioni, registrate nel 2010, sulla presenza di Ellman sono significative, dato che otto anni dopo la deputata sostiene di aver appreso solo ora dell’evento.

Sono estremamente turbata nel sentire ora che ci sono le prove che Jeremy (Corbyn) era effettivamente presente all’incontro in cui sono state espresse simili opinioni,” ha detto Ellman a The Times la scorsa settimana.

Dato che anche Ellman era presente, perché ha aspettato fino ad ora per esprimere la propria indignazione? Potrebbe essere che tutta la vicenda sia un’altra crisi costruita ad arte per fare pressione su Corbyn per il suo tradizionale appoggio ai diritti dei palestinesi?

Ellman non ha risposto ad una richiesta di commenti inviatale via mail da The Electronic Intifada.

Lezioni dall’Olocausto

Le esperienze di Hajo Meyer con il nazismo tedesco lo hanno formato e reso sensibile alle sofferenze degli altri, soprattutto dei palestinesi.

Incontrai per la prima volta Meyer ad una riunione di “Una voce ebraica differente”, un gruppo di attivisti olandesi.

Mi presentai come figlia di genitori che avevano subito l’occupazione tedesca. Mio padre era stato obbligato a lavorare per i tedeschi e mia madre non poté terminare i suoi studi perché la sua scuola venne chiusa.

Durante la carestia olandese alla fine della Seconda Guerra Mondiale, doveva rimanere ore in coda ad una mensa per i poveri.

La lezione che ho imparato è di protestare quando viene commessa un’ingiustizia, dissi alla riunione.

Questa è la ragione per cui ho partecipato al sostegno della lotta contro l’apartheid sudafricano e di quella dei palestinesi per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza.

Meyer ed io facemmo subito amicizia. Rimanemmo in contatto e l’intervistai varie volte per The Electronic Intifada.

Auschwitz

Dopo il pogrom della Notte dei Cristalli contro gli ebrei nel novembre 1938, Meyer dovette lasciare la scuola a Beilefeld, la sua città natale nella Germania occidentale.

Fu un’esperienza terribile per un ragazzo desideroso d’imparare e per i suoi genitori,” mi ha raccontato.

All’età di 14 anni dovette scappare da solo in Olanda.

Dopo che i tedeschi occuparono l’Olanda, Meyer si nascose con una carta d’identità falsa malfatta.

Venne catturato dalla Gestapo nel marzo 1944 e deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Lì i nazisti gli tatuarono sul braccio il numero “179679”.

L’istruzione era molto importante per la famiglia Meyer ed il suo desiderio di imparare si tradusse in un dottorato in fisica teorica dopo che venne liberato da Auschwitz.

Sua madre e suo padre tentarono di lasciare la Germania, ma non ci riuscirono.

Morirono dopo essere stati spediti al campo di concentramento nazista di Terezin.

L’identificazione con la gioventù palestinese

Riflettendo sulla sua vita, Meyer mi ha detto nel 2011: “Ho molto in comune con i giovani palestinesi.”

La mia sorte è molto simile a quella che stanno vivendo i giovani palestinesi in Palestina. Non hanno libero accesso all’istruzione. Impedire l’accesso all’istruzione è un omicidio al rallentatore,” ha detto Meyer.

Sono stato un rifugiato; loro sono rifugiati,” ha aggiunto. “Ho provato ogni sorta di campi che hanno limitato la mia possibilità di muovermi, proprio come i palestinesi.”

Ma riconoscere l’ingiustizia non era abbastanza.

Meyer non temeva di protestare per le responsabilità di Israele: “Non posso assolutamente identificarmi con i criminali che rendono impossibile ai giovani palestinesi ricevere un’istruzione.”

Era anche sgomento dal fatto che l’Unione Europea non imputasse a Israele i suoi crimini, soprattutto contro i palestinesi di Gaza.

Nel suo libro del 2005 “Das Ende de Judentums, Der Verfall der israelischen Gesellschaft” – “La fine dell’Ebraismo, la decadenza della società israeliana” – Meyer avvertì il pubblico tedesco che le politiche di Israele verso i palestinesi avrebbero potuto essere paragonate alle prime fasi della persecuzione nazista contro gli ebrei.

Questa osservazione venne fatta nel 2007 anche da Tommy Lapid, il defunto ex-capo del comitato consultivo del memoriale dell’Olocausto di Israele, lo “Yad Vashem”.

Meyer ha messo in chiaro che non intendeva tracciare un parallelo con l’Olocausto nazista.

Ma lui e il suo editore hanno comunque dovuto affrontare accuse di antisemitismo.

Simili accuse – soprattutto in Germania – possono far sì che le persone siano riluttanti a criticare il comportamento di Israele.

Tuttavia ciò non gli ha impedito di criticare le violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi.

In risposta, Meyer ha pubblicato un opuscolo per controbattere all’abuso deliberato dei termini antisionismo e antisemitismo da parte dello Stato di Israele e dei suoi gruppi di pressione.

Ha chiesto la massima cautela nel sollevare accuse di antisemitismo – un termine che avrebbe dovuto essere riservato all’ostilità contro gli ebrei in quanto tali.

Eppure quelli che attaccano Corbyn oggi non hanno né ritegno né vergogna.

Chiamano antisemita persino un uomo sopravvissuto ad Auschwitz e che ha perso i propri genitori nell’Olocausto, se pensano che sia ciò che serve per difendere Israele dalle conseguenze dei suoi crimini.

Adri Nieuwhof è una sostenitrice olandese dei diritti umani ed ex-attivista contro l’apartheid del “Comitato Olandese sul Sud Africa”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




1918,1948, 2018: la Prima Guerra Mondiale, la Nakba e la nascita del nazionalismo etnico

Shmuel Sermoneta-Gertel

15 maggio 2018,Mondoweiss

Quest’anno segna non solo il 70esimo anniversario della Nakba [espulsione dei palestinesi dai territori su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele, ndtr.], ma anche il centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. I due eventi sono strettamente correlati in molti modi, che intenderei esplorare attraverso lo sguardo di un eminente ebreo antisionista dell’inizio del XX secolo, Aharon Shmuel Tamares (1869-1931), rabbino della città di Milejczyce (Russia, e in seguito Polonia).

Nel suo ultimo lavoro, “Sheloshah Zivugim Bilti Hagunim” (“Tre unioni inopportune”), scritto in risposta alla rivolta in Palestina del 1929 [rivolta palestinese contro la dominazione inglese e la presenza sionista, ndtr.] e pubblicato circa un anno prima della sua morte, Tamares spiegò la propria contrarietà al movimento sionista, soprattutto riguardo all’atteggiamento sionista verso la Grande Guerra ed il suo esito.

Tamares inizia la sezione del suo testo a questo riguardo (“Parte 3: L’unione tra ‘la rinascita della lingua e della cultura ebraica’ e il sionismo”) con un’inequivocabile denuncia della guerra e della divisione del bottino tra le potenze vittoriose:

Le grandi potenze mondiali hanno deciso di discutere su chi fosse più potente – una discussione infuocata. Nel frattempo, hanno dato alle fiamme migliaia di città e villaggi e ricoperto la terra intera di vittime. Dopo aver concluso il loro “elegante” dibattito, i membri della parte i cui fucili avevano avuto l’ultima parola e di cui il mondo è caduto preda, hanno convenuto di spartirsi il pianeta tra loro, per smembrarlo in piccoli Stati che obbedissero al loro volere.

Definisce la Prima Guerra Mondiale “il più grande scandalo della storia del mondo” e paragona la conferenza di Parigi (Versailles) ad un gruppo di macellai che stanno intorno a un tavolo per sezionare la vittima. Creando numerosi nuovi Stati nazionali, argomenta Tamares, le potenze hanno dato supporto all’idea di nazionalismo etnico – che inevitabilmente sfocia, secondo Eric Hobsbawm, nell’“espulsione di massa o nello sterminio delle minoranze.”

È questo nazionalismo etnico che Tamares identifica come la causa prima della violenza anti-semita e della discriminazione contro gli ebrei in Europa nel periodo post bellico, soprattutto nei nuovi Stati etnico-nazionali creati nel centro e nell’est dell’Europa. Tamares inoltre cita la normalizzazione della brutalità come fattore esacerbante, prevedendo che d’ora in avanti chi ha il potere farà il ragionamento che “se è stato accettabile, durante la guerra, trattare milioni di persone come carne da macello, viene di conseguenza che si possano anche imprigionare in gran numero, che possano semplicemente morire di fame.”

Queste ragioni stanno alla base dell’accusa di Tamares al sionismo ed alla leadership sionista: la loro glorificazione ideologica del concetto stesso di guerra e la loro attiva partecipazione a quell’abominio che fu la Prima Guerra Mondiale (nella “Legione ebraica” ed in azioni di spionaggio contro l’impero ottomano in Palestina); la loro adozione del principio di nazionalismo etnico, incoraggiando in tal modo altri e gettando sé stessi nell’abisso morale dell’espropriazione colonialista degli abitanti nativi della Palestina.

Tamares non afferma che il movimento sionista non avesse queste aspirazioni prima della guerra, ma che la guerra ed il “Balfourismo” [riferimento al ministro inglese Balfour, che diede il nome alla famosa dichiarazione che impegnò la Gran Bretagna a favorire un focolare ebraico in Palestina, ndtr.], al quale ha dato impulso, le hanno rese possibili.

Incoraggiati dalla Dichiarazione Balfour e dalle decisioni della Conferenza di Parigi e della Società delle Nazioni, i leader sionisti non fecero segreto del fatto che la loro intenzione era di portare gli ebrei in Palestina non come normali immigrati, ma come “occupanti…per imporre il proprio comando sui suoi originari abitanti….per essere padroni della terra…per diventare maggioranza…e trasformare i suoi precedenti abitanti, gli arabi, in una minoranza.” Con il potere di Balfour dietro di loro (non solo come ideatore della Dichiarazione Balfour, ma anche come uno degli architetti di Versailles), pensarono di poter ignorare il fatto che “la terra in questione non era una sorta di nuova isola disabitata che avevano trovato alla fine del mondo e nei mari lontani, ma la patria di un popolo che senza dubbio avrebbe vissuto le loro aspirazioni alla “sovranità” e allo “Stato” come una spina nel fianco”. Prosegue citando un racconto del Talmud che parla di un gruppo di marinai che si era fermato a riposare in quella che credevano un’isola. Dopo un po’ cominciarono a sentirsi i suoi padroni e quando accesero un fuoco il gigantesco pesce sul cui dorso avevano deciso di stabilirsi si girò, gettandoli tutti in acqua. “L’analogia, scrive, è ovvia.”

L’affermazione sionista che gli arabi fossero, nella versione sarcastica di Tamares, “un popolo incolto che aveva rubato la terra, installandovisi per soli quindici secoli, che non sono che un giorno e mezzo secondo gli standard delle antiche tribù “storiche”, ai cui occhi mille anni sono come ieri”, coincideva perfettamente con il profondo razzismo che ha portato gli inglesi e la Società delle Nazioni ad appoggiare la creazione di un “focolare nazionale” ebraico in Palestina.

Alla base del nazionalismo etnico, secondo Tamares, vi è l’idea che gli abitanti del mondo si dividano tra coloro che sono “padroni” nei propri Paesi e coloro che sono “stranieri”, a volte tollerati in vario grado, ma sempre alla mercé dei primi.

Egli identifica questa divisione delle persone tra ‘chi è dentro e chi è fuori’, promossa e perpetuata dalle potenze alla Conferenza di Parigi e dalla Società delle Nazioni, con il peccato del popolo di Sodoma, per cui la città venne distrutta da Dio (Genesi 19; vedere anche il Talmud babilonese: Sanhedrin 109b). È proprio questo approccio che egli attribuisce al movimento sionista, che accusa sia di fornire aiuto e sostegno ai nazionalisti europei, responsabili della brutale persecuzione degli ebrei in Europa, che di cercare di creare un regime in Palestina in cui anche gli originari abitanti della terra sarebbero trattati come “stranieri”, costretti a dipendere da un qualunque tipo di “tolleranza” potesse essere manifestata dai loro “padroni” ebrei.

Questa giustapposizione tra antisemitismo e sionismo, attraverso la lente del nazionalismo etnico, è particolarmente interessante, non solo come una sorta di regola fondamentale (Non fare agli altri…), ma anche in quanto analisi del sionismo come reazione all’antisemitismo e soluzione della “questione ebraica”. Tamares sostiene infatti che il sionismo non solo non ha combattuto l’antisemitismo in Europa, ma lo ha attivamente incoraggiato accettandone la causa profonda e, a volte, sostenendo i suoi effettivi esponenti (come “fratelli” ideologici ed anche come strumenti per i propri fini).

Questo potrebbe sembrare uno scritto storico e commemorativo, ma non è questa la mia intenzione. Un secolo dopo l’armistizio del 1918 e 70 anni dopo la Nakba, il nazionalismo etnico è vivo e vegeto. È per questo che i dimostranti palestinesi, a Gaza o a Gerusalemme o a Umm al-Fahm, possono essere colpiti impunemente; che i gazawi possono essere imprigionati in massa per 11 anni, senza che se ne veda la fine; che i palestinesi in Cisgiordania possono essere privati dei fondamentali diritti umani; che ai cittadini palestinesi di Israele si può negare l’eguaglianza; che i diritti dei rifugiati palestinesi possono ancora essere ignorati.

Come ai tempi di Tamares, questa ideologia non è feudo esclusivo dei sionisti, né esiste nel vuoto. E come ai tempi di Tamares, è il ‘balfourismo’ stesso che deve essere contrastato, dovunque cerchi di dividere il popolo tra “padroni” e “stranieri”.

Shmuel Sermoneta-Gertel è un insegnante, traduttore e ricercatore indipendente che vive a Roma. È membro della Rete ECO – Ebrei contro l’occupazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA del periodo 17 -30 luglio 2018 (due settimane)

Lungo la recinzione israeliana che circonda Gaza, le proteste e gli scontri del venerdì si sono ripetuti: quattro palestinesi, tra cui due minori, sono stati uccisi ed altri 763 sono stati feriti.

Altri tre palestinesi sono morti per le ferite riportate durante le dimostrazioni delle settimane precedenti. I due minori (11 e 16 anni) sono stati colpiti con armi da fuoco dalle forze israeliane durante manifestazioni tenute il 27 luglio nelle zone di Rafah e Khan Younis: il primo è morto immediatamente, mentre il secondo è stato ferito in modo grave ed è morto il giorno seguente. Gli altri due morti (due uomini) sono stati colpiti con armi da fuoco a Gaza ed a Khan Younis, durante le manifestazioni del 20 e 27 luglio. Quasi la metà dei feriti sono stati ricoverati in ospedale; 217 di loro erano stati colpiti con armi da fuoco.

Con questi ultimi eventi, salgono a 26, a partire dal 30 marzo 2018, i minori palestinesi uccisi a Gaza dalle forze israeliane. Di questi, 21 sono stati uccisi durante manifestazioni e 5 in altre circostanze. Inoltre, durante lo stesso arco di tempo, sono stati feriti e ricoverati in ospedale 1.487 palestinesi e due minori israeliani. In una dichiarazione rilasciata il 1° agosto, alti funzionari delle Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per la violazione dei diritti dei minori e hanno invitato Israele, l’Autorità palestinese e le Autorità di Hamas a Gaza a rispettare i diritti dei minori e ad astenersi dalla loro strumentalizzazione.

Nei pressi della recinzione perimetrale di Gaza, in vari altri episodi, sono stati uccisi sette membri dell’ala armata di Hamas e un soldato israeliano. Il 19 luglio, a est di Rafah, le forze israeliane hanno sparato diversi di colpi di cannone, uccidendo un componente dell’ala armata di Hamas, e ferendone altri tre. Il giorno dopo, ad est di Khan Younis, nel corso di una delle dimostrazioni, un palestinese ha colpito e ucciso un soldato israeliano: è il primo ucciso, dalle ostilità del 2014. Dopo questo fatto, l’esercito israeliano ha lanciato su Gaza massicci raid aerei e bombardamenti, uccidendo tre membri dell’ala armata di Hamas e ferendo 28 persone, tra cui 8 minori. I palestinesi hanno lanciato contro Israele tre razzi, senza causare feriti o danni. Nelle prime ore del 21 luglio, è stato raggiunto un precario cessate il fuoco mediato dall’Egitto e dalle Nazioni Unite. Ciò nonostante, il 25 luglio, i palestinesi hanno sparato e ferito un soldato israeliano che pattugliava la recinzione, e carri armati israeliani hanno bombardato postazioni militari a Gaza, uccidendo altri tre membri dell’ala armata di Hamas e ferendo un minore.

Dopo il cessate il fuoco è stato segnalata un significativa riduzione nel lancio di aquiloni e palloncini incendiari da Gaza verso Israele; tuttavia, a partire dal 26 luglio la loro frequenza è nuovamente aumentata. Secondo le autorità israeliane, dalla fine di aprile, sono stati registrati circa 1.200 incendi, che hanno bruciato più di 3.000 ettari di terra coltivata e di riserve naturali. In tali circostanze non sono state segnalate vittime israeliane.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 21 casi, non contestuali alle manifestazioni di massa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco. Quattro palestinesi, tra cui un pescatore e due minori, sono rimasti feriti. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Il 24 luglio, le autorità israeliane hanno revocato il divieto di ingresso di carburante e gas da cucina nella Striscia di Gaza, imposto il 16 luglio. È rimasto in vigore il divieto di importazione a Gaza di una serie di prodotti, inclusi materiali da costruzione, mobili, legno, elettronica e tessuti, nonché il divieto generalizzato di esportazione. Le restrizioni sarebbero state imposte in risposta al lancio di aquiloni e palloncini incendiari. Secondo la Federazione Palestinese delle Industrie, da quando sono state imposte le restrizioni all’importazione, oltre 4.000 lavoratori dell’edilizia sono stati temporaneamente licenziati, principalmente a causa della carenza di materiali da costruzione.

Il 23 luglio, per mancanza di carburante, la Centrale Elettrica di Gaza (GPP) è stata costretta a fermarsi del tutto: rispetto alle 19 ore precedenti, le interruzioni di corrente sono aumentate fino a una media di 20 ore al giorno. Questa situazione è causata dalla mancanza di fondi per l’acquisto di carburante dall’Egitto. Il 26 luglio, la Centrale ha ripreso, in parte, le operazioni.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, a controllo

egiziano, è rimasto aperto cinque giorni/settimana in entrambe le direzioni, ad eccezione di un giorno. 2.934 persone sono entrate a Gaza e 2.552 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è stato aperto quasi continuativamente.

In Cisgiordania, durante numerosi scontri con forze israeliane, un minore palestinese è stato ucciso e 57 palestinesi, tra cui 21 minori, sono rimasti feriti. Il 23 luglio, nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme), durante un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un quindicenne. Dall’inizio dell’anno, sale a sei il numero di minori palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania. I rimanenti ferimenti sono stati registrati durante altre operazioni di ricerca-arresto, tra cui quella svolta nel villaggio di Kobar (Ramallah, vedi sotto), le dimostrazioni settimanali di Kafr Qaddum e gli scontri al Complesso di Al Haram ash Sharif / Monte del Tempio (vedi sotto).

Il 26 luglio, nell’insediamento colonico di Adam (governatorato di Gerusalemme), un 17enne palestinese ha accoltellato e ucciso un colono israeliano e ne ha feriti altri due; è stato successivamente ucciso da un altro colono. Il suo corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. I soldati israeliani hanno fatto irruzione nel villaggio di Kobar, dove viveva l’autore dell’aggressione; ne sono seguiti scontri, durante i quali 17 palestinesi, tra cui nove minori, sono rimasti feriti. Le forze israeliane hanno anche fatto rilievi della casa di famiglia del giovane, in vista della sua demolizione punitiva.

Nella Città Vecchia di Gerusalemme, all’interno e intorno al Complesso di Al Haram ash Sharif / Monte del Tempio, le tensioni sono aumentate in seguito all’ingresso di numerosi gruppi di israeliani. Il 22 luglio, nel Complesso sono entrati circa 1.000 israeliani accompagnati da forze israeliane; successivamente, nella Città Vecchia, alcuni di loro hanno danneggiato proprietà palestinesi, inclusi almeno tre negozi. Il venerdì successivo, nella stessa area, sono scoppiati scontri tra palestinesi e forze israeliane; queste ultime hanno chiuso tutti i cancelli del Complesso ed hanno fatto irruzione nelle due Moschee per allontanarne i palestinesi. In questa circostanza 10 palestinesi sono rimasti feriti e 26 sono stati arrestati; più tardi, nello stesso giorno, è stato ripristinato il regolare accesso al Complesso.

Quattordici attacchi di coloni israeliani hanno provocato il ferimento di sei palestinesi e danni a 760 alberi, 6 abitazioni, 3 negozi, 11 veicoli e il furto di 2 tende fornite come assistenza umanitaria. La metà degli episodi sono avvenuti nella Cisgiordania settentrionale, e quattro di essi hanno causato incendi dolosi di una casa e di alberi nei villaggi di Qusra, Jalud e Asira al Qibliya (in Nablus) e in Immatin (Qalqiliya). Tre degli attacchi sono stati effettuati nella zona H2 della città di Hebron: si è trattato di aggressioni fisiche contro un anziano, una coppia e un minore. Altri due attacchi sono stati registrati nei villaggi di Beitillu e Al Mughayyir (Ramallah), il primo dei quali contro un anziano che si trovava sulla propria terra. Gli ultimi due attacchi sono stati registrati nel governatorato di Gerusalemme, dove tre negozi sono stati vandalizzati da coloni israeliani appena usciti dal complesso di Al Haram ash Sharif / Monte del Tempio (vedi sopra), mentre, vicino all’insediamento colonico di Adam, un uomo è rimasto ferito da pietre lanciate contro il proprio veicolo.

Vicino al villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), palestinesi hanno lanciato pietre contro un veicolo, ferendo un colono israeliano. In Cisgiordania, almeno altri 9 veicoli israeliani sono stati danneggiati in episodi simili.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi edilizi rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 15 strutture palestinesi, sfollando 14 palestinesi, tra cui sette minori, e colpendone altri 333. Una delle strutture prese di mira era una roulotte finanziata da donatori per la Comunità beduina di Jabal Al Baba (Gerusalemme). Era utilizzata per gestire l’Asilo ed il Centro per le donne; talvolta veniva usata anche come ambulatorio mobile. Una casa, insieme ad altre tre strutture, è stata demolita nella città di Gerico (in una zona compresa in Area C); mentre un ricovero per animali è stato demolito in un’area nel sud di Hebron (Massafer Yatta) designata [da Israele] come “zona per esercitazioni a fuoco”. Le restanti demolizioni, inclusa una effettuata dai proprietari, si sono avute a Gerusalemme Est.

Ancora a Gerusalemme Est, nell’area di Beit Hanina, in seguito ad una sentenza della Corte Suprema Israeliana, due case sono state autodemolite dai proprietari palestinesi; la sentenza è stata favorevole ai coloni israeliani che rivendicavano la proprietà del terreno su cui erano state costruite le abitazioni. Di conseguenza, 19 persone, tra cui otto minori, sono state sfollate. Indipendentemente dal caso di sfratto deciso dalla Corte, le case avevano ordini pendenti di demolizione per mancanza di permessi di costruzione. Negli ultimi decenni, organizzazioni di coloni israeliani, sostenuti dalle autorità israeliane, hanno preso il controllo di proprietà interne ai quartieri palestinesi di Gerusalemme Est: circa 180 famiglie palestinesi stanno attualmente affrontando, presso i tribunali israeliani, cause di sfratto intentate da coloni.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 2 agosto, le autorità israeliane hanno ripristinato il divieto di ingresso di carburante e gas da cucina nella Striscia di Gaza.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Gli avvenimenti dal 29 luglio, quando la Marina israeliana ha assalito la “al-Awada” della Freedom Flottilla, l’ha dirottata e ha deviato verso Israele la sua rotta verso Gaza

dott.ssa Swee Ang, medico di bordo della C

4 agosto 2018

Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza diretta della dottoressa Swee Ang, medico di bordo dell’imbarcazione al-Awad che fa parte della Freedom Flottilla che negli scorsi giorni ha cercato di arrivare a Gaza con un carico di medicinali e per protestare contro l’assedio a cui la Striscia è sottoposta da Israele ed Egitto. Ci pare molto importante dare voce alla sua testimonianza in quanto l’arrembaggio in acque internazionali e la deportazione degli attivisti è stata del tutto ignorata dai media mainstream . Essa dimostra quale sia il comportamento dello Stato di Israele in violazione delle più basilari norme del codice della navigazione e persino del rispetto dovuto a persone ingiustamente imprigionate per aver manifestato solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Era previsto che l’ultima parte del viaggio della “al-Awada” (“La barca del ritorno”) raggiungesse Gaza il 29 luglio 2019. Eravamo pronti a raggiungere Gaza quella sera. C’erano 22 persone a bordo, compreso l’equipaggio, con 15.000 dollari di antibiotici e bende per Gaza. Alle 12,31 abbiamo ricevuto una chiamata persa da un numero che cominciava con +81…In quel momento Mikkal stava al timone dell’imbarcazione. Il telefono ha suonato di nuovo, con il messaggio che stavamo entrando in acque israeliane. Mikkel ha risposto che eravamo in acque internazionali e secondo le leggi del mare avevamo diritto a un passaggio pacifico. L’accusa di aver oltrepassato (le acque territoriali) è stata ripetuta in continuazione mentre Mikkel ripeteva il messaggio che stavamo navigando in acque internazionali. Tutto ciò è continuato per circa mezz’ora, mentre al-Awda era a 42 miglia nautiche dalla costa di Gaza.

Prima dell’inizio di quest’ultimo tragitto abbiamo passato 2 giorni a imparare azioni non violente e ci siamo preparati in anticipo all’arrembaggio israeliano contro la nostra imbarcazione. Le persone più fragili, soprattutto i malati, dovevano sedersi a poppa sul ponte superiore con le mani sul tavolo di coperta. La leader di questo gruppo era Gerd, una grande atleta norvegese di 75 anni, e aveva nel gruppo l’aiuto di Lucia, un’infermiera spagnola.

La gente che doveva organizzare una barriera non violenta per gli israeliani saliti sul ponte e si fossero impadroniti dell’imbarcazione ha formato tre file – due di 3 e una terza di 2 persone, che bloccassero la porta della sala di comando per proteggerla il più a lungo possibile. C’erano staffette tra la sala di comando e la poppa del ponte di coperta. Il capo dell’imbarcazione, Zohar, ed io eravamo ai due estremi del corridoio dei gabinetti, dove scrutavamo l’orizzonte e informavamo tutti di ogni avvistamento di navi da guerra. Ho scherzato con Zohar e gli ho detto: “Siamo la brigata dei gabinetti”, ma credo che Zohar non l’abbia trovato molto divertente. È stata probabilmente una battuta di cattivo gusto, date le circostanze. Io avrei potuto essere utile anche come staffetta e avrei avuto l’accesso ad ogni parte del ponte in qualità di medico di bordo.

Presto abbiamo visto almeno tre grandi navi da guerra israeliane all’orizzonte con 5 o più barche veloci (Zodiac) che sfrecciavano verso di noi. Mentre gli Zodiac si avvicinavano ho visto che avevano a bordo soldati con mitragliatrici e che sulle barche c’erano grandi mitragliatori montati in posizione e puntati contro di noi. Dal mio punto di osservazione il primo soldato israeliano è salito a bordo a livello della cabina, si è arrampicato sulla scaletta dell’imbarcazione verso il ponte superiore. Il suo volto era coperto con un passamontagna bianco e dietro di lui ce n’erano molti altri, tutti mascherati. Erano armati di mitra e con piccole videocamere sul petto.

Immediatamente si sono impadroniti della sala di comando superando la prima fila e torcendo le braccia dei partecipanti, sollevando Sara e scagliandola lontano. Joergen, il capitano, era troppo grosso per essere malmenato, per cui l’hanno colpito con una pistola elettrica prima di toglierlo di mezzo. Hanno attaccato la seconda fila prendendosela con Emelia, infermiera spagnola, l’hanno tolta di mezzo rompendo così la fila. Poi si sono avvicinati alla porta della sala di comando ed hanno colpito con la pistola elettrica Charlie, il primo ufficiale, e Mike Treen, che stavano ostruendo l’ingresso della sala di comando. Anche Charlie è stato colpito. Mike non li lasciava passare nemmeno dopo essere stato colpito agli arti inferiori con il dissuasore elettrico, per cui è stato colpito con la pistola elettrica al collo e al volto. In seguito ho visto Mike sanguinare dalla guancia sinistra. Quando l’ho visitato era semi-cosciente.

Hanno fatto irruzione nella sala di comando rompendo la serratura, hanno forzato il motore per spegnerlo e hanno tolto prima la bandiera palestinese e poi quella norvegese e l’ hanno calpestata.

Poi hanno portato via tutta la gente dalla parte anteriore della imbarcazione attorno alla sala di comando e l’hanno spostata con la forza e l’intimidazione, sbattendola a poppa. Tutti sono stati obbligati a sedersi sul pavimento in fondo, tranne Gerd, Lucy e la gente più debole che era seduta attorno alla tavola sui sedili di legno. I soldati israeliani allora hanno formato una fila, isolando le persone nella parte posteriore impedendo loro di tornare a prua.

Come siamo arrivati a poppa siamo stati tutti perquisiti e ci è stato ordinato di consegnare i nostri telefonini o li avrebbero presi con la forza. Questa parte di ricerca e confisca è stata fatta sotto il comando di una soldatessa. Oltre ai telefonini sono stati portati via anche le medicine e i portafogli. Al momento (4 agosto 2018) a nessuno è stato restituito il telefonino.

Ho visitato Mike e Charlie. Charlie aveva ripreso conoscenza e i suoi polsi erano strettamente legati con lacci di plastica. Mike stava sanguinando da un lato del volto, e ancora non era del tutto cosciente. Le sue mani erano legate molto strette con i lacci, la circolazione nelle dita era interrotta e le sue dita e i palmi delle mani avevano iniziato a gonfiarsi. A questo punto tutte le persone sedute per terra hanno iniziato ad gridare chiedendo che i lacci venissero tagliati. È passata circa mezz’ora prima che gli venissero finalmente tolti.

In quel momento a Charlie, il primo ufficiale, è stata consegnata la bandiera norvegese. Era palesemente arrabbiato mentre diceva a tutti noi che la bandiera norvegese era stata calpestata. Charlie si è arrabbiato più per la bandiera norvegese calpestata che per il fatto di essere stato picchiato e colpito con la pistola elettrica.

I soldati hanno poi iniziato a chiedere del capitano dell’imbarcazione. I ragazzi si son messi a rispondere di essere ognuno il capitano. Alla fine gli israeliani hanno capito che il capitano era Herman e hanno preteso di portarlo nella sala di comando. Herman ha chiesto che qualcuno andasse con lui, e io mi sono offerta. Ma come ci siamo avvicinati alla sala di comando sono stata spinta via e Herman è stato obbligato ad entrare da solo. Divina, la nota cantante svedese, nel frattempo si è liberata dalla poppa ed è andata a prua per vedere attraverso la finestra della sala di comando. Ha iniziato a gridare e piangere: “Basta, basta, stanno picchiando Herman, gli stanno facendo del male.” Non potevamo vedere quello che vedeva Divina, ma sapevamo che era qualcosa di molto allarmante. In seguito, quando Divina ed io eravamo insieme nella stessa cella in prigione, mi ha detto che stavano scagliando Herman contro la parete della sala del timone e lo prendevano a pugni sul petto. Divina è stata portata via a forza e i soldati l’hanno riportata a poppa torcendole il collo.

Io sono stata spinta di nuovo a poppa. Dopo un po’ il motore dell’imbarcazione è partito. Più tardi Gerd mi ha raccontato di essere riuscita a sentire Herman raccontare in prigione al console norvegese che gli israeliani volevano che lui avviasse il motore, minacciando di ucciderlo se non l’avesse fatto. Ma loro non capivano che su quell’imbarcazione, una volta fermato, il motore può essere fatto ripartire solo manualmente nella sala macchine al livello inferiore. Arne, il macchinista, si è rifiutato di far ripartire il motore, per cui gli israeliani hanno portato giù Herman e lo hanno picchiato davanti ad Arne, dicendo chiaramente che avrebbero continuato a picchiarlo se Arne non avesse fatto partire il motore. Arne ha 70 anni e quando ha visto che il volto di Herman diventava livido, ha ceduto e ha fatto partire il motore manualmente. Gerd è scoppiata a piangere raccontando questa parte della vicenda. Gli israeliani hanno poi preso il controllo dell’imbarcazione e l’hanno diretta verso Ashdod.

Quando la barca si è mossa, i soldati israeliani hanno portato Herman all’ambulatorio medico. Ho visitato Herman ed ho visto che soffriva molto, in silenzio ma cosciente, con respirazione spontanea ma molto poco profonda. Il medico dell’esercito israeliano stava cercando di convincere Herman a prendere qualche medicina per il dolore. Herman non ne voleva sapere. Il medico israeliano mi ha spiegato che quello che gli stava offrendo non era una medicina dell’esercito, ma sua personale. Mi ha dato il farmaco in mano in modo che lo potessi controllare. Era una piccola bottiglietta di vetro marrone ed ho immaginato che fosse un qualche tipo di preparazione di morfina liquida, probabilmente equivalente a Oromorph o a Fentanyl. Ho detto a Herman di prenderlo e il dottore gli ha detto di prenderne 12 gocce, dopodiché Herman è stato portato fuori e sdraiato su un materasso a poppa. È stato vegliato dalla gente che lo circondava e si è addormentato. Dalla mia posizione ho visto che respirava meglio.

Una volta sistemato Herman, mi sono concentrata su Larry Commodore, leader nativo americano e ambientalista. È stato eletto due volte capo della sua tribù. Larry ha un’asma lieve e con la situazione di stress il mio timore era che potesse avere un brutto attacco e necessitasse di un’iniezione di adrenalina. Stavo per fargli fare degli esercizi di respirazione profonda. Ma Larry non stava per avere una crisi di asma, era impegnato a parlare con un israeliano con la faccia coperta da un panno nero. Quest’uomo era evidentemente il comandante.

Ho chiesto all’israeliano mascherato il suo nome e ha detto di chiamarsi Field Marshall Ro…Larry ha capito male, pensava che avesse detto di chiamarsi Field Marshall Rommel e si è messo a gridare come potesse, lui israeliano, prendere il nome di un nazista. Field Marshall lo ha smentito e si è presentato come Field Marshall (?) Ronan. Quando ho fatto lo spelling di Ronan mi ha rapidamente corretta dicendo che il suo nome era Ronen, e che lui, Field Marshall Ronen, era il comandante.

I soldati israeliani avevano tutti telecamere addosso e ci hanno filmato tutto il tempo. Ci è stata portata sul ponte una cassetta di panini e pere. Nessuno di noi ha toccato il loro cibo in quanto avevamo deciso di non accettare l’ipocrisia e la carità israeliane. Il nostro cuoco, Joergen, aveva già preparato dei deliziosi biscotti molto calorici e proteici con noci e cioccolato, avvolti in carta stagnola, da consumare se fossimo stati catturati, in quanto sapevamo che sarebbero stati un lungo giorno e una lunga notte. Joergen lo chiamava cibo per il viaggio.

Sfortunatamente, quando stavo per mangiarlo, gli israeliani me l’hanno tolto e l’hanno buttato via. Mi hanno solo detto: “È vietato”. Non ho mangiato niente per 24 ore, perché ho rifiutato il cibo dell’esercito israeliano e non avevo cibo mio.

Mentre navigavamo verso Israele abbiamo potuto vedere la costa di Gaza nella totale oscurità. C’erano 3 piattaforme di petrolio/gas in mare a nord di Gaza. Le luminose fiamme del petrolio che bruciava contrastavano con la totale oscurità in cui i proprietari del combustibile sono obbligati a vivere. Appena al largo di Gaza ci sono i più vasti giacimenti di gas naturale mai scoperti ma del gas naturale dei palestinesi si impadronisce da sempre Israele.

Mentre ci avvicinavamo a Israele, il capo della nostra imbarcazione, Zohar, ha suggerito che iniziassimo a salutarci. Eravamo probabilmente a 2-3 ore da Ashdod. Abbiamo ringraziato il capo della nostra imbarcazione, il nostro capitano, l’equipaggio, il nostro caro cuoco e ci siamo fatti coraggio l’un l’altro [dicendo] che avremmo continuato a fare il possibile per liberare Gaza e anche per portare giustizia in Palestina. Herman, il nostro capitano, che ora cercava di stare in piedi, ha fatto un discorso molto commovente e alcuni di noi sono scoppiati a piangere.

Sapevamo che ad Ashdod ci sarebbero stati i media israeliani e le telecamere. Non saremmo entrati ad Ashdod come disperati perché eravamo stati fatti prigionieri. Così siamo scesi dalla nave scandendo “Free, Free Palestine” lungo tutto il tragitto. Mike Treen, il sindacalista, si era ripreso dal pesante attacco con la pistola elettrica ed ha guidato gli slogan con la sua vociona, e avviandoci abbiamo riempito il cielo notturno di Israele con “Free, Free Palestine”. Lo abbiamo fatto lungo tutto il percorso dall’imbarcazione fin dentro Ashdod.

Siamo arrivati direttamente dentro la zona militare ristretta di Ashdod. Era un’area isolata con molte postazioni. Era stata preparata apposta per noi 22. Si partiva da una zona con il metal detector. Quando sono uscita dal metal detector non mi sono resa conto che si erano tenuti la mia cintura con i soldi. La postazione successiva era per la perquisizione corporale, ed è stato mentre raccoglievo le mie cose dopo essere stata perquisita che mi sono accorta di non avere più la cintura con i soldi. Sapevo di avere circa duecento euro e che stavano cercando di rubarmeli. Ho chiesto che mi venisse restituita e mi sono rifiutata di andarmene dalla postazione finché non l’avessero fatto. Per la prima volta stavo gridando. Sono stata contenta di averlo fatto perché qualcun altro era stato derubato dei soldi. Al giornalista di Al-Jazeera Abdul erano stati sottratti tutte le carte di credito e 1.800 dollari, oltre all’orologio, al telefono satellitare, al telefono personale e alla carta d’identità. Pensava che le sue cose fossero insieme al passaporto, ma quando è stato rilasciato per essere espulso si è reso amaramente conto che l’unica cosa che gli hanno restituito è stato il passaporto. Tutto il denaro e gli altri valori non sono mai stati trovati. Sono semplicemente svaniti.

Siamo passati da un controllo all’altro in questa zona militare ristretta, perquisiti varie volte, le nostre cose sono state portate via, finché tutto quello che ci è rimasto sono stati i vestiti che avevamo addosso con nient’altro che un bracciale con sopra un numero. Ci hanno tolto anche i lacci delle scarpe. A qualcuno di noi è stata data una ricevuta per le cose che gli erano state portate via, ma io non ho avuto nessuna ricevuta. Siamo stati fotografati varie volte e visitati da due dottori. A questo punto sono venuta a sapere che Larry era stato spinto giù dalla passerella, si era ferito a un piede ed era stato mandato in un ospedale israeliano per un controllo. Il suo sangue era sul pavimento.

Quando hanno finito con me avevo freddo e fame, vestita solo con una maglietta e pantaloni. Il mio cibo era stato portato via; l’acqua mi era stata portata via, tutte le mie cose, compresi gli occhiali per leggere, portate via. La mia vescica stava per esplodere ma non mi è stato permesso di andare al gabinetto. In questo stato sono stata portata fuori, dove c’erano due veicoli – cellulari dipinti di grigio. Per terra lì vicino c’era un grande mucchio di zaini e valigie. Ho trovato la mia e sono inorridita perché avevano aperto e perquisito il mio bagaglio e preso quasi tutto – tutti i vestiti, puliti e sporchi, la mia cinepresa, il mio secondo telefonino, i miei libri, la mia Bibbia, tutte le medicine che avevo portato per i partecipanti e per me, i cosmetici. La valigia era parzialmente rotta. Anche il mio zaino era completamente vuoto. Ho avuto indietro due bagagli vuoti tranne che per due grandi magliette da uomo sporche che evidentemente erano di qualcun altro. Mi hanno anche lasciato la maglietta della Freedom Flottilla. Ho immaginato che non avessero rubato la maglietta della Flottilla perché hanno pensato che nessun israeliano avrebbe voluto portare quella maglietta in Israele. Non se la sono presa con Zohar e Yonatan, che stavano orgogliosamente portando le loro. È stato uno shock perché non mi sarei mai aspettata che nell’esercito israeliano ci fossero anche dei ladri. Cos’è diventato il glorioso esercito israeliano della guerra dei Sei Giorni, che il mondo ha tanto ammirato?

Non mi era ancora stato consentito di andare in bagno, ma sono stata spinta nel cellulare, insieme a Lucia, l’infermiera spagnola, e poi dopo qualche tempo portata alla prigione di Givon. Durante il percorso mi sentivo tremare in modo incontrollabile.

La prima cosa che hanno fatto le guardie nella prigione di Givon è stata ordinarmi di andare al gabinetto per liberarmi la vescica. È interessante vedere che sapevano che avevo un disperato bisogno di andarci ma me l’avevano impedito per ore! Siamo state di nuovo controllate con il metal detector e perquisite, e dovevano essere circa le 5 o le 6 del mattino. Lucia ed io siamo poi state messe in una cella in cui stavano già dormendo Gerd, Divina, Sarah ed Emelia. C’erano tre letti a castello – tutti arrugginiti e polverosi.

Divina non aveva ricevuto la dose di medicine, a Lucia era stata rifiutata la sua, gliene era stata data un’altra israeliana che aveva rifiutato di prendere. Divina ed Emelia hanno iniziato subito uno sciopero della fame. I carcerieri erano molto ostili, in cose semplici come negarci la carta igienica e sbattendo in continuazione la porta di ferro della prigione, lasciando sempre accesa la luce della cella e obbligandoci a bere acqua rugginosa dal rubinetto, urlandoci e gridandoci continuamente, sfogando la loro rabbia su di noi.

Le guardie mi chiamavano “Cina” e mi trattavano con totale disprezzo. La mattina del 30 luglio 2018 il vice console britannico è venuto a visitarmi. Qualche persona gentile li aveva chiamati per sapere dove mi trovassi. È stata una benedizione perché dopo mi hanno chiamata “Inghilterra” e c’è stato un netto miglioramento nel modo in cui “Inghilterra” è stata trattata rispetto al modo in cui era stata trattata “Cina”. Mi è venuto in mente che “Palestina” sarebbe stata pestata, e probabilmente uccisa.

Alle 6,30 del mattino del 31 luglio 2018 abbiamo sentito Larry gridare che aveva bisogno di un medico dalla cella degli uomini attraverso il corridoio. Stava evidentemente molto male e piangeva. Noi donne abbiamo risposto chiedendo alle guardie di consentirmi di andare a vedere Larry in quanto potevo aiutarlo. Abbiamo gridato: “Abbiamo un dottore”, e usato i nostri cucchiai di metallo per colpire le sbarre di ferro della cella e richiamare la loro attenzione. Hanno mentito dicendo che il loro medico sarebbe arrivato entro un’ora. Non gli abbiamo creduto ad abbiamo ricominciato. Il dottore in realtà è arrivato alle 4 del pomeriggio, circa 10 ore più tardi e Larry è stato portato direttamente all’ospedale.

Nel frattempo, per punire le donne per aver sostenuto la richiesta di Larry, hanno ammanettato Sarah e messo Divina e me in un’altra cella per separarci dalle altre. Ci è stato detto che non ci sarebbe stato permesso di avere i 30 minuti d‘aria fresca e un bicchiere di acqua pulita nel cortile. Ho sentito Gerd dire “Grosso guaio”.

Improvvisamente Divina è stata portata fuori con me in cortile e le sono state date 4 sigarette, al che è scoppiata in lacrime. Divina aveva lavorato molte ore nella sala di comando manovrando l’imbarcazione. Aveva visto quello che era successo a Herman. La prigione aveva rifiutato di darle una delle sue medicine e le aveva dato solo metà della dose dell’altra. Era ancora in sciopero della fame per protestare contro il nostro sequestro in acque internazionali. Spezzava il cuore vedere Divina piangere. Uno dei guardiani che ha detto di chiamarsi Michael ha cominciato a dirci di come deve proteggere la sua famiglia contro quelli che vogliono cacciare gli israeliani. E di come i palestinesi non vogliano vivere in pace… e che non era colpa di Israele. Ma le cose sono improvvisamente cambiate con l’arrivo di un giudice israeliano; hanno trattato tutti con una certa decenza, benché lui avesse visto personalmente solo qualcuno di noi. Il suo compito era di dirci che il tribunale sarebbe stato convocato il giorno seguente, che ogni prigioniero avrebbe avuto un orario di comparizione, e avremmo dovuto avere un avvocato con noi al momento di comparire [in tribunale].

Alla fine della giornata Divina era ormai molto intontita e malmessa, per cui l’ho convinta a smetterla con lo sciopero della fame; ha anche accettato di firmare un ordine di espulsione. Poco dopo, penso intorno alle 6 del pomeriggio, dato che non avevamo né orologi né telefonini, ci è stato detto che Lucia, Joergen, Herman, Arne, Abdul di Al Jazeera ed io saremmo stati espulsi entro 24 ore e saremmo stati immediatamente portati nella prigione per le espulsioni a Ramle, nei pressi dell’aeroporto Ben Gurion, per attendere lì. Sarebbe stata la stessa prigione di Ramle da cui sono stata espulsa nel 2014. Ho visto le stesse cinque vecchie e forti palme ancora in piedi alte e fiere. Sono le uniche sopravvissute del villaggio palestinese distrutto nel 1948.

Arrivati alla prigione di Ramle, Abdul ha scoperto con orrore che i suoi soldi, le sue carte di credito, il suo orologio, il suo telefono satellitare, il suo telefonino personale e la sua carta d’identità erano persi – era completamente rovinato. Abbiamo fatto una colletta e raccolto circa cento euro come contributo per pagare il costo del percorso in taxi dall’aeroporto a casa sua. Come può l’esercito israeliano essere così corrotto e spietato da derubare qualcuno di tutto?

Conclusione:

Noi, le sei donne a bordo della al-Awda, abbiamo imparato che loro hanno cercato di umiliarci completamente e di disumanizzarci in ogni modo possibile. Siamo anche rimaste scioccate dal comportamento dei soldati israeliani, da ladruncoli, e del trattamento delle prigioniere internazionali. Carcerieri maschi entravano continuamente nella cella delle donne senza avere la decenza di informarci perché ci mettessimo i vestiti.

Ad ogni passaggio hanno anche fatto in modo di ricordarci la nostra vulnerabilità. Sappiamo che avrebbero preferito ucciderci ma naturalmente la pubblicità derivante da ciò sarebbe stata negativa per l’immagine internazionale di Israele.

Se fossimo state palestinesi sarebbe stato molto peggio, con aggressioni fisiche e probabilmente perdita della vita. La situazione per le palestinesi è certo molto peggiore.

In merito alle acque internazionali, sembra che non esista niente di simile per la Marina israeliana. Possono assaltare e sequestrare imbarcazioni e persone in acque internazionali e farla franca. Hanno agito come se pensassero di essere proprietari del Mar Mediterraneo. Possono sequestrare qualunque barca e rapire qualunque passeggero, metterlo in prigione e criminalizzarlo.

Non possiamo accettarlo. Dobbiamo alzare la voce, protestare contro questa illegalità, oppressione e brutalità. Eravamo assolutamente disarmati. Il nostro unico crimine secondo loro è che siamo amici dei palestinesi e vogliamo portare loro assistenza medica. Abbiamo voluto sfidare il blocco militare per farlo. Non è un delitto. Durante la settimana che abbiamo navigato verso Gaza, a Gaza hanno ucciso 7 palestinesi e ne hanno feriti più di 90 con pallottole vere. Hanno ulteriormente ridotto il combustibile ed il cibo per Gaza. A Gaza due milioni di palestinesi vivono senza acqua potabile, con elettricità solo per 2-4 ore, in case distrutte dalle bombe israeliane, in una prigione bloccata da terra, cielo e mare da 12 anni. Dal 30 marzo gli ospedali di Gaza hanno curato più di 9.071 feriti, 4.348 colpiti dalle armi di un centinaio di cecchini israeliani mentre stavano organizzando manifestazioni pacifiche all’interno dei confini di Gaza, sul loro territorio. La maggior parte delle ferite da arma da fuoco erano agli arti inferiori e con strutture sanitarie prive di mezzi gli arti dovranno essere amputati. In questo periodo più di 165 palestinesi sono stati colpiti a morte dagli stessi cecchini, compresi medici e giornalisti, minori e donne. Il persistente blocco militare di Gaza ha privato gli ospedali di ogni approvvigionamento chirurgico e medico. Questo massiccio attacco contro la Freedom Flottilla disarmata che portava amici e qualche aiuto sanitario è un tentativo di distruggere ogni briciolo di speranza per Gaza. Mentre scrivo sono venuta a sapere che anche la nostra Flottilla sorella, “Freedom”, è stata rapita dalla Marina israeliana in acque internazionali.

Ma non ci fermeremo, dobbiamo continuare ad essere forti per portare speranza e giustizia ai palestinesi, essere pronti a pagarne il prezzo ed essere degni dei palestinesi. Finché vivrò esisterò per resistere. Non farlo sarebbe un delitto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché definire Israele uno Stato di apartheid o razzista non è antisemita

Ben White

giovedì 2 agosto 2018, Middle East Eye

Per i palestinesi e per i loro sostenitori una definizione di antisemitismo non può essere slegata dalla storia e dalla natura della fondazione di Israele e dalle sue politiche in corso

Il convulso dibattito sulla definizione di antisemitismo della “International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa che intende promuovere la memoria dell’Olocausto formata da 31 Paesi membri, ndtr.] – o, più precisamente, sulla definizione ed esemplificazione dell’antisemitismo – si è concentrato su quanto il documento limiti la possibilità di criticare lo Stato di Israele e delegittimi la solidarietà con i palestinesi.

Qualcuno, come Jonathan Freedland, editorialista di “The Guardian” [quotidiano inglese di centro-sinistra, ndtr.], scrivendone lo scorso venerdì, ha difeso il documento dell’IHRA dal timore che “metterà a tacere le voci a favore dei palestinesi”, dando un’interpretazione in malafede e improbabile del testo, e delle sue implicazioni.

Si può, se si vuole, dire che tutto ciò che lo Stato di Israele ha fatto dalla sua nascita è stato razzista,” ha sostenuto Freedland. “Quello che è proibito è etichettare come impresa razzista “uno Stato di Israele” – il principio per cui gli ebrei, come qualunque altro popolo sulla terra, dovrebbero avere una patria e un rifugio per sè.”

Una posizione debole

Per prima cosa, rivediamo esattamente il testo in questione, parte del quale compare nel documento IHRA come lista di esempi di antisemitismo contemporaneo: “Negare al popolo ebraico il diritto all’autoedeterminazione, ad esempio sostenendo che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’iniziativa razzista.”

Mettere in rilievo il riferimento a “uno” e non “allo” Stato di Israele è una posizione molto debole. Il documento dell’IHRA ospita nove riferimenti ad Israele in totale, e tutti chiaramente riguardanti lo Stato di Israele attualmente esistente, non uno [Stato] ipotetico (il che, ovviamente, non avrebbe alcun senso).

Allo stesso modo la definizione di antisemitismo in una bozza di lavoro diffusa (e poi lasciata cadere) dall’ormai defunto Centro Europeo di Monitoraggio su Razzismo e Xenofobia – su cui il documento dell’IHRA è in gran parte basato – mette anche in chiaro che l’esempio in questione si riferisce all’attuale Stato di Israele.

Ma non basta. Il documento dell’IHRA introduce la lista di casi affermando che essi “potrebbero” essere esempi di antisemitismo, “prendendo in considerazione il contesto generale”. Queste specificazioni vengono enfatizzate da quanti intendono minimizzare la possibilità che il documento abbia un effetto deterrente.

Tuttavia, dato che questo elenco include casi ben definiti di antisemitismo come “invocare, favorire o giustificare l’uccisione o il ferimento di ebrei” e la negazione dell’Olocausto, non c’è da stupirsi che la specificazione “potrebbero” sia spesso in pratica omessa in tutti gli esempi illustrativi.

E in pratica il documento dell’IHRA è già stato utilizzato per attaccare i palestinesi e i loro sostenitori e per sostenere che descrivere Israele nei termini di apartheid o colonialismo di insediamento sia “antisemita”.

Esempi istruttivi

L’anno scorso alcuni funzionari dell’”Università del Lancashire Centrale” hanno annullato un dibattito dell’”Israeli Apartheid Week” [Settimana contro l’Apartheid Israeliano, iniziative annuali organizzate dai movimenti filopalestinesi in tutto il mondo, ndtr.] perché avrebbe presumibilmente contravvenuto alla definizione dell’IHRA. All’inizio di quest’anno “Campagna contro l’Antisemitismo” [ong costituita dalla comunità ebraica britannica, ndtr.] ha sbandierato “successi simili” nell’ottenere la cancellazione di eventi organizzati da studenti.

Anche alcuni militanti della “Federazione Sionista del Regno Unito”, il “Centro di Comunicazione e Ricerca Britannico-Israeliano” (BICOM), insieme a parlamentari come Joan Ryan del partito Laburista e il conservatore Matthew Offord, hanno presentato una richiesta al governo per vietare eventi di “Israeli Apartheid Week” nelle università – citando di nuovo la definizione dell’IHRA.

Persino il “Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici” – sostenitore del documento dell’IHRA – ha riconosciuto che “c’è una preoccupante resistenza da parte delle università nell’adottarla (la definizione) e la libertà di parola è presentata come ragione principale della loro riluttanza.”

Proprio questa settimana un consigliere conservatore di Barnet – la prima autorità locale ad aver adottato la definizione dell’IHRA – ha presentato una mozione che intende proibire a qualunque gruppo o persino singolo individuo che appoggi la campagna guidata dai palestinesi di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) [contro Israele] di affittare strutture comunali.

Con un altro esempio istruttivo, quest’anno esponenti di organizzazioni come il “Comitato degli Ebrei Americani” e il “Congresso degli Ebrei Europei” hanno cercato di vietare all’attivista del BDS palestinese e difensore dei diritti umani Omar Barghouti di parlare al parlamento europeo.

In una lettera co-firmata le organizzazioni hanno sostenuto che “gli attivisti del BDS sono sistematicamente impegnati in pratiche considerate antisemite in base alla definizione di antisemitismo dell’ International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA),” visto che citano regolarmente l’esempio di Israele come un’“impresa razzista”.

Si noti ancora come, nella pratica, la specificazione “potrebbe” sia resa irrilevante: un palestinese che desideri porre fine alla violazione dei diritti del suo popolo è palesemente calunniato come razzista.

Impreciso e redatto male

Significativamente, anche due figure chiave che hanno partecipato alla formulazione del testo dell’IHRA riconoscono il suo impatto sulla libertà di parola, benché da prospettive molto diverse.

Kenneth Stern, uno dei principali estensori della definizione dell’EUMC, in seguito ha denunciato come i gruppi filoisraeliani abbiano utilizzato il documento “con la delicatezza di un maglio”. A novembre Stern ha detto al congresso USA che l’inserimento della definizione nel sistema giuridico avrebbe “congelato” il “discorso politico” degli studenti filopalestinesi.

Se Stern ha manifestato disappunto per come il testo dell’EUMC è stato in seguito utilizzato (pur senza riconoscere il proprio ruolo nel aver collaborato ad un simile risultato), invece l’architetto del documento dell’IHRA è assolutamente soddisfatto del suo ruolo nel censurare il punto di vista palestinese.

Mark Weitzman, che lavora al “Centro Simon Wiesenthal” con sede negli USA, è stato la “figura principale” nel riuscire a proporre e far adottare il documento dell’IHRA. Quando lo scorso anno l’”Università del Lancashire Centrale” ha annullato l’evento dell’”Israeli Apartheid Week”, Weizman ha salutato la decisione come “una chiara prova che questa definizione accettata a livello internazionale può giocare un ruolo fondamentale nella lotta contro l’antisemitismo.”

Nonostante l’evidenza, qualcuno sostiene che quelli che utilizzano il documento dell’IHRA per censurare semplicemente non lo stanno applicando “correttamente”. Ma, nel migliore dei casi, ciò conferma semplicemente le critiche sollevate da gente come David Feldman, direttore del “Pears Institute for the study of Antisemitism” [Istituto Pears per lo Studio dell’Antisemitismo, con sede a Londra, ndtr.], e Geoffrey Bindman, avvocato della Corona – cioè che la definizione è “imprecisa in modo sconcertante” e “redatta male”.

Non c’è niente di contraddittorio nell’affermazione che un documento impreciso possa essere utilizzato per censurare (come a quanto pare crede Freedman). Al contrario, come abbiamo visto con i tentativi di fare leggi contro l’”estremismo”, un linguaggio generico porta direttamente a preoccupazioni riguardo all’impatto sulla libertà di parola.

Stato etnico

In conclusione, torniamo all’affermazione sostenuta da Freedland ed altri, secondo cui l’esempio dell’IHRA in questione riguardi un “principio” – cioè “che gli ebrei, come qualunque altro popolo sulla terra, dovrebbero avere una patria e un rifugio per sè.”

Qui, e non per la prima volta, Freedland utilizza termini come “patria” e “rifugio” mentre quello di cui si sta realmente discutendo è uno Stato. Il documento dell’IHRA non riguarda un “principio” – riguarda l’associazione dell’autodeterminazione non solo a uno Stato, ma a uno Stato etnico.

Per i palestinesi le conseguenze di tale associazione non sono per niente teoriche: la creazione dello Stato di Israele come “Stato ebraico” ha significato pulizia etnica ed esilio forzato, e la sua continua esistenza come tale significa spoliazione, discriminazione e disumanizzazione continue.

Come hanno notato recentemente due difensori dei diritti umani palestinesi che vivono a Londra: “Per i palestinesi l’idea che sostenere che ‘l’esistenza dello Stato di Israele è un’impresa razzista’ sia in sé antisemita è slegata dalla storia e dalla natura della fondazione di Israele, e dalle sue continue politiche.”

Leggendo una lettera, pubblicata da “The Guardian” questa settimana, di un gruppo di palestinesi-britannici, che affermano il proprio diritto ad una “dimensione pubblica” della “realtà” della loro esperienza passata e presente, mi sono ricordato di qualcosa che un docente palestinese mi aveva detto quando ero uno studente universitario

Come può essere antisemita per me oppormi alla mia spoliazione?”, ha chiesto in forma retorica. “E di conseguenza,” ha aggiunto, “come può essere antisemita per te essere solidale con me?” Infatti. Eppure questa è l’assurda equazione su cui Israele ed i suoi amici hanno sempre cercato di insistere e a cui bisogna continuamente opporsi.

Ben White è autore del recente libro “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel” [Crepe nel muro: oltre l’apartheid in Israele/Palestina]. È un giornalista e scrittore freelance e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, the Guardian’s Comment is Free ed altri.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Proteste, boicottaggio e dimissioni dalla Knesset: come rispondere alla legge di Israele sullo Stato-Nazione

Hatim Kanaaneh

Lunedì 30 luglio 2018, Middle East Eye

Si fa un gran parlare riguardo a manifestazioni, scioperi e quant’altro. Ma nulla di ciò raggiunge il livello di una vera disobbedienza civile e di una seria presa in considerazione di unirsi al [movimento] BDS

La mattina del 27 luglio sto di nuovo cogliendo fichi dai miei alberi, ascoltando il programma di notizie di Jack Khoury che dura un’ora sulla stazione radio locale araba nei pressi di Nazareth. Khoury, un cittadino di Israele arabo cristiano, funge da corrispondente per Haaretz.

Se non fosse per il suo nome, e basandosi solamente sulle sue relazioni, lo si potrebbe scambiare per un israeliano qualunque. Io non ho letto il testo della nuova legge di Israele sullo Stato-Nazione e non sono certo se ora Khoury debba portare sul braccio un contrassegno di identità razziale. Appena dopo aver citato l’argomento della nuova legge, ha trasmesso una deliziosa e malinconica canzone araba riguardo al nostro legame con la terra.

Mi domando: la nuova legge specifica la punizione per un simile reato di pensiero? O le autorità hanno fiducia nel fatto che i responsabili di Haaretz mettano in riga i loro dipendenti? Il mio amico ebreo kamikaze, Gideon Levy, accusa i media israeliani di autocensura e definisce una finzione il loro status di stampa libera.

Una questione sensibile

Il successivo argomento del programma di Khoury era la reazione dell’opinione pubblica araba alla demolizione di una casa a Sakhnin. Ha parlato al telefono con il proprietario della casa demolita, che ha messo in guardia sul fatto che la sua è stata una delle migliaia di case arabe destinate alla demolizione.

Poi c’è stata l’opinione professionale del dott. Hanna Swaid, ex membro della Knesset, urbanista e capo dell’‘Alternative Planning Center’, che ha evidenziato il fondamento giuridico dell’aggressione del governo israeliano.

Pare che nessuno si interroghi sul diretto rapporto tra la tempistica del feroce atto di cui si parlava e la nuova legge. Mi chiedo se qualcuno abbia notato una questione apparentemente secondaria: mentre tutti manifestavano a Sakhnin, l’intero villaggio beduino di Al-Araqib nel Negev veniva demolito per la 131esima volta.

Poi Khoury si è spostato su un altro argomento sensibile, almeno per quanto riguarda i drusi in Israele: l’intera comunità sembra pronta alle armi (scusate l’espressione agghiacciante– i maschi drusi servono nell’esercito israeliano e detengono armi) per il modo in cui la nuova legge ha declassato loro e la loro presunta consanguineità con il popolo ebraico.

Uno dei loro villaggi in Galilea una volta si è vantato del fatto di essere il primo per numero di soldati uccisi in combattimento in tutto Israele. Improvvisamente le cose sono cambiate e loro sono relegati al livello di normali ‘goyim’ [parola ebraica per indicare, a volte in modo spregiativo, i non ebrei, ndtr.], non migliori di altri arabi privi di valore. 

I drusi sono stati pugnalati alle spalle”, strillava un titolo di giornale. “Abbiamo dimenticato i nostri fratelli drusi”, ha ammesso Naftali Bennet, ministro e primo firmatario della nuova legge. Tre deputati drusi hanno impugnato la legge davanti alla Corte Suprema. E i capi della comunità, sia politici che spirituali, sono stati convocati ad un incontro conciliatorio con Netanyahu ed alcuni dei suoi principali ministri.

Ma all’incontro il premier è stato irremovibile, offrendo di pensare alla promulgazione di un’ulteriore “legge fondamentale” per favorire i drusi rispetto ad altri comuni ‘ goyim’, invece di recedere sulla legge o su parti di essa. Asa’ad Nafa’a, un avvocato druso di sinistra recentemente intervistato da Khoury, ha rilevato che Netanyahu, invece di prendere una scala per scendere dall’alto albero su cui si era arrampicato, ha offerto ai drusi una scaletta per salire appena al di sopra della testa degli altri arabi in Israele.

Gli arabi e la leadership drusa

Mi ha fatto venire in mente lo status intermedio dei ‘coloured’ nel Sudafrica dell’apartheid e il “test della matita” [metodo per determinare l’identità razziale: si infilava una matita tra i capelli e se rimaneva attaccata ai ricci si veniva classificati come meticci, ndtr.] per smascherare i casi limite. Alcuni giovani drusi, che devono aver discusso se andare in prigione piuttosto che fare il servizio militare nell’esercito israeliano, sono contenti dei nuovi sviluppi. “È positivo che sia venuto da loro”, si sono rallegrati insieme a Nafa’a.

Nessuno, tra i giornalisti e i loro intervistati, sembra rendersi conto della differenza nell’approccio tra la leadership drusa e quella delle altre minoranze arabe in Israele. I leader drusi (e alcuni ex generali beduini che hanno osato uscire allo scoperto e dire la propria opinione) protestano a gran voce, ma solo entro i limiti delle strutture israeliane riconosciute, affrettandosi a presentare richieste alla Corte Suprema israeliana o a scrivere lettere di protesta ai dirigenti dei rispettivi partiti politici, gli stessi che avevano fatto molta pressione per far passare la legge.

Al contrario, le due leadership parallele degli altri cittadini palestinesi di Israele, i membri della Lista Unita [ coalizione tra tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.] eletti alla Knesset e il gruppo della leadership politica rappresentata dall’Alto Comitato per i Cittadini Arabi di Israele e dal suo militante leader, Mohammad Baraki, si sono rivolte direttamente a Bruxelles e a Ginevra, invitando la comunità internazionale a assumersi le proprie responsabilità morali, ammonendo Israele perché torni sui suoi passi. Questa, a giudicare dall’esperienza, non è una prospettiva promettente.

L’unico anello mancante – finora – è quello del più vasto ambito della società civile. Si fa un gran parlare di manifestazioni, scioperi e quant’altro. Ma nulla di tutto ciò arriva a livello di una vera disobbedienza civile, come la chiusura dei municipi in tutte le comunità arabe in Israele, seguita anche da quella di rispettabili comunità ebree che simpatizzino [con i cittadini arabi di Israele, ndtr].

Un partito binazionale

Per essere efficace, deve essere palestinese ed ebrea, senza il solito balbettio della sinistra israeliana. E deve essere sostenuta per mesi se non per anni, prendendo anche seriamente in considerazione di unirsi alla campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.

Ma il primo colpo d’avvertimento a Netanyahu e compagnia devono essere le dimissioni collettive di tutti i membri della Lista Unita dal parlamento israeliano e la creazione di un partito politico binazionale che auspichi un unico Stato laico e democratico ad ovest del fiume Giordano.

Sarebbe molto opportuno che un ugual numero di deputati ebrei simpatizzanti desse le dimissioni e si unisse alla lotta.

Continuiamo a sognare! Ecco la citazione su ‘Palestine Square’ [giornale di studi palestinesi, ndtr.] di Hasan Jabareen di Adalah [Centro Giuridico per i Diritti della minoranza araba in Israele, ndtr.]: “Come ha scritto Adalah nel suo documento, la legge mostra chiaramente che il regime israeliano è un regime coloniale di apartheid, che viola la Convenzione sull’apartheid, la quale lo considera un crimine contro l’umanità.”

Come può un onesto e sensato politico palestinese in Israele continuare a lavorare in questa situazione? Talvolta il suicidio per auto immolazione è la sola azione corretta. Credo che siamo a questo punto.

  • Hatim Kanaaneh è medico della sanità pubblica e cittadino palestinese di Israele, che ha vissuto e praticato la professione nel suo villaggio natale in Galilea per oltre 40 anni. È autore della raccolta di racconti brevi ‘Chief Complaint: a country doctor’s tales of life in Galilee’ (Just World Books, 2015) e di un libro di memorie, ‘A doctor in Galilee: the life and struggle of a Palestinian in Israel’ (Pluto press, 2008).

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Ahed Tamimi rilasciata dal carcere israeliano, giura di proseguire la resistenza

MEE ed agenzie

domenica 29 luglio 2018, Middle East Eye

L’adolescente dice che ora intende diventare avvocatessa per contribuire ulteriormente alla causa palestinese, e rende omaggio alle donne ancora incarcerate

Ahed Tamimi, la ragazza palestinese imprigionata per aver preso a schiaffi un soldato israeliano ed icona della resistenza contro l’occupazione israeliana in Cisgiordania, è stata rilasciata domenica dopo otto mesi [di carcere].

Tamimi, che aveva 16 anni al momento dell’arresto, ha giurato di continuare la sua lotta contro l’occupazione israeliana.

Continuerò a seguire le lezioni all’università e studierò legge in modo da poter rappresentare la causa del mio Paese in ogni consesso internazionale ed essere in grado di difendere la causa dei prigionieri, “ha detto Tamimi durante una conferenza stampa seguita alla sua scarcerazione.

Il carcere mi ha insegnato molte cose, sono stata in grado di immaginarmi il modo giusto per inviare il messaggio della mia patria,” ha aggiunto, stando accanto ad un albero con due tronchi, che è stato addobbato come una fionda con una gomma alla base – simboli della resistenza palestinese.

Ovviamente sono molto contenta di essere tornata con la mia famiglia, ma la gioia è solo parziale per via delle prigioniere che sono ancora in carcere,” ha detto.

In precedenza, quando ha lasciato la prigione israeliana, Tamimi ha reso onore a tutte le donne palestinesi attualmente incarcerate da Israele.

Tutte le carcerate sono forti, e ringrazio tutte quelle che mi sono state accanto mentre ero in carcere,” ha detto ai giornalisti, indossando la kefiah, la sciarpa simbolo dei palestinesi.

Il caso di Tamimi è finito sulle prime pagine di tutto il mondo quando è stata arrestata in seguito a una lite con soldati israeliani che rifiutavano di andarsene da casa sua a Nabi Saleh, un villaggio della Cisgiordania.

Il 15 dicembre, poche ore prima dell’arrivo dei soldati nella casa di Tamimi, la famiglia era stata informata che le forze israeliane avevano sparato alla testa del cugino quindicenne di Ahed, Mohammed.

Turbata, la famiglia ha chiesto che i soldati se ne andassero dalla casa. Quando si sono rifiutati, Ahed gli si è scagliata contro.

Sua madre ha ripreso dal vivo su Facebook il fatto, e quando le autorità israeliane hanno utilizzato la registrazione come prova per arrestare Tamimi, l’adolescente è diventata un caso celebre per i sostenitori dei palestinesi.

L’attenzione dei media

Tamimi ha ottenuto appoggio in tutto il mondo.

Amnesty International ha condannato l’arresto, affermando che ha violato le leggi internazionali e sottolineando che l’arresto di minorenni dovrebbe essere usato solo come soluzione estrema.

Attualmente Israele sta tenendo in prigione circa 300 minorenni.

Omar Shakir, di Human Rights Watch, domenica ha twittato che “l’arresto da parte di Israele per 8 mesi di una minorenne per aver invitato a protestare e aver preso a schiaffi un soldato riflette una discriminazione endemica, l’assenza di un giusto processo e maltrattamenti nei confronti di ragazzi.

Ahed Tamimi è libera, ma centinaia di minori palestinesi rimangono rinchiusi con una scarsa attenzione ai loro casi,” ha aggiunto.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha acclamato l’adolescente, mentre poco dopo il suo arresto un gruppo interpartitico di parlamentari britannici ha rilasciato una dichiarazione affermando che era stata “presa di mira” e ha condannato le tattiche israeliane.

Di fronte ad una simile attenzione dei media ed alle critiche, una grande tensione ha circondato il rilascio di Tamimi.

Desiderose di evitare la stampa, le autorità israeliane hanno cambiato per tre volte il luogo e il momento del suo rilascio.

Originariamente avrebbe dovuto essere liberata al posto di controllo di Jibara, presso Tul Karem. Alla fine Israele ha affermato che l’avrebbe rilasciata al posto di controllo di Rantis, a un’ora di macchina da lì, mettendo in agitazione i suoi familiari per raggiungere il luogo in tempo.

Decine di parenti, i suoi familiari più stretti e i suoi amici, insieme a molti giornalisti, hanno atteso Tamimi fino da domenica mattina presto.

Si sono riuniti anche gli oppositori di Tamimi, insieme a coloni israeliani che vivono illegalmente nella Cisgiordania occupata, comparsi per sventolare la bandiera israeliana.

Icona della resistenza

Quando finalmente Tamimi è stata rilasciata, suo padre Bassem l’ha abbracciata ed ha accompagnato l’adolescente attraverso la folla di giornalisti e sostenitori, che gridavano: “Vogliamo vivere in libertà.”

Dal posto di controllo di Rantis Tamimi si è diretta alla tomba del leader palestinese Yasser Arafat a Ramallah, dove ha lasciato qualche fiore.

Poi è andata in visita alla casa di un parente ucciso dalle forze israeliane durante una manifestazione.

Tamimi ha anche incontrato Abbas, che in seguito l’ha descritta come “un modello di resistenza civile pacifica…, che dimostra al mondo che noi, popolo palestinese, rimarremo forti e tenaci sulla nostra terra, a qualunque prezzo.”

Sabato la polizia israeliana ha arrestato due artisti italiani e un palestinese per aver dipinto un enorme murale del volto di Tamimi sul muro di separazione israeliano a Betlemme.

Secondo una dichiarazione della polizia israeliana, i tre sono stati arrestati “per sospetto danneggiamento e atti di vandalismo contro la barriera di sicurezza nella zona di Betlemme.”

La dichiarazione afferma che i tre, che erano mascherati, “hanno illegalmente disegnato sul muro e quando i poliziotti di frontiera sono intervenuti per arrestarli, hanno cercato di scappare con la loro auto, che è stata bloccata dalle forze [di polizia].”

La polizia israeliana è intervenuta nonostante il murale di 4 metri fosse stato dipinto sul lato di Betlemme del muro, che apparentemente dovrebbe essere sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Dipingere sul muro, con icone della resistenza palestinese come Arafat e Leila Khaled [militante del gruppo marxista palestinese Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ha partecipato a due dirottamenti aerei, ndtr.] disegnate da artisti, è un fatto frequente.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La realtà e la sua maschera

Giorgio M., Cruciati C., Israele, mito e realtà. Il movimento sionista e la Nakba palestinese settant’anni dopo, Edizioni Alegre, Roma, 2018, 15 €.

Amedeo Rossi

Il libro di Michele Giorgio e Chiara Cruciati, giornalisti de “Il Manifesto”, rappresenta un utile strumento per fare un bilancio di 70 anni della nascita di Israele, ma soprattutto per misurare quanto la realtà storica e l’attualità siano lontane dall’opinione corrente su questa vicenda.

Il libro è strutturato in due parti e tre appendici: una cronologia fondamentale, un glossario e alcune immagini relative a questioni affrontate nei precedenti capitoli. Nella prima parte gli autori ripercorrono la storia del sionismo dalle sue origini nel XIX° secolo alla fondazione dello Stato di Israele. Nonostante le differenze tattiche tra le sue varie correnti, dal capitolo emerge una sostanziale condivisione dell’obiettivo da raggiungere, e ciò implicasse la negazione del diritto dei palestinesi alla terra su cui avevano vissuto per secoli. Anzi, nel negare la loro stessa esistenza, in quanto intralcio per la realizzazione del progetto sionista. Questa è stata una delle ragioni delle aspre critiche nei confronti del movimento da parte di intellettuali ebrei, tra cui Martin Buber, Hannah Arendt, Marek Edelman, Noam Chomsky. Oltre all’estrema coerenza e determinazione con cui i dirigenti sionisti, contro ogni ragionevolezza, hanno perseguito, realizzato ed ampliato il sogno di Herzl, emerge la spietatezza nei confronti della popolazione autoctona che ha guidato l’azione politica sionista fin dai primi tempi. Gli autori citano ad esempio Israel Zangwill, scrittore ebreo britannico: “Non esiste alcuna ragione particolare perché gli arabi debbano restare aggrappati a questi pochi chilometri di terra. Ripiegare le tende e andarsene di soppiatto è la loro proverbiale abitudine. Che lo facciano anche ora […] Dobbiamo garbatamente convincerli a mettersi in marcia.” Il brano mette in luce gli stereotipi orientalisti del suo autore e la convinzione che i palestinesi avrebbero facilmente lasciato posto ai nuovi venuti. I sionisti si resero presto conto che invece erano tenacemente legati alla propria terra, e passarono a metodi tutt’altro che “garbati”.

La seconda parte costruisce, per lo più attraverso una serie di interviste ad intellettuali sia israeliani che palestinesi, una sorta di mosaico a partire da alcune questioni cruciali che costituiscono la narrazione prevalente sul conflitto israelo-palestinese. E’ su questi punti che si è costruito il mito citato nel titolo del volume: il rapporto tra ebrei, Olocausto e Israele; la Palestina, i palestinesi e gli ebrei prima e dopo la nascita di Israele, tra ritorno negato agli uni e “ritorno” promesso agli altri; il sionismo e i Israele come esperienze socialiste; la questione di stretta attualità dei diritti di cittadinanza e nazionalità tra ebrei e palestinesi in Israele; il rapporto tra antisemitismo e filo-sionismo; infine, l’idea di Israele come parte dell’Occidente e quindi dei palestinesi come intrusi.

I capitoli-interviste sono sintetici ma ricchi di notazioni e spunti interessanti. Per ragioni di spazio mi limiterò a citarne solo alcuni.

Lo storico palestinese Salim Tamari smentisce una delle asserzioni della narrazione sionista: il fatto che il nazionalismo palestinese sia stato una reazione tardiva al sionismo. Secondo Tamari in realtà tra la fine dell’XIX° secolo e i primi del XX° si era risvegliato tra i palestinesi un sentimento nazionale anti-turco prima e antisionista poi. In particolare divenne centrale la questione delle terre: “I sionisti compravano terreni per dare vita a colonie per ebrei e cacciavano via i contadini palestinesi che in molti casi le avevano coltivate per generazioni, sebbene per conto dei proprietari. E questo problema rappresentò un punto centrale per la mobilitazione nazionalista palestinese.” La citazione per un verso individua nel problema della terra e non nell’odio razziale o religioso la causa dei primi conflitti tra palestinesi e sionisti. Dall’altro evidenzia una delle caratteristiche costanti del progetto sionista: separare la popolazione autoctona dalla terra. Ciò ebbe in Palestina, come in altre realtà coloniali pre-capitaliste, effetti dirompenti sulla popolazione e sull’economia locali.

Il risultato di questo processo viene analizzato in un capitolo successivo, costruito con inserti di un’intervista a Wasim Dahmash, docente di lingua e letteratura araba all’università di Cagliari, che riguarda il “ritorno” degli ebrei e la contemporanea espulsione dei palestinesi. Si tratta di una situazione caratterizzata da una serie di palesi contraddizioni. Agli ebrei di qualunque Paese al mondo viene concessa l’aliyah (letteralmente la “salita”, dalla diaspora alla biblica terra degli antenati), ai palestinesi è negato questo diritto e vengono considerati “infiltrati”, ed alcuni di quelli rimasti nello Stato d’Israele sono considerati “presenti assenti”. La recentissima legge, approvata a luglio relativa allo “Stato-Nazione ebraico” attribuisce valore costituzionale alle discriminazioni cui è già soggetto il 20% della popolazione non ebraica di Israele e di cui parla un capitolo del libro.

Due capitoli si occupano invece del mito relativo ad Israele come Paese “socialista”, che in Occidente ha affascinato parte della sinistra. Il primo riguarda l’Histadrut, il sindacato sionista. Esso si adeguò a quanto affermato da Ben Gurion già nel 1934: “Se non facciamo ogni genere di lavoro, facile e difficile, specializzato e non, se resteremo dei meri proprietari, questa patria non sarà mai nostra.” Il corollario di questa affermazione è stata naturalmente l’espulsione della maggioranza dei palestinesi. Tuttavia Israele ha utilizzato prigionieri arabi della guerra del ’48 come lavoratori forzati internati in veri e propri lager, e l’Histadrut è stato un sindacato di regime. È dal sindacato che nacque la principale milizia armata sionista, l’Haganah. Dopo la fondazione di Israele, fino al 1959 ai palestinesi con cittadinanza israeliana venne negata l’iscrizione al sindacato e imposte discriminazioni salariali. Un sindacalista britannico ha affermato: “Il principale ruolo di Histadrut non era la difesa dei salari e le condizioni di lavoro dei suoi membri ma la colonizzazione della Palestina […] Histadrut fu un sindacato capitalista.” Dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, ai lavoratori palestinesi nelle colonie o in territorio israeliano è stato imposto il pagamento delle quote sindacali senza però il godimento dei relativi diritti assistenziali e previdenziali.

Il secondo riguarda il modello del kibbutz, a lungo considerato come una sorta di comune. In realtà anch’esso è strettamente legato all’ideologia sionista, che esclude i palestinesi, ed anzi è stato storicamente uno degli strumenti per la loro espulsione dalle terre. È significativa a questo proposito la citazione presente nel libro dell’episodio narrato in un’intervista da Moshe Dayan, protagonista della vittoria militare del ’67: una delegazione di membri di kibbutz del nord di Israele si recò dall’allora primo ministro Levy Eshkol per intimargli di aprire le ostilità contro la Siria per occupare le fertili terre del Golan. Nel capitolo Sergio Yahni, giornalista e analista di origini argentine che ha vissuto a lungo in un kibbutz, racconta il ruolo attivo dei kibbutzim nel Palmach, reparto d’élite dell’Haganah, responsabile di massacri ed espulsioni di palestinesi. Inoltre per molti anni nei kibbutz non vennero accolti gli ebrei provenienti dai Paesi arabi. A partire dagli anni ‘80, con l’avanzare delle politiche neoliberiste, anche queste esperienze comunitarie sono diventate sempre più marginali o si sono trasformate a tutti gli effetti in aziende di tipo capitalistico.

In estrema sintesi, questo libro ricostruisce un’immagine di Israele ben lontana da quella più diffusa e mette in luce quello che hanno rappresentato e continuano a rappresentare il sionismo e il suo Stato, non solo negli anni di Netanyahu e dell’estrema destra al potere, ma fin dalle loro origini: nazionalismo, colonialismo e, con la nascita dello Stato di Israele, regime di apartheid, per certi versi peggiore di quello sudafricano. Lo denunciano, inascoltati, anche intellettuali e giornalisti israeliani, lo tacciono invece i nostri mezzi di comunicazione ed i nostri politici.

C’è da sperare che il lavoro di Giorgio e Cruciati non venga letto solo nella ridotta cerchia di chi già è impegnato nella lotta a favore dei diritti del popolo palestinese, ma soprattutto da chi continua a credere al mito dell’”unica democrazia del Medio Oriente”.




Vi racconto la giornata dei martiri bambini. Reportage da Gaza est

Patrizia Cecconi

28 luglio 2018, Pressenza

Sono le 3 del pomeriggio. Il sole anche oggi brucia la pelle e fa stringere gli occhi. Qui a Malaqa a quest’ora siamo ancora pochissimi e nessuno è vicino alla rete. Si sentono tre, quattro, cinque colpi secchi. Vengono dalla parte israeliana. Ma non c’è ancora nessuno, che fanno i killer? Scaldano i fucili?

Roger, il ragazzo che mi accompagna, uno degli skater più bravi di Gaza e, quando può, anche studente di italiano, mi dice che oggi sarà una giornata molto rischiosa anche se ci saranno molti bambini perché il tema della Grande marcia oggi è l’omaggio ai martiri bambini che Israele ha ucciso in questi mesi. Tutti i venerdì mi dicono che è molto pericoloso e lo so. Staremo attenti. Come sempre del resto. Oggi non vorrei rilasciare interviste ma farne. Comincio proprio con Roger chiedendogli “Ma tu perché sei qui?” la sua risposta è precisa, formata da tre frasi “Per condividere con gli altri il mio desiderio di libertà” poi gira la testa verso il confine e aggiunge “la mia libertà è oltre la rete, dove c’è la nostra terra che abbiamo il diritto di recuperare”. Bene, in tre frasi ha citato la risoluzione Onu 194 e la necessità di rompere l’assedio, praticamente gli obiettivi per cui è nata la grande marcia del ritorno.

Intanto i cecchini seguitano a sparare. L’orecchio ormai è abituato e sa distinguere il rumore dei colpi sparati dalle jeep da quello dei fucili degli snipers. Forse veramente si stanno allenando al tirassegno perché non c’è motivo di sparare, le migliaia di persone arriveranno dopo.

A fine giornata si conteranno lungo tutto il confine due morti e circa 160 feriti. I martiri sono Ghazi Abu Mustafa, un uomo di 43 anni che camminava sulle stampelle, perché già ferito in precedenza da questi soldati, e che voleva avvicinarsi alla recinzione. Sua moglie, un’infermiera che partecipava alla marcia occupandosi dei feriti lo aveva dissuaso, ma deve essere stato un boccone molto ghiotto per il killer con la divisa dello Stato ebraico che lo ha mirato alla testa. Succedeva più a sud, al border di Khan Younis e la notizia è arrivata tramite gli altoparlanti proprio mentre a Malaqa un cecchino colpiva un ragazzo a pochi metri dalla rete e i soccorsi correvano verso di lui caricandolo in ambulanza. Poi, più tardi, arrivava la notizia del secondo martire, quasi un bambino, al border di Rafah, Madj Ramzi Al Sarri, quattordici anni. I cecchini hanno sparato alla testa anche a lui.

I cecchini israeliani possono farlo, nessuno li accuserà per questo. Insieme al bambino e all’uomo uccisi vengono scarnificati piano piano i principi base della moderna democrazia, ma il mondo sembra non accorgersene e seguita a tenere regolari rapporti con questo Stato di Israele, ormai per sua propria legge Stato Ebraico, quindi etnico-religioso, rendendo impunito ogni crimine che oltre a massacrare il popolo palestinese ferisce, portando gradualmente al suo annichilimento, il Diritto internazionale.

A Malaqa è andata meglio che a al sud. Si pensava a un morto ma era “solo” gravemente ferito. I colpi secchi hanno accompagnato l’intero pomeriggio, intervallati da quelli più gonfi e più sordi sparati dalle jeep e provocando diversi feriti, sia per proiettili vivi che per inspirazione di tear gaz. I copertoni bruciati, il cui fumo nero e tossico ha sollecitato l’attenzione ecologista di alcuni sionisti nostrani, hanno salvato anche oggi parecchie vite, ma le ambulanze hanno fatto comunque molti viaggi.
Le ambulanze! Sì, una delle cose impressionanti di questa Grande marcia è il numero delle ambulanze. Un numero altissimo perché è dato per scontato che ci saranno ogni volta centinaia di feriti. Lo sanno le organizzazioni internazionali e sovranazionali, lo sanno e ne conoscono l’essenza criminale ma sono impotenti. O conniventi.

A Malaqa i tear gaz, oggi, sono arrivati da terra e dal cielo ed hanno colpito anche il personale di un’ambulanza. La scena sembrava da film: l’ambulanza corre nel budello sterrato che dal confine porta alla strada principale, è il percorso normale. Ma si ferma e si buttano fuori, sdraiandosi a terra, gli operatori sanitari. Stanno male, hanno inspirato il gas tossico dei lacrimogeni israeliani. Arrivano le barelle di altre ambulanze che caricano i più gravi e partono al volo verso l’ospedale. Intanto in cielo si sono levati gli aquiloni. Alcuni hanno la fiammella in fondo alla coda. I ragazzi che ne manovrano il filo li lasceranno al vento quando saranno sulla rete dell’assedio. Da quel momento andranno liberi e porteranno il loro messaggio attraverso quella fiammella. Forse bruceranno qualche stoppia e gli agricoltori chiederanno il rimborso alle assicurazioni dichiarando danni esagerati. Ormai le compagnie assicuratrici hanno scoperto il gioco, ma a Netanyahu è più utile far credere che siano stati gli aquiloni a bruciare ettari di campi. Se così fosse Gaza avrebbe un’arma semplice e imbattibile e forse Israele sarebbe costretto, finalmente, a rispettare la legalità internazionale come mandano a dire proprio quegli aquiloni che vorrebbero tornare ad essere solo un gioco.

Ma qui di voci straniere che rinforzino il messaggio degli aquiloni non ce ne sono, solo oggi finalmente ho visto un altro internazionale, rispondeva ai giornalisti palestinesi. Stampa e Tv era in grande abbondanza oggi. Ma tutta informazione interna. Per l’estero è routine e quindi non ci sono inviati. Quelli che ne parlano – a parte pochissime eccezioni – le notizie le ricevono normalmente dall’IDF e non corrono rischi di carriera nel trasmetterle in quella versione.

Oggi non voglio rilasciare interviste ma farne e mi dirigo verso un gruppo di donne. In realtà sono stata catturata dall’attenzione che loro mi hanno rivolto e vogliono farmi delle domande. In fondo è normale, gli stranieri sono una rarità. Faremo delle interviste incrociate. Una delle donne porta il niqab ed ha una gruccia alla quale si appoggia per camminare. E’ stata ferita due settimane fa ma appena ha potuto è tornata alla Great march. Si chiama Samia, Samia Jaber e non ha problemi a darmi il suo nome intero. Suo marito è stato imprigionato dagli israeliani per 12 anni. Ha 7 figli e il più grande, 13 anni, partecipa regolarmente alla marcia. Tutte le donne del gruppo mi danno il loro nome e mi raccontano qualcosa della loro storia. Etaf, Ilaf, Tagreed, Nabila, Ridah, Nashreeem, tutte sono passate per l’ospedale in uno di questi 18 venerdì, ma tutte stanno qui. Sono “hard” le donne di Gaza! Tutte vogliono foto ricordo, le facciamo. Mi chiedono di portare la loro voce in Italia. Ecco, lo sto facendo, anche se la mia non è una voce molto alta. Mi dicono di mettere anche il loro nome, non hanno problemi ad essere pubblicate, vogliono solo che si sappia cosa significa vivere a Gaza e cosa significa chiedere la pace e avere come risposta l’esercito pronto a uccidere. Tra loro c’è una donna più avanti negli anni, una donna molto magra, con un viso ossuto e volitivo. Porta un cappello con la visiera parasole sopra l’ijiab e parla, parla ininterrottamente e non lascia quasi il tempo a Roger di tradurre. E’ Etaf e tutte la rispettano riconoscendola come “l’organizzatrice del caucciù”, un vero boss che coordina l’arrivo e la distribuzione dei copertoni che ormai possono essere chiamati salvavita dato che disorientano la mira dei cecchini. Chiedo loro quale futuro prevedono per la grande marcia. Le risposte sono comuni, “la grande marcia non si può fermare”, ok, ma questo non è il futuro. Mi rispondono ancora che non si fermeranno allora devo cambiare domanda, chiedo se sono affiliate a qualche fazione politica e ridono. Una di loro risponde che la politica che le interessa è il recupero della libertà dall’assedio. Le altre annuiscono. In un’altra intervista una giovane donna, quella che in realtà mi avvicina per intervistarmi ma, appunto, è una giornata di interviste incrociate, mi dice che lei è di Giaffa. Avrà al massimo 35 anni e quindi non è possibile sia nata a Giaffa, ormai israeliana fin dal 1948. Ma la marcia del ritorno è per il rispetto della Risoluzione 194, quella che appunto riconosce il diritto a tornare nelle case da cui sono stati cacciati i palestinesi nel “48, e la sua famiglia è stata cacciata da Giaffa. Quella è la sua origine. Mi presenta le sue amiche, due giornaliste e una docente universitaria. Il loro inglese non è migliore del mio ma ci si intende. Dove l’inglese arranca usano l’arabo e Roger traduce. Faccio anche a loro la stessa domanda che faccio a tutti: cosa vi aspettate dal futuro della grande marcia. Tutte e tutti mi sembra abbiano chiaro che con la grande marcia, sul breve periodo, non otterranno nulla. Eppure, e qui c’è un’altra prova della straordinarietà di questo popolo, eppure si fa. Si fa perché ci sono dei principi irrinunciabili. Si fa perché farla sedimenta il diritto a far riconoscere i propri diritti.

“Si fa perché i figli non abbiano da vergognarsi dei genitori” mi dice Tagreed. Si fa perché a Gaza non si può vivere così,” i nostri giovani vogliono scappare. Viviamo di sussidi. I nostri giovani hanno un livello di istruzione generalmente molto alto ma sono disoccupati perché l’economia di Gaza è morta.” Vogliamo la libertà, come aveva detto Etaf, “la boss del caucciù” con aria definitoria “o libertà o morte” e Ridah aveva aggiunto “raggiungeremo una delle due”.

Intanto i cecchini sparano, le ambulanze corrono, i gas si infittiscono. Ci avviciniamo un po’ al border, restando sempre a non meno di cento metri. I ragazzini sono tanti, onorano i loro coetanei caduti ma in realtà per loro è quasi un gioco. Roger scruta sempre il cielo e a un certo punto dice che dobbiamo allontanarci e tornare nella zona delle tende. Mi dice una cosa incomprensibile sia in arabo, e questo è abbastanza normale, che in inglese. Ho imparato, in questi tanti venerdì passati al border, a dare ascolto ai miei accompagnatori, tutti nel ruolo affettuoso di bodyguard. Ho fatto bene e l’unico danno riportato è stata qualche leggera inalazione di gas. Non riesco a capire cosa mi dice indicando il cielo, credo voglia mostrarmi un aquilone e invece ora lo vedo, è un puntino lontano, sembra un ragno, è un drone che si sta avvicinando. I droni possono portare la morte e comunque qui porteranno i gas lanciati dal cielo che si sommeranno a quelli delle jeep. Ora lo vedono anche gli altri. Tutti provano a capire dove si dirige per allontanarsi. Riesco a prendere qualche foto mentre lancia i gas. Torniamo alle tende.

Sotto il grande tendone delle conferenze i bambini hanno le foto dei loro coetanei uccisi appese ai palloncini che lasceranno volare. Non portano fiammelle, non sono pericolosi. Portano una condanna morale ma i soldati dell’IDF “rispettano gli ordini” e quindi non si sentono condannabili, non conoscono né scrupolo, né rimorso. Sono la perfetta rappresentazione di cui Hanna Arendt ha dato magistrale spiegazione ne “La banalità del male”. Comunque i palloncini volano con i loro ritratti appesi andando verso il cielo.

Sul palco si alternano bambini e adulti e infine un bambino di una decina d’anni considerato un enfant prodige per la sua voce canterà. Lo avevo conosciuto in un’altra occasione, si chiama Mohammad e canta una canzone ritmata e coinvolgente. Chiedo a Roger cosa significhino alcune strofe che sembrano coinvolgere più di altre. “Al Gazaw alh soet” mi scrive sul mio blocco. Mi dice che la traduzione non rende e mi aggiunge un’altra frase. Nell’insieme il significato sembra essere più o meno questo: “Alziamo le nostre voci, i gazawi non hanno paura, solleviamo le nostre voci, non abbiamo paura di Israele”. Già, questo è il clima che in tutti questi venerdì ho respirato lungo il border. A Rafah o a Khuza’a o ad Abu Safia o a Malaqa o ad Al Bureji il clima sostanzialmente è stato questo. Le parole iniziali di Roger alla mia domanda “perché stai qui” completano la canzone del bambino sul palco: “per condividere col popolo il mio sogno di libertà”.

Ancora due morti uccisi per pura crudeltà ancora tanti feriti, ma la marcia continua. Sotto una sola bandiera: quella palestinese. Perché, come canta il piccolo Mohammed, i gazawi non hanno paura.




Israele colpisce a morte un giovane palestinese a Gaza durante le proteste di venerdì

Redazione di MEE

venerdì 27 luglio 2018Middle East Eye

Il ministero della Salute di Gaza afferma che durante le proteste di venerdì ci sono state due vittime, tra cui un ragazzino di 14 anni

Due palestinesi, tra cui un ragazzino di 14 anni, sono stati uccisi durante una protesta per commemorare i minorenni uccisi durante mesi di manifestazioni nella Striscia di Gaza.

Il ministero della Salute di Gaza ha confermato le due vittime e ha detto che il quarantatreenne Ghazi Abu Mustafa è stato colpito direttamente alla testa da cecchini israeliani a est di Khan Younis.

Ha aggiunto che 85 persone sono rimaste ferrite durante le proteste di venerdì, cinque delle quali in modo grave.

Venerdì sono stati feriti anche tre paramedici e quattro donne.

Queste ennesime vittime si sono avute mentre i palestinesi della Striscia di Gaza continuavano le proteste contro l’occupazione israeliana come parte della “Grande Marcia del Ritorno”.

I palestinesi a Gaza hanno approfittato della protesta del venerdì di questa settimana per ricordare i minori uccisi da Israele dall’inizio delle proteste. Piccole bare sono state portate da ragazzini per ricordare i palestinesi uccisi e sono state intonate preghiere funebri in ricordo.

Durante le proteste sono state anche portate immagini del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del presidente USA Donald Trump con la scritta “assassino”.

Abdullah al-Qaoud, 15 anni, si è rivolto ai manifestanti di oggi a Gaza prima che Israele iniziasse a sparare sui manifestanti.

Oggi porto la piccola bara di Iman Hijo, il martire dell’Intifada. Forse il mio feretro sarà portato durante future marce del ritorno, ma la nostra lotta continuerà e le nostre richieste non cambieranno,” ha detto Qaoud.

Ognuno di loro ha una storia che l’Occidente e il mondo arabo conoscono attraverso le informazioni dei loro mezzi di comunicazione.”

Portiamo queste bare oggi come messaggio al mondo. La politica di uccisione deliberata di minori e la violazione dei loro diritti devono finire.”

La Grande Marcia del Ritorno è stata organizzata dai palestinesi di Gaza per chiedere il diritto al ritorno e la fine dell’assedio contro Gaza e dell’occupazione israeliana.

(traduzione di Amedeo Rossi)