L’intervento di ILAN PAPPÉ

al panel “Memorie e Identità”del CONVEGNO L’eredità di Edward Said in Palestina,

TORINO 1-2 MARZO 2018

Aula Magna Campus Luigi Einaudi*

Sono un professore di storia e vedendo qui studenti, non studenti e professori nei banchi, credo che farò una lezione molto storica… è nel mio DNA! Metto da parte le questioni più concettuali e teoriche, e avrò un approccio più storico.

Ho appena firmato un contratto per un libro, che non ho ancora scritto (un errore!), l’unica cosa che so è il titolo che avrà: “Qual è il senso della storia?”. Ho scelto questo titolo perché negli ultimi 30-40 anni c’è stato un grande dibattito tra gli storici e gli accademici, non su cosa sia il senso della storia, ma su cosa sia la storia. Abbiamo distrutto cinque belle foreste in Brasile per farne dei libri su cui scrivere centinaia di pagine, per dire che cosa è la storia, e oggi non ne sappiamo molto di più. Abbiamo avuto delle scuole di pensiero nel 1900, e sono ancora le stesse. Ancora non sappiamo esattamente che cosa è la storia. I relativisti e gli empiristi stanno ancora dibattendo se si può o non si può conoscere esattamente ciò che è accaduto nel passato. Vico soleva dire “Ciò che sapete del passato è in realtà ciò che sapete del presente, non di più.” La maggior parte di noi si colloca nel mezzo tra un punto di vista relativista ed il suo opposto. È tempo di affrontare un altro problema: quale è il significato della storia.

Il motivo è che la questione palestinese è diventata un nodo che riporta ad un problema molto più ampio: che cosa è stata la Palestina negli ultimi 30-40 anni; è diventata un simbolo, o un oggetto di ricerca, di questioni che vanno molto al di là della Palestina stessa, come la giustizia sociale, o la decolonizzazione. Inoltre la Palestina è diventata importante per la discussione di che cosa sia il senso della storia. Noi viviamo in una società e in un ambiente neoliberale e anche l’università è vittima di questo tipo di percezione ideologica ed economica: da un punto di vista neoliberale l’insegnamento della storia è inutile e non molto importante. L’insegnamento della letteratura, la cultura, in generale l’umanesimo non sono considerati molto importanti. In Gran Bretagna, dove insegno, c’è una nuova idea di rendere la laurea in materie umanistiche e in scienze sociali molto più economica di quella in materie scientifiche, perché sono considerate meno importanti, per cui si paga meno per una laurea in sociologia o storia e molto di più per laurearsi in legge o in medicina. Non me lo sto inventando, è ciò che avverrà in Gran Bretagna nei prossimi anni.

Credo sia importante lottare per l’importanza della storia, non solo per il passato, ma per tutti noi. Sappiamo tutti che se c’è un vuoto nella storia, se l’università e gli storici non vengono considerati come una parte essenziale della nostra società, sappiamo da chi verrà colmato questo grande gap nella società: lo si è visto in Italia, dove stanno tornando i nuovi fascisti, quando la storia non viene raccontata correttamente e quando non viene considerata come questione morale: allora ci sono persone che propongono una loro narrazione e creano la base per politiche razziste ed immorali, in questo paese come anche altrove. Perciò credo che dobbiamo lottare per il diritto di parlare dell’importanza della storia e non vi è un altro caso che richieda un così serio approccio quanto il caso della Palestina. Voglio perciò fornirvi un approccio storico alla lotta contro la cancellazione della memoria della Palestina.

Il punto di partenza, che è già stato citato dai due amici che mi hanno preceduto, è che cerchiamo di guardare al sionismo di Israele oggi come ad un progetto di colonialismo di insediamento. Sono sicuro che tutti voi avete già sentito questo termine, colonialismo di insediamento, ma per essere certo che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, chiariamo la differenza tra colonialismo e colonialismo di insediamento. Quest’ultimo non è il classico colonialismo. Il colonialismo di insediamento è stato creato dai rifugiati, da quelli che hanno dovuto fuggire dall’Europa con l’aiuto di un altro potere colonialista ed in realtà non volevano tornare in Europa, non cercavano solo una nuova casa, ma una nuova patria. E tra le sfide in cui potevano imbattersi dovunque andassero, in America, Australia, Africa o Palestina, la maggiore era che vi fossero persone che già vivevano là, in un territorio che gli apparteneva, che per loro era invece il territorio dove costruire una propria nuova identità. In molti casi questi incontri con popoli indigeni andarono a finire con il genocidio dei nativi. Nel caso del Sudafrica e della Palestina vi furono la pulizia etnica, l’apartheid, ed altre atrocità che dopo la seconda guerra mondiale sono state considerate crimini di guerra contro l’umanità.

Fin dall’inizio la storia è molto importante per il colonialismo di insediamento. Questo intende dire ai popoli indigeni “inferiori, voi non avete una storia”. Gli indigeni sono stati rimossi dai libri di storia dei coloni, prima ancora di essere espulsi fisicamente dalla loro terra. Per esempio, se considerate i pittori sionisti nelle prime fasi del progetto sionista, alla fine del diciannovesimo secolo – inizio del ventesimo, se leggete le loro poesie o i loro racconti, ma penso che soprattutto la pittura sia significativa, potete vedere che i pittori sionisti guardavano la collina dove noi sappiamo che c’era un villaggio palestinese, ma nel dipinto o nel disegno il villaggio non c’è. Il villaggio è stato fisicamente distrutto nel 1948, ma non c’era già più nel 1910. Si tratta dello stesso approccio, attraverso il disegno, di rimuovere i nativi prima di eliminarli fisicamente che si trova… per chi di voi ha visto il muro israeliano intorno a Gerusalemme, là ci sono dei graffiti israeliani (no, non di Bansky…) di ciò che si può vedere al di là del muro, perché gli israeliani di Gerusalemme si lamentavano di dover passare da una parte all’altra della città attraverso un muro molto brutto, quindi qualcuno ha detto “bene, dipingiamolo e ci disegneremo un paesaggio che sta oltre il muro”, per cui si possono vedere le colline, ma non ci sono villaggi né città palestinesi. In realtà ci sono ancora e noi che abbiamo coscienza sappiamo che è un brutto segno che nei graffiti israeliani sul muro i villaggi che ancora esistono, nel disegno non ci sono, il che significa che loro hanno un piano diverso.

Prendiamo in considerazione il colonialismo di insediamento, non solo quello sionista, ma dovunque. Prima che abbiano il potere di espellere la popolazione indigena, la rimuovono dalla narrazione; ma fanno anche altro, lo sappiamo riguardo agli Stati Uniti. Si appropriano della storia degli indigeni come fosse la propria. Prendono la storia dei palestinesi, dei nativi d’America, degli aborigeni e sostengono che in realtà quella è la loro storia. Questo è parte di un progetto che costringe i nativi, la popolazione locale, a lottare per qualcosa che ai loro occhi è evidente, quindi ci vuole molto tempo prima che i palestinesi si rendano conto che devono difendere qualcosa che a loro appare un concetto naturale. Perché dovevano spiegare alle Nazioni Unite nel 1947 che appartenevano alla Palestina? Perché la popolazione di Torino dovrebbe spiegare all’Unione Europea che fa parte di Torino? È un esercizio inutile. Eppure ai palestinesi venne chiesto dalle Nazioni Unite nel 1947: ‘Diteci, siete voi il popolo della Palestina?’ Risposero ‘Sì, noi siamo palestinesi, siamo il popolo della Palestina.’

Sì, ma voi non lo avete articolato bene, perché ci sono i sionisti che hanno detto di essere loro il popolo della Palestina.’ Con un’assenza di 2000 anni, è vero, ma …

Questa sorta di de-indigenizzazione, o di negazione dell’identità indigena dei nativi, la pretesa che la loro storia sia la vostra, è una potente azione di cancellazione e ridefinizione della memoria e dobbiamo capire che la difesa della memoria inizia dal primo momento in cui un colono ebreo venne in Palestina alla fine dell’800.

I coloni ebrei, soprattutto quelli arrivati con la seconda ondata, tra il 1905 e il 1920, divennero il gruppo dal quale più tardi nacque la leadership israeliana fino al 1990, forse fino ad oggi. Molti di loro sono morti, ma la maggioranza di coloro che hanno impostato il sistema politico ed economico israeliano erano arrivati in quell’ondata, ciò che chiamiamo in ebraico la seconda Aliyah, la seconda ondata. Non era un grande gruppo, ma era molto qualificato. Quelle persone hanno scritto riguardo a qualunque cosa, ci hanno lasciato montagne di diari e di giornali ed hanno continuato a scrivere dal momento in cui sono arrivati, non è sfuggito nulla alla loro attenzione, ogni puntura di zanzara, ogni goccia d’acqua, se gli piacesse o no, ci hanno riferito tutto di quel periodo. Ciò che è stupefacente riguardo a questi coloni è che non erano mai stati prima in Palestina e solitamente hanno passato la prima notte nella città di Jaffa, dove tra l’altro i palestinesi li hanno ospitati, perché erano molto poveri; non sapevano dove stare a Jaffa per cui i palestinesi gli hanno permesso di rimanere gratis almeno per i primi due giorni prima di tentare di raggiungere le più vecchie colonie nel nord o nel centro della Palestina. Di notte, probabilmente usando lampade a petrolio (non c’era elettricità) scrivevano del loro primo arrivo nei diari o nelle lettere a casa. Erano davvero stupefatti perché in Polonia o in Russia, da dove provenivano, gli avevano detto che quando fossero arrivati avrebbero trovato una terra vuota, ma poi hanno scoperto che non era vuota, quindi vi è già una narrazione della storia che gli israeliani avrebbero poi portato avanti fino ad oggi, nel 2018. E la narrazione è: noi siamo ospitati da alieni, siamo ospitati da stranieri della nostra patria, che hanno preso la terra dei nostri antenati, e noi siamo venuti a riscattarla, quindi la generosità dei palestinesi, la loro umanità, vengono totalmente ignorate. Ciò che importa è che qui c’è una sfida, c’è una contraddizione tra l’idea che la terra che era deserta da 2000 anni doveva essere vuota, ma se ci sono esseri umani non possono far parte della patria, perciò sono stranieri. Questa idea che i palestinesi siano stranieri non è mai cambiata nella concezione degli israeliani, nemmeno di quelli di sinistra oggi: quando ragionano di compromesso coi palestinesi o quando parlano della cosiddetta pace con loro, li pensano sostanzialmente come stranieri in Palestina; anche se da un punto di vista liberale o socialista intendono arrivare ad un compromesso o a tollerarli in una piccola parte della Palestina, non li riconosceranno mai come indigeni. E questo fa parte del sistema educativo israeliano ancora oggi: noi siamo gli indigeni e chiunque altro è un immigrato, magari ebreo, che si accoglie, oppure è uno straniero. Anche l’ebraismo ha un ben noto modo di dire, che bisogna trattare bene lo straniero, quindi c’è un’idea religiosa che dice che si possono integrare gli stranieri, ma il profondo concetto dei palestinesi come stranieri esiste fin dall’inizio e i palestinesi hanno dovuto combatterlo fin dal primo momento.

Negli anni Trenta per la prima volta la comunità internazionale si è resa conto che la storia ha svolto un ruolo nel destino palestinese. Come saprete, negli anni Trenta gli inglesi che occupavano la Palestina dal 1918 cominciarono a pensare che c’era un problema in Palestina fra le promesse fatte agli ebrei con la Dichiarazione Balfour, che si sarebbe creata una casa per loro in Palestina, e il fatto che sul terreno c’era quella che si può definire una popolazione locale, un popolo che costituiva la schiacciante maggioranza della popolazione [96%], che aveva aspirazioni diverse rispetto alla terra, all’identità collettiva e che esistevano già movimenti di liberazione, gruppi di resistenza all’occupazione. Insomma gli inglesi capirono di dover trovare un modo per conciliare questi contrasti e non sapevano bene come rapportarsi alla Storia in merito. Se avessero utilizzato criteri universali nel 1936, e cioè quante persone, democraticamente, vogliono che la Palestina sia la Palestina, quante vogliono che la Palestina sia uno stato arabo, insomma usando i criteri che le nazioni legalmente usano per stabilire i diritti delle persone all’autodeterminazione, era molto chiaro che al massimo i coloni ebrei avrebbero potuto avere una qualche autonomia culturale nelle loro colonie e che l’aspirazione ebrea di avere una patria a spese dei palestinesi già nel 1936 non andava d’accordo con il diritto internazionale all’indipendenza e all’autodeterminazione. È molto chiaro, come ha detto anche Jamil Khader, che a causa del sionismo cristiano e di altri elementi in gioco, chi perseguiva quel disegno ha visto l’occasione di mettere in dubbio il diritto dei palestinesi alla Palestina attraverso la narrazione di un ritorno in patria dopo 2000 anni di esilio, che di base quella è la patria degli ebrei e i palestinesi sono stranieri. Ma non funzionò tanto bene, ci furono delle pressioni sul movimento sionista affinché provasse non solo che la Palestina fosse disabitata ma anche una continua presenza degli ebrei dall’epoca Romana. Gli inglesi dissero loro che se avessero potuto dimostrare una continuità questo avrebbe rafforzato la loro richiesta della Palestina. Ci fu un famoso incontro, fra David Ben Gurion, capo della comunità ebrea durante il periodo del mandato inglese, e lo storico più importante della comunità ebraica Ben-Zion Dinaburg, più tardi Ben-Zion Dinur, il secondo Ministro all’Istruzione dello Stato israeliano. Ben Gurion chiamò questo eminente storico sionista e gli disse “Voglio che tu faccia un grande progetto di ricerca: dimostra, indaga se c’è stata una presenza continua degli ebrei in Palestina dall’epoca Romana ai nostri giorni.” – cioè gli anni Trenta. Ben-Zion era un serio storico professionista e disse “È un grande progetto e mi piace! Mi darai i fondi?” – ciò che qualsiasi accademico avrebbe chiesto – e Ben Gurion disse “Certo! Tutto ciò di cui hai bisogno!” e poi gli chiese “Quanto tempo pensi di metterci per darci i risultati?” e Ben Zion disse “È un grande progetto, penso una decina d’anni… epoche differenti, lingue diverse, devo raccogliere un gruppo di ricerca ecc.” e Ben Gurion disse: “Non capisci. Una commissione d’inchiesta inglese, la Commissione Peel, arriverà tra un paio di settimane e dunque hai due settimane per trovare le prove che gli ebrei hanno sempre vissuto in Palestina; poi avrai altri dieci anni per sostanziare il tuo lavoro.” E in effetti se leggete il documento ebreo, sionista, consegnato alla Commissione Peel, c’è questa incredibile falsificazione di una continua presenza degli ebrei in Palestina, poiché questo avrebbe fornito la giustificazione morale al diritto degli ebrei di costruire una loro nazione in Palestina. I palestinesi all’epoca non capirono affatto la spaventosa sfida che dovevano affrontare: lo vediamo quando gli inglesi ne ebbero abbastanza della Palestina e demandarono il problema all’ONU e l’ONU creò una speciale commissione di inchiesta, l’UNSCOP, e anche UNSCOP era interessato alla Storia. Voleva capire i racconti, le narrazioni storiche di entrambe le parti. I palestinesi dissero – ed è probabilmente comprensibile – “Non vogliamo fornirvi la narrazione storica, non abbiamo intenzione di fornire le giustificazioni morali” – come penso sappiate, i palestinesi boicottarono la commissione speciale d’inchiesta dell’ONU, pensando “Noi siamo palestinesi in Palestina, perché dovremmo aver bisogno di andare all’ONU a dimostrare che è così!?” Ma quando sei un colonizzatore con il progetto di insediarti, sei bravissimo in storia, e la ricostruzione storica che il movimento sionista consegnò all’UNSCOP è un documento impressionante, di invenzione e falsificazione, ma comunque un documento impressionante: più note a pié pagina di quanto in Italia un dottorando metterebbe nella sua tesi, un mucchio di note, incredibile, è così sostenuto e comprovato e con tanti e tali riferimenti incrociati che prenderebbe 100 su 100 come lavoro storico se sottoposto ad una giuria accademica – quanto alla validità delle affermazioni… lasciamo stare. Era chiaro già nel 1946 allo stesso movimento sionista come alla comunità internazionale che fosse essenziale una narrazione storica, quand’anche falsa e inventata, per giustificare l’immorale idea di dare la Palestina al popolo ebreo come ricompensa in generale per l’antisemitismo e in particolare per l’Olocausto. Non si può procedere direttamente dall’argomento morale: non basta che gli ebrei meritino una patria a causa dell’antisemitismo, bisogna motivare perché in Palestina e a spese dei palestinesi e ottimi storici erano presenti sia nel movimento sionista che alle Nazioni Unite nel 1946… e dunque qual è il senso della storia? di fornire giustificazione morale ad azioni di disumanizzazione [riduzione demografica], pulizia etnica, colonizzazione, che hanno fatto davvero tante vittime umane. Allora “Storia” non è soltanto il nome di una pratica accademica, è anche la narrazione che giustifica l’umanità [nel suo agire]. Dopo il 1948, per la prima volta vediamo i palestinesi rivolgersi di nuovo alla storia, specialmente alla storia recente. I palestinesi, malgrado il trauma dei fatti del 1948, cercarono di spiegare al mondo, con libri storici, cosa era accaduto in quel 1948 – fra questi uno famoso è quello di Walid Khalid [All That Remains: The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948]. Ma nel 1949 e nemmeno negli anni cinquanta il mondo era minimamente interessato a sentire la versione storica di un palestinese, che fosse di uno storico professionista o di livello amatoriale. È molto interessante: Walid l’ha studiata per tutta la vita, è considerato oggi uno storico palestinese dei più importanti e voleva fare un PhD a Oxford, nel 1949-’50, usando la sua memoria ancora molto fresca dei fatti accaduti in Palestina e anche ricostruendo una narrazione e spiegando chiaramente quali fossero i risultati della risoluzione dell’ONU e dell’atteggiamento internazionale rispetto alla Palestina. Fu però convinto dal suo professore della prestigiosa università inglese a non trattare di quei fatti perché erano troppo politici, troppo emotivi, troppo vicini nel tempo, e lui fece un PhD su un altro argomento. Anni dopo avrebbe contribuito alla nostra conoscenza storica della Palestina, ma nei tardi anni quaranta e cinquanta, nella memoria degli studi universitari la versione degli israeliani era considerata professionale, valida, accademica, mentre gli storici palestinesi… chi erano? erano considerati degli emotivi, orientali, che lavoravano su visioni di fantasia piuttosto che sui fatti. Ma è incredibile che gli israeliani scrissero un numero incredibile di libri, specialmente i generali che avevano partecipato alle pulizie etniche del 1948 scrissero le proprie memorie, erano chiamati “i libri della Brigata” in Israele, una letteratura enormemente vasta che uscì in ebraico nel 1950 e ’51, in base a cui infatti qualcuno di noi – ma nessuno di noi lo fece – insomma se qualcuno fra gli ebrei vivo e abbastanza cosciente nel 1951 avesse voluto, avrebbe potuto scrivere quella che fu in seguito chiamata la “nuova storia” del 1948, avrebbe potuto farlo nel 1950 senza un solo documento degli Archivi israeliani. Sapete, il mito che dovessimo aspettare la desecretazione degli archivi nel 1978 per sapere cosa fosse accaduto in Palestina nel 1948, è un’assurdità: nel 1950 i generali, i militari, le truppe che avevano preso parte alla pulizia etnica della Palestina scrissero molto onestamente di ciò che avevano fatto, ma quando non hai le giuste lenti ideologiche, morali, non leggi correttamente quella produzione di conoscenza, non capisci che la parola “nemico” vuol dire “donne e bambini”, non capisci che la parola “base nemica” vuol dire “un villaggio o un quartiere”, non capisci che l’espressione “eliminare il nemico” vuol dire “distruggere un’intera comunità”; è solo dopo, quando il dizionario ideologico cambia e si inizia a rileggere queste fonti – disponibili, non desecretate – capisci che non era necessario aspettare il 1978, che già nel 1950 era possibile scrivere la vera storia del 1948. Ma di certo Israele allora era protetto da quella nuova idea degli storici che un documento in un archivio scritto da un politico, un militare – il genere di persone più inattendibili che ci sia al mondo – insomma che questo scritto, già coperto dalla polvere di 30 anni, non debba essere altro che la verità e nient’altro che la verità e questa era una cosa su cui anche i palestinesi sfortunatamente cominciarono a riflettere più tardi, quando la nuova storia di Israele cominciò ad apparire. Cominciarono a tenere in considerazione i documenti dell’esercito israeliano sui fatti del 1948, pensando che contenessero la sola versione possibile degli eventi rispetto alle testimonianze orali o ad altri mezzi che si usano per ricostruire cosa accadde nel passato. Per questo la nostra battaglia contro il memoriale è anche la nostra battaglia contro la gerarchia, che considera dei documenti politici e militari desecretati possedere una sorta di validità che ogni altra fonte che usiamo per ricordare e rammentare non possiede. Penso a questo proposito al lavoro di Jacques Derrida e di Michel Foucault sugli archivi, che aiutano molto a invalidare gli Archivi Nazionali in quanto deposito di fatti manipolati e aggiustati dallo Stato, e non una via diretta alla verità del passato.

Procedo verso il prossimo punto, con cui concluderò. Una cosa importante da ricordare riguardo ad Edward Said è che scrisse un libro, The Question of Palestine, pubblicato negli anni Settanta e dunque prima che si avesse accesso agli archivi israeliani, o agli archivi britannici o americani. E questo perché lui aveva idea che ciò che è importante dei fatti sia il loro significato piuttosto che la loro autenticità; lui fu in grado per la prima volta di articolare in modo molto chiaro una narrativa palestinese, che naturalmente compare più tardi nell’atto costitutivo dell’OLP e nella Dichiarazione di Indipendenza nel 1988; per la prima volta i lettori inglesi ebbero a disposizione una narrazione concisa, che conteneva ciò che è importante in una narrazione e cioé non i dettagli, ma lo scheletro della storia, una storia di colonizzazione, spossessamento – non una storia complicata, infatti è il primo a dire che ciò che fa Israele erige anche uno schermo di complessità. Penso che ognuno di voi che abbia discusso in veste ufficiale o con un portavoce informale di Israele sa che il maggiore genere di rivendicazione di Israele è che la cosa è troppo complessa, voi non riuscirete mai a capire, solo Israele la capirebbe. E questa complessità della storia è costruita, perché purtroppo la storia non è affatto complessa, di gente che arriva e caccia via altra gente, è già accaduto e purtroppo accadrà ancora, e la domanda è se si possa fermare piuttosto che se si possa comprendere. Come sapete negli anni ottanta capitarono due cose, e con questo concludo. Apparve il grande articolo di Edward Said che hanno menzionato i miei colleghi, Permission to Narrate, un articolo molto importante che vi raccomando di leggere se non l’avete già fatto, che Said scrisse immediatamente dopo l’invasione israeliana del Libano, nel 1982. Dopo l’invasione del Libano del 1982, che in Israele è chiamata la Prima Guerra del Libano, l’ONU nominò una commissione d’inchiesta con a capo una persona di nome Sean McCright, un irlandese che era famoso nel mondo come l’avvocato più autorevole per i Diritti Umani, e fu nominato dall’ONU anche perché aveva effettivamente a livello internazionale la reputazione di persona integra e questo avvocato produsse un report molto incriminatorio della guerra in Libano, specialmente [delle azioni] contro i campi profughi palestinesi, report che fu completamente ignorato dalle Nazioni Unite, dai media internazionali e questo irritò molto Said. E fu così che iniziò a scrivere il suo articolo.

E la seconda cosa che successe, che lo irritò, fu che il buon amico Noam Chomsky scrisse un libro intitolato Il triangolo palestinese e concludeva il libro dicendo che, riguardo alla questione palestinese, se si guardavano realmente le cose in faccia, i palestinesi non avrebbero avuto proprio alcuna possibilità di cambiare la realtà. Non so che cosa l’abbia irritato di più, se il report di McCright o le conclusioni di Chomsky, ma scrisse l’articolo con molta rabbia, questo è evidente. E nell’articolo dice, e questo è molto importante, che non solo i palestinesi hanno il permesso di avere la loro narrazione, e che anche se l’equilibrio di potere è contro di te, non hai il potere militare, non hai il potere economico, non hai il potere diplomatico, nessuno può toglierti il potere di raccontare la tua storia.

Ma questo non è il punto principale, il punto principale è che Said ha detto a Chomsky: se i fatti sono così deprimenti devi raccontarli in modo che si possa scegliere di venirne fuori. Il ruolo della Storia non è quello di dire le cose così come sono state, la Storia racconta le storie del passato con una visione di cambiamento della realtà nel futuro. Certo, così dicendo Said entrava in conflitto con la percezione professionale accademica del lavoro della Storia in quanto imparziale, oggettiva, priva di agenda politica, e diceva: la gente non ha un’agenda politica, una posizione morale e se si ricostruisce la storia della Palestina senza alcun impegno, si finisce certo con il rappresentare dei fatti che perpetuano la realtà. Mentre le persone che scrivono assumendosi un impegno, possono anche contribuire scrivendo a produrre un cambiamento nella realtà.

Lui credeva che la penna possa a volte essere più potente dei pensieri; la maggior parte di voi è molto giovane e magari non sa che cos’è una penna, allora diciamo che una tastiera può essere più potente dei pensieri…..Ma Said da più punti di vista non era certo naïf su questo, semplicemente pensava che questa fosse una parte importante della lotta. Permettetemi di finire dicendo che oggi in Palestina, in Israele, nei Territori Occupati e all’interno della comunità palestinese Said lancia un appello al permesso di narrare, e cioè “io ho il diritto di raccontare la mia storia anche se sono occupato, anche se sono colonizzato e anche se sono rifugiato”, e ho il diritto come storico professionista di essere un attivista. Queste sono le due raccomandazioni di Said per il futuro per noi storici professionisti. Lui viene preso molto sul serio dalla società civile, ma ancora non abbastanza sul serio dalla comunità accademica, purtroppo. Quindi molte delle cose che Said avrebbe voluto veder accadere in ambito accademico – cioè che avremmo fatto lezioni sul 1948 come pulizia etnica, che avremmo fatto lezioni sulla Palestina nei nostri corsi sul colonialismo, che avremmo fatto lezioni su Gaza nei nostri corsi sul genocidio, negli studi sul genocidio – non è successo. Questo non è successo, né in Italia, né in Inghilterra, in nessun posto, quindi non sentitevi esclusi. In nessuna parte del mondo è facile cambiare il piano di studi in modo che rappresenti il tema Palestina come una conquista nella produzione accademica di conoscenza.

Ma nella società civile, che è meno inibita dalla nuova scuola di pensiero liberale, lo stanno facendo, e in Palestina potete vedere progetti di storia orale, progetti di ricostruzione di modelli dei villaggi distrutti, il racconto di storie attraverso interviste individuali o spettacoli o folclore. Il permesso di narrare è ciò che Gramsci probabilmente chiamava resistenza culturale, come prova concessa alla resistenza politica. Come sapete Gramsci diceva che se non si può fare resistenza politica, si fa una resistenza culturale nel senso che questa è il banco di prova concesso alla resistenza politica. E da più punti di vista gli Israeliani stanno iniziando a capire il progetto culturale di memoria che i giovani palestinesi hanno intrapreso non solo in Israele, ma anche in altri paesi, in Palestina e fuori dalla Palestina, e improvvisamente stanno capendo, senza comprendere appieno il perché, che si sentono spaventati da questo molto più che dai missili che Hamas lancia contro di loro da Gaza o dai missili di Hezbollah ed è per questo che hanno approvato delle leggi, di cui la più famosa è la legge sulla Nakba, hanno approvato una legge che dice che i palestinesi non hanno il permesso di fare riferimento agli eventi del 1948 come Nakba. Credo che persino George Orwell non avrebbe potuto inventare una legge di questo tipo, voglio dire che è incredibile il modo in cui lo fanno, ma lo fanno perchè percepiscono che in qualche modo la società civile palestinese, non quella accademica, ricorda il 1948 come un evento contemporaneo. Come ha detto Jamil Khader a questo proposito, è la “Al-Nabka al-Mustamirra” [“La Nakba ininterrotta”, ndt], voglio dire che non sono riusciti nonostante i fatti, nonostante abbiamo cancellato i villaggi e le foreste ora coltivate con alberi europei, nonostante il fatto che abbiano costruito le colonie, eliminando quartieri e villaggi, nonostante tutto lo smantellamento che hanno fatto e continuano a fare, non possono controllare un progetto di questo tipo, che riporta e ripete la storia di Israele in modo da dimostrargli che il loro progetto di spopolare la Palestina dei palestinesi non è riuscito.

E questo richiede un grosso sforzo ed ottimismo, lo so, ed i tempi non ci offrono una buona ragione per essere ottimisti, ma ritengo che Said, il permesso di narrare di Said, ci dimostri che qualsiasi sia l’equilibrio di potere – e nessuno può pensare uno squilibrio di potere peggiore tra i palestinesi e gli Israeliani, non me ne viene in mente uno, almeno non nella storia contemporanea –, qualunque sia lo squilibrio, un fatto resta innegabile: gli Israeliani vogliono avere una vita normale, essere accettati come una normale parte organica della Palestina – cosa che potrebbe anche diminuire la possibilità di una prevedibile terza ondata di coloni – ed essere parte del Medio Oriente, gli Israeliani vogliono questo tipo di normalità. L’unico popolo che può garantirgli questo, sfortunatamente per loro, sono i palestinesi, non gli americani, non i cinesi, non gli indiani, non gli europei. È in qualche modo assurdo, perchè i palestinesi sono le vittime principali, sono stati oppressi, colonizzati, è stata fatta una pulizia etnica nei loro confronti, ma sono l’unico popolo che può dar loro legittimità; ora certo gli Israeliani hanno sufficiente potere per fare a meno della legittimità, ma lo potete vedere nella reazione alla campagna del BDS: la delegittimazione è qualcosa con cui gran parte degli Israeliani non sarebbe in grado di coesistere per lungo tempo. E questo è qualcosa che noi dovremmo comprendere, è qualcosa che noi dovremmo utilizzare e non perdere la speranza, nonostante la discordia, lo squilibrio di potere, una comunità internazionale indifferente, nonostante tutto questo, perché ciò che è successo in quell’area del mondo non si dovrebbe mai permettere che accada, pensando positivamente alla Palestina, nonostante tutto questo o il colonialismo dei coloni è trionfante, come in caso di genocidio, o alla fine è destinato a perdere, come è successo in Algeria o in Sud Africa.

Quella è la speranza, che la Palestina nel 2055 sia insegnata in questa università come caso della possibilità di sconfitta del progetto colonialista.

Grazie!

(traduzione di Cristiana Cavagna, Luciana Galliano e Paola Merlo)

vers. orig. https://www.youtube.com/watch?v=e2Y7ZH27Tt4,video a cura di Invicta Palestina

*Il seminario “L’eredità di Edward Said in Palestina” è stato organizzato dagli studenti del Progetto Palestina e si è svolto nei giorni del 1 e 2 marzo con quattro panel con tre relatori ciascuno.




Infanzia rubata: la vita dei minori palestinesi dopo la prigione

Chloé Benoist

5 marzo 2018, Middle East Eye

I minori palestinesi incarcerati da Israele affrontano il trauma e la sfida di cercare di riconquistare la propria infanzia.

CISGIORDANIA OCCUPATA – A volte il diciottenne Mohammad sogna di essere ancora nella prigione militare di Ofer.

“Ricordo i miei amici in prigione. Mi sembra di essere di nuovo là”, dice sommessamente il giovane palestinese, tenendo gli occhi bassi mentre ricordava gli otto mesi passati nella prigione israeliana tra il 2016 e il 2017.

Mohammad, che preferisce non rivelare il suo cognome per motivi di sicurezza, è stato incarcerato quando aveva solo 16 anni.

Secondo l’associazione per i diritti dei prigionieri palestinesi “Addameer”, in gennaio sono stati incarcerati 330 minori palestinesi.

Tra loro vi è Ahed Tamimi, la ragazza di 17 anni il cui caso è stato una notizia da prima pagina sui giornali di tutto il mondo da quando è stata incarcerata a dicembre.

“Sì, sono orgoglioso. Sì, lei è forte”, dice l’attivista politico e padre di Ahed, Bassem Tamimi. “Ma è cresciuta troppo presto per la sua età. Ha perduto la sua infanzia a causa di qualcosa di cui noi –il mondo, gli adulti – siamo responsabili.”

Violenza fisica

Secondo Carol Zoughbi-Janineh, supervisore amministrativo di YMCA di Gerusalemme est, programma di riabilitazione per ragazzini che sono stati in prigione, il numero di minori palestinesi detenuti dalle forze israeliane è costantemente aumentato dal 2000.

“Quando abbiamo dato inizio al programma (nel 2008) vi erano tra 500 e 700 minori detenuti all’anno. L’anno scorso sono stati 1.467”, dice a MEE. “È davvero un dato allarmante.”

Zoughbu-Janineh dice che, benché la stragrande maggioranza dei minori detenuti sia costituita da maschi, le ragazze sono state arrestate in sempre maggior numero negli ultimi tre anni, con oltre 60 ragazze arrestate nel 2017, un forte aumento rispetto a una o due per ogni anno antecedente il 2015.

Diverse associazioni per i diritti nel corso degli anni hanno denunciato le condizioni di incarcerazione dei minori palestinesi – puntando l’indice sulla sistematica incriminazione di fronte ai tribunali militari, con un tasso di condanne vicino al 100%.

Secondo “Defense for Children Iternational – Palestina “(DCIP), tre minori su quattro subiscono violenza fisica durante l’arresto o l’interrogatorio.

Rapporti di “Human Rights Watch” (HRW) e delle associazioni israeliane per i diritti B’Tselem e HaMoked hanno rivelato che le forze israeliane usano violenza non necessaria durante l’arresto di minori e “ regolarmente” li interrogano senza la presenza di un parente o di un avvocato. Parecchi minori hanno riferito di essere stati presi a schiaffi e calci, picchiati e bendati durante il loro arresto o interrogatorio.

Secondo le associazioni per i diritti umani, spesso ai minori vengono fatti firmare documenti scritti in ebraico, anche se non capiscono la lingua. Inoltre i minori sono abitualmente detenuti insieme agli adulti.

Il Servizio Carcerario Israeliano (IPS) non ha risposto alla richiesta di MEE di parlare delle condizioni detentive e delle violazioni riferite su minori palestinesi, o di dire quali servizi psicologici, se esistenti, fossero disponibili per i prigionieri minori al momento della pubblicazione [di questo articolo].

Quasi la metà dei palestinesi nei territori occupati sono minori di 18 anni. Per Mohammad, Ahed e molti altri giovani palestinesi che sono stati nelle carceri israeliane, le difficoltà non finiscono dopo essere usciti di prigione. Questi ragazzi devono imparare come riconquistare la propria infanzia dopo una così traumatica esperienza.

Acclamati come eroi

Mohammad è stato arrestato dalle forze israeliane alla fine del 2016 insieme a parecchi suoi amici, mentre si trovavano vicino ad un centro giovanile locale.

Secondo lui, è stato picchiato durante l’arresto e quando era sotto custodia israeliana ed accusato di aver lanciato pietre, che è un’ imputazione usuale contro i minori palestinesi.

La condanna, se c’è, può arrivare fino a 20 anni di prigione, ma Mohammad è stato rilasciato otto mesi dopo, senza aver subito alcuna condanna per alcun reato.

“Quando mi hanno rilasciato sono rimasto sorpreso”, dice Mohammad, ricordando quasi un anno dopo quel momento. “La liberazione dopo una detenzione di otto mesi, dopo che mi hanno detto che non ero colpevole di niente, ero felice e al tempo stesso sbalordito, perché non mi aspettavo di essere rilasciato.”

Mentre la liberazione di un prigioniero è un momento di grandi celebrazioni nei territori occupati, in seguito gli ex prigionieri vengono spesso lasciati a lottare con pensieri ed emozioni difficili quando tornano alla vita normale – un processo complicato, che è molto più arduo per dei ragazzi.

“I ragazzi sono più colpiti degli adulti (dal carcere), perché i loro meccanismi di difesa sono più deboli, in quanto il loro cervello è ancora in evoluzione”, avverte la psichiatra e psicoterapeuta palestinese Samah Jabr. “Un’esperienza come questa può spezzare il tessuto sociale intorno al giovane, il suo rapporto con la famiglia e la società.”

I prigionieri detenuti da Israele sono celebrati come eroi nella società palestinese, un ruolo che può spingere i minori a non mostrare segni di debolezza.

“A volte quel ruolo costringe le persone in una camicia di forza. Non possono esprimere il dolore; non possono chiedere aiuto; non possono mostrare le loro vulnerabilità”, dice Jabr.

Sia Jabr che Zoughbi-Janineh elencano una serie di sintomi psicologici manifestati dai minori dopo che erano stati rilasciati dal carcere, compresi depressione, ansia, problemi di concentrazione, introversione o comportamento aggressivo.

“Se sono con i miei amici o con la mia famiglia non sono triste. Ma se sono da solo a casa, incomincio a pensare alla prigione e a tutto il resto. E incomincio a sentirmi triste”, ha detto Mohammed, aggiungendo che passa molto tempo fuori con gli amici, per evitare di restare solo con i suoi pensieri.

Mentre Jabr dice che molti dei sintomi mostrati dai ragazzi ex prigionieri potrebbero rientrare nella classificazione di disordine da stress post-traumatico (PTSD), il perdurante trauma causato dai settant’anni di occupazione israeliana ha reso difficile affrontare tali questioni in passato.

“Raramente faccio per questi minori una diagnosi di PTSD [disturbi da stress post-traumatico]. Penso che ciò che accade sia una distruzione più subdola della loro personalità. Non si tratta solo di un evento traumatico, dopo il quale le persone vivono in pace per sempre”, dice Jabr, che ha scritto il libro “Derrière les fronts” [Dietro i fronti], che getta lo sguardo sull’impatto psicologico dell’occupazione. Il libro dovrebbe uscire verso la fine del mese.

‘Impotenti a proteggere i propri figli’

Dal momento dell’arresto – che spesso avviene in casa in piena notte – i minori imprigionati sono afflitti da “impressionanti immagini di impotenza, debolezza e disperazione dei genitori” incapaci di proteggere i propri figli, dice Jabr.

Zoughbi sottolinea un problema ancor più grande per le famiglie di Gerusalemme est annessa, dove molti minori sono condannati agli arresti domiciliari invece che al carcere.

“All’inizio potresti pensare ‘mio figlio non è in prigione’, ma dover stare in casa è psicologicamente ancor più devastante perché si chiede ai genitori di imprigionare il proprio stesso figlio”, dice. “Non vedi più i tuoi genitori come tali. Li vedi come carcerieri.”

Dopo la liberazione, le famiglie spesso lottano per ricostruire il rapporto di fiducia tra genitori e figli, in quanto i ragazzi si ribellano contro l’autorità dei genitori.

Molti ragazzi lottano per reinserirsi a scuola, soffrendo di problemi psicologici e venendo inquadrati in classi inferiori dopo aver passato molto tempo in prigione con un accesso minimo all’educazione. Il risultato è che minori ex prigionieri come Mohammad spesso lasciano la scuola. Lui ha lasciato la scuola superiore ed ora fa due lavori part-time.

Anche le amicizie finiscono per risentirne, in quanto i ragazzi ex detenuti faticano a rapportarsi con i loro pari e mostrano tendenze a isolarsi.

“Prima del carcere ero estroverso, parlavo a voce alta, ma ora sono più silenzioso”, dice Mohammad, aggiungendo di sentire una maggiore affinità con amici che sono stati in carcere con lui piuttosto che con quelli che non sono mai stati in prigione, “perché quelli fuori non hanno mai provato niente di simile.”

Per paura di essere nuovamente arrestato, Mohammad non va più al centro giovanile locale vicino al quale è stato arrestato e al più tardi alle dieci di sera è sempre a casa.

Un membro della comunità ha detto a MEE che le forze israeliane hanno fatto irruzione nella città di Mohammed ed arrestato il giovane ed un amico per alcune ore, alcuni giorni dopo l’intervista. Sono stati rilasciati senza essere informati del perché fossero stati presi, confermando i timori di Mohammad.

Quando non hai scelta’

Le Ong come YMCA forniscono servizi di riabilitazione per ragazzi ex prigionieri, ma Zoughbi-Janineh dice che l’organizzazione può farsi carico di 400 casi all’anno al massimo, sottolineando che le risorse limitate impediscono seriamente di raggiungere tutti i giovani colpiti che necessitano di supporto.

Intanto, Bassem Tamimi ammonisce che molte famiglie, soprattutto in zone politicamente attive come il villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania, diffidano delle Ong che si occupano di fornire supporto psicologico. Sospettano che queste organizzazioni potrebbero scoraggiare i ragazzi dall’impegnarsi nelle attività della resistenza.

“Lanciare pietre fa parte del trauma? Qualcuno potrebbe ritenere che sia così, sì”, dice. “O è una cura per la rabbia interiore? Magari i ragazzi curano se stessi evitando di essere solo vittime.”

Bassem afferma che gli abitanti di Nabi Saleh, dove vive la famiglia Tamimi, hanno inventato il loro modo per aiutare i ragazzi di fronte alla minaccia di arresto. Dice che lui cerca sempre di spiegare la situazione ai suoi figli fin da piccoli, invece di nascondergliela.

“Se spavento i miei figli e li tengo da parte, allora verranno spezzati dentro, e questo per loro è peggio che se gli venisse spezzata una mano”, dice.

Bassem racconta che il villaggio ha organizzato diverse sessioni di formazione durante le quali ai ragazzi viene detto che cosa aspettarsi durante l’arresto, l’interrogatorio e il processo, comprese simulazioni in cui i minori vengono bendati e ammanettati. Manal Tamimi, zia di Ahed, commenta una di queste sessioni di formazione su Facebook, dicendo:

“Certo non è normale sottoporre questi ragazzini ad una simile formazione, e non stiamo dipingendo come normale la situazione, ma questa è la nostra realtà e la nostra vita e quei minori devono essere preparati a tutto ciò che potrebbe succedere.”

Da parte sua, Jabr esprime delle riserve su queste sessioni di formazione.

“Preferisco un approccio più generale e meno ansiogeno”, dice. “Un approccio in cui stimoliamo la resilienza, i punti di forza delle persone, le loro abilità sociali, la loro assertività, le tecniche di relazione”, sostiene.

Jabr afferma di aver lavorato con consulenti scolastici, insegnanti, organizzatori di comunità e allenatori per creare reti comunitarie di adulti sensibilizzati ai bisogni psicologici dei minori. È un approccio che secondo lei potrebbe evitare lo stigma legato al cercare aiuto psicologico.

Per Jabr, l’incarcerazione di minori indica una politica israeliana consapevole che prende di mira la gioventù palestinese.

“Penso che questa sia un’azione deliberata per intimidire la comunità palestinese”, dice. “Ritengo che, quando una popolazione vive questa esperienza in età molto giovane, si tratti di un tentativo di mettere in ginocchio la comunità. Gli israeliani sperano che i palestinesi diventino l’ombra di ciò che sono.”

Bassem respinge le illazioni, diffuse da dirigenti israeliani, che i palestinesi tengano poco al benessere dei loro figli.

“A volte ci accusano di usare i nostri figli, di metterli in pericolo”, dice Tamimi. “Se qualcuno ci desse un posto sicuro in Palestina, metteremmo là i nostri figli. Ma lei (Ahed) non è in una condizione che le permetta di vivere una vita normale.”

“La nostra situazione ha bisogno di una cura: la fine dell’occupazione”, aggiunge. “Quando non hai scelta, che cosa dovresti fare? Noi dobbiamo imparare a fare i conti con questa situazione, ad essere abbastanza forti per affrontarla, a crescere i nostri figli in un modo diverso.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)





Nove ragioni per cui Israele non è un ‘paradiso progressista’

Hamzah Raza

6 marzo 2018, Mondoweiss

Dal 4 al 6 marzo a Washington si è riunita la conferenza politica dell’“American Israel Public Affairs Committee” [Comitato per gli Affari Pubblici Americano-Israeliano] (AIPAC). Questa riunione per l’AIPAC, il principale braccio della lobby americana filo-israeliana, è la più partecipata dell’anno.

L’AIPAC rappresenta una delle lobby più potenti degli Stati Uniti, con un’influenza pari a quella dell’NRA [associazione USA dei produttori di armi, ndt.]. L’ex presidente dell’AIPAC, Steven J. Rosen, una volta ha detto ad un giornalista: “Vede questo tovagliolo? In ventiquattr’ore su questo tovagliolo possiamo avere le firme di settanta senatori.”

Eppure negli ultimi anni l’AIPAC ha perso appoggi nel partito Democratico. A causa dell’influenza di gruppi di centro come JStreet [gruppo di ebrei liberal moderatamente critici con il governo israeliano, ndt.], un fiorente movimento per il disinvestimento [contro Israele] nei campus e l’approvazione incondizionata di Donald Trump nei confronti del governo israeliano, l’AIPAC continua a perdere influenza tra i democratici.

Un sondaggio di PEW [centro di ricerche indipendente con sede a Washington, ndt.] ha evidenziato che i democratici ‘liberal’ simpatizzano più per i palestinesi in una misura vicina a due filopalestinesi per ogni filoisraeliano. Lo stesso sondaggio ha scoperto che è probabile che nel loro complesso i democratici simpatizzino più per i palestinesi che per gli israeliani.

Questo sondaggio è molto diverso da quelli realizzati in passato sull’appoggio dei democratici ad Israele. Nel 2009 il 42% dei democratici simpatizzava più per Israele rispetto al 27% dei democratici di oggi. Ciò ha portato Philip Weiss di Mondoweiss a definire Israele come una “ quotazione in ribasso” tra i democratici.

Tentando di salvaguardare quella quotazione, l’AIPAC ha messo al centro della sua conferenza di quest’anno l’obiettivo di tendere la mano ai progressisti. Nello stesso discorso in cui ha chiesto un lungo applauso per Donald Trump, il presidente dell’AIPAC Mort Fridman ha affermato che “dobbiamo abbracciare e coinvolgere molti più ebrei americani…la causa dei progressisti per Israele è impellente tanto quanto quella dei conservatori.”

Jennifer Granholm, ex governatrice democratica del Michigan, ha promesso solennemente “di appoggiare l’AIPAC…(e) di garantire che Israele rimanga una questione bipartisan,” ed ha anche affermato che “c’è una forte posizione filo-israeliana all’interno del partito democratico.” Granholm ha anche definito Israele come un “paradiso progressista” che è un “modello da seguire per altre Nazioni, compresa l’America.”

L’Israele da favola di Granholm è il contrario della situazione sul terreno. Il fatto che i progressisti si stiano rendendo conto della realtà dello Stato di Israele è proprio la ragione per cui i democratici stanno continuando a simpatizzare sempre più per i palestinesi. Ho deciso di compilare un breve elenco di nove ragioni per cui Israele non è un “paradiso progressista”.

  1. Il blocco di Gaza

La situazione a Gaza rappresenta una crisi umanitaria. L’esercito israeliano ha imposto un blocco terrestre, navale e aereo che ha impedito l’ingresso a 1.6 milioni di palestinesi. A causa del blocco ci sono state limitazioni e la proibizione della fornitura di beni essenziali come pasta, biscotti, latte in polvere, ministre, shampoo, libri di testo e carta da lettera.

A causa del blocco, necessità basilari per la vita come cibo ed acqua rimangono di difficile reperimento per i palestinesi. In seguito a ciò, il 95% dei gazawi è obbligato a bere acqua inquinata e il 54% della popolazione non sa dove riuscirà a procurarsi i pasti. Nel tentativo di “prosciugare” i fondi per Hamas, il governo israeliano ha anche tagliato l’elettricità per Gaza. Ciò significa che il gazawi medio dispone di quattro ore di elettricità al giorno, con particolari rischi per persone come i pazienti in dialisi.

Noam Chomsky ha definito le condizioni di Gaza come quelle di “una prigione a cielo aperto”. Descrivendo la logica che sta dietro al blocco, Dov Weisglas, un ex-consigliere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha detto: “L’idea è di mettere a dieta i palestinesi, ma non di farli morire di fame.”

In seguito al bombardamento di Gaza da parte del governo israeliano nel 2014, anche le infrastrutture di Gaza sono state completamente distrutte. Con la frequenza con cui sta entrando attualmente il materiale [per la ricostruzione], si stima che ci vorranno 100 anni per ricostruire Gaza.

Il 13,2% dei bambini di Gaza soffre di ritardi dello sviluppo dovuti a malnutrizione. Il costo psicologico per i bambini di Gaza è stato grave tanto quanto quello fisico. Il 70% dei bambini di Gaza soffre di incubi e il 75% di enuresi, a causa delle strazianti condizioni di vita che devono sopportare.

Un gruppo di 50 organizzazioni della solidarietà internazionale, comprese l’Organizzazione Mondiale della Salute e Oxfam, hanno chiesto la fine del blocco di Gaza affermando:

Per oltre cinque anni a Gaza più di 1.6 milioni di persone sono stati sottoposti a un blocco che viola le leggi internazionali. Più di metà di queste persone sono bambini. Le organizzazioni firmatarie dicono con un’unica voce: “Ponete subito fine al blocco.”

Anche il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha affermato:

Tutta la popolazione civile di Gaza viene punita per azioni di cui non ha nessuna responsabilità. Di conseguenza il blocco costituisce una punizione collettiva imposta in evidente violazione degli obblighi di Israele in base alle leggi umanitarie internazionali.”

2)Israele è uno Stato colonialista di insediamento

Israele è uno Stato fondato da ebrei europei che hanno colonizzato la terra e, nel 1948, hanno perpetrato un genocidio e un’espulsione di massa della popolazione indigena palestinese che vi viveva. Il senatore [americano ed ex candidato alle primarie presidenziali, ndt.] Bernie Sanders ha paragonato questo atto di colonialismo di insediamento a quello degli europei arrivati nelle Americhe.

Nel 2017 Sanders ha affermato che “come per il nostro Paese, la fondazione di Israele ha comportato l’espulsione di centinaia di migliaia di persone che già vi vivevano, il popolo palestinese. Oltre 700.000 persone sono state trasformate in rifugiati. Il riconoscimento di questo doloroso fatto storico non delegittima Israele, non più di quanto il riconoscimento del “Trail of Tears” [il “Sentiero delle Lacrime”, lungo il quale 18.000 nativi americani furono costretti a marciare per 2.000 miglia, e un terzo di loro morì lungo il cammino, ndt.] delegittimi gli Stati Uniti d’America.

La creazione dello Stato di Israele ha dato come risultato la creazione della più grande popolazione di rifugiati al mondo. Mentre gli israeliani fanno riferimento alla nascita di Israele come al “Giorno dell’Indipendenza israeliana” (anche se non è chiaro da chi si sarebbero resi indipendenti), i palestinesi definiscono questo giorno come la “nakba”, ossia la catastrofe.

Si stima che circa il 40% dei rifugiati al mondo siano palestinesi che furono espulsi dalle loro case in conseguenza della creazione dello Stato di Israele. Le Nazioni Unite ribadiscono regolarmente, in particolare con dichiarazioni come la Risoluzione 192 delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Internazionale dei diritti dell’uomo, il diritto dei palestinesi e dei loro discendenti a tornare nelle case da cui furono espulsi. Eppure Israele continua a negarglielo.

3) Israele pratica l’apartheid

Nello Stato di Israele l’identità etnica di una persona ne determina i diritti. Sottomettere differenti gruppi di persone a differenti insiemi di leggi costituisce letteralmente la definizione di apartheid.

Mentre i palestinesi che vivono sotto il controllo israeliano in Cisgiordania sono sottoposti alla legge militare, i coloni israeliani che vi abitano sono cittadini di Israele a tutti gli effetti, sottoposti alla legge civile. Possono votare alle elezioni, mentre i palestinesi che vi vivono non sono neppure considerati cittadini. I cittadini non ebrei di Israele sono sottoposti a leggi discriminatorie che li rendono cittadini di serie B.

Sudafricani che hanno vissuto sotto l’apartheid hanno descritto Israele come del tutto simile alla situazione che hanno affrontato sotto l’apartheid. L’African National Congress, il partito di Nelson Mandela, che ha combattuto l’apartheid in Sud Africa, ha etichettato Israele come uno Stato dell’apartheid. L’ex-presidente dell’ANC, Baleka Mbete, ha definito Israele “molto peggio del Sudafrica dell’apartheid.”

Desmond Tutu [arcivescovo sudafricano e premio Nobel per la pace, ndt.] ha affermato che “Israele è uno Stato dell’apartheid…Sono andato ed ho visitato la Terra Santa e ho visto cose che sono un’immagine speculare di ciò che ho vissuto sotto l’apartheid.”

Anche il governo sudafricano dell’apartheid nel 1978 rese pubblico un rapporto in cui affermava che “Israele e Sud Africa hanno una cosa in comune su tutte: entrambi si trovano in un contesto prevalentemente ostile popolato da persone di colore.”

Il capo militare del Sudafrica dell’apartheid, Constand Viljeon, era un ammiratore dei posti di blocco israeliani nella Palestina occupata. Dopo averli visitati, sostenne:

L’accuratezza con cui Israele conduce questo controllo è sorprendente. Come minimo porta via ad ogni arabo che li attraversa circa un’ora e mezza. Quando il traffico è intenso, ci vogliono da quattro a cinque ore.”

4) Incarcerazioni di massa dei palestinesi

Il 40% della popolazione maschile palestinese è stata incarcerata dai tribunali militari israeliani, che hanno una percentuale di condanne per i palestinesi del 99,74%.

Uno dei palestinesi incarcerati da questi tribunali è stato Issa Amro, un uomo che molti definiscono come il “Gandhi palestinese”. Amro è impegnato in azioni non violente contro la costruzione di colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, che sono illegali in base alle leggi internazionali. Amro ha affrontato il carcere con 18 imputazioni, da “insulti a un soldato” ad “aggressione”. Amnesty International ha denunciato che “il diluvio di imputazioni contro Issa Amro non regge in nessun modo,” definendo le accuse “infondate e motivate da ragioni politiche”. Issa Amro è solo uno delle centinaia di migliaia di uomini palestinesi che sono stati gettati nelle prigioni israeliane sulla base di imputazioni infondate.

Allo stesso modo le donne palestinesi non rappresentano un’eccezione a questo sistema di incarcerazione. Il 18 dicembre 2017, l’esercito israeliano ha fatto irruzione in piena notte nella casa della famiglia Tamimi ed ha arrestato la sedicenne Ahed Tamimi. Hanno picchiato suo padre, sua madre, i fratelli maggiori e minori ed hanno confiscato tablet, telefoni e videocamere della famiglia. Tamimi è stata imputata per aver “schiaffeggiato un soldato” e tuttora è in carcere.

Human Rights Watch ha documentato gli abusi dell’esercito israeliano contro minori palestinesi in un rapporto intitolato “Minori dietro le sbarre”:

Secondo la sezione di “Difesa Internazionale dei Minori/Palestina”, ogni anno Israele arresta, imprigiona e processa nel sistema dei tribunali militari circa da 500 a 700 minori palestinesi sospettati di reati penali nella Cisgiordania occupata. Israele è l’unico Paese che processa automaticamente minori nei tribunali militari. Nel 2015 “Human Rights Watch” ha riscontrato che le forze di sicurezza israeliane hanno utilizzato una forza eccessiva per arrestare o detenere bambini palestinesi di 11 anni a Gerusalemme est e in Cisgiordania, ed ha preso per il collo, picchiato, minacciato e interrogato minori detenuti senza la presenza di genitori o avvocati.”

5) Islamofobia

Israele è uno Stato che ha cercato il sostegno pubblico dipingendosi come una sorta di conflitto di civiltà tra “l’Islam e l’Occidente”. È simile all’islamofobia sostenuta dagli ideologi della Destra in tutto il mondo, compreso Donald Trump, che notoriamente ha affermato che “l’Islam ci odia” ed ha promosso un bando contro i musulmani.

Anche l’AIPAC ha spinto quest’ondata di islamofobia. Lo scorso anno è trapelato che l’AIPAC ha fatto una donazione al ““Center for Security Policy” [Centro per le Politiche di Sicurezza] (CSP), un centro studi di estrema destra guidato da Frank Gaffney, che è stato classificato come un gruppo che provoca l’odio dal “Southern Poverty Law Center” [Centro per la Legge sulla Povertà del Sud, associazione per la difesa dei diritti civili con sede in Alabama, ndt.]. Anche l’”Unione dei Conservatori Americani” e l’” Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione, importante gruppo della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] hanno denunciato il CSP come organizzazione che promuove l’odio contro i musulmani attraverso ingannevoli teorie cospirative. Riguardo ai musulmani, Frank Gaffney afferma che “fondamentalmente essi, come termiti, scavano nella struttura della società civile e in altre istituzioni con il proposito di creare le condizioni in base alle quali la jihad possa avere successo.”

Gaffney ha anche sostenuto che lo stratega repubblicano Grover Norquist, l’attuale parlamentare e vice presidente del Comitato Nazionale Democratico Keith Ellison e l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama sono agenti segreti della Fratellanza Musulmana. Ha anche accusato Barack Obama di essere coinvolto nel “più grande inganno dai tempi di Adolf Hitler.”

La “Conservative Political Action Conference” [Conferenza dell’Azione Politica Conservatrice] (CPAC) ha bandito Gaffney per le sue teorie politiche cospirative islamofobe, mentre l’AIPAC gli ha fornito supporto finanziario per far circolare queste teorie cospirative. Discorsi come quelli di Gaffney, come paragonare i musulmani a termiti e insinuare che la Fratellanza Musulmana sta tentando di controllare il governo degli USA, sono simili a quelli anti-ebraici, utilizzati nel passato e in epoca contemporanea, secondo cui “gli ebrei controllano il governo”.

6)Scuole Separate

Le scuole israeliane sono segregate sia in base alla religione che alla razza. Gli studenti ebrei frequentano scuole in base alla loro denominazione religiosa mentre i palestinesi frequentano le loro scuole. Meno dell’1% dei bambini frequentano la manciata di scuole integrate a cui è consentito andare agli ebrei israeliani ed ai palestinesi con cittadinanza di serie B. Le scuole palestinesi ricevono anche meno fondi del governo per alunno di quelle ebraiche, con il risultato che meno studenti che nelle scuole ebraiche frequentano le superiori.

La città di Tel Aviv ha anche costruito scuole separate per bambini di immigrati africani non ebrei richiedenti asilo. Il “Daily Beast” [sito web statunitense, ndt.] lo ha dettagliato in un articolo intitolato “La città più progressista di Israele ha introdotto la segregazione razziale negli asili”, in cui si afferma:

La città costruisce le nuove scuole per bambini neri dopo che abitanti ebreo-israeliani della zona del centro hanno minacciato di tenere a casa i propri figli piuttosto che consentire loro di imparare a contare, a disegnare e a giocare sull’altalena accanto ai loro coetanei eritrei e sudanesi.”

7) Deportazioni di massa

Molti rifugiati africani da Paesi come Eritrea e Sudan sono scappati in Israele dopo aver affrontato guerre nei loro Paesi. Aspettandosi la democrazia liberale di cui parlano i rappresentanti dell’AIPAC, i rifugiati hanno invece incontrato la resistenza di massa degli israeliani che li definiscono “infiltrati”. Israele ha chiesto ai rifugiati africani di scegliere tra l’arresto in una prigione israeliana e la deportazione in un Paese africano terzo.

Michael Ben Ari, membro del parlamento israeliano, ha spiegato che questa infiltrazione è semplicemente il risultato della loro esistenza come non ebrei all’interno di uno Stato ebraico. Ben Ari ha affermato che “il nostro Paese è diverso dagli altri. Il nostro è uno Stato ebraico…Uno Stato ebraico e democratico…In qualche caso le due cose sono in contraddizione tra loro. Se porti dentro un milione di africani, non sarà più ebraico.”

In precedenza l’attuale primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha messo in guardia che se la popolazione non-ebraica in Israele raggiungesse il livello del 30% ciò metterebbe a rischio “il carattere ebraico” dello Stato di Israele.

Ha persino annunciato un progetto di espulsione di 40.000 migranti africani non ebrei, definendo i richiedenti asilo “infiltrati”, la cui esistenza rappresenta una minaccia per il “carattere ebraico” di Israele. I progetti di Netanyahu arrivano dopo anni di proteste contro i neri in Israele, in cui politici israeliani di tutto lo spettro politico hanno fatto dichiarazioni riferendosi agli immigrati africani come un “cancro”, che “emettono un pessimo fetore” e “probabilmente causano ogni sorta di malattie”.

8) Israele ammette di aver sterilizzato a forza donne ebree etiopi contro la loro volontà

Benché la popolazione ebrea etiope viva sotto la legge civile, godendo quindi dei benefici della cittadinanza, ancora soffre di molte discriminazioni in Israele, pur essendo ebrea. Ci sono informazioni sulla brutalità della polizia israeliana contro gli ebrei etiopi, oltre alle discriminazioni sul lavoro e nell’impiego pubblico. Nel 2013 si è scoperto che la Croce Rossa israeliana gettava via il sangue donato dagli ebrei etiopi. Quando Pnina Tamano-Shata [prima deputata ebrea di origine etiope, eletta al parlamento israeliano nelle liste del partito di centro “Yesh Atid”, ndt.] ha offerto di donare il proprio sangue nell’ambito di una campagna della Croce Rossa israeliana, questa ha rifiutato la donazione del suo sangue sulla base del fatto che è etiope. Quello stesso anno il governo israeliano ha ammesso di aver iniettato in donne ebree etiopi un farmaco per il controllo delle nascite chiamato Depo-Provera.

Gal Gabbay, una giornalista israeliana, ha informato che molte donne sono state sottoposte a iniezioni per il controllo delle nascite quando stavano immigrando in Israele dall’Etiopia. Gabbay riporta:

In base al programma, mentre le donne erano ancora nei campi di transito in Etiopia a volte sono state intimidite o minacciate perché accettassero l’iniezione. ‘Ci dicevano che si trattava di vaccinazioni,’ ha detto una delle donne intervistate. ‘Ci hanno detto che la gente che partorisce di frequente soffre. Lo abbiamo preso ogni tre mesi. Abbiamo detto che non lo volevamo.’”

La sterilizzazione forzata corrisponde alla definizione delle Nazioni Unite di genocidio da “imposizione di misure intese a impedire la riproduzione all’interno di un gruppo”. In seguito a queste sterilizzazioni forzate, il tasso di nascite degli ebrei etiopi è caduto del 50% tra il 2003 ed il 2013.

9) Israele ha fornito armi a governi genocidi in tutto il mondo

Israele è stato un esportatore di armi a molti regimi repressivi in tutto il mondo. Oltre ad aver venduto ordigni nucleari al Sud Africa dell’apartheid, Israele è stato il suo maggiore fornitore di armi. Israele ha fornito armi anche al governo birmano quando era impegnato nel genocidio della popolazione rohingya. Israele ha anche fornito al governo ruandese armamenti mentre era impegnato nel genocidio dei tutsi, che è considerato il più rapido genocidio occorso nella storia umana. Israele ha anche fornito armi al governo serbo mentre era impegnato nella pulizia etnica dei bosniaci.

Lungi dall’essere un “paradiso progressista”, Israele è in realtà uno Stato etno-religioso che viola i diritti umani dei palestinesi, di altre minoranze etniche e religiose all’interno dei suoi confini, aiutando al contempo anche l’islamofobia e il genocidio su scala globale. È per questa ragione che una parte significativa e sempre maggiore del partito Democratico sta alzando la voce per la giustizia in Palestina. Finché Israele continuerà ad opprimere, l’appoggio ad Israele continuerà ad essere una “quotazione in ribasso” all’interno del partito Democratico. Nessun ex governatore democratico può cambiare ciò con affermazioni false.

Su Hamzah Raza

Hamzah Raza è un professore incaricato alla Vanderbilt University. Il suo articolo è stato pubblicato su Huffington Post, Alternet, Raw Story, LeMuslim Post e Tennessean.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Gaza sotto assedio: con il crollo degli affari gli imprenditori si trovano ad affrontare la prigione

Amjad Ayman

Giovedì 1 marzo 2018, Middle East Eye

Con uneconomia sotto assedio che strangola il commercio, i piccoli imprenditori finiscono in prigione perché non riescono a pagare i loro debiti.

GAZA – Mohammed Abu Beid, un produttore di abbigliamento, dice che il 2017 è stato un anno fra i peggiori per gli affari. Dopo aver perduto più di un milione di dollari, sta annegando nei debiti.

Abu Beid ha importato vestiti da uomo e donna dalla Cina e li ha venduti a Gaza in tre grandi mercati all’aperto per circa vent’anni. Con i ritardi nelle consegne dovuti al bocco israeliano e con la decisione dell’Autorità Nazionale Palestinese di tagliare i salari degli impiegati statali del 30%, la sofferente economia di Gaza e il potere d’acquisto sono rapidamente crollati. Gli affari di Abu Beid, un tempo fiorenti, sono arrivati economicamente allo stremo. “Dal 2017 la gente non ha più i soldi per comprarsi vestiti nuovi,” ha detto Abu Beid a Middle East Eye.

In febbraio Abu Beid è stato arrestato e tenuto in prigione per 10 giorni per non aver pagato un debito di 200.000 dollari. presi a prestito da un collega imprenditore di Gaza per tenere a galla i propri affari.

Non riuscivo a sopportare I muri della prigione, senza sapere cosa sarebbe potuto accadere alla mia famiglia se io fossi rimasto in carcere. Sono uscito di prigione quando un amico ha concordato con il creditore che il debito venga restituito in due anni, a condizione di pagare 10.000 dollari al mese”, ha detto.

Se Abu Beid non riesce a restituire il denaro, rischia 90 giorni di prigione. Questa disavventura non è stata pesante per la moglie di Abu Beid e per i loro quattro figli solo dal punto di vista emotivo, ma li ha anche privati di molti dei bisogni essenziali dal momento che hanno ipotecato la casa per ripagare una parte del debito. Con il potere d’acquisto che continua a diminuire e le piccole imprese che lottano per sopravvivere, Abu Beid non è il solo a finire in prigione.

Mi ha scioccato vedere tanti commercianti in carcere”, ha detto Abu Beid. Molte piccole imprese sono crollate sotto la pressione dei debiti, del soffocante blocco israeliano e delle divisioni interne fra I palestinesi.

Il portavoce della polizia Ayman al-Batniji ha detto a MEE che il numero di mandati di arresto emessi per casi di passivi finanziari, tra cui il mancato pagamento di debiti o delle rate bancarie, ha raggiunto i 98.314 casi nel 2017. Questa cifra è quasi cinque volte quella del 2016, quando i casi erano stati 21.235.

Ci sono attualmente 300 commercianti in prigione per reati finanziari che non hanno nessuna possibilità di pagare i debiti. Altri cercano di firmare cambiali per pagare a rate, e allora vengono rilasciati.”

Al-Batniji afferma che il numero di casi di indebitamento tra i proprietari di piccole imprese è in realtà molto più alto di quello registrato dalla polizia.

“Molti di loro cercano di risolvere i problemi legali attraverso un mukhtar che interviene per raggiungere un accordo tra commercianti per pagare il debito. Comprendiamo la situazione [e] cerchiamo di creare una qualche soluzione per aiutare questi commercianti “, ha detto. Un mukhtar è un saggio leader della comunità che trae la sua legittimità dal carisma personale o dal prestigio familiare.

Al-Batniji afferma che, a causa delle difficili condizioni economiche, le autorità danno alle persone con pendenze finanziarie tre possibilità di restituire il denaro prima di eseguire un ordine di detenzione fino a 15 giorni. Il caso viene quindi rinviato in tribunale, che può, in conformità con la legge, condannare coloro che hanno un debito con una pena fino a un massimo di 90 giorni di carcere.

“Quando si tratta di soldi, la situazione è difficile, poiché ci sono i diritti delle persone, e la legge non può trascurare questi diritti, a meno che non vi sia riconciliazione tra le parti. Alcune persone possono condonare i debiti, ma rappresentano solo il 20% dei casi”, ha spiegato al-Batniji.

A gennaio, molti commercianti hanno preso parte a una campagna di condono del debito e hanno cancellato i debiti dei loro clienti con l’hashtag  “Perdona e sarai ricompensato”. Ma con l’economia bloccata, non tutti possono permettersi di mettere una pietra sopra la grande quantità di debiti che ha rovinato molti.

Ho perso molto’

Il 21 gennaio, Mohamed al-Jamal è stato arrestato dopo che uno dei suoi assegni è risultato scoperto. Di conseguenza, questo padre di cinque figli e il solo a provvedere a loro è stato rinchiuso nella prigione di Al-Nuseirat, al centro della Striscia di Gaza. Al-Jamal non aveva mai pensato che un giorno avrebbe potuto finire in carcere.

Una volta lì, dice che non poteva far altro che pensare alla famiglia. Con due grandi negozi nel centro di Gaza che vendevano articoli da cucina come piatti e utensili, si era sempre considerato un uomo d’affari di successo.

Ma anche proponendo grossi sconti per promuovere i suoi prodotti, la maggior parte dei due milioni di persone nell’enclave non poteva comunque permettersi di comprare nulla. Ora deve 32.000 dollari, che pagherà a rate. Se non sarà in grado di effettuare i pagamenti nonostante il suo piano di una campagna di sconti ancora maggiori, del 40-60% sui prezzi normali, rischia di perdere la sua attività e tornare in prigione.

“Non ho realizzato profitti negli ultimi sei mesi e speravo che l’intera faccenda migliorasse dopo l’accordo di riconciliazione palestinese nell’ottobre 2017. Ho comprato grandi quantità di merce, sperando di ottenere buoni profitti, ma le cose sono andate diversamente dalle mie aspettative e ho perso molto”.

Nell’ottobre 2017 è stato raggiunto un accordo di riconciliazione tra Hamas e l’Autorità palestinese dopo una faida di 10 anni.

Sebbene l’accordo abbia portato a un calo significativo dei prezzi, solo un numero limitato di persone può permettersi di comprare qualcosa, poiché l’ANP continua a imporre un taglio dello stipendio del 30% sui 60.000 dipendenti pubblici, entrato in vigore da aprile 2017.

Secondo la Palestinian Monetary Authority (PMA), l’ammontare degli assegni respinti a Gaza è quasi raddoppiato, da 37 a 62 milioni di dollari tra il 2015 e il 2016, e poi ancora a 112 nel 2017.

L’economista Maher al-Tabaa, che è anche direttore delle relazioni pubbliche presso la Camera di Commercio di Gaza, afferma che il settore del commercio privato nell’enclave costiera, come mercati e negozi, sta perdendo milioni di dollari al mese. Secondo al-Tabaa, negli ultimi 10 mesi si è registrata una perdita di ricavi di mercato di circa 180 milioni di dollari, in tutti i settori industriali e commerciali.

“Gli uomini d’affari sono preoccupati per l’attuale deterioramento della situazione economica e stanno subendo gravi perdite. Ciò è dovuto ai continui tagli salariali per i dipendenti pubblici. Di conseguenza, la perdita di mercato è stimata in 20 milioni di dollari al mese”, spiega.

Gli uffici legali sono stati recentemente sommersi da molti casi di passività finanziarie. L’avvocato Ahmed al-Masri ha detto di aver avuto più di 90 casi simili nel 2017.

“Il periodo di detenzione è di 15 giorni, poi le parti in causa vengono convocate in tribunale. Comunque, in questo caso le parti tendono a cercare un accordo per pagare i debiti a rate. Purtroppo, la maggior parte non ci riesce.” ha detto Masri.

Nabil Essa, proprietario di un negozio di mobili, continua a lottare per pagare il suo debito di 410.000 dollari. Essa è stato imprigionato per la prima volta a novembre perché non poteva restituire i soldi. 

È stato rilasciato a dicembre, dopo che il mukhtar della sua famiglia è intervenuto e ha proposto un piano di pagamento. Incapace di pagare le rate concordate, è stato nuovamente incarcerato per circa otto giorni prima che il mukhtar intervenisse una seconda volta per mediare un diverso piano di pagamento.

Essa ha tempo fino a metà marzo per trovare una soluzione ai suoi problemi finanziari, altrimenti andrà in prigione per 90 giorni.

“Non posso pagare il debito. Le persone non acquistano mobili da anni. La maggior parte di loro tende a riparare i mobili piuttosto che comprarne di nuovi, perché non hanno soldi “, ha detto.

“La mia famiglia ora dipende da mio padre: mangiano da lui perché io non posso comprare il cibo per loro”, ha aggiunto.

(traduzione di Luciana Galliano)




Israele sta armando sette gruppi ribelli in Siria

Asa Winstanley,

28 Febbraio, 2018 ,Middle East Monitor

L’occupazione israeliana illegale delle Alture del Golan dura ormai da 50 anni. Questo ricco territorio, parte della Siria meridionale, è stato conquistato dalle forze di occupazione israeliane nella guerra del 1967.

La maggioranza della popolazione siriana sul territorio è stata espulsa o è dovuta fuggire per salvarsi. Israele ha demolito le loro case, i loro edifici, e interi villaggi nel Golan per costruire al loro posto colonie israeliane.

Nel 1981, sfidando le Nazioni Unite e violando il diritto internazionale, Israele ha annesso le Alture del Golan. La mossa – non riconosciuta nemmeno dagli alleati di Israele – era intesa a consolidare il controllo de facto di Israele sul territorio siriano occupato, attribuendogli una patina di auto-riconoscimento legale. In aggiunta a questo , Israele ha usato, negli ultimi anni, la lunga e sanguinosa guerra in Siria come copertura per espandere il proprio controllo nel Golan, molto a sud del territorio ancora del suo vicino sovrano; vuole il piu’ ampio controllo possibile.

Come ho scitto qui l’estate scorsa, Israele sta ora consolidando una buffer zone [zona cuscinetto ndt] nel sud della Siria, estendendola a partire dal Golan. Lavorando nel sud con rappresentanti locali, Israele sta costruendo ciò che le sue organizzazioni di copertura sostengono essere una “zona sicura”.

Quell’estate abbiamo scoperto che Israele stava dando supporto ad un gruppo ribelle sul confine tra il Golan e il resto della Siria per una somma di decine di migliaia di dollari. Negli anni precedenti, Israele aveva sostenuto economicamente gruppi legati ad Al-Qaeda nel sud della Siria. Questo sostegno consisteva nel provvedere le cure ai combattenti feriti in ospedali israeliani al di là del confine, per poi rimandarli indietro in Siria a combattere il regime.

Le notizie piu recenti sono che l’armamento delle forze delegate da Israele in Siria stia crescendo rapidamente. Un’inchiesta del giornale di Tel Aviv Haaretz la scorsa settimana sostiene che Israele stia armando ora “almeno” sette gruppi ribelli nel Golan, che “stanno ricevendo armi e munizioni da Israele, assieme a denaro per comprare ulteriori armi”.

Tutti I gruppi in questione riportano un recente aumento degli aiuti israeliani. Questo in conseguenza del fatto che molti Stati, inclusi la Giordania e gli Stati Uniti, stanno diminuendo la portata delle loro operazioni militari in Siria.

Come ha riportato Haaretz, “A gennario, l’amministrazione Trump ha chiuso la base operativa che la CIA gestiva ad Amman, la capitale giordana, e che coordinava gli aiuti alle organizzazioni ribelli nel sud della Siria. Come risultato, decine di migliaia di ribelli che ricevevano un regolare supporto economico dagli USA sono stati privati di questo supporto.”

Lo scopo di Israele qui sembra essere doppio. Il primo è di tenere le forze armate di Iran e Hezbollah – alleati del regime siriano – lontane dalla linea di confine del Golan. Il modo più rapido per farlo è di fare in modo che ci sia una forza di opposizione reale in quell’area.

In secondo luogo, il programma israeliano di proliferazione delle armi è inteso a promuovere il suo ufficiale obiettivo strategico nella regione; “lasciare che entrambe le parti si massacrino” in modo da prolungare la guerra il piu’ a lungo possibile. Indebolire la Siria e i suoi alleati, [qui tutti dicono] l’Hezbollah libanese e l’Iran, è un obiettivo importante per Israele e la superpotenza che lo sostiene, gli USA. Ancora piu importante è l’obiettivo di far sì che la guerra continui. Tutto ciò in aggiunta allo scopo generale israeliano di controllare il piu’ ampio territorio che può accaparrarsi e mantenere. La buffer zone che Israele sta tentando segretamente di ampliare fino a 40 chilometri dentro la Siria si sta realizzando attraverso gruppi di facciata che si presentano apparentemente come organizazzioni “non-governative” per gli aiuti, come anche pagando i salari dei combattenti ribelli e mandando finanziamenti per comprare armi.

Questi pretesi gruppi di “società civile per gli aiuti” sostenuti da Israele nel sud della Siria – che estendono l’occupazione nel Golan – sono una facciata. In realtà, essi costituiscono un modo per estendere il controllo mediato di Israele nella regione.

Tutto questo è molto in linea con gli schemi di Israele in Libano. Tra il 1982 e il 2000, Israele ha illegalmente occupato il sud del Libano. Dopo l’invasione del 1982 – che raggiunse persino Beirut – Israele si ritirò ad una “buffer zone” nel sud del Libano. Invece di occupare la zona con soldati israeliani, molto del lavoro è stato gestito delegandolo a forze libanesi. Questi gruppi-burattino armati oppressero la popolazione per conto di Israele. Questo condusse presto alla resistenza armata contro l’occupazione israeliana, e fu in queste circostanze che nacque Hezbollah.

Israele occupò illegalmente il sud del Libano fino al 2000, quando la resistenza guidata da Hezbollah spinse fuori (dal territorio) il principale rappresentante israeliano, il cosiddetto Esercito Libanese del Sud. Oggi, Israele sta tentando di istituire quello che è, in tutto fuorché nel nome, un “Esercito Siriano del Sud”. Se possa riuscirci è opinabile, ma, come dimostra la storia del Libano, anche se dovesse farlo è improbabile che Israele riesca a mantenere il controllo a lungo.

(Traduzione di Tamara Taher)




Un’uccisione pianificata e calcolata di pecore in Cisgiordania

Amira Hass

5 marzo 2018,Haaretz

Lo scorso mese l’aggressione, come centinaia di altre prima di questa, è stata chiaramente finalizzata ad un obiettivo.

La storia di “Haaretz” su ebrei mascherati che hanno aggredito un pastore palestinese e ucciso le sue pecore – nel villaggio di Einabus, a sud di Nablus – ha ottenuto 96 condivisioni su Facebook. Cosa esprimono queste condivisioni, stupore o sostegno all’attacco?

In ogni modo il ricordo del crimine commesso circa due settimane fa, il 21 febbraio, sicuramente è stato completamente cancellato dagli sguaiati titoli di giornale sulle inchieste per corruzione contro il primo ministro Benjamin Netanyahu ed i suoi amici, e messi da parte nel deposito nazionale dell’amnesia ebraica.

Una settimana dopo l’attacco il ventisettenne Zafar Ryan è ancora sotto shock. Suo padre, Mahmoud e i suoi fratelli dicono che non è più lo stesso. Anche lui annuisce quando gli viene chiesto se è ancora sconvolto per quanto successo.

Ma per mettere le cose in chiaro: l’aggressione non gli ha impedito di tornare quasi subito a pascolare il gregge della sua famiglia con qualcuno dei suoi fratelli. Di solito i fratelli vanno al pascolo insieme. Il recinto delle pecore è a poche decine di metri sopra la loro casa, sulla montagna.

Ma quel giorno Zafar è uscito da solo con le pecore. Era mezzogiorno. Le persone dell’avamposto [ebraico] non autorizzato ed illegale in cima alla montagna ne hanno approfittato, afferma suo padre. Sono scese di corsa verso di lui. Cinque di loro, con il volto mascherato, lo hanno colpito con dei randelli sulla testa e sulle mani.

Aveva un bastone da pastore; ha cercato di difendersi e di restituire i colpi, ma loro erano troppi. Altri sconosciuti hanno attaccato il gregge, hanno letteralmente sgozzato qualche pecora, ne hanno colpite e disperse altre.

Un cugino che stava facendo dei lavori di edilizia lì vicino ha visto quello che stava succedendo e ha chiamato immediatamente aiuto. Giovani del villaggio sono corsi per risalire la montagna, da cui stavano scendendo soldati e poliziotti israeliani. Zafar era preoccupato delle pecore che erano scappate. Non era ancora chiaro quante fossero morte, quante ferite e quante scomparse e dove fossero andate.

Zafar è stato portato all’ospedale a Nablus e vi è rimasto fino a sera. La tumefazione sulla sua testa si è ridotta. Aveva lividi sulle mani. La maggior parte delle pecore del gregge era incinta, comprese alcune di quelle che gli aggressor hanno ucciso e alcune di quelle scomparse. Una delle pecore ferite ha partorito un agnellino morto. Non sappiamo se la polizia israeliana ha arrestato i sospetti.

L’attacco non è stato perpetrato da teste calde, né si è trattato di uno sbaglio momentaneo di giovani ebrei altrimenti virtuosi, assolutamente anonimi, che sono stati improvvisamente travolti dal ricordo dei pogrom commessi dai cristiani contro gli ebrei. Questa aggressione contro palestinesi e i loro mezzi di sussistenza, come centinaia di altri che l’hanno preceduta, è stata molto ragionata e calcolata, diretta ad ottenere un obiettivo.

Ogni attacco è caratterizzato da una chiara divisione del lavoro tra tutti quelli che entrano in scena: gli aggressori, l’esercito, il cui compito è di proteggere ogni ebreo, chiunque sia, coloni o visitatori della colonia, compresi quelli che commettono pogrom, ispettori dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndt.] in Cisgiordania, in cui lavoro consiste nell’emettere ordini di blocco dei lavori per strutture ebraiche non autorizzate in Cisgiordania, ma il cui dovere è, nella maggior parte dei casi, di non mettere in pratica questi ordini.

Poi c’è la “Suprema Commissione per la Pianificazione” dell’Amministrazione Civile, la cui responsabilità è di mettere attentamente in atto la politica in base alla quale ai palestinesi è proibito costruire, fare un’escursione, piantare e arare sulla loro terra; allora la commissione si impossessa della terra e ne fa omaggio agli ebrei, che costruiranno e prolificheranno su di essa. In seguito ci sono i coloni che non attaccano nessuno ma chiedono una maggiore protezione, anche per gli avamposti. E c’è la polizia, il cui dovere è di ignorare gli attacchi precedenti, e gli ebrei israeliani, la cui responsabilità è di non mettere in relazione un attacco con l’altro o di considerare e quindi difendere la sacralità delle colonie e dei blocchi di colonie. (Secondo la legge internazionale tutti sono illegali).

L’avamposto non autorizzato ed illegale da cui sono scesi gli aggressori è uno dei nove che sono nati nel corso degli anni dalla colonia illegale e autorizzata di Yitzhar. Ogni avamposto è un ulteriore mattone di un altro blocco di colonie. Porta gli ebrei più vicino ai villaggi, agli orti e ai pascoli dei palestinesi.

Un importante livello nella strategia difensiva dell’esercito è l’ordine del comando generale che impedisce ai palestinesi di entrare nelle loro terre, per evitare frizioni con quelli che commettono i pogrom. È così che [si forma] il cerchio territoriale che i nostri ebrei, a testa alta, possono ottenere e quindi seminare o arare o costruire o espandersi ancora un po’ di più. E ancora un po’. E un po’ di più.

Nella fase successiva arriveranno anche vicino alle case dei palestinesi. E allora l’esercito e la polizia di frontiera sono obbligati ad arrivare e ad attaccare con granate lacrimogene e assordanti, e persino con proiettili ricoperti di gomma, i palestinesi che stanno difendendo se stessi, le proprie famiglie e i propri averi.

Tutto è calcolato. La divisione del lavoro ha già dato risultati in tutta la Cisgiordania. Un centimetro qui, un quarto di dunam [unità di misura dei terreni in Palestina, ndt.] o una zona militare di tiro là – ed i palestinesi sono spinti sempre più nelle loro zone urbane.

A proposito, le origini della famiglia Ryan sono nel villaggio palestinese distrutto di Majdal Yaba o Majdal al-Sadiq (a sud dell’attuale Rosh Ha’ayin). Possedeva circa 26.000 dunam (2.600 ettari). Nel XIX° secolo Sheikh Sadiq Ryan costruì un palazzo sulle rovine di una fortezza crociata del luogo. Il palazzo abbandonato tuttora sovrasta la strada.

Il nonno di Zafar aveva un fratello che viveva a Einabus all’inizio della guerra del 1948 [contro gli arabi e da cui nacque lo Stato di Israele, ndt.]. Alcuni dei suoi fratelli si unirono a lui invece di andare in un campo di rifugiati. Ma il nonno morì di crepacuore e di pena per la sua casa.

Il padre, Mahmoud, aprì una tipografia. I suoi figli si formarono come ingegneri meccanici e grafici. Ma la tipografia non è sufficiente per mantenere la famiglia. Circa un anno fa hanno comprato le pecore.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cosa c’è nel documentario segreto di Al Jazeera a proposito della lobby USA-Israele?

Asa Winstanley

5 marzo 2018, The Electronic Intifada

L’inchiesta di Al Jazeera sulla lobby israeliana negli USA di prossima messa in onda rivelerà che l’eminente gruppo neoconservatore di esperti “Foundation for Defence of Democraties” [Fondazione per la Difesa della Democrazia] sta operando come agente del governo israeliano.

Secondo una fonte che ha visto il documentario segreto, esso contiene immagini di un potente funzionario israeliano che sostiene: “Abbiamo l’FDD. Abbiamo altri che ci lavorano.”

Si dice che Sima Vaknin-Gil, ex-ufficiale dell’intelligence militare israeliana, affermi che la fondazione sta “lavorando” a “progetti per Israele, compresi “raccolta dati, analisi informative, lavori su organizzazioni di attivisti, tracciatura dei soldi. È qualcosa che solo un Paese, con le sue risorse, può fare al meglio.”

In base alla “Legge sulla Registrazione di Agenti Stranieri”, comunemente nota come “FARA”, organizzazioni ed individui che lavorano a favore di governi stranieri devono registrarsi alla sezione del controspionaggio del Ministero di Giustizia.

Una ricerca sul sito web del “FARA” mostra che la “Foundation for Defence of Democraties” non è registrata.

Pare che il documentario di Al Jazeera identifichi un certo numero di gruppi lobbystici che lavorano con Israele per spiare cittadini americani utilizzando tecniche sofisticate di raccolta dati. Pare anche che il documentario metta in luce tentativi segreti di diffamare ed intimidire americani considerati troppo critici con Israele.

Gruppi della lobby israeliana hanno esercitato pesanti pressioni sul Qatar, che finanzia Al Jazeera, perché archivi il documentario, suscitando dubbi sul fatto che venga mai trasmesso.

Agenti segreti di Israele

Sima Vaknin-Gil, che nell’esercito israeliano ricopre il grado di brigadiere generale, è ora la principale funzionaria presso il ministero degli Affari Strategici di Israele.

Il ministero è incaricato di condurre una campagna segreta di sabotaggio contro il BDS, il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni in appoggio ai diritti umani dei palestinesi.

Il capo di Vaknin-Gil al ministero è Gilad Erdan, uno stretto alleato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Poco dopo essere stata nominata a dirigere il ministero all’inizio del 2016, Vaknin-Gil ha promesso di “creare una comunità di lottatori” che avrebbe “inondato internet” di propaganda israeliana ma ufficialmente non legata al governo.

Oltre ad essere finanziata da Sheldon Adelson, il miliardario anti-palestinese e principale donatore della campagna elettorale di Donald Trump, la “Foundation for Defence of Democraties” ha stretti legami con gli Emirati Arabi Uniti.

In messaggi hackerati lo scorso anno l’ambasciatore degli Emirati a Washington ha incoraggiato la fondazione ad attivarsi per spostare una base militare USA dal Qatar al suo Paese.

Il documentario mostrerebbe anche immagini segrete di un lobbista israeliano di minor rango che si vanta di quanto siano stretti i rapporti di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e altri regimi del Golfo.

Rapporti sempre più stretti tra gli EAU e Israele

Pare che nel film si veda Max Adelstein affermare che la lobby ha aiutato Israele e gli Emirati Arabi Uniti a sviluppare “di nascosto” rapporti di sicurezza.

Adelstein era stagista presso lo studio lobbystico di Washington “Harbour Group”. I clienti dello studio includono gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia saudita.

Durante i sei mesi terminati il 30 settembre 2017 essa ha ricevuto 2.2 milioni di dollari dagli EAU e più di 300.000 dollari dall’Arabia saudita.

Adelstein ora dice di lavorare per l’AIPAC, il più potente gruppo della lobby israeliana a Washington, la cui conferenza annuale inizia domenica.

Il documentario mostrerebbe Adelstein vantarsi che i rapporti tra gli Emirati Arabi Uniti ed Israele stiano “andando sempre meglio, e nessuno lo sa.”

Ha detto ad un reporter di Al Jazeera in incognito che “i governi si devono coordinare sulla sicurezza. È tutto sottobanco. Ma su commercio, tecnologie, medicina, c’è molta cooperazione.”

Secondo la fonte di “Electronic Intifada”, nelle immagini prese di nascosto si vede Adelstein spiegare che si stava organizzando un “viaggio di studio” di un Comitato Ebreo-Americano sulla “cooperazione reciproca” negli Emirati Arabi Uniti.

In gennaio la conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebree-americane, una riunione di gruppi della lobby israeliana a cui partecipa anche l’“American Jewish Committee”, ha annunciato di aver inviato una “folta delegazione” di dirigenti negli Emirati Arabi Uniti, dove hanno “incontrato tutte le personalità ai più alti livelli.”

L’ulteriore chiave per comprendere la disponibilità degli Emirati Arabi Uniti verso i gruppi della lobby israeliana è che le attività della ricca monarchia sono di nuovo sottoposte a Washington a indagini.

Sabato il New York Times ha informato che il consigliere speciale Robert Mueller sta estendendo le sue indagini dalle presunte ingerenze russe nelle elezioni presidenziali USA “includendo le influenze degli Emirati sull’amministrazione Trump” attraverso il genero e consigliere del presidente Jared Kushner.

L’accusa di antisemitismo non è più come una volta”

Pare che in una ripresa girata di nascosto si veda Jonathan Schanzer, importante vice presidente della “Foundation for Defense of Democracies”, istruire i nuovi aderenti su come calunniare i gruppi di solidarietà con la Palestina che appoggiano il movimento BDS negli Usa.

Secondo la fonte, Schanzer ammette al reporter in incognito che “il BDS ha preso tutti di sorpresa.”

Definisce la reazione dei gruppi della lobby israeliana “un pasticcio totale”, aggiungendo: “Penso che nessuno stia facendo un buon lavoro. Neppure noi stiamo facendo un buon lavoro.”

Secondo la fonte, Schanzer lamenta il fatto che i tentativi di calunniare “Students for Justice in Palestine” [Studenti per la Giustizia in Palestina] e “American Muslims for Palestine” [Musulmani Americani per la Palestina] come legati al terrorismo estremista islamico non siano riusciti a guadagnare terreno.

Si dice anche rammaricato perché la tattica usuale della lobby israeliana di pretendere che gli attivisti della solidarietà con la Palestina siano motivati da odio contro gli ebrei sta perdendo efficacia.

Personalmente ritengo che l’accusa di antisemitismo non è più quella di una volta,” pare dica al giornalista in incognito.

Le opinioni di Schanzer riprendono un rapporto segreto ufficiale del governo israeliano e distribuito ai dirigenti della lobby israeliana lo scorso anno. Questo rapporto, di cui è trapelata una copia pubblicata da Electronic Intifada, conclude che i tentativi israeliani di arginare la crescita del movimento di solidarietà con la Palestina sono in gran parte falliti.

Documentario rimandato

Nell’ottobre dello scorso anno Clayton Swisher, il responsabile dei reportage d’inchiesta di Al Jazeera, ha in un primo tempo annunciato che il canale satellitare del Qatar aveva infiltrato un giornalista in incognito nella lobby israeliana degli USA.

Swisher ha fatto l’annuncio poco dopo che l’autorità britannica per la regolamentazione delle trasmissioni ha respinto ogni denuncia contro il documentario di Al Jazeera “The Lobby”.

Quel documentario, trasmesso nel gennaio 2017, denunziava la campagna occulta di Israele in Gran Bretagna per influenzare il partito Conservatore, al governo, e quello Laburista, all’opposizione. Il documentario ha rivelato che un agente dell’ambasciata israeliana tramava con un funzionario britannico per “demolire” un ministro del governo visto come troppo critico con Israele.

Benché Swisher abbia promesso che il film sugli USA sarebbe stato reso pubblico “molto presto”, circa cinque mesi dopo deve ancora essere trasmesso.

La lobby israeliana in Qatar

Nello stesso periodo un’ondata di lobbysti israeliani ha visitato il Qatar su invito del sovrano, l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani.

Tra costoro c’erano alcune figure di difensori di Israele negli USA della destra più estrema, compresi il professore di diritto di Harvard Alan Dershowitz e Morton Klein, il capo della “Zionist Organization of America” [Organizzazione Sionista d’America].

Il mese scorso varie fonti della lobby israeliana hanno detto al giornale israeliano Haaretz di aver ricevuto alla fine dello scorso anno assicurazioni dai dirigenti del Qatar che il documentario di Al Jazeera non sarebbe stato trasmesso.

Il Qatar ha negato.

I gruppi filoisraeliani hanno intrapreso un’offensiva per cercare di impedire che Al Jazeera mostri il documentario.

Non usiamo mezzi termini in merito a quello che è stato – un’operazione di spionaggio professionale e ben finanziata messa in atto dal Qatar sul suolo americano,” ha affermato Noah Pollak, direttore esecutivo del neoconservatore “Comitato per Israele”.

Ironicamente, i membri filoisraeliani del Congresso stanno ora facendo pressione sul ministero di Giustizia per obbligare Al Jazeera a registrarsi come braccio del Qatar, in base alla “Legge per la Registrazione degli Agenti Stranieri”, come recentemente è stata obbligata a fare la rete RT finanziata dalla Russia.

Se queste pressioni avranno successo nell’insabbiare per sempre il documentario, sarà probabilmente la prova definitiva dell’influenza della lobby israeliana che i giornalisti di Al Jazeera volevano mettere in evidenza.

Asa Winstanley è un giornalista investigativo e co-redattore di Electronic Intifada.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Con un eccesso di falsità, funzionari israeliani affermano che il quindicenne Mohammad non è stato colpito alla testa da un proiettile

Jonathan Ofir

27 febbraio 2018,Mondoweiss

L’esercito israeliano sta utilizzando ogni mezzo per vendicarsi dei Tamimi [la famiglia palestinese che guida la resistenza popolare nel suo villaggio, ndt.] e di Nabi Saleh per la loro resilienza e resistenza, incarnata da Ahed Tamimi, la ragazzina imprigionata per aver preso a schiaffi un soldato.

Ieri mattina, prima dell’alba, soldati israeliani hanno fatto un’incursione nel villaggio occupato di Nabi Saleh ed hanno arrestato dieci membri della famiglia estesa dei Tamimi – la metà dei quali minori.

Le forze [israeliane] hanno anche utilizzato quello che è noto come “skunk water” [lett. acqua della puzzola, liquido maledorante, ndt.], come si può vedere in un video del giornalista locale Bilal Tamimi (fornito da +972 Magazine) – che è apparentemente destinato al “controllo della folla”, solo che [nel video] non c’è nessuna folla. L’esercito israeliano sta usando il liquido puzzolente, spruzzato da un blindato, per punire collettivamente i palestinesi, come già documentato in passato, cospargendo case e scuole.

Tra gli arrestati durante l’incursione notturna c’era il quindicenne Mohammed Tamimi, che era stato colpito alla testa a distanza ravvicinata da un proiettile ricoperto di gomma, appena prima dei famosi schiaffi di Ahed circa due mesi e mezzo fa. Mohammed era stato in coma farmacologico e gli è stata rimossa una parte del cranio, il che lo ha lasciato deforme. La sua situazione è particolarmente delicata, e c’è da chiedersi perché non sia stato risparmiato dalla violenza durante l’incursione notturna. Poche ore dopo l’arresto ed un interrogatorio relativamente breve è stato rilasciato.

Ed ecco stamattina la “notizia”.

Il generale Yoav Mordechai, il Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), ha sostenuto in un post su Facebook che Mohammad non è stato colpito da un proiettile, ma piuttosto è caduto dalla sua bicicletta. Mordechai è la più alta autorità diretta dell’occupazione israeliana e sulla pagina Facebook ufficiale del COGAT in arabo ha scritto questo:

Una cultura di menzogne e di incitamento alla violenza continua per i giovani e gli adulti della famiglia Tamimi”.

Il post è stato segnato con un timbro rosso che diceva “notizia falsa” in arabo.

Nel suo post Haaretz ha informato, e si è stupito di come fosse possibile, che l’affermazione di Mordechai è stata contraddetta da “documenti medici, resoconti di testimoni e da immagini della pallottola rimossa dalla sua testa ottenute da Haaretz”. Inoltre persino la risposta ufficiale dell’esercito ad Haaretz è sembrata contraddire la sicurezza di Mordechai: vengono citate fonti militari che hanno affermato che “Tamimi è stato interrogato dalla polizia, e loro non possono confermare l’origine della sua ferita.”

Chi conosce la cultura dell’interrogatorio nell’apparato di sicurezza israeliano quando si tratta di palestinesi non si stupisce. Gli investigatori israeliani possono estorcere praticamente tutto quello che vogliono dai palestinesi, soprattutto se minori, ed è così che l’esercito può vantare un sorprendente tasso di condanne del 99,74%. Spesso i ragazzini sono obbligati a firmare documenti in ebraico, che non sanno neanche leggere, e durante questi interrogatori gli viene negata in modo praticamente sistematico la presenza di familiari o di un avvocato.

Da qui le affermazioni di Mordechai di aver ottenuto da Mohammed una “confessione”. E cosa ne dicono gli abitanti di Nabi Saleh? Sostengono che Mohammed “ha detto alla polizia di essersi ferito in un incidente in bicicletta e non dall’esercito israeliano per essere rilasciato dopo essere stato arrestato,” e che “aveva paura e temeva che se avesse detto di essere stato colpito da una pallottola, ci sarebbero state prove contro di lui e la sua detenzione sarebbe stata prolungata.”

È piuttosto ovvio, no? Questa “storia della bicicletta” è tutto quello che Mordechai voleva, o di cui aveva bisogno, come arma per screditare i palestinesi e provocare contro di loro. E non importa che persino l’esercito “non possa confermare”. È stato seminato il dubbio e quelli che sono propensi a credere alle menzogne dell’esercito israeliano, lo metteranno in dubbio.

Immaginate la situazione di Mohammed – immaginate di essere lui. Metà del tuo cervello è semplicemente senza protezione. Qualunque piccolo colpo può provocare un danno imprevedibile ed irreversibile, e sei nelle mani di gente violenta contro di te in modo sistematico. Tutto quello che vuoi fare è uscire e tornare a casa. Faresti qualunque cosa, diresti qualunque cosa.

È ovvio che tenere Mohammed in arresto prolungato sarebbe stato un danno per l’immagine pubblica di Israele. Egli è direttamente legato ad Ahed Tamimi, in quanto il suo ferimento è stato l’antecedente diretto degli schiaffi di Ahed. Il suo cranio deformato è una raffigurazione dello stato di Nabi Saleh: essere continuamente colpito dall’esercito israeliano. Ovviamente non volevano tenerlo in arresto a lungo, quantunque non sappiano cosa fare con Ahed, perché rilasciarla sarebbe troppo offensivo per moltissimi israeliani che non possono sopportare di essere presi a schiaffi. Perciò hanno rilasciato Mohammed molto presto, ma ora vediamo il tranello. Se Mordechai riesce a convincere qualche sciocco che la ferita di Mohammed è una “notizia falsa”, allora, di conseguenza, la storia di Ahed e quello che l’ha preceduta vengono indeboliti.

Una fonte ufficiale di B’Tselem [associazione israeliana dei diritti umani, ndt.] afferma che il governo israeliano deve mentire agli israeliani per salvare l’illusione:

Quello che stupisce dell’affermazione di ‪@cogat_israel secondo cui Muhammad Tamimi “è caduto dalla bicicletta” (non gli è stato sparato in faccia) non è quanto grande sia la menzogna: abbiamo già visto bugie orwelliane (Beitunia 2014). Ma queste menzogne così facili da smentire mostrano che l’unico pubblico a cui si mira è la destra israeliana.”

La narrazione delle “notizie false” e l’idea riguardo ai palestinesi sono state storicamente inculcate dalla dirigenza israeliana a livello ossessivo, come parte del suo tentativo di cancellare la Palestina. Ciò si può vedere nella grande narrazione, come nell’affermazione della defunta prima ministra Golda Meir che in realtà i palestinesi non esistono, o più tardi della ministra della Giustizia Ayelet Shaked alla federazione nazionale di basket secondo cui la Palestina è uno “Stato immaginario”. E può essere visto nei più puntuali tentativi di sostenere che la famiglia Tamimi non è una “vera famiglia”, come abbiamo visto con l’affermazione del parlamentare Michael Oren e la sua inchiesta parlamentare, niente di meno, su questa stessa “questione”. Recentemente Oren si è messo in difficoltà da solo con il post di un’immagine allo specchio della famiglia Tamimi, sostenendo che non poteva essere vera, dato che Mohammed, il fratello di Ahed, aveva un braccio ingessato a destra, poi a sinistra. La famiglia Tamimi quindi si stupisce ora di come “quello che è iniziato come un bizzarro tentativo di provare che non siamo neppure una famiglia è degenerato in una negazione della realtà.”

E si noti come Ahed Tamimi, con la sua semplice resilienza e con il suo coraggio, con il mantenere un contegno calmo e fiero, abbia creato una situazione che fa impazzire gli israeliani. È come se lei stesse continuamente schiaffeggiando Israele, semplicemente non arrendendosi. E ciò sta mettendo in luce un paradigma di oppressione istituzionalizzata e di violenza di Stato contro minori, che c’è stata da sempre, ma ora sta avendo un’attenzione particolare grazie ad Ahed. Israele non può sopportare questo smascheramento, e perciò tenta disperatamente di screditare l’oppresso – ma ogni passo che fa accentua solo ulteriormente la sua stessa corruzione.

Non ci si sbagli in merito – stiamo vedendo una violenza colonialista, è proprio davanti ai nostri occhi. La giornalista di Haaretz Amira Hass oggi lo ha chiamato “colonialismo ebraico”. Infatti è una violenza messa in atto in nome dello Stato ebraico. E questa non è una notizia falsa. Sta effettivamente avvenendo.

Su Jontathan Ofir

Musicista, conduttore e blogger / writer che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Ferito da un proiettile in testa e poi arrestato, Mohammed Tamimi non si perde d’animo

Tessa Fox

28 febbraio 2018, Middle East Eye

L’adolescente, come altri dieci palestinesi, è stato arrestato nel quadro della continua repressione da parte di Israele contro il villaggio di Nabi Saleh, noto per la sua resistenza di lunga durata contro l’occupazione.

Nabi Saleh, Cisgiordania occupata – Alle tre del mattino Mohammed Tamimi è stato svegliato dalle urla e dai colpi alla porta d’entrata della casa della sua famiglia.

Mentre era ancora a letto, la porta della sua camera si è aperta ed ha visto dei soldati israeliani avvicinarglisi, mentre suo padre li seguiva.

Sapeva che stava per essere arrestato.

Il villaggio palestinese di Nabi Saleh, a nord ovest di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, è abituato alle incursioni notturne delle forze israeliane. Mohammed, 15 anni, come altri dieci giovani palestinesi del villaggio, è stato arrestato alla mattina presto del 26 febbraio. Tutti tranne due hanno meno di 18 anni.

Quello di Mohammed è un caso speciale, dato che è uscito dall’ospedale solo alla fine di dicembre.

Mohammed ha passato quattro giorni in coma ed ha subito due operazioni per togliere un proiettile di acciaio ricoperto di gomma piantato nella parte posteriore del suo cervello dopo essere stato colpito quasi a bruciapelo dalle forze israeliane. La sua ferita gli impedisce di andare a scuola per almeno sei mesi.

La madre di Mohammed, Emthal Tamimi, è sembrata molto preoccupata riguardo al figlio dopo il suo arresto.

Un’esperienza traumatica

Sono impazzita,” ha confermato Emthal Tamimi a Middle East Eye.

Ha chiesto ai soldati di lasciare in pace suo figlio a causa del suo precario stato di salute. “Abbiamo avuto una discussione, gli ho detto che era inutile prenderlo, che è ferito, che tutte le mattine e tutte le sere deve prendere delle medicine,” ha raccontato Emthal. Disobbedendo ai soldati che le avevano ordinato di rimanere in casa, Emthal è corsa dietro a suo figlio mentre era portato dentro una camionetta blindata. “Li ho seguiti e gli ho chiesto di ammanettarlo davanti perché ha male ad una spalla, ma gli hanno lasciato le manette dietro,” ha ricordato.

Contrariamente agli altri giovani di Nabi Saleh, Mohammed è stato liberato il giorno stesso, a metà pomeriggio.

L’avvocato della famiglia ha potuto individuare il luogo in cui i soldati l’hanno portato e farlo liberare. “Sabato ha subito un’altra operazione, è per questo che hanno potuto ottenere il suo ritorno anticipato,” ha spiegato Emthal.

Dopo essere stata avvertita che Mohammed sarebbe stato riportato al villaggio entro un’ora, Emthal ha atteso pazientemente a casa, circondata da amici e dalla sua famiglia. “Spero che stia bene,” ha confidato Emthal, innervosita per il suo stato di salute e per la brutalità dei soldati.

Sempre su di morale

Dopo essere tornato a casa, Mohammed era tutto sorridente.

Ha preso la madre tra le braccia nella sala della loro casa. Emthal avrebbe voluto che questa parentesi fosse durata un più a lungo. Chiaramente non voleva perderlo di nuovo.

Mohammed sembrava rilassato e calmo, ma quando si è seduto vicino a sua madre, è stato sopraffatto dall’emozione e ha trattenuto a stento le lacrime. Tuttavia, quando ha iniziato a parlare, si è messo a scherzare.

Penso che si sia trattato solo di sfortuna,” ha detto.

Poi ha spiegato, scherzando, che le forze israeliane l’avevano arrestato perché aveva spostato i mobili della sua camera.

Quando ho cambiato la posizione del mio letto, sono venuti ad arrestarmi,“ ha dichiarato Mohammed a Middle East Eye. “All’inizio era messa così,” ha spiegato tracciando la stanza con le sue mani, “e loro non sono venuti.”

È la seconda volta. In precedenza mi hanno arrestato una volta, anche quella dopo che avevo spostato il mio letto,” ha indicato Mohammed agitando le braccia e ridendo, nel tentativo di confermare la validità della sua teoria.

Non sapendo più come mettere il letto per evitare di essere arrestato, Mohammed ha affermato che ormai avrebbe “spostato (il letto) in un’altra camera.”

Mohammed si è detto sorpreso di essere stato liberato il giorno stesso del suo arresto, pur tenendo conto del suo stato. “Stavo dormendo, mi hanno svegliato e mi hanno detto che avrei potuto tornare a casa,” ha raccontato.

Gli manca ancora una parte del cranio perché i chirurghi aspettano che il suo cervello si sgonfi per potergliela rimettere.

Non si può esporre ai raggi del sole e deve fare molta attenzione ad evitare urti contro la sua testa.

I soldati israeliani hanno ignorato il fatto che il suo cervello non è protetto. “Mi hanno colpito alle gambe, mi hanno schiaffeggiato in faccia e facevano come se non notassero quello che ho alla testa,” ha dichiarato Mohammed. “Ho fatto del mio meglio per proteggermi la testa perché a loro non importava. Hanno continuato a colpirmi e a darmi delle pedate.”

Liberato per trasmettere un messaggio

Mohammed e il resto della sua famiglia sanno che è stato arrestato con gli altri ragazzi di Nabi Saleh per farne un esempio. Una volta liberato, si ritrova nel ruolo di messaggero degli israeliani per il resto della comunità.

Il primo messaggio che mi hanno affidato (durante la mia detenzione) è stato: “Tutte le notti ne arresteremo sei, fino ad arrivare a quaranta,’” ha riferito Mohammed.

L’altro messaggio è rivolto ai più anziani: arresteranno la maggioranza di loro, tutti quelli che parlano,” ha proseguito, aggiungendo che prenderanno di mira soprattutto i dirigenti della resistenza di Nabi Saleh.

Hanno cercato di farmi dire dei nomi, perché sapevano che avevo paura che mi dessero delle pedate e mi ferissero in testa.” Questi messaggi e questi arresti in massa fanno parte della punizione collettiva che Israele continua ad infliggere a Nabi Saleh dopo che nel 2010 il villaggio ha iniziato a protestare contro l’occupazione israeliana.

Anche Naji Tamimi, il padre di Noor Tamimi, di 20 anni e arrestata insieme a sua cugina Ahed a metà dicembre, è stato minacciato durante l’incursione notturna.

Mi hanno fatto delle domande sulla resistenza a Nabi Saleh, vogliono che io me ne assuma la responsabilità,” ha dichiarato Naji a Middle East Eye.

Gli ho detto che il problema è l’occupazione, che la resistenza è un altro aspetto dell’occupazione. Che se vogliono mettere fine alla resistenza, devono porre fine all’occupazione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 13-26 febbraio ( due settimane)

Gaza: il 17 febbraio, a sud-est di Rafah, due minori palestinesi di 15 e 17 anni sono stati uccisi ed altri due sono rimasti feriti dalle forze israeliane che hanno aperto il fuoco contro un gruppo di palestinesi che, a quanto riferito, si avvicinava al recinto per entrare in Israele.

Lo stesso giorno, presso la recinzione, ad est di Khan Younis, quattro soldati israeliani sono rimasti feriti per l’esplosione di un ordigno. In conseguenza di questo episodio, le forze israeliane hanno lanciato numerosi attacchi, a quanto riferito contro siti militari ed aree aperte all’interno di Gaza. Tre case adiacenti a questi obiettivi hanno subito danni. Gruppi palestinesi hanno lanciato diversi razzi verso il sud di Israele, uno dei quali ha colpito e danneggiato una casa israeliana.

Sempre a Gaza, al largo di Beit Lahiya, il 25 febbraio, un pescatore palestinese di 18 anni è stato ucciso e altri due sono stati feriti dalle forze navali israeliane che hanno aperto il fuoco contro una barca da pesca. Secondo un portavoce dell’esercito israeliano, il pescatore stava navigando oltre la zona consentita e si è rifiutato di fermarsi, nonostante diversi avvertimenti. In almeno altre 22 occasioni, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso pescatori che navigavano nell’Area di mare ad Accesso Riservato (ARA), provocando il ferimento di un altro pescatore. Finora, nel 2018, in mare, ci sono stati almeno 68 casi di apertura del fuoco [verso pescatori palestinesi] che hanno provocato l’uccisione di cui sopra e undici feriti.

Il 22 febbraio, nella città di Gerico, durante un’operazione di ricerca-arresto, un palestinese è stato ucciso dai soldati israeliani. Una sequenza videoregistrata mostra l’uomo che corre con un grosso oggetto verso un gruppo di soldati che gli sparano da distanza ravvicinata, quindi lo aggrediscono fisicamente e lo trascinano in un veicolo militare. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Il corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Ciò porta a cinque, dall’inizio del 2018, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in operazioni di ricerca-arresto; le uccisioni nel 2017erano state nove. In aggiunta a quanto sopra, in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est , le forze israeliane hanno condotto 258 operazioni di ricerca-arresto; di queste almeno 61 hanno innescato scontri nel corso dei quali 55 palestinesi sono stati feriti.

Un palestinese è morto per le ferite riportate durante una manifestazione che ha avuto luogo nel precedente periodo di riferimento [30 gennaio -12 febbraio] mentre, nel periodo relativo al presente bollettino, 384 palestinesi, tra cui almeno 115 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane in manifestazioni e scontri. Il giovane deceduto aveva18 anni ed era stato ferito durante una manifestazione che si era tenuta il 16 febbraio in Gaza, vicino alla recinzione perimetrale. Dei [384] feriti di questo periodo [13-26 febbraio], 74 si sono avuti in scontri vicino alla recinzione di Gaza ed i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte di questi ultimi si sono verificati durante le dimostrazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh, Ni’lin, Bil’in e Al Mazra’a al Qibliya (tutti a Ramallah), e in manifestazioni contro il riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme come capitale d’Israele. Di queste, le più ampie si sono verificate ad Al Bireh (Ramallah) e al checkpoint di Huwwara (Nablus). Altri feriti sono state segnalati durante scontri all’ingresso di Beit ‘Ummar e del Campo profughi Al ‘Arrub (entrambi a Hebron); altri ancora per l’intervento delle forze israeliane a seguito di scontri tra palestinesi e gruppi di coloni israeliani (vedi sotto). Di tutte le lesioni, 59 sono state causate da armi da fuoco, 102 da proiettili di gomma e 205 da inalazione di gas lacrimogeno, richiedente un intervento medico, o perché colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

Nella Striscia di Gaza, due bambini palestinesi (di 6 e 11 anni) sono rimasti feriti in seguito alla detonazione di un ordigno inesploso (UXO). L’episodio è avvenuto a Jabalia (nel nord della Striscia), quando uno dei bambini ha raccolto e cominciato a maneggiare l’ordigno trovato sul terreno, innescando la sua esplosione.

In Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 20 strutture di proprietà palestinese, sfollando 18 persone, tra cui 10 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 70 persone circa. Tutti i provvedimenti di cui sopra sono stati motivati con la mancanza dei permessi di costruzione. 15 delle strutture prese di mira si trovavano in Gerusalemme Est e cinque in Area C, nelle Comunità di Al Baqa’a, Al Bowereh e Khirbet al Hasaka, a Hebron, e nella Comunità beduina di Jabal al Baba nel governatorato di Gerusalemme. Tre delle cinque strutture in Area C erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni.

In attacchi e incursioni ad opera di coloni israeliani sono stati feriti sedici palestinesi, e proprietà palestinesi sono andate perdute o sono state danneggiate. Quattro degli episodi si sono verificati nei villaggi di Einabus e Asira al Qibliya (Nablus) e, a quanto riferito, sono opera di coloni provenienti dagli insediamenti di Yitzhar, Bracha e dai loro circostanti avamposti: è stato aggredito fisicamente e ferito un vecchio di 91 anni; sono state uccise 17 pecore e rubate altre 37; una abitazione è stata vandalizzata. Nella stessa zona, cinque palestinesi sono stati feriti dai soldati israeliani durante scontri scoppiati dopo un’incursione di coloni all’interno di un villaggio. Nella Zona H2 della città di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno lanciato pietre contro tre case palestinesi e, negli scontri successivi, hanno ferito sei palestinesi, tra cui due minori. Altri quattro palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni in quattro distinti episodi verificatisi in altre località della Cisgiordania. Sei veicoli di proprietà palestinese sono stati danneggiati in cinque episodi di lancio di pietre. Dall’inizio del 2018, la violenza dei coloni è in aumento, con una media settimanale di sei attacchi, contro una media di tre nel 2017 e di due nel 2016.

Da media israeliani sono stati segnalati almeno tredici episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani con conseguenti danni a cinque veicoli. Gli episodi si sono verificati su strade vicino a Umm Safa e Sinjil (Ramallah), vicino a Tuqu’, Beit’ Ummar e nei pressi del Campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron) e vicino ad Al Khadr (Betlemme). Inoltre, nella zona di Shu’fat a Gerusalemme Est sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto per due giorni in entrambe le direzioni e per un giorno in una sola direzione, consentendo a 1.665 persone di attraversare (1.317 in uscita, 348 in entrata). Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018 il valico è stato aperto per 6 giorni (nel 2017 lo era stato per 36 giorni); in alcuni di questi giorni, l’attraversamento è stato consentito solo in una direzione.

Nella Striscia di Gaza proseguono le interruzioni di energia elettrica fino a 20 ore al giorno, compromettendo gravemente l’erogazione dei servizi. Rispetto al periodo precedente ciò rappresenta un leggero aumento dei blackout elettrici, attribuibile alla interruzione della fornitura di energia elettrica egiziana, determinata dal malfunzionamento tecnico delle tre linee di alimentazione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

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Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it