Rapporto OCHA della settimana 26 aprile- 2 maggio

Il 27 aprile, una 23enne palestinese, madre ed incinta, e il fratello 16enne sono stati uccisi vicino al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), secondo quanto riferito da personale della società di sicurezza privata israeliana che presidia il checkpoint.

Le circostanze sono controverse: secondo fonti israeliane, i due portavano dei coltelli e non hanno obbedito all’alt impartito dalle forze israeliane; testimoni oculari palestinesi hanno riferito che il personale di sicurezza ha aperto il fuoco sulla donna che era entrata per errore nella corsia del checkpoint riservata ai veicoli e, successivamente, hanno sparato al fratello accorso per aiutarla. Le autorità israeliane trattengono ancora i loro corpi, insieme a quelli di 16 palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi [contro israeliani] negli ultimi sei mesi.

Nel villaggio di Beit Ur al Foqa (Ramallah), una 16enne palestinese è stata ferita con arma da fuoco durante un presunto tentativo di aggressione contro soldati israeliani. I media israeliani hanno riferito che lei e la sua amica portavano un coltello, una siringa e un biglietto d’addio. Entrambe le ragazze sono state arrestate e non sono stati segnalati feriti tra i soldati israeliani. Secondo i media israeliani, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un colono israeliano 60enne è stato accoltellato e ferito da un palestinese; è stato inoltre riferito che il presunto aggressore è fuggito, ma è stato successivamente arrestato.

Durante la settimana, vicino alla colonia di Efrata (Betlemme), un bambino israeliano è stato ferito sull’auto su cui viaggiava, colpita da pietre; inoltre, a Gerusalemme Est, la metropolitana leggera è stata danneggiata da una pietra (o bottiglia), si sospetta, lanciata da palestinesi.

Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 85 palestinesi, tra cui 20 minori. La maggior parte di questi scontri sono scoppiati nel corso di proteste: la manifestazione settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) che, da sola, registra 43 feriti; ad Abu Dis (Gerusalemme) e al Campo profughi di Al Jalazun (Ramallah) contro la recente uccisione di palestinesi; durante manifestazioni nei pressi della recinzione di confine tra Gaza ed Israele. In un caso, nei pressi della Al Khader School (Betlemme), un ragazzo di 10 anni è stato urtato e ferito da una jeep israeliana.

In Cisgiordania, a seguito dell’ingresso di coloni e di altri gruppi israeliani in vari siti religiosi in occasione della Pasqua ebraica, sono stati registrati parecchi alterchi e scontri tra palestinesi e forze israeliane. I siti coinvolti includono: il Complesso della Spianata delle Moschee / Monte del Tempio a Gerusalemme Est; il villaggio di Al Karmel nel sud di Hebron; le Piscine di Suleiman presso il villaggio di Al Khader (Betlemme); il villaggio Sebastiya (Nablus); la Tomba di Giuseppe a Nablus. In quest’ultima località, le forze israeliane hanno ferito, con arma da fuoco, un 17enne palestinese. La polizia israeliana ha vietato a quattro palestinesi, per due settimane, l’ingresso nel Complesso della Spianata delle Moschee / Monte del Tempio e, in un altro caso, secondo quanto riferito, ne ha allontanato otto visitatori israeliani.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 21 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in Aree ad Accesso Riservato, di terra e di mare, ed hanno arrestato due pescatori dopo averli costretti a spogliarsi e nuotare verso le imbarcazioni israeliane, dove sono stati tratti in arresto. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, hanno spianato il terreno ed effettuato scavi.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 45 operazioni di ricerca-arresto arrestando 93 palestinesi: il governatorato di Gerusalemme registra la quota più alta di arresti (65, tra cui 10 minori), per la maggior parte effettuati nella moschea di Al Aqsa.

Per la prima volta in sette anni, a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno iniziato ad aprire, per due ore al giorno, il cancello sulla Barriera a Dahiyat al Barid, consentendo ai possessori di documenti di identificazione di Gerusalemme, l’utilizzo di un percorso più breve tra Ramallah e le comunità vicine. Le forze israeliane hanno anche riaperto un cancello stradale, chiuso da ottobre 2015, all’ingresso orientale del villaggio di ‘Ein Yabrud (Ramallah), consentendo a circa 11 comunità il transito veicolare verso la strada 60. Un altro cancello stradale, che conduce al villaggio Jamma’in (Nablus), è stato chiuso questa settimana, costringendo i residenti ad una lunga deviazione.

Per mancanza dei permessi rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito tre strutture di sussistenza ed hanno confiscato due serbatoi per l’acqua in un settore dell’Area C della città di Qalqiliya. Il provvedimento interessa 10 famiglie di rifugiati palestinesi, tra cui 32 minori.

In questa settimana non sono stati segnalati attacchi di coloni con vittime o danni [a palestinesi]. Tuttavia, a sud di Yatta (Hebron), coloni israeliani hanno impedito a contadini palestinesi di accedere ai loro terreni che si trovano oltre la Barriera.

Durante la settimana, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni, portando a 77 giorni il periodo di chiusura ininterrotta; il più lungo a partire dal 2007. Le autorità di Gaza hanno segnalato che risultano registrate e in attesa di attraversare più di 30.000 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Dal 4 maggio la tensione lungo il confine tra Gaza e Israele è in aumento, concretizzata in una serie di attacchi fra gruppi armati palestinesi ed esercito israeliano. Secondo le prime notizie dei media, una palestinese è stata uccisa ed altri quattro civili palestinesi (di cui tre minori) e un soldato israeliano sono rimasti feriti.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti considerano note
ai lettori
abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Hamas e l’Irgun? Come oso metterli a confronto…

Per tutti coloro che soffrono di amnesia volontaria ecco solo alcuni degli episodi salienti di violenza dell’Irgun  degna di Hamas.

di B. Michael – 2 maggio 2016 Haaretz

Così ha parlato Benjamin Netanyahu poche ore dopo l’esplosione il 18 aprile di una bomba su un autobus a Gerusalemme, rivendicata in seguito da Hamas: “Troveremo chiunque abbia preparato questo ordigno esplosivo, prenderemo chiunque ci sia dietro e faremo i conti con questi terroristi.” – affermazioni nette e determinate. E dove ha proferito queste ferme parole? Durante una commemorazione degli 85anni dalla fissazione dell’anno della fondazione dell’Irgun, o Etzel, la milizia clandestina pre-statale diretta da Menachem Begin.

Purtroppo Netanyahu ha dimenticato di specificare a quali “terroristi” si riferisse: quelli di cui stava celebrando l’85mo compleanno, o quelli che hanno fatto saltare in aria un autobus quel giorno al mattino presto?

Ma come potrei osare metterli a confronto.

Pochi giorni più tardi, Moshe Arens si è unito a Netanyahu. In un editoriale (Haaretz, 26 aprile) anche lui ha mostrato la sua quota di memoria selettiva e di concreta ipocrisia. Nel suo tentativo di compiacere il deputato Zouheir Bahloul (dell’Unione Sionista), Arens ha spiegato la fondamentale differenza tra “i gruppi clandestini ebrei” e “le organizzazioni terroristiche palestinesi”. I combattenti per la libertà ebrei, si è vantato l’ex membro dell’Irgun, attaccavano i soldati del mandato britannico [sulla Palestina. Ndtr.], non i civili, mentre i terroristi palestinesi prendono di mira principalmente i civili. “Questa è l’essenza del terrorismo – uccidere civili,” ha scritto Arens.

Per risvegliare la memoria di Arens e di chiunque altro soffra di amnesia volontaria, qui di seguito c’è un piccolo campione, una goccia nell’enorme bacino di lodevoli imprese realizzate dagli eroi dell’Irgun e del Lehi (la milizia guidata da Yitzhak Shamir e nota come la Banda Stern). Tutte provengono da fonti ufficiali revisioniste [cioè della destra sionista. Ndtr.]:

14 novembre 1937 – Uomini armati dell’Irgun a Gerusalemme mettono in atto un “attacco a colpi di arma da fuoco” uccidendo due passanti arabi a Rehavia. Più tardi, cecchini sparano a un autobus arabo, uccidendo tre passeggeri e ferendone otto. Bravo, Irgun!

17 aprile 1938 – Per la prima volta (ma non per l’ultima) l’Irgun lancia una bomba in un caffè arabo, con risultati modesti: una persona uccisa, sei ferite.

5 aprile 1938 – Una serie di attacchi terroristici contro passanti a Jaffa, Tel Aviv e Gerusalemme. Bombe e spari contro gli autobus. I risultati migliorano: muoiono 11 arabi, 22 rimangono feriti.

6 luglio 1938 – L’Irgun colloca un ordigno esplosivo in un mercato all’aperto di Haifa, al di fuori di “motivazioni politiche”. L’ordigno è composto da alcuni bidoni del latte di metallo, riempiti di esplosivi e di chiodi: 18 arabi uccisi, 38 feriti.

16 luglio 1938 – Un ordigno dello stesso tipo nel suk arabo di Gerusalemme: 10 morti, 31 feriti.

26 luglio 1938 – Di nuovo ad Haifa e un altro ordigno esplosivo dell’Irgun: 27 arabi rimangono uccisi, 46 feriti.

26 agosto 1938 – Questa volta il suk di Jaffa: “Un potente ordigno” come hanno detto. L’Irgun rivendica: muoiono 24 arabi, 35 sono feriti.

29 maggio 1939 – L’Irgun fa saltare in aria un cinema di Gerusalemme: 5 spettatori uccisi, 18 feriti.

20 giugno 1939 – Un’operazione contro un suk particolarmente riuscita: 78 arabi (e un asino) sono uccisi da un’esplosione in un mercato all’aperto di Haifa. L’asino era carico di esplosivo.

Tra il giugno e il luglio del 1939 l’Irgun ha ucciso dozzine di persone in tutto il Paese. L’unica colpa delle vittime era il fatto di essere arabi. Neppure l’Irgun sostiene il contrario.

Seguono alcuni anni relativamente tranquilli, ma verso la fine del Mandato Britannico queste gloriose operazioni di combattimento riprendono la loro frenesia.

4 dicembre 1947 – Bombe nei caffè, un barile di esplosivo in una stazione degli autobus, lancio di granate, sparatorie: dozzine di arabi sono uccisi.

29 dicembre 1947 – Una bomba dell’Irgun alla Porta di Damasco della Città Vecchia di Gerusalemme: 17 vittime.

30 dicembre 1947 – Membri dell’Irgun attaccano un gruppo di manovali arabi nella baia di Haifa, uccidendone 6 e ferendone 40.

4 gennaio 1948 – Un’auto-bomba del Lehi a Jaffa uccide 70 arabi.

7 gennaio 1948 – L’Irgun tenta di emulare il suo “piccolo fratello” con una bomba alla Porta di Jaffa nella Città Vecchia di Gerusalemme. Solo 24 arabi uccisi.

18 febbraio 1948 – Una bomba nel mercato di Ramle uccide 37 arabi.

E per concludere – 9 aprile 1948: l’Irgun entra a Deir Yassin, nei dintorni di Gerusalemme, e massacra 245 abitanti del villaggio. Sei giorni dopo, una folla di arabi attacca un convoglio medico diretto al Monte Scopus di Gerusalemme, massacrando 36 persone. ( Chiunque tiri frettolose conclusioni in merito alla relazione tra questi due eventi non è altro che un maledetto post-sionista).

I successivi massacri ed atrocità sono messi a segno dall’esercito del nascente Stato, piuttosto che dai gruppi clandestini che hanno aderito alla purezza-delle-armi [autorappresentazione dell’esercito israeliano, che si definisce “il più morale al mondo.” Ndtr.].

(Ho il piacevole dovere di elogiare ancora una volta Menachem Begin, di santa memoria, che dopo aver preso il comando dell’Irgun, fece il possibile per limitare questo terrorismo sfrenato. Dal 1944 fino alla fine del 1947 l’Irgun lottò puntualmente solo contro l’occupante britannico).

Questa è solamente una manciata di rimembranze. Ci sono molti più esempi di simili atti umani, con centinaia di civili innocenti che sono stati uccisi.

Se qualcuno, Dio non voglia, tenta ancora di paragonare le atrocità degli assassini arabi con le glorie dei combattenti ebrei (solo per il fatto che entrambi hanno commesso azioni assolutamente identiche), spiegheremo ancora una volta che la differenza tra il terrorismo ismaelita e i combattenti per la libertà ebrei è la stessa che passa tra i riccioli ebrei e il codino dei cinesi. Anche un bambino sa che un boccolo dell’ uomo ebreo è il culmine di bellezza e di purezza mentre un codino cinese è semplicemente disgustoso.

Non c’è davvero confronto.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto Ocha della settimana 19-25 aprile 2016

Durante la settimana non sono state registrate uccisioni di palestinesi o israeliani. Nei Territori palestinesi occupati, in scontri con le forze israeliane, sono stati feriti 70 palestinesi, tra cui 11 minori.

La maggior parte di questi scontri sono scoppiati nel corso di proteste: ad Abu Dis (Gerusalemme), contro la recente uccisione di palestinesi; a Ni’lin (Ramallah), contro la Barriera; a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante la manifestazione settimanale; durante manifestazioni nei pressi della recinzione di confine tra Gaza ed Israele. I numeri di questa settimana includono sette palestinesi feriti in scontri con le forze israeliane durante una demolizione punitiva.

Nella Striscia di Gaza, in almeno 26 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in Aree ad Accesso Riservato (ARA) a terra e in mare, ferendo un pescatore e arrestandone altri sette, confiscando una barca e distruggendone un’altra. Due degli arrestati sono stati costretti a spogliarsi e nuotare verso le imbarcazioni della marina israeliana, sulle quali sono stati trattenuti in detenzione preventiva.

Le autorità israeliane trattengono ancora i corpi di 16 palestinesi uccisi nel corso di episodi verificatisi negli ultimi sei mesi. Secondo i media israeliani, nel marzo 2015, il Primo Ministro israeliano, ha dato istruzioni alle autorità competenti di fermare, fino a nuova comunicazione, la restituzione dei corpi di palestinesi sospettati di aver perpetrato attacchi contro israeliani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno condotto 74 operazioni di ricerca-arresto; il maggior numero nel governatorato di Hebron (20 operazioni). In totale sono stati arrestati 132 palestinesi; la quota più alta di arresti è stata registrata nel governatorato di Gerusalemme: 66, tra cui 19 minori, soprattutto nella città vecchia di Gerusalemme (23 arresti) e nel quartiere di Al ‘Isawiya (23 arresti, tra cui 15 minori).

Durante la settimana, le forze israeliane hanno chiuso il checkpoint di Al Jalama (Jenin), impedendone l’attraversamento a piedi ai lavoratori palestinesi; il checkpoint è tuttavia rimasto aperto per il movimento dei veicoli. Per diverse ore è stata chiusa anche la strada tra Azzun (Qalqiliya) e Jit (Nablus) mentre era in corso una marcia di coloni israeliani, tenutasi tra gli insediamenti di Karnei Shomron e Kedumim. A Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno emesso ordini di polizia e ordini giudiziari che vietano, per 15 giorni, a 24 palestinesi di entrare nella Spianata delle Moschee/Monte del Tempio; ad altri cinque è stato vietato, fino a 10 giorni, di entrare a Gerusalemme. I provvedimenti sono motivati dal fatto che gli interessati sono stati implicati in proteste contro l’ingresso nel Complesso di coloni israeliani e di altri gruppi israeliani. Secondo i media israeliani, in seguito a presunte violazioni delle prescrizioni imposte da Israele, a due israeliani è stato proibito l’ingresso nel Complesso ed almeno altri 13 ne sono stati allontanati.

Nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), le autorità israeliane hanno effettuato una demolizione punitiva contro la casa di famiglia di un palestinese sospettato di aver ucciso, il 25 gennaio 2016, una colona israeliana. Di conseguenza, è stata sfollata una famiglia di otto persone, di cui cinque minori. Nel mese di novembre 2014, il coordinatore umanitario per Territori palestinesi occupati ha chiesto la fine delle demolizioni punitive, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, vietata dal diritto internazionale”. Inoltre, nella zona di Sur Bahir di Gerusalemme Est, per la mancanza di un permesso di costruzione rilasciato da Israele, le autorità israeliane hanno costretto una famiglia ad auto-demolire un ampliamento della loro casa.

Questa settimana sono stati registrati due attacchi di coloni con conseguenti danni materiali: ad Husan (Betlemme), il danneggiamento di circa 7 ettari di terra agricola palestinese inondata da acque di scolo, pompate dall’insediamento colonico di Betar Illit; a Far’ata (Qalqiliya), il furto di attrezzi agricoli. Segnalato inoltre, non incluso nel conteggio, il ferimento di due palestinesi, di cui uno in modo grave, investiti da veicoli con targa israeliana. In uno dei due casi si trattava di un minore al quale le forze israeliane hanno prestato i primi soccorsi.

Una carrozza della metropolitana leggera, nell’attraversamento del quartiere di Shu’fat, a Gerusalemme Est, è stata colpita e danneggiata da una pietra (o bottiglia) lanciata, si sospetta, da palestinesi.

Il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, continua a restare chiuso in entrambe le direzioni da ormai 70 giorni consecutivi. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare 30.861 persone, tra cui circa 9.500 malati e 2.700 studenti.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 27 aprile, una 23enne madre di due figli e il fratello 16enne sono stati uccisi dalle forze israeliane al checkpoint di Qalandiya a Gerusalemme, in circostanze poco chiare. I corpi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti considerano note
ai lettori
abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




La nuova pericolosa tattica israeliana di deportazione da Gerusalemme

13 aprile 2016 -* Al-Shabaka e Ma’an News

 

Di : Munir Nuseibah

Israele è esperto nel creare nuovi rifugiati e sfollati interni palestinesi, approfittando di ogni opportunità per farlo e sfruttando crisi momentanee per promuovere misure permanenti.

Ora sta utilizzando le recenti violenze nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) per introdurre un nuovo cambiamento nella sua politica di lunga data di revoca del permesso di residenza per espellere i palestinesi da Gerusalemme est.

Questo nuovo concetto (“tradimento della fedeltà” allo Stato di Israele) è ora utilizzato per revocare la residenza ai palestinesi gerosolimitani, oltre alla possibile demolizione delle loro case. Il governo israeliano sta presentando queste azioni come misure di normale applicazione della legge, ma alcuni studi mostrano che sono parte della sua continua politica di espulsioni forzate, con lo scopo di produrre cambiamenti demografici a lungo termine e di garantire una schiacciante maggioranza ebraica a Gerusalemme. Il sistema giudiziario israeliano e i comandi dell’esercito fin dal 1948 [anno di nascita dello Stato di Israele. Ndtr.] hanno utilizzato una serie di metodi per ridurre al minimo il numero di palestinesi nelle aree cadute sotto controllo israeliano, come ho descritto in uno dei primi editoriali di Al-Shabaka (“Decenni di espulsione dei palestinesi: come Israele lo ha fatto”).

Queste misure hanno incluso l’uso della forza delle armi, restrizioni allo status civile dei palestinesi, restrizioni al diritto di costruire ed espropriazione delle proprietà (soprattutto beni immobili), tra gli altri, per obbligare la maggioranza della popolazione palestinese a diventare rifugiata o sfollata interna. L’ultimo cambiamento israeliano rappresenta un punto di svolta che probabilmente produrrà migliaia di nuove vittime del trasferimento di popolazione. Si tratta della terza svolta normativa di questo tipo nei tentativi israeliani di “sfoltire” la popolazione palestinese di Gerusalemme, come si discuterà più sotto. Lo spostamento forzato dei palestinesi è parte del sistema giudiziario israeliano: deve essere compreso e avversato in modo più deciso dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dalla comunità internazionale come è stato fatto dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani in una nuova campagna.

I primi due punti di svolta: “Il centro della vita”

La continua politica di Israele di revoca della residenza si basa sulla posizione sempre più esplicita che i palestinesi a Gerusalemme non sono altro che immigrati stranieri che possono essere facilmente spostati fuori da quello che Israele considera il suo territorio legittimo. Dopo che Israele ha occupato e annesso illegalmente Gerusalemme est durante la guerra arabo-israeliana del 1967, ha considerato i gerosolimitani palestinesi “residenti” in Israele, senza diritto di voto per il parlamento israeliano, in modo da evitare di aggiungere un notevole numero di non-ebrei tra i suoi cittadini. Con il passare del tempo, il ministero dell’Interno, con il consenso della Corte Suprema israeliana, ha sviluppato sistemi creativi per revocare questo precario status. In seguito a ciò, dal 1967 più di 14.000 residenze a Gerusalemme sono state revocate, molte delle quali dopo il cosiddetto processo di pace iniziato nei primi anni ’90.

I governi israeliani che si sono succeduti hanno accuratamente scelto la tempistica di nuove modifiche normative per ampliare le possibilità di revoca della residenza, prendendo a pretesto crisi puntuali per farlo. Due importanti casi aiutano a definire i pilastri dell’attuale sistema di revoca della residenza. Il primo è stato il caso dell’attivista pacifista Mubarak Awad, andato negli Stati Uniti nel 1970, dove si sposò con una cittadini americana. Awad era attivo nel promuovere la resistenza nonviolenta prima e durante la Prima Intifada, la rivolta popolare palestinese tra il 1987 e il 1991. Nel 1987 fece domanda al ministero dell’Interno per rinnovare la propria carta d’identità come residente a Gerusalemme solo per apprendere che la sua residenza israeliana era stata revocata in seguito al fatto che viveva negli USA ed aveva ottenuto la cittadinanza americana. Con il senno di poi, ciò è particolarmente ironico ora che circa il 15% dei coloni che espellono i palestinesi nei TPO sono ebrei con doppia cittadinanza americana e israeliana.

Di conseguenza Awad presentò una petizione alla Corte Suprema israeliana in cui spiegava che il suo diritto di vivere nella sua città natale non avrebbe dovuto essere compromesso per il fatto di trovarsi all’estero. Egli affermò che i palestinesi gerosolimitani dovrebbero avere uno status irrevocabile di residenti, dal momento che non possono essere considerati semplici immigrati in Israele. La Corte Suprema rigettò i suoi argomenti e approvò la revoca della sua residenza. Con una sentenza che ha dell’incredibile, la Corte affermò che le sue idee politiche erano state un fattore che il ministero dell’Interno aveva preso in considerazione quando aveva deciso di revocare la sua residenza.

Per dare un fondamento a questo argomento, il ministero aveva allegato il parere di un ufficiale dei servizi di sicurezza israeliani (Shabak), con lo pseudonimo di “Yossi”, che affermava che Awad sosteneva la soluzione di uno Stato unico e invocava la disobbedienza civile. Benché la Corte non abbia fondato esplicitamente la sua decisione su questo parere, vi fece frequentemente riferimento nella sua sentenza. Creando un nuovo precedente, la Corte decise che lo status di residente potesse essere negato quando il “centro della vita” di un residente non era più in Israele. Al di là del dramma personale di Awad, ciò che è particolarmente importante è che questo precedente legale sia stato in seguito utilizzato per negare la residenza a migliaia di gerosolimitani.

Nel 1995 la Corte Suprema ha emesso un altro verdetto cardine contro Fathiyya Shiqaqi, la moglie di Fathi Shiqaqi, fondatore del movimento della Jihad Islamica. Residente a Gerusalemme, Shiqaqi è stata obbligata ad andarsene con suo marito, deportato in Siria nel 1988. Sei anni dopo è tornata a Gerusalemme ed ha cercato di rinnovare la sua carta d’identità e di registrare i suoi tre figli. Il ministero dell’Interno ha rigettato la sua richiesta e le ha ordinato di lasciare il Paese. Da allora Israele ha revocato la residenza in base ad un’ordinanza scritta dal ministero se il residente era stato assente per sette anni di fila o aveva ottenuto una residenza permanente all’estero o un’altra cittadinanza. Benché il caso di Shiqaqi non rispecchiasse queste condizioni, la Corte Suprema ha di nuovo approvato la revoca della sua residenza, in quanto Shiqaqi viveva all’estero con suo marito e il “centro della sua vita” non era più in Israele.

Dopo questo secondo punto di svolta migliaia di palestinesi residenti che vivevano fuori dai confini municipali di Gerusalemme in Cisgiordania, a Gaza o all’estero hanno iniziato a perdere lo status di residenti. Questo alto numero di vittime di espulsioni forzate non era necessariamente coinvolto in una qualunque attività politica. La revoca della residenza è dipesa esclusivamente dal criterio del “centro della vita”.

Questi due importanti casi sembra siano stati scelti a proposito. Nella società ebreo-israeliana, molto pochi si identificherebbero nella difficile condizione di un accademico che sostiene la disobbedienza civile o della moglie di uno jihadista islamista. Tuttavia, una volta stabiliti questi precedenti, tutta la popolazione palestinese di Gerusalemme è diventata a rischio.

Il terzo punto di svolta: “ Tradimento della fedeltà”

L’ultimo punto di svolta nella politica israeliana di revoca della residenza ha le sue radici nella revoca da parte del ministero israeliano degli Interni di tre membri eletti nel Congresso Legislativo Palestinese (CLP), così come del ministro palestinese degli Affari di Gerusalemme, nel 2006. Il ministero sosteneva che avevano violato il loro “impegno minimo di lealtà verso lo Stato di Israele”, in seguito alla loro elezione nel CLP e la loro appartenenza ad Hamas. Le organizzazioni dei diritti umani israeliane e palestinesi si sono indignate per l’introduzione della “fedeltà” come nuovo criterio legale di stato civile e la questione è rimasta in sospeso presso la Corte Suprema fin dal 2006. Se la Corte Suprema dovesse approvare questa misura, le autorità israeliane avrebbero a disposizione un nuovo pretesto per l’espulsione forzata, come ha affermato Hasan Jabarin, direttore dell’organizzazione per i diritti umani “Adalah” di Haifa.

Tuttavia il recente scoppio di violenza nei TPO ha fornito ad Israele l’opportunità di agire senza dover aspettare il verdetto della Corte Suprema. Già il 14 ottobre 2015 il “Gabinetto di Sicurezza” israeliano ha emesso una decisione secondo cui “i diritti di residenza permanente di terroristi saranno revocati,” senza dare una definizione di terrorista. Una settimana dopo, il ministero dell’Interno ha notificato a quattro palestinesi, sospettati di aver commesso azioni violente contro cittadini israeliani (tre dei quali accusati di aver lanciato pietre), che il ministero aveva preso in considerazione l’adozione del potere discrezionale per revocare la loro residenza perché le azioni criminali di cui erano accusati dimostravano una “chiara violazione della fedeltà” verso lo Stato di Israele. Nel gennaio 2016 il ministero ha emesso una decisione ufficiale di revoca della residenza contro i quattro gerosolimitani.

Quindi non è più sufficiente per i palestinesi di Gerusalemme vivere effettivamente a Gerusalemme e conservare il “centro della propria vita” in città. Dai gerosolimitani palestinesi ci si aspetta che rispettino il nuovo criterio indefinito di “fedeltà”. L’organizzazione per i diritti umani israeliana HaMoked, con sede a Gerusalemme, ha contestato questa nuova politica presso la Corte Suprema israeliana. Tuttavia la Corte non ha ancora preso una decisione sul caso. Allo stesso modo è ancora pendente il caso dei quattro leader politici palestinesi la cui residenza è stata revocata nel 2006.

Nessuno sa ancora quanti permessi di residenza sono stati revocati in base al relativamente nuovo criterio della “fedeltà”, ma almeno alcuni altri casi sono in attesa di sentenza alla Corte Suprema. HaMoked ha presentato una richiesta sulla base della legge sulla libertà d’informazione per obbligare il ministero dell’Interno a rivelare questa informazione.

Vale la pena ricordare che le leggi umanitarie internazionali proibiscono la pretesa di fedeltà di una popolazione sotto occupazione. Quindi, giustificare una revoca della residenza in base alla “violazione della fedeltà” è contrario alle leggi internazionali. Oltretutto non ci sono giustificazioni per revocare la residenza di chiunque sia sospettato di un atto di violenza perché il sistema penale israeliano punisce già ogni atto di violenza – così come molti atti non violenti – commessi dai palestinesi.

Da una prospettiva legale e storica più ampia, Israele dovrebbe ricordare che gli spostamenti forzati sono un crimine di guerra se messi in atto in un territorio occupato e un crimine contro l’umanità se molto diffusi o sistematici. Le ultime misure del governo israeliano unite a quelle già esistenti potrebbero configurare il criterio dello spostamento sistematico come equivalente a un crimine contro l’umanità.

Resistere alla politica di espulsione forzata

La lotta contro la revoca della residenza a Gerusalemme ha per lo più avuto luogo nelle corti di giustizia israeliane e finora è stata, in generale, persa. I tentativi di parecchie organizzazioni dei diritti umani palestinesi ed israeliane di sostenere presso la Corte Suprema israeliana che i gerosolimitani non sono immigrati ma nativi che hanno un diritto incondizionato di vivere nella loro città sono falliti. La Corte Suprema israeliana ha sostenuto che il diritto dei gerosolimitani palestinesi di vivere a Gerusalemme est dovrebbe continuare ad essere in mano al potere discrezionale del ministero dell’Interno. L’attuale governo di destra israeliano sta utilizzando questa discrezionalità per promuovere rapidamente l’espulsione di più palestinesi possibile da Gerusalemme.

Inoltre non ci sono contromisure chiare a livello diplomatico ed internazionale contro le azioni punitive di Israele. L’OLP ha ottenuto il riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU e quindi ha aderito ad una serie di importanti convenzioni sui diritti umani e sul diritto umanitario internazionale, compreso lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI). Tuttavia, non è ancora chiaro quale uso lo Stato di Palestina intenda fare di questo status e di queste convenzioni per resistere alle revoche della residenza a Gerusalemme.

La maggior parte dei ricorsi dopo che la Palestina ha aderito alla CPI sono stati centrati sui crimini che hanno avuto luogo durante la guerra contro Gaza, che ovviamente è importante. Tuttavia vorrei sostenere che la questione delle espulsioni forzate non lo è di meno. A Gerusalemme ed in altre parti della Cisgiordania le espulsioni forzate sono parte del regime giuridico israeliano. Sono state implementate attraverso leggi israeliane, ordinanze amministrative e decisioni dei tribunali. Nel caso specifico di Gerusalemme, le istituzioni giuridiche e amministrative israeliane non prendono nemmeno in considerazione gli argomenti delle leggi internazionali perché Israele considera Gerusalemme israeliana e non un territorio occupato.

Israele deve ricevere il forte messaggio dalle istituzioni giuridiche internazionali e dagli ambienti diplomatici che, nonostante la definizione israeliana, la comunità internazionale considera Gerusalemme occupata e il trasferimento dei suoi civili un reato penale.

Di fronte a questa situazione, varie organizzazione palestinesi dei diritti umani di Gerusalemme est e altrove in Cisgiordania (Al-Quds University’s Community Action Center, St. Yves, Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center (JLAC), the Civic Coalition for Palestinian Rights in Jerusalem, Badil, Al-Haq e Al-Quds Human Rights Clinic) hanno lanciato recentemente una campagna per resistere alla nuova politica israeliana di espulsioni contro i gerosolimitani. La campagna è iniziata portando questo problema davanti al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU per sollevarlo davanti alla diplomazia internazionale ed ai professionisti dei diritti umani.

La campagna si è concentrata sul porre termine alla revoca punitiva della residenza perché non è ancora stata approvata dalla Corte Suprema israeliana, rendendo questo provvedimento più facile da impugnare. Se, tuttavia, la Corte decidesse che questa politica è legittima, essa verrà inserita nel sistema giuridico israeliano e molto probabilmente espellerà molti altri palestinesi da Gerusalemme.

Istituzioni pubbliche palestinesi, così come organizzazioni della società civile, dovrebbero lavorare duramente contro le politiche sistematiche di Israele di espulsioni forzate. Mentre i palestinesi in generale hanno la sensazione che le leggi internazionali non siano state molto utili alla causa palestinese, questa non dovrebbe essere portata come scusa per abbandonare la battaglia legale. Questa lotta non dovrebbe riguardare solo le istituzioni legali di Israele e le loro politiche discriminatorie, ma dovrebbe anche essere intrapresa a livello internazionale. La stessa Corte Suprema israeliana potrebbe riconsiderare il suo sostegno alle politiche discriminatorie se avesse la sensazione di essere sotto esame.

Rimane da vedere se la pressione della campagna locale palestinese ribalterà la politica di revoca punitiva della residenza. Ciò che è certo, comunque, è che i diritti dei palestinesi a Gerusalemme meritano molta maggiore attenzione e che il problema della revoca della residenza a Gerusalemme deve essere all’ordine del giorno. Avvocati palestinesi, organizzazioni dei diritti umani e istituzioni devono approfittare dell’occasione offerta dall’adesione della Palestina ad una serie di trattati sui diritti umani per incrementare la loro pressione sulla comunità internazionale. E’ ora che la comunità internazionale rispetti i propri obblighi di prendere tutte le misure a disposizione per porre fine al crimine delle espulsioni forzate, obblighi i responsabili a rendere conto di tali politiche e inverta i loro effetti indennizzando le vittime, compreso il loro diritto di tornare nelle proprie case. Centrare le campagne sui diritti legati ad un singolo problema può essere più efficace da un punto di vista legale che impostare campagne complessive che intendano mettere in evidenza molteplici ingiustizie.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia di notizie Ma’an.

*Al-Shabaka è un’organizzazione no-profit indipendente il cui scopo è educare e promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi internazionali.

Questo articolo di fondo è stato scritto dal redattore politico di al-Shabaka Munir Nuseibah, avvocato dei diritti umani e docente dell’università Al-Quds di Gerusalemme. E’ professore presso la facoltà di legge della Al Quds, direttore e cofondatore della Al-Quds Human Rights Clinic e direttore del Centro per l’Azione Comunitaria di Gerusalemme.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I social media e la terza intifada: la scomoda verità

Maanews 15 aprile 2016

di Albana Dwonch

Albana Dwonch è una candidata al dottorato di ricerca presso l’Università di Washington, attualmente ricercatrice a Gerusalemme.

Sei mesi dopo il suo inizio, sono state poste più domande che fornite risposte relativamente alla violenta rivolta dei giovani nei territori palestinesi occupati.

E’o non è una terza intifada?” è stata la questione più dibattuta da molti media ed analisi. La seconda, “I social media vi hanno contribuito?”, ha provocato un analogo disorientamento sul loro ruolo nell’ultima rivolta dei giovani.

La confusione è stata soprattutto evidente nella difficoltà dei media nel definire questi nuovi soggetti senza leadership e le loro inconsuete modalità di mobilitazione. I giornalisti hanno dovuto modificare la propria terminologia e creare nuove espressioni, come “lupo solitario” e “ istigatore informatico”.

Anche questi termini erano comunque problematici. “Lupi solitari” – gli utilizzatori degli strumenti più arcaici della strada – erano difficili da distinguersi dagli “istigatori informatici” – utilizzatori delle tecnologie dei social, che producevano, postavano e diffondevano video di eventi attraverso le loro reti.

Nonostante la difficoltà di definire e spiegare questi nuovi soggetti ed i loro metodi organizzativi decentrati, la conclusione finale è che i social media sono stati un vettore per la diffusione della violenza e per la radicalizzazione della gioventù palestinese negli ultimi sei mesi.

Comunque questa conclusione non tiene conto di uno sviluppo più profondo e persistente. Al di là del ruolo specifico dei social media in questa rivolta giovanile, le più vaste implicazioni del drastico cambiamento dell’ambito sociale e mediatico stanno incominciando a modificare i sistemi politici palestinese ed israeliano e le loro basi di potere interne ed internazionali.

L’uso dei social media ha evidenziato che, mentre l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese, ndt.) ed Israele possono ancora essere in grado di contenere i disordini, di certo l’ANP non può controllare il coinvolgimento dei giovani in essi, né può Israele fermarlo definitivamente.

Perché sono arrabbiati ma senza guida?

Il grado di influenza dei social media sulla dinamica delle violenze in questa rivolta dei giovani è strettamente correlato alla più vasta implicazione del palesamento della crisi di legittimità delle strutture politiche palestinesi.

La scelta dei giovani di non avere leadership e di mobilitarsi in modo decentrato rivela un profondo distacco e perdita di fiducia nei loro partiti e leaders.

L’accusa che la diffusione virale di video violenti attraverso i social media ha amplificato la rabbia ed incitato ad ulteriore violenza è stata ora superata da un altro involontario effetto mediatico di quest’ultimo ciclo di violenza.

Il video del 24 marzo prodotto da un attivista dei diritti dei cittadini ad Hebron ha rivelato il sottile confine tra “istigare” e “mostrare” la violenza.

L’immagine di un soldato israeliano che uccide un palestinese già ferito steso a terra ha rivelato al vasto pubblico il lato meno conosciuto della stessa brutta storia: l’eccessivo uso da parte di Israele della violenza di stato nei territori palestinesi occupati.

Analogamente al sottile confine tra “lupo solitario” e “istigatore informatico”, i video che mostrano “gli attacchi palestinesi col coltello” vengono ora affiancati ai video che mostrano le esecuzioni extragiudiziali israeliane.

L’esposizione della violenza di stato come involontario effetto di attrazione di “lupi solitari” ha portato ad un altro problema: la maggiore sorveglianza e censura per individuare gli “istigatori informatici”.

Israele, con la sua potente infrastruttura informatica e tassi di diffusione di internet tra i più alti al mondo, da ottobre 2015 ha aumentato il controllo su internet ed ha arrestato centinaia di giovani palestinesi per “istigazione online” sulle loro pagine Facebook.

Inoltre il governo israeliano ha chiuso organi di stampa palestinesi in Cisgiordania e determinate Ong israeliane che pubblicizzano video e materiali per la difesa dei diritti umani dei palestinesi sono attualmente sotto indagine dello stato, che le considera sospette di essere agenti stranieri.

Gli apparati di potere reagiscono

La cooptazione di soggetti non statali, un’accresciuta sorveglianza e l’uso eccessivo della forza militare sono la consueta risposta dello stato a queste proteste dei giovani.

Di fatto, con la sua reazione a questi disordini, il governo israeliano agisce in modo perfettamente simile a quello con cui l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza hanno represso e poi schiacciato il movimento giovanile non violento del 15 marzo 2011.

Ispirato alle immagini indimenticabili della primavera araba, il movimento del 15 marzo era iniziato su Facebook sottoforma di un infiammato manifesto, che ha innescato una risposta emotiva in una vasta area di giovani che condividevano le stesse frustrazioni ed hanno occupato le piazze in Cisgiordania e a Gaza.

Queste proteste si rivolgevano contro la divisione tra le fazioni palestinesi ed altre strutture di potere. Poco dopo, le autorità palestinesi hanno significativamente aumentato il controllo su internet, hanno chiuso o cooptato le Ong locali, hanno sciolto i gruppi giovanili online ed hanno incarcerato e minacciato i giovani leaders carismatici.

Quindi, mentre la caccia da parte di Israele ai lupi solitari e agli istigatori informatici è lungi dall’essere finita, si sta sviluppando qualcosa di molto più importante: se da un lato la risposta dello stato alle proteste dei giovani sta diventando relativamente facile da prevedere, dall’altro lato la prossima ondata di protesta giovanile e ciò che comporterà è estremamente imprevedibile.

Abbiamo assistito almeno due volte in questo decennio a proteste diffuse attraverso i social media che hanno cercato di colpire le strutture di potere palestinesi ed israeliane. Entrambe sono state accese da un sentimento di rabbia largamente condiviso ed entrambe hanno sorpreso il sistema al potere. Entrambe sono state momentaneamente arginate.

Però, individuando i social media come la causa del fallimento di questo tipo di mobilitazioni o del loro divenire violente, si svia l’attenzione dal comprendere l’evolversi delle condizioni che permettono la trasformazione del sentimento emotivo di speranza o disperazione nel prossimo movimento per il cambiamento contro i poteri in carica.

Questa comprensione potrebbe drasticamente modificare i rapporti di potere nel conflitto israelo-palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto Ocha della settimana 5- 11 aprile 2016

Per la seconda settimana consecutiva non sono stati registrati morti palestinesi o israeliani nel contesto di aggressioni o scontri.

Dal mese di ottobre 2015, quando ebbe inizio l’esplosione di violenza, questo è il periodo più lungo senza morti.

Nei Territori palestinesi occupati le forze israeliane hanno ferito 104 palestinesi, tra cui 17 minori; la maggior parte (82%) in scontri verificatisi nel corso di manifestazioni. Il maggior numero di ferimenti (45) registrato nel corso di un singolo episodio è avvenuto nel villaggio di Duma (Nablus), causati dalle forze israeliane intervenute negli scontri tra palestinesi e coloni israeliani che, secondo quanto riferito, marciavano verso il villaggio per esprimere solidarietà al colono israeliano sotto processo per l’attacco incendiario che, nel luglio 2015, provocò la morte di tre membri di una famiglia palestinese.

Nella Striscia di Gaza, in Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare, in almeno 37 occasioni le forze israeliane hanno aperto il fuoco ferendo un pescatore e un contadino; altri sei palestinesi sono stati arrestati. In almeno sei occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno spianato terreni ed effettuato scavi. L’8 aprile, un veicolo delle forze israeliane che era entrato in un’area ad est della città di Gaza, ha subito danni a seguito dell’esplosione di un ordigno. Il 10 aprile, nei pressi della recinzione perimetrale che circonda Gaza, vi è stato uno scambio di colpi tra palestinesi e forze israeliane; non sono state segnalate vittime.

In tre episodi verificatisi a Gerusalemme Est e Nablus sono rimasti feriti tre israeliani, tra cui una donna. A Gerusalemme Est e nei governatorati di Betlemme ed Hebron, il veicolo di un colono israeliano, un autobus e una carrozza della metropolitana leggera di Gerusalemme hanno subito danni per lancio di pietre da parte di palestinesi. Il 5 aprile, nel villaggio di Huwwara (Nablus), in seguito ad un episodio di lancio di pietre, coloni israeliani hanno effettuato una dimostrazione, nel corso della quale, attraverso altoparlanti, hanno invitato i negozianti a chiudere i loro esercizi. Le forze israeliane hanno poi costretto negozi e botteghe a chiudere per diverse ore.

L’Avvocato Generale Militare di Israele (MAG) ha annunciato la chiusura delle indagini nei confronti di un alto ufficiale che, il 3 luglio 2015, sparò e uccise un 17enne palestinese, sospettato del lancio di pietre contro il suo veicolo. Il MAG ha accolto il ricorso dell’ufficiale che, secondo i media, mirò alle gambe del giovane ma, per errore, lo colpì nella parte superiore del corpo. Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha condannato la decisione e ha espresso preoccupazione per la “impunità” riguardante l’uccisione di palestinesi.

Le forze israeliane hanno continuato a vietare il passaggio dei maschi palestinesi tra i 15 ei 25 anni di età attraverso due posti di blocco che controllano l’accesso alla zona H2 di Hebron sotto controllo israeliano. Questo provvedimento, in vigore dal 22 marzo, si aggiunge ad altre rigide restrizioni, vigenti da ottobre 2015, sull’accesso dei palestinesi a tale zona. Sempre nella zona H2, una ragazza palestinese è stata investita dall’auto di un colono israeliano che è fuggito senza prestare soccorso.

L’11 aprile, a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno punitivamente sigillato la casa di famiglia di un palestinese sospettato di essere coinvolto in un caso di lancio di pietre che, nel mese di settembre 2015, ha provocato la morte di un colono israeliano; due membri della famiglia del sospettato sono stati sfollati. La Corte Suprema israeliana ha accettato il ricorso di altri tre palestinesi sospettati del coinvolgimento nello stesso caso e ha revocato l’ordine che avrebbe comportato la demolizione o sigillatura delle loro case. Dall’inizio dell’anno, le autorità israeliane hanno demolito o sigillato per motivi punitivi 12 abitazioni ed altre strutture, sfollando 64 persone, tra cui 27 minori. Questa pratica è in contrasto con una serie di disposizioni del diritto internazionale, tra cui il divieto di sanzioni collettive.

Per la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, e in un caso costretto i proprietari ad auto-demolire, 71 strutture, 23 delle quali fornite come assistenza umanitaria. Di conseguenza, un totale di 159 palestinesi, tra cui 75 minori, sono stati sfollati e altri 326 sono stati in vario modo coinvolti. L’episodio più consistente (34 strutture demolite su 71) si è verificato nella comunità pastorizia di Khirbet Tana (Nablus), che si trova in una zona designata [dalle autorità israeliane] come “zona militare per esercitazioni a fuoco”; qui sono stati 69 i palestinesi sfollati (di cui 49 minori). Dall’inizio dell’anno, questa è la quarta ondata di demolizioni che colpisce questa comunità. Dopo l’episodio appena citato, Robert Piper, Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati, ha espresso allarme per il rischio di trasferimento forzato che minaccia la comunità. Delle 71 strutture citate, 16 sono state demolite in cinque comunità beduine che vivono nel governatorato di Gerusalemme, in una zona assegnata per l’espansione dell’insediamento di Ma’ale Adumim (piano di colonizzazione E1); l’espansione creerebbe un’area edificata continua tra l’attuale insediamento e Gerusalemme Est. Queste 16 demolizioni hanno causato lo sfollamento di 55 beduini palestinesi, tra cui 31 minori. Le 586 strutture demolite o confiscate nel 2016, già oggi superano il totale di quelle demolite o confiscate nell’intero 2015 (547).

Per la seconda settimana consecutiva, le autorità israeliane hanno continuato ad impedire l’importazione in Gaza di cemento per il settore privato, affermando che [in consegne precedenti] una notevole quantità di cemento era stata dirottata rispetto ai destinatari autorizzati. L’importazione di cemento a Gaza per il settore privato, dopo un divieto assoluto imposto dal 2007, aveva ripreso nel mese di ottobre 2014, come parte del Meccanismo per la Ricostruzione di Gaza.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte in [corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per esplicitare informazioni che gli estensori dei Rapporti originali considerano

conosciute dai lettori abituali. In caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Rapporto OCHA della settimana 29 marzo- 4 aprile

Per la prima settimana, da quasi sei mesi, non sono state registrate vittime, né palestinesi né israeliane. Ottantotto palestinesi, tra cui 18 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane nei Territori palestinesi occupati.

La maggior parte delle lesioni (76%) sono state registrate il 30 marzo, durante le dimostrazioni per ricordare la “Giornata della Terra”, compresi sei ferimenti presso la recinzione perimetrale nella Striscia di Gaza; seguono le lesioni nel corso di operazioni di ricerca-arresto. Queste ultime comprendono incursioni in Azzun ‘Atma (Qalqiliya) e Ya’bad (Jenin), con conseguenti danni materiali e confisca di due veicoli, e un blitz in una scuola a Ras Al Amud, a Gerusalemme Est. 30 gli episodi in cui le forze israeliane hanno aperto il fuoco nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) di terra e di mare di Gaza: feriti due palestinesi a 350 metri dalla recinzione. Inoltre, le forze navali israeliane hanno cannoneggiato una barca da pesca ad ovest della città di Rafah, distruggendola completamente.

Le forze israeliane hanno continuato a vietare il passaggio dei maschi palestinesi tra i 15 e i 25 anni attraverso due checkpoint che controllano l’accesso alla zona H2 di Hebron. Questo provvedimento si aggiunge ad altre rigide restrizioni, in vigore da ottobre 2015, in materia di accesso dei palestinesi a questo settore. Nel periodo in esame, le forze israeliane hanno rimosso le restrizioni che erano state imposte, la scorsa settimana, al villaggio di Beit Fajjar (Betlemme) e che avevano impedito l’ingresso e l’uscita dal villaggio alla maggior parte dei residenti; tali restrizioni furono imposte in seguito ad un attacco palestinese contro soldati israeliani vicino a Salfit, nel corso del quale i presunti responsabili furono uccisi. Le forze israeliane hanno riaperto anche l’ingresso occidentale della città di Hebron, che si raccorda alla strada 35 e al checkpoint commerciale di Tarqumiya.

Il 31 marzo e il 4 aprile, nella città di Hebron e Qabatiya (Jenin), le autorità israeliane hanno effettuato quattro demolizioni punitive contro le case di famiglia di presunti autori di due attentati verificatisi nel mese di dicembre 2015 e febbraio 2016. Conseguentemente 21 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati sfollati e tre strutture adiacenti alle abitazioni demolite hanno subito danni; inoltre, nel corso degli scontri scoppiati tra palestinesi e forze israeliane durante due delle demolizioni, sono stati registrati 15 feriti. Dal gennaio 2016, 12 strutture sono state demolite per motivi punitivi, sfollando 62 persone, tra cui 27 minori. Nel mese di novembre 2015, il Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati richiese di porre termine a tale pratica, sottolineando che “le demolizioni punitive sono una forma di sanzione collettiva, perciò vietate dal diritto internazionale”.

Per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 36 strutture. Come risultato, 28 palestinesi, tra cui 11 minori, sono stati sfollati e altri 110 risultano coinvolti. Di queste strutture, 16 si trovavano a Gerusalemme Est, 5 nel governatorato di Ramallah, 5 nel governatorato di Gerico, 4 nel governatorato di Jenin, 4 nel governatorato di Nablus, 2 nel governatorato di Hebron. Di queste strutture 4 erano state finanziate da donatori, tra cui una strada agricola di due chilometri, in Qaryut. Nel villaggio di Jinba, situato nell’area di Masafer Yatta, designata dalle autorità israeliane come “zona militare per esercitazioni a fuoco”, le forze israeliane hanno sequestrato circa 160 pecore per il fatto che pascolavano nei pressi della “Linea Verde” (la Linea di Armistizio del 1949). Nel 2016, ad oggi [in circa tre mesi], sono già state effettuate 513 demolizioni, pari al 94% di tutte le demolizioni effettuate nell’arco del 2015 (547).

Il 23 marzo, nel villaggio di Ya’bad (Jenin), le forze israeliane hanno occupato una casa abitata, convertendola, a quanto pare, in un punto di osservazione militare; ne risultano colpite tre famiglie di 25 membri, tra cui 19 minori. Secondo il proprietario, le forze israeliane sostengono che, da quella zona, palestinesi abbiano lanciato pietre contro veicoli di coloni israeliani.

Nel governatorato di Hebron, il veicolo di un colono israeliano ha subito danni dal lancio di pietre, si sospetta, da parte di palestinesi. Durante la settimana, nel villaggio di Huwwara (Nablus), in due occasioni, le forze israeliane hanno costretto circa 250 negozi a chiudere per diverse ore, in risposta a presunti lanci di pietre, verificatisi nella zona, ad opera di palestinesi.

In Cisgiordania, lungo la strada Ramallah-Nablus, un veicolo palestinese ha subito danni in seguito a lanci di pietre. Inoltre, sono stati registrati almeno tre episodi di intimidazione che avevano lo scopo di allontanare dei pastori, tra cui due minori, dai pascoli circostanti le colonie israeliane di Yitzhar (Nablus), Mitzpe Yair (Hebron) e Carmelo (Hebron).

Il 3 aprile 2016, le autorità israeliane, pur mantenendo le attuali 6 miglia nautiche quale limite di pesca lungo la costa settentrionale della Striscia di Gaza, hanno ampliato da 6 a 9 miglia nautiche la zona di pesca lungo la costa meridionale. Le restrizioni sono in corso dal 1999, ma dal 2013 Israele, attraverso arresti, utilizzo del “fuoco di avvertimento” e confisca/distruzione di strumenti di lavoro, aveva imposto il limite di pesca a 6 miglia nautiche lungo l’intera costa di Gaza e una “zona vietata” di 1,5 miglia nautiche lungo i confini marittimi settentrionali tra le acque di Gaza e quelle di Israele. Gli accordi di Oslo* (1993-1995) prevedevano un limite di pesca di 20 miglia nautiche. Oltre 35.000 palestinesi dipendono da questo settore per il loro sostentamento.

* nota di Assopace: gli Accordi di Oslo (1993-1995, conclusi a Oslo e firmati a Washington) furono la conclusione di una serie di negoziati condotti tra il Governo israeliano e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione Palestina) come avvio di un processo di pace. Alla presenza di Bill Clinton, la stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat sanciva gli accordi.

A partire dal 3 aprile, le autorità israeliane hanno sospeso l’importazione di cemento in Gaza per il settore privato, affermando che una notevole quantità del medesimo non era stata consegnata ai destinatari autorizzati, ma era stata dirottata. L’importazione di cemento a Gaza per il settore privato, dopo un divieto assoluto imposto dal 2007, aveva ripreso nel mese di ottobre 2014, come parte del GRM (Meccanismo di Ricostruzione di Gaza).

Dal 26 marzo, a causa della mancanza di carburante, la Centrale elettrica di Gaza è stata costretta a ridurre del 50% l’attività (la potenza è stata limitata a 35 MW), determinando una media giornaliera di 18 ore di interruzione di corrente. Al momento l’erogazione dei servizi di base, tra cui la sanità e l’acqua, avviene solo grazie alla distribuzione di combustibile per far funzionare i generatori di emergenza degli enti erogatori.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli

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Rapporto OCHA della settimana 22- 28 marzo 2016

Il 22 marzo, nella città di Hebron, due palestinesi hanno accoltellato e ferito un soldato israeliano: uno dei palestinesi è stato ucciso e l’altro ferito dalle forze israeliane. Una registrazione video della scena, relativa a pochi minuti successivi all’accaduto, mostra un soldato israeliano che spara alla testa del sospetto assalitore ferito che giace a terra senza costituire alcuna evidente minaccia.

Il soldato è stato arrestato dalle autorità israeliane ed è attualmente indagato. Nickolay Mladenov, Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, ha duramente condannato la “apparente uccisione extragiudiziale”. Il Portavoce dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani ha espresso la preoccupazione che l’uccisione potrebbe non essere un episodio isolato. Dal 1° ottobre 2015, in risposta agli attacchi ed ai presunti attacchi contro israeliani nei Territori occupati ed in Israele, le forze israeliane hanno ucciso sul posto 136 sospetti aggressori palestinesi, tra cui 32 minori. [grassetto corsivo di Assopace]

Dopo l’episodio citato sopra, le forze israeliane hanno vietato, fino a nuovo avviso, il passaggio dei maschi palestinesi tra i 15 ei 25 anni attraverso i due vicini checkpoint che controllano l’accesso alla zona H2 di Hebron. Questo provvedimento si aggiunge ad altre rigide restrizioni, in vigore da ottobre 2015, relative all’accesso dei palestinesi a questa zona. Durante la settimana le forze israeliane hanno attenuato le restrizioni di movimento imposte, la scorsa settimana, al villaggio di Beit Fajjar (Betlemme), in seguito ad un attacco; le restrizioni impedivano l’ingresso e l’uscita dal villaggio alla maggior parte dei residenti.

All’indomani dell’uccisione [del sospetto assalitore palestinese], coloni israeliani hanno circondato la casa del palestinese autore del filmato e, secondo quanto riferito, lo hanno minacciato ripetutamente. Nella sua dichiarazione, il Portavoce dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani ha ricordato alle autorità israeliane il loro dovere di proteggere quest’uomo da possibili rappresaglie, essendo testimone oculare chiave dell’uccisione.

Secondo i media israeliani, il Primo Ministro israeliano ha dato ordine alle autorità competenti di fermare, fino a nuovo avviso, la restituzione dei corpi di palestinesi sospettati di attacchi contro israeliani. Attualmente le autorità israeliane trattengono 14 corpi di tali palestinesi, uccisi in episodi verificatisi nell’arco degli ultimi cinque mesi.

Nei Territori palestinesi occupati gli scontri con le forze israeliane hanno provocato il ferimento di 33 palestinesi, tra cui 15 minori. Sette dei ferimenti si sono verificati nella Striscia di Gaza, nei pressi della recinzione perimetrale, nel contesto di proteste settimanali ed i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte delle lesioni sono state registrate durante operazioni di ricerca-arresto. Queste ultime includono incursioni nella Arab American University di Jenin, nella sede di un Ente di beneficenza nella città di Tulkarem ed in una scuola elementare nel villaggio di Tell (Nablus): in tutti questi episodi sono stati registrati danni materiali e confisca di computer e documenti. In 21 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento sia verso aree [della Strisca di Gaza] vicine alla recinzione, sia in mare, contro barche da pesca palestinesi, costringendo agricoltori e pescatori ad allontanarsi.

In otto episodi di lanci di pietre [da parte palestinese] verificatisi nei governatorati di Betlemme, Ramallah e Gerusalemme Est, hanno riportato danni almeno tre veicoli di coloni, un autobus e carrozze della metropolitana leggera. Questa settimana, lungo la Strada 60, vicino al villaggio di Beit Ummar (Hebron), le autorità israeliane hanno completato una recinzione alta sei metri, con lo scopo, secondo quanto riferito, di prevenire lanci di sassi contro veicoli israeliani.

Nei pressi dei villaggi di Burin (Nablus) e Haris (Salfit), in due casi, coloni israeliani hanno aggredito e ferito due palestinesi. Inoltre, sulla Strada 60, nei pressi del bivio che conduce alla città di Yatta (Hebron), un bambino di sei anni è stato investito e ferito da un’auto; si sospetta ad opera di un colono israeliano fuggito senza prestare soccorso.

Per la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito 60 strutture, 19 delle quali erano state fornite dall’assistenza umanitaria per rimediare a precedenti demolizioni. Come conseguenza delle demolizioni, 95 palestinesi, tra cui 40 minori, sono stati sfollati. Tutte queste strutture, tranne due, si trovavano in aree destinate [da Israele] all’addestramento militare e designate come “zone per esercitazioni a fuoco”; tali aree coprono il 30% dell‘Area C. L’episodio più grave si è verificato a Khirbet Tana (Nablus) ed ha costituito la terza ondata di demolizioni in questa comunità nel 2016. A seguito di una visita presso la comunità, Robert Piper, Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati, ha espresso allarme per il rischio di trasferimento forzato che minaccia la comunità.

Il 23 marzo, nel villaggio di Hizma (Gerusalemme), le forze israeliane hanno occupato una casa in costruzione, trasformandola, a quanto pare, in un punto di osservazione militare. Secondo il proprietario, le forze israeliane hanno utilizzato la casa con cadenza settimanale a partire dall’ottobre 2015.

Il Ministero della Salute di Gaza ha comunicato che, il 29 marzo, un bambino è morto per ipotermia e un fratello è stato trovato in condizioni critiche. La famiglia dei bambini è una delle 1.150 famiglie che risiedono in rifugi temporanei e roulotte donate come aiuto umanitario a coloro le cui case sono state distrutte durante il conflitto del luglio-agosto 2014.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014, ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 31 marzo, nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito la casa di famiglia del sospetto autore di un accoltellamento che causò la morte di un colono israeliano; il sospetto autore venne ucciso.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivol

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Rapporto OCHA della settimana 15- 21 marzo 2016

Le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi, tra cui un 17enne, presunti autori di tre accoltellamenti che hanno provocato il ferimento di due soldati israeliani.

Gli episodi hanno avuto luogo nella città di Hebron, allo svincolo di Gush Etzion (Hebron), e all’ingresso dell’insediamento colonico di Ariel (Salfit). Dall’inizio del 2016, attacchi e presunti attacchi palestinesi hanno provocato la morte di quattro israeliani, di un cittadino straniero e di 45 palestinesi (tutti, tranne uno, presunti responsabili di attacchi) [1].

In seguito ad uno degli attacchi di cui sopra, e fino alla fine del periodo di riferimento, le forze israeliane hanno bloccato o predisposto checkpoints sulle strade principali del villaggio di Beit Fajjar (Betlemme), dove i presunti responsabili risiedevano; previa autorizzazione è stato consentito l’ingresso e l’uscita solo ai casi umanitari e agli insegnanti. Il 17 marzo, le autorità israeliane hanno riaperto l’ingresso principale del villaggio di Beit Ur At Tahta (Ramallah) che, a seguito di un attacco palestinese, era rimasto chiuso dall’11 marzo; è stato così ripristinato il normale collegamento tra altri cinque villaggi e la città di Ramallah.

Il 15 marzo, un rifugiato palestinese è morto per le ferite riportate a fine febbraio 2016, in scontri scoppiati nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), durante un’operazione militare israeliana finalizzata a proteggere due soldati israeliani che erroneamente si erano ritrovati all’interno del Campo. Nel corso della stessa operazione era rimasto ucciso un altro palestinese.

Le autorità israeliane hanno consegnato il corpo di un palestinese sospettato di aver compiuto un attentato a Gerusalemme Est nel mese di dicembre 2015. Il rilascio è stato subordinato all’impegno, da parte della famiglia, di limitare a 30 il numero dei partecipanti ai funerali e al pagamento di 20.000 NIS [nuovo siclo israeliano, circa 4.660 euro], quale garanzia per il rispetto di tale disposizione. Continuano ad essere trattenuti dalle autorità israeliane i corpi di altri 14 palestinesi, sospettati di aver compiuto attacchi contro israeliani nel corso degli ultimi cinque mesi.

Nei Territori palestinesi occupati gli scontri con le forze israeliane hanno provocato il ferimento di 49 palestinesi, tra cui 10 minori. Sette dei ferimenti sono avvenuti nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, ed i rimanenti in Cisgiordania. Circa il 63% delle lesioni sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno richiedente un trattamento medico; le rimanenti da proiettili di gomma, armi da fuoco ed aggressioni fisiche.

Nella zona di Betlemme e di Gerusalemme Est cinque episodi di lanci di pietre [da parte palestinese] hanno causato il ferimento di due coloni israeliani e danni al veicolo di un colono, ad un autobus e ad una carrozza della metropolitana leggera.

Nel villaggio di Duma (Nablus) una casa è stata data alle fiamme: lesi due coniugi per inalazione di fumo e inagibile, per gli ingenti danni, la loro casa. L’uomo ferito è l’unico testimone oculare dell’attacco incendiario avvenuto, nello stesso villaggio, nel luglio 2015, quando persero la vita tre membri della famiglia Dawabsheh (un colono israeliano accusato di quell’attacco è attualmente sotto processo). Secondo fonti palestinesi, anche l’incendio doloso di questa settimana è stato effettuato da coloni israeliani; tuttavia, la polizia israeliana, che ha aperto un’indagine sul caso, ritiene improbabile che l’attacco sia opera di coloni. Ancora in questa settimana, nei governatorati di Ramallah e Nablus, due veicoli palestinesi hanno subito danni per lanci di pietre da parte di coloni israeliani.

Per la mancanza di permessi di costruzione israeliani, le autorità israeliane hanno demolito 20 strutture, o costretto i proprietari ad autodemolirle: coinvolte 73 persone, tra cui 33 rifugiati. La metà di queste strutture si trovavano nel governatorato di Gerusalemme (la maggior parte in Gerusalemme Est), tre nel governatorato di Betlemme, sette nel governatorato di Nablus. Inoltre, nella città di Hebron, le forze israeliane hanno chiuso con ordine militare un negozio di verdura appartenente al sospetto autore di una sparatoria avvenuta nel marzo 2015, mentre in Khallet Hijeh e Beit Fajjar (Betlemme) hanno requisito macchinari e veicoli per lavori non consentiti in Area C.

L’8 marzo, le autorità israeliane, con l’obiettivo dichiarato di regolarizzare centinaia di unità abitative di un insediamento colonico costruito senza autorizzazione, hanno annunciato l’aggiornamento dei confini riportati in una precedente dichiarazione di “terra di stato”, in una zona in cui già si trova l’insediamento colonico di Eli. La dichiarazione si riferisce a circa 220 ettari di terra in Al Lubban ash Sharqiya, As Sawiya e Qaryut (Nablus). In un altro caso, in Area C, nei pressi del villaggio di Jayyus (Qalqiliya), le autorità israeliane hanno sradicato e sequestrato 150 alberi, rivendicando la zona come “terra di stato”. Nell’Area C della Cisgiordania, quasi tutta la “terra di stato” è stata posta sotto la giurisdizione degli insediamenti israeliani.

Durante il periodo di riferimento il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato chiuso in entrambe le direzioni. Il valico è rimasto chiuso, anche per l’assistenza umanitaria, dal 24 ottobre 2014 ad eccezione di 42 giorni di aperture parziali. Le autorità di Gaza hanno segnalato che sono registrati e in attesa di attraversare oltre 30.000 persone con bisogni urgenti, tra cui circa 3.500 malati.

[1] I totali includono un passante palestinese 17enne, ma non comprendono tre israeliani uccisi in Israele in un attentato perpetrato da un cittadino israeliano di origine palestinese, che è stato successivamente ucciso.

 

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Secondo le prime notizie dei media, il 24 marzo, nella città di Hebron, due palestinesi hanno accoltellato e ferito un soldato israeliano e sono stati successivamente uccisi dalle forze israeliane.

Il 23 marzo, nella comunità di Khirbet Tana (Nablus) in Area C, per mancanza dei permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 53 strutture, di cui 22 abitazioni. Dall’inizio di febbraio questo è il terzo caso di demolizioni che coinvolge questa comunità.

Tra il 23 ed il 27 marzo, a motivo di una festività ebraica, le autorità israeliane hanno sospeso l’ingresso a Gerusalemme Est e in Israele ai palestinesi titolari di permesso, fatta eccezione per i casi umanitari e per i dipendenti delle Nazioni Unite e delle Organizzazioni Non Governative (ONG).

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati settimanalmente in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informazio-ni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: http://www.ochaopt.org/reports.aspx?id=104&page=1

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

le traduzioni in italiano sono scaricabili dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: in caso di discrepanze, fa testo la versione originale in lingua inglese. Nella versione italiana non sono riprodotti i

dati statistici ed i grafici.

Associazione per la pace – Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it; Web: https://sites.google.com/site/assopacerivoli




Pensa alla Striscia di Gaza la prossima volta che bevi acqua del rubinetto.

Il modo più facile, rapido e logico di prevenire un disastro umanitario ed ecologico sarebbe fornire acqua molto più a buon mercato da Israele nella Striscia.

di Amira Hass- 22 marzo 2016

Haaretz

Oggi, quando apri il tuo rubinetto, pensa alla Striscia di Gaza, dove centinaia di migliaia di bambini e ragazzi non sono abituati ad una cosa magnifica come bere acqua del rubinetto. Gli adulti hanno ormai scordato com’è facile dargli un giro, vedere l’acqua scorrere e sentire il suono che si riduce mano a mano che il bicchiere si riempie.

Ora devono andare giù in strada, aspettare che arrivi un camion con una cisterna di acqua potabilizzata, riempire qualche bottiglione e portarlo in casa, sperando che ci sia l’elettricità e che l’ascensore stia funzionando. Ogni metro cubo di acqua desalinizzata costa da 25 a 30 shekel (da 5,8 a 6,9 €), rispetto a 1 o 3 shekel (0,23 o 0,7 centesimi di €) del servizio idrico.

Oggi, quando ti lavi la faccia, pensa all’acqua che esce dai rubinetti di Gaza. E’ oleosa e ti lascia una patina salmastra. I vestiti lavati sembrano rigidi a causa del fatto che l’acqua è mescolata con quella di mare, con liquami e pesticidi.

A Gaza il 95% circa dell’acqua del rubinetto non è potabile. Questa è la ragione per cui c’è una notevole dipendenza delle 145 infrastrutture pubbliche e private dall’acqua desalinizzata e potabilizzata. Ora il gruppo di “Emergenza per la Purificazione dell’acqua e per l’igiene” (EWASH), un consorzio di organizzazioni locali ed internazionali che affronta i problemi dell’acqua e dell’igienizzazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sta avvertendo che circa il 68% di quest’acqua purificata è esposta a contaminazioni biologiche.

Circa 200 milioni di metri cubi sono estratti ogni anno dalle falde acquifere di Gaza, che sono rinnovate solo con 55-60 milioni di metri cubi, la stessa quantità di 80 anni fa, quando ci vivevano solo 80.000 persone, rispetto alle attuali 1 milione 800 mila. Israele vende solo una quantità minima di acqua a Gaza, tra i 5 e gli 8 milioni di metri cubi all’anno. Le Nazioni Unite hanno avvertito che nel 2020 il danno alle falde acquifere sarà irreversibile.

Il modo più facile, rapido e logico per bloccare questo disastro umanitario ed ecologico sarebbe pompare acqua molto più economica da Israele alla Striscia. La nazione dell’ high-tech e dell’irrigazione a goccia può sicuramente organizzare tutto ciò.

Ma l’Autorità Nazionale Palestinese e i Paesi donatori stanno progettando grandi impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare, la cui produzione è stata rimandata a causa delle restrizioni imposte da Israele all’introduzione di materiali e della irregolare fornitura di elettricità. L’ANP spiega il proprio impegno per questa soluzione costosa e anti-ecologica con il suo desiderio di minimizzare la dipendenza nei confronti di Israele. Però non si fa nessun problema a comprare più acqua da Israele per la Cisgiordania, 50 milioni di metri cubi all’anno, il doppio di quanto prevedessero gli accordi di Oslo.

Dunque le ragioni della sua opposizione risiedono altrove. Teme che il governo di Hamas non si preoccuperebbe di pagare le bollette dell’acqua, come è successo con quelle dell’elettricità. Israele dedurrebbe dunque quanto dovuto direttamente dai diritti doganali che riscuote per l’ANP e trasferisce a Ramallah [sede dell’ANP. Ndtr]. Ancora una volta il popolo palestinese è intrappolato nella faida tra Fatah e Hamas.

Ma il problema è iniziato molto prima che a Gaza si instaurasse il regime di Hamas. Gli accordi di Oslo hanno definito Gaza come autosufficiente per quanto riguarda la produzione ed il consumo di acqua. Si tratta di una delle più chiare prove possibili che fin da allora Israele aveva intenzione di separare Gaza dalla Cisgiordania, a differenza di quanto c’era scritto [negli accordi]. Lo stesso accordo ha imposto una distribuzione vergognosamente discriminatoria dell’acqua dalle sorgenti montane della Cisgiordania, con l’80% destinato agli israeliani (all’interno di Israele e nelle colonie) e il 20% per i palestinesi. L’attuale proporzione da allora è solo peggiorata, perché i pozzi palestinesi sono vecchi e le nuove perforazioni permesse da Israele si sono dimostrate meno fruttuose del previsto.

Il grandioso progetto di desalinizzazione dell’acqua marina a Gaza nasconde il peccato originale ecologico e politico: trattare Gaza come un’isola separata dal resto del Paese.

Molti residenti di Gaza e consumatori di acqua che non hanno sono originari di città e villaggi che sono oggi in territorio israeliano. A livello simbolico, ottenere il diritto all’acqua prodotta dagli israeliani è quasi come un riconoscimento del diritto al ritorno. A livello politico, può e ci deve essere un notevole incremento nella quantità di acqua fornita da Israele in compensazione dell’acqua che Israele ha rubato e continua a rubare ai palestinesi. Sarebbe un riconoscimento del nostro dovere di condividere equamente le sorgenti d’acqua tra arabi ed ebrei, un principio che non siamo pronti ad accettare.

(traduzione di Amedeo Rossi)