Nir Hasson
29 maggio 2025 – Haaretz
Le stragi causate dai raid aerei, la fame, le deportazioni da una zona all’altra: la crudeltà di Israele sta raggiungendo nuovi livelli. La dottoressa Mimi Syed, una dottoressa americana che si è offerta volontaria per aiutare gli abitanti di Gaza, ora racconta alcune loro storie.
Siamo entrati in una fase terrificante. Secondo organizzazioni umanitarie la carestia nella Striscia di Gaza è ormai acuta. Da quando Israele ha iniziato a bloccare l’ingresso di cibo non meno di 10.000 bambini sono sprofondati in stati di malnutrizione che necessitano trattamento.
Il Primo Ministro ha annunciato la ripresa degli aiuti, ma ciò che sta arrivando è “il minimo del minimo”, come ha affermato il Gabinetto di Sicurezza. In effetti, il responsabile degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite ha definito gli aiuti “una goccia nell’oceano rispetto a ciò di cui c’è urgente bisogno”.
Oltre alla fame l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani sottolinea i “ripetuti attacchi alle tende degli sfollati” e “la distruzione metodica di interi quartieri”.
La distruzione avviene di pari passo con le espulsioni di massa all’interno della Striscia. Nelle ultime settimane quasi un terzo degli abitanti di Gaza ha dovuto lasciare il luogo in cui viveva. Ora l’intera popolazione si sta accalcando in appena un quinto dell’enclave.
Anche il sistema sanitario è stato distrutto. L’esercito israeliano sta prendendo di mira con maggiore intensità ospedali e ambulatori (28 attacchi in una settimana), dove, a suo dire, sarebbe presente Hamas. Non consente l’ingresso di molti farmaci e attrezzature di base e ostacola l’evacuazione di moltitudini di feriti e malati per cure mediche all’estero.

Un Palestinese porta il corpo di un bambino ucciso il 26 maggio 2025. Foto: AFP/OMAR AL-QATTAA
In questo modo l’esercito, oltre ad uccidere, sta provocando ulteriori cause di decesso. Senza cure, persino infezioni e tumori facilmente rimovibili hanno un esito mortale.
E gli attacchi continuano quotidianamente. Questa settimana in un attacco ad una scuola sono state uccise trentuno persone, tra cui 18 bambini e sei donne.
“Ho avuto tanta paura”, ha detto Hanin al-Wadiya, una bambina fuggita dalle fiamme con ustioni sul viso. “Ero sotto le coperte e improvvisamente il fuoco mi ha investita. Mi sono alzata per cercare mamma e papà, ma non li ho trovati.” Tutta la sua famiglia è morta.

Il pianto di un bambino ferito ricoverato all’ospedale Al Awda il 29 maggio 2025.Foto: AFP/EYAD BABA
“Penso che tutto questo sia reso possibile dalla paura, dal razzismo e dalla disumanizzazione”, afferma la dottoressa Mimi Syed, medico d’urgenza americana che l’anno scorso ha svolto due turni di volontariato a Gaza. “Se non li consideri esseri umani, puoi fargli qualsiasi cosa”.
Sembra che questa settimana l’asticella del “fargli qualsiasi cosa” sia stata sollevata di una tacca. Sempre più civili, compresi molti bambini, vengono uccisi attraverso la carestia e gli sfollamenti forzati.
Lunedì le Forze di Difesa Israeliane [IDF] e il servizio di sicurezza Shin Bet hanno rilasciato una dichiarazione sull’attacco alla scuola Fahmi Al-Jarjawi a Gaza City. La terminologia è familiare: gli obiettivi erano ” terroristi chiave” in un “centro di comando e controllo”. Anche questa volta “sono state adottate numerose misure per ridurre il rischio di danni ai civili”.
L’attacco è iniziato verso l’una di notte. Hanin al-Wadiya, una bambina di 4 anni che alloggiava nella scuola sfollata con la sua famiglia, si è svegliata mentre le fiamme la circondavano e sua sorella urlava “Mamma, mamma!” – come si vede nelle immagini del disastro.
“Ho sentito Mimi [la sorella di Hanin] chiamare la mamma, ma non riuscivo a trovarla. Ho anche gridato ‘mamma, mamma’. Sono uscita e ho iniziato a piangere”, ha raccontato Hanin in ospedale, con gli occhi gonfi e chiusi, metà del viso ed entrambe le mani coperte di ustioni. Sua madre, suo padre e sua sorella sono morti nell’incendio insieme ad altre 30 persone.
Ricoverato in un altro ospedale nel sud di Gaza c’è Adam al-Najjar, l’unico sopravvissuto di 10 fratelli la cui casa è stata attaccata due giorni prima dell’attacco alla scuola. Sua madre è uscita illesa, suo padre è rimasto gravemente ferito.
Anche in questo caso le IDF hanno affermato di aver fatto tutto il possibile; anzi, hanno rimproverato la famiglia per non essersi allontanata nonostante l’ordine di evacuazione emesso dalla divisione in lingua araba dell’Unità Portavoce delle IDF.
Ma l’ultimo ordine di evacuazione non includeva l’area in cui si trovava la casa della famiglia. Solo nell’ordine precedente, di un mese e mezzo prima, era stata ingiunta l’evacuazione da quell’area.
Gli ordini non hanno una data di scadenza e non c’è alcun segnale di cessato allarme, quindi i cittadini di Gaza devono indovinare se il pericolo è passato, e molti corrono il rischio. Non hanno scelta: i cittadini di Gaza hanno sempre meno spazio in cui muoversi; oltre l’80% dell’enclave è sotto il diretto controllo israeliano o sotto ordine di evacuazione.
Questi ordini – mappe con aree contrassegnate in rosso e pubblicate su X e Telegram – sono la manifestazione geografica della politica israeliana a Gaza. Lunedì il portavoce delle IDF ha emesso un altro ordine di evacuazione, uno dei più importanti della guerra: il 43% di Gaza è stato contrassegnato in rosso, con la dicitura “Zona di combattimento pericolosa”.
Nei due mesi e mezzo trascorsi da quando Israele ha violato il cessate il fuoco di due mesi oltre 630.000 persone sono state sradicate.
I ripetuti spostamenti stanno spingendo gli abitanti di Gaza sull’orlo della sopravvivenza. È molto difficile trovare cibo e beni di prima necessità come acqua pulita, un sistema fognario funzionante, un alloggio e assistenza medica. Due milioni di persone vengono spinte in un’area sempre più ristretta, dove vivono tra le macerie o in tende che si distruggono rapidamente.
I bambini non vanno a scuola da quasi due anni. L’affollamento, il caldo, la mancanza di acqua corrente o di un sistema fognario funzionante, insieme alla sistematica distruzione del sistema sanitario, stanno aumentando notevolmente il rischio di malattie ed epidemie.
La logica brutale di questa politica è nascosta in uno degli obiettivi ufficiali della guerra: “concentrare e spostare la popolazione”.
A Gaza è soprattutto la fame a fare da padrona. La scorsa settimana, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato la ripresa degli aiuti alla Striscia, ma sono stati ripresi con parsimonia. Ogni giorno solo poche decine di camion entrano dal valico di Kerem Shalom. Moltitudini di bambini continuano a stare in piedi per ore con una pentola vuota nella speranza di ricevere del cibo.
Martedì una grande folla ha preso d’assalto il centro di distribuzione alimentare creato da Israele. Migliaia di persone correvano tra le dune spingendosi contro le recinzioni e imploravano del cibo dagli uomini armati della sicurezza americana. (Per gli americani, si tratta di 1.100 dollari per una giornata di lavoro.)
“Non credo che gli israeliani lo vogliano. Non vogliono che tutto questo accada in loro nome”, dice Syed. “Penso che la cosa più importante che ho imparato a Gaza è che è impossibile ignorare la verità. Dopo aver visto cosa sta succedendo lì diventa molto semplice distinguere tra il bene e il male.”
Come puntualizza: “Oltre il 50% della popolazione di Gaza è composta da bambini. Il governo degli Stati Uniti sta finanziando una guerra illegale contro i bambini. Quasi tutte le agenzie umanitarie mondiali hanno definito ciò che sta accadendo a Gaza un crimine di guerra, eppure gli Stati Uniti continuano a fornire armi per commettere questi crimini.
“Mentre sono comodamente seduta a casa mia a scrivere la storia di Sami [un bambino di Gaza], mi viene in mente che questi crimini deliberati e atroci vengono ancora commessi contro bambini come Sami. Quando finirà? Quando il governo degli Stati Uniti si mostrerà per quello che una volta pensavo fosse? Non siamo stati noi a impedire alla Germania di sterminare così tante vite innocenti? Non dovremmo essere i “buoni”?
Syed ha svolto i suoi due periodi di volontariato a Gaza lo scorso agosto e a dicembre. In entrambi i casi ha constatato la morte di decine di bambini. Ha visto otto bambini morti per ipotermia in inverno, una bambina di 9 anni deceduta perché era impossibile ottenere farmaci standard per l’epilessia e una bambina di 9 mesi morta per aver bevuto acqua contaminata.
Ora, rientrata negli Stati Uniti, Syed afferma di essere ancora in contatto con i medici di Gaza: “Mi dicono che non c’è cibo. Per la prima volta li sento dire: ‘Moriremo tutti e il mondo non sta facendo nulla per salvarci'”.
Da quando è tornata negli Stati Uniti, Syed ha raccontato a chiunque volesse ascoltarla cosa sta succedendo a Gaza. Non risparmia ai suoi ascoltatori descrizioni grafiche accompagnate da foto. Di seguito sono riportate alcune delle tristi storie a cui ha assistito; la dottoressa Syed ha già raccontato parte della sua testimonianza da Gaza in altre testate giornalistiche in lingua inglese.

Sami di 8 anni portato in braccio dal fratello più grande all’ospedale Al Aqsa il 14 dicembre 2024.Foto: Moiz Salhi / AFP
Sami, 8 anni, è stato portato in braccio dal fratello maggiore. I due sono arrivati all’ospedale Al-Aqsa, nel centro di Gaza, su un carretto trainato da un asino pochi minuti dopo che i frammenti di missile avevano lacerato il volto di Sami.
Giornalisti e curiosi si sono accalcati intorno a Sami e gli hanno scattato una foto; indossava una maglia a strisce rosse e bianche. La parte ferita del viso era nascosta alle telecamere, appoggiata sulla spalla del fratello.
“Sami aveva una ferita da esplosione al viso che gli aveva lacerato la maggior parte delle strutture vitali”, racconta Syed. “La ferita comprendeva bocca, naso e palpebre. Il resto del corpo era in buone condizioni, a parte un paio di ferite più lievi. Quando è arrivato in sala rianimazione è stato adagiato sul lettino senza altri adulti in vista. Era coperto da una giacca insanguinata.
Mentre giaceva davanti a me gorgogliando e soffocando con il suo stesso sangue gli ho aspirato la bocca e il naso per rimuovere eventuali ostruzioni nelle vie respiratorie. In seguito ad un leggero movimento del suo viso mi sono resa conto che aveva la mandibola completamente disarticolata e strappata via, appesa solo a un piccolo lembo di pelle. C’erano ustioni e schegge su tutto il viso e il collo.
Mentre mi occupavo di lui si è verificato un altro incidente con un elevato numero di feriti, con pazienti ancora più gravi. Sono stata costretta a spostare il piccolo Sami a terra per far spazio agli altri feriti.
Mentre lo stendevo sul pavimento sono arrivati la madre e lo zio, che urlavano per la disperazione. Sua madre si è gettata immediatamente a terra e ha iniziato a pregare Dio che suo figlio fosse risparmiato. Mi ha guardata dritto negli occhi e ha afferrata con forza la mia mano, implorandomi di fare tutto il possibile per salvarlo.
Ho annuito… ma sapevo nel mio intimo che non potevo fare una promessa del genere. Date le sue condizioni, sapevo che sarebbe stato un miracolo se si fosse salvato. Sono riuscita a stabilizzarlo temporaneamente, così da poterlo trasportare alla TAC funzionante più vicina.
Ma la TAC non si trovava all’ospedale di Al-Aqsa, bensì all’ospedale Yaffa, a pochi minuti di auto. In base alle norme di sicurezza del Ministero della Salute palestinese ai volontari stranieri era vietato l’accesso all’ospedale Yaffa, che all’epoca si trovava vicino alle postazioni militari israeliane.
Ho scelto di salire comunque sull’ambulanza per mantenere pervie le vie respiratorie e assicurarmi che arrivasse alla TAC in sicurezza”, racconta Syed. “Nella stessa ambulanza veniva trasportata per un esame diagnostico un’altra donna, tra la vita e la morte.
Respirava attraverso un tubo ed era accompagnata dal figlio adolescente che le teneva la mano. L’ambulanza ha attraversato macerie e folle di persone per strada”
Sami è stato sottoposto a una TAC ed è stato riportato ad Al-Aqsa per un intervento di ricostruzione facciale. “Il giorno dopo, stavo camminando per l’ospedale quando qualcuno mi ha afferrato il braccio.
Era la madre di Sami”, racconta Syed.
“Era seduta su un letto d’ospedale, nell’angolo di un corridoio anch’esso pieno di pazienti a terra o su brandine. Ho guardato il letto e c’era il piccolo Sami con i punti di sutura. Riusciva a malapena ad aprire la bocca per bere da una cannuccia e continuava a piangere di dolore ogni volta che si muoveva”.
Lo scorso ottobre sul New York Times è stata pubblicata una foto di una radiografia: Mira, una bambina di 4 anni, aveva un proiettile conficcato in testa. È diventata un simbolo della guerra, mentre l’immagine è diventata una delle più controverse dei quasi 20 mesi di combattimenti.
Il New York Times ha pubblicato nella sezione opinioni altre tre foto di radiografie; facevano parte di un articolo firmato da 65 medici, infermieri e paramedici che si erano offerti volontari a Gaza. Questi operatori sanitari affermavano che Israele stava deliberatamente sparando ai bambini, e il Times ha ricevuto una serie di lettere che sostenevano che la notizia fosse falsa.
Il 15 ottobre la direttrice editoriale del Times, Kathleen Kingsbury, ha pubblicato una risposta: il giornale si era assicurato che tutti i medici e gli infermieri avessero lavorato a Gaza. Le immagini della TAC erano state inviate a esperti indipendenti in ferite da arma da fuoco, radiologia e traumatologia pediatrica, che ne hanno corroborato l’autenticità. Inoltre, i metadati digitali delle immagini sono stati confrontati con le foto dei bambini.
Secondo Kingsbury il Times possedeva foto che corroboravano le immagini della TAC, ma erano “troppo raccapriccianti per essere pubblicate”. Ha concluso: “Sosteniamo questo report e la ricerca su cui si basa. Qualsiasi insinuazione che le immagini siano inventate è semplicemente falsa”.
I genitori di Mira hanno raccontato ad Al Jazeera di essersi svegliati presto quel giorno di agosto nella loro tenda nella zona umanitaria di Muwasi, perché le loro figlie erano emozionate per il compleanno della sorella maggiore di Mira. Improvvisamente è scoppiata una sparatoria.
Mira è entrata nella tenda con il viso coperto di sangue e una ferita aperta sopra la fronte. Suo padre l’ha portata all’ospedale Nasser di Khan Yunis, nel sud della Striscia.
In base al crudele triage che si è reso necessario a Gaza, dopo le stragi di massa le persone con ferite cerebrali non vengono curate. La regola è che nel caso di penetrazione intracranica di proiettili o di esposizione di materia cerebrale non ha senso lottare per la vita del paziente a causa della carenza di neurochirurghi, attrezzature e materiali sanitari.
Syed avrebbe dovuto lasciare che Mira morisse. “Ho iniziato a visitarla”, racconta. “Uno dei medici mi ha detto: ‘Non perdere tempo’. Ma sentivo che si muoveva ancora; reagiva al dolore – questo mi ha fatto pensare che dovevo provarci.”

La foto della radiografia del proiettile conficcato nella testa di Mira ,una bambina di 4 anni pubblicata dal New York Times. Ospedale Nasser 25 Agosto 2024.
Così ha inserito dei tubi per aiutare Mira a respirare ed è riuscita a stabilizzarla. Mira è stata sottoposta a un intervento chirurgico al cervello, il proiettile è stato rimosso e la sua vita è stata salvata.
Syed è rimasta in contatto con i genitori della ragazza e di recente ha ricevuto un video emozionante: Mira camminava e parlava. “L’ultima volta che l’ho vista apriva a malapena gli occhi”, racconta Syed.
Ma come gli altri pazienti sopravvissuti, Mira è sempre in pericolo. Ha bisogno di cure costanti per ridurre la pressione alla testa, soffre di debolezza al lato sinistro e deve assumere farmaci.
A gennaio la tenda della famiglia è stata colpita nel corso di un attacco e la madre di Mira ha perso un braccio. “Hanno fame, non hanno farmaci e non hanno un posto sicuro”, dice Syed, che sta cercando di aiutare la famiglia a lasciare Gaza per necessità di cure mediche.
Syed ha portato la foto della radiografia a Washington e si è confrontata con dei senatori per cercare di convincerli a smettere di sostenere Israele. “Ho incontrato scetticismo sull’autenticità della foto”, dice.
“Ma l’ho toccata, le mie mani l’hanno curata, l’ho salvata. Mettere in dubbio tutto questo mi ha davvero spezzato il cuore. Mi è stato chiesto perché Israele prendesse di mira i bambini, ma questo è normale se si vuole distruggere il futuro.”
Shaban è morto a causa della guerra. Non è stato colpito da una scheggia o da un proiettile, ma dalla distruzione delle reti fognarie e idriche di Gaza. Era nato nel dicembre del 2022. A due anni, nel bel mezzo della guerra, si è ammalato e la sua pelle è diventata giallastra. “Aveva la stessa età del mio figlio più piccolo, eppure sembrava tanto piccolo per la sua età. Il bianco degli occhi emanava un bagliore arancione fosforescente, la sua pelle aveva il colore intenso del Tang”, dice Syed, riferendosi alla bevanda in polvere. “Giaceva immobile, respirava con affanno, aveva l’addome gonfio. Ogni movimento gli causava dolore”.
Shaban soffriva di insufficienza epatica causata dall’epatite A. “Negli Stati Uniti e in ogni Paese avanzato, è molto difficile contrarre l’epatite, e anche se succede è abbastanza semplice da curare. A Gaza, non avevamo modo di aiutarlo”, racconta Syed.
La madre di Shaban ha mostrato a Syed le foto del bambino scattate un anno prima. “Quando la madre ha condiviso una foto di suo figlio di appena un anno fa, raggiante di salute e felicità, mi sono sentita sommergere da un’ondata di tristezza”, dice Syed. Il bambino aveva bisogno di un trapianto di fegato, ma anche in questo caso la famiglia non aveva ricevuto il permesso da Israele per lasciare Gaza per l’intervento.
Syed ha fotografato la madre mentre lasciava l’ospedale con il figlio. “Non riesco a liberarmi dall’immagine della madre che portava in braccio il suo bambino, il suo corpicino aggrappato a lei, entrambi avvolti nella disperazione”, dice.
“La sofferenza di questo bambino mi tormenta in modi che le parole non possono esprimere. Il medico che è in me sa che quel bambino è morto quel giorno, poco dopo essere stato dimesso dall’ospedale, ma la madre che è in me non vuole accettare la realtà.”
Fatma, 29 anni, è arrivata in ospedale con tre bambini piccoli, tutti sotto i 7 anni. Non era stata ferita dalle bombe, ma sanguinava copiosamente da un seno.
“I suoi figli sedevano in silenzio al suo fianco, con i volti segnati dalla paura”, racconta Syed. “Ho cercato nella borsa con i guanti insanguinati, e ho tirato fuori qualche palloncino per distrarli. I loro volti si sono illuminati mentre dimenticavano per un attimo l’orrore che li circondava.”
Si è scoperto che la madre soffriva di un tumore al seno in stadio molto avanzato. “Mi sono trovata di fronte a una scena che, nonostante la mia esperienza in zone svantaggiate, non avevo mai visto: una massa mammaria così grande e deturpante che era chiaramente la causa della sua abbondante emorragia”, dice Syed.
La zia della paziente, che accompagnava lei e i suoi figli, ha raccontato che i medici avevano scoperto il nodulo, all’epoca delle dimensioni di un’oliva, sette mesi prima, all’inizio della guerra.
Le era stato prescritto un intervento chirurgico e la chemioterapia, ma a causa della guerra e della distruzione del sistema sanitario non ha potuto curarsi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva approvato la sua evacuazione per motivi sanitari, ma la sua richiesta è stata respinta da Israele, oppure i permessi hanno impiegato troppo tempo per arrivare.
“Era evidente che il suo cancro era curabile”, dice Syed. “In qualsiasi altro Paese, o persino a Gaza prima del 7 ottobre, avrebbe ricevuto cure e sarebbe guarita. Ma ora non potevamo fare nulla. Non avevamo le scorte di sangue per stabilizzarla ed era preferibile riservare le risorse chirurgiche necessarie per la riduzione del tumore a pazienti con maggiori speranze di guarigione.
“Sarebbe morta presto con i suoi figli accanto. Questa madre non avrebbe mai visto i suoi figli crescere, non avrebbe mai visto sua figlia laurearsi o suo figlio diventare un uomo. L’ingiustizia di tutto ciò bruciava dentro di me, un fuoco che non si sarebbe mai spento.”
Alla fine Fatma è stata trasferita in un altro ospedale. Quando Syed ha chiamato per avere notizie, le è stato detto che Fatma era morta quel giorno.
Nelle conversazioni con i medici che hanno curato civili a Gaza si parla sempre dei primi minuti dopo una strage di massa. Le descrizioni sono le stesse.
Pochi minuti dopo l’attacco missilistico o la bomba i pronto soccorso e le unità di terapia intensiva diventano una scena da film dell’orrore. Le urla di dolore si fondono con le grida di angoscia delle persone che scoprono la morte di una persona cara.
I letti, le barelle e poi il pavimento si riempiono di feriti, mentre tra di loro si formano pozze di sangue. E i medici devono ripetutamente prendere decisioni crudeli: chi scartare perché con nessuna prospettiva di sopravvivenza o perché richiede l’utilizzo di risorse in grado di salvare altre persone con più possibilità di successo.
Syed è tornata a Gaza il 4 dicembre dopo il precedente periodo di volontariato in agosto. “Il viaggio è stato straziante, con strade dissestate e bambini che camminavano da soli, tale da risvegliare un familiare senso di angoscia nello stomaco”, racconta. Dopo un’ora di macchina siamo arrivati all’ospedale Nasser. La disposizione degli alloggi era rimasta invariata: angusti letti a castello e l’onnipresente odore di fogna proveniente dal bagno.
Mentre iniziavo a disfare i bagagli una forte esplosione ha scosso l’edificio. Ho subito capito che questo attacco aereo era più vicino del solito. Le urla echeggiavano mentre la gente correva verso l’ospedale. Conoscendo fin troppo bene la procedura, mi sono precipitata verso il reparto di traumatologia.
“Mentre indossavo con difficoltà i miei guanti già strappati, ho visto che due bambini piccoli venivano portati di corsa. Le loro famiglie li hanno sdraiati sul pavimento dato che non c’erano letti disponibili. Prima ancora di toccarli ho capito che non erano più in vita. Mi ha travolto un senso di totale impotenza.
“Poi è arrivata una bambina di 8 anni di nome Alaa, la stessa età di mia figlia. Suo padre mi ha spiegato che stava giocando davanti alla loro tenda quando in seguito ad un attacco aereo delle schegge sono penetrate nel suo cranio. Era gravemente ferita, il suo corpo si muoveva a malapena e la materia cerebrale era esposta. Secondo il protocollo era da considerare irrecuperabile.
Ma quando ho visto la disperazione negli occhi di suo padre non sono riuscita a stare a guardare. Ho preso dalla mia borsa il laringoscopio che avevo dovuto far passare di nascosto dall’esercito israeliano e ho assicurato la pervietà delle vie respiratorie, poi l’abbiamo portata di corsa in sala operatoria.
Pochi giorni dopo sono stata trasferita in un altro ospedale e ho perso traccia dei progressi di Alaa. Suo padre aveva promesso aggiornamenti, ma temevo il peggio. Una sera, verso la fine del mio soggiorno di un mese, ho ricevuto un messaggio con due video.
“Il primo video mostrava Alaa seduta mentre leggeva un libro con una benda attorno alla testa. Nel secondo la si vedeva camminare, leggermente instabile ma autonoma. Si è fermata al centro dell’inquadratura e ha detto: ‘Shokran doktora, anam khair’ – Grazie, dottoressa, sto bene.”
Ma Alaa ha bisogno di un intervento chirurgico per la protezione del cervello, un’operazione che non può essere eseguita a Gaza. Come per altri casi, è in attesa di essere evacuata dalla Striscia.
“Negli Stati Uniti abbiamo la possibilità di intervenire in diversi modi e salvare vite umane”, dice Syed. “A Gaza anche se salvi una vita non è detto che ci sia veramente riuscito.
“Alaa potrebbe morire domani. Il suo cervello è esposto. Se domani inciampa tra le macerie o contrae un’infezione, morirà. Tutto è così incerto. La sensazione che si prova è di non fare molto, di non portare alcun cambiamento.”
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)
Vedi video della relazione del dr. Feroze Sidhwa al Consiglio di Sicurezza dell’ONU