Gli USA valutano se definire “antisemite” importanti organizzazioni per i diritti umani

Nahal Toosi

21 ottobre 2020 – Politico

Secondo l’assistente di un parlamentare del Congresso in contatto con il Dipartimento di Stato, il segretario di Stato Mike Pompeo sta spingendo per questa dichiarazione.

Due persone a conoscenza della questione affermano che l’amministrazione Trump sta prendendo in considerazione di dichiarare che una serie di importanti Ong internazionali – tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e Oxfam – sono antisemite e che i governi non dovrebbero appoggiarle.

La dichiarazione proposta potrebbe essere resa pubblica dal Ddipartimento di Stato [il ministero degli Esteri USA, ndtr.] entro questa settimana. Se ciò venisse dichiarato, probabilmente provocherebbe una rivolta da parte delle associazioni della società civile e potrebbe scatenare un contenzioso legale. Chi critica questa possibile iniziativa teme che ciò possa portare anche altri governi a reprimere ulteriormente queste associazioni. Nel contempo le organizzazioni citate negano qualunque accusa di antisemitismo.

Secondo l’assistente di un parlamentare del Congresso in contatto con il Dipartimento di Stato, il segretario di Stato Mike Pompeo sta facendo pressioni per questa dichiarazione. Pompeo pensa ad una futura candidatura presidenziale ed ha preso una serie di misure per guadagnarsi i favori degli elettori filo-israeliani ed evangelici, una componente fondamentale della base elettorale di Trump.

Ma la proposta sta provocando l’opposizione di funzionari del Dipartimento di Stato. Tra i contrari ci sono avvocati del dipartimento che avvertono che ciò ha basi incerte riguardo a problemi di libertà di parola, potrebbe portare a denunce e potrebbe persino non avere legittime basi legali dal punto di vista amministrativo.

Mercoledì nessun portavoce del Dipartimento di Stato ha al momento risposto a una richiesta di commento. Un ex- funzionario del Dipartimento di Stato con contatti interni ha confermato il fondamento della dichiarazione ed ha affermato che potrebbe essere resa pubblica a breve.

Si prevede che la dichiarazione assumerà la forma di un rapporto dell’ufficio di Elan Carr, l’inviato speciale USA per il monitoraggio e la lotta all’antisemitismo. Il rapporto citerebbe organizzazioni che includono Oxfam, Human Rights Watch e Amnesty International. Dichiarerebbe che la politica USA è di non appoggiare, anche finanziariamente, tali organizzazioni e invita altri governi a smettere di sostenerle.

Il rapporto citerebbe l’appoggio, presunto o percepito, di tali organizzazioni al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, che ha preso di mira Israele per la sua costruzione di colonie sulla terra che i palestinesi rivendicano per un futuro Stato.

Si prevede anche che punti su rapporti e comunicati stampa rilasciati da tali gruppi sull’impatto delle colonie israeliane, così come sul loro coinvolgimento o appoggio percepito a un elenco delle Nazioni Unite su imprese che operano nei territori contesi.

L’impatto concreto di tali organizzazioni non è immediatamente chiaro e potrebbe dipendere da quale branca o divisione di un gruppo venga presao in considerazione. Per esempio Human Rights Watch e Amnesty International USA non ricevono fondi dal governo USA. Oxfam America neppure, ma a seconda delle circostanze le sue sezioni all’estero potrebbero ricevere finanziamenti dagli americani.

Inoltre non tutte le associazioni citate appoggiano ufficialmente il movimento BDS o prendono posizione su di esso. Ma tutte hanno criticato in una misura o nell’altra le politiche di colonizzazione israeliana e il modo in cui vengono trattati i palestinesi, e organizzazioni filo-israeliane hanno sostenuto che le attività di queste associazioni rappresentano comunque un appoggio per il movimento e quindi sono antisemite.

Contattati da POLITICO, i rappresentanti ufficiali delle tre organizzazioni non erano a conoscenza della possibile dichiarazione del Dipartimento di Stato.

Bob Goodfellow, direttore esecutivo ad interim di Amnesty International USA, ha affermato che qualunque accusa di antisemitismo sarebbe “priva di fondamento”.

AI USA è profondamente impegnata a lottare contro l’antisemitismo e contro ogni forma di odio in tutto il mondo, e continuerà a proteggere le persone ovunque vengano negate giustizia, libertà, verità e dignità,” afferma in un comunicato. “Contestiamo risolutamente ogni accusa di antisemitismo e ci prepariamo di affrontare ogni attacco del Dipartimento di Stato.”

Anche Noah Gottschalk, responsabile della politica internazionale di Oxfam America, nega come “false” e “offensive” le accuse di antisemitismo.

Oxfam non appoggia il BDS né chiede il boicottaggio di Israele o di qualunque altro Paese,” ha affermato Gottschalk. “Oxfam e i nostri partner israeliani e palestinesi da decenni operano sul terreno per promuovere i diritti umani e contribuire alla sopravvivenza di comunità israeliane e palestinesi. Noi sosteniamo la nostra lunga storia di lavoro per proteggere le vite, i diritti umani e il futuro di ogni israeliano e palestinese.”

Il funzionario di Human Rights Watch Eric Goldstein ha notato che l’amministrazione Trump spesso si basa sul lavoro di gruppi come il suo per legittimare le sue stesse prese di posizione politiche.

  • Lottiamo contro ogni forma di discriminazione, compreso l’antisemitismo,” dice Goldstein in un comunicato. “Criticare politiche governative non equivale ad attaccare un gruppo di persone specifico. Per esempio, le nostre critiche al governo USA non ci rendono antiamericani.”

La bozza di dichiarazione del Dipartimento di Stato attinge molte delle sue informazioni da Ong Monitor, un sito filo-israeliano che controlla le attività di organizzazioni per i diritti umani e altre e spesso le accusa di essere anti-israeliane.

Lo scorso anno Israele ha espulso Omar Shakir, un ricercatore di Human Rights Watch, accusato di appoggiare il movimento BDS. Human Rights Watch e Shakir, cittadino USA, hanno negato questa accusa.

Mercoledì, alla domanda in merito alla possibile dichiarazione USA, nessun portavoce dell’ambasciata israeliana ha commentato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’ipocrisia europea: parole vuote per la Palestina, armi letali per Israele

Ramzy Baroud

21 ottobre 2020 – The Palestine Chronicle

In teoria, quando si tratta dell’occupazione israeliana della Palestina, l’Europa e gli Stati Uniti sono su posizioni completamente opposte. Mentre il governo USA ha totalmente avallato il tragico status quo creato da 53 anni di occupazione militare israeliana, l’UE continua a sostenere una soluzione negoziata che si pretende rispettosa del diritto internazionale.

In pratica tuttavia, nonostante l’apparente differenza tra Washington e Bruxelles, il risultato è sostanzialmente lo stesso. Gli USA e l’Europa sono i maggiori partner commerciali, fornitori di armi e sostenitori politici di Israele.

Una delle ragioni per cui l’illusione di un’Europa imparziale è sopravvissuta così a lungo sta in parte nella stessa leadership palestinese. Abbandonata politicamente e finanziariamente da Washington, l’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas si è rivolta all’Unione Europea come sua unica ancora di salvezza.

L’Europa crede nella soluzione a due Stati”, ha detto il 12 ottobre il primo ministro dell’ANP Mohammed Shtayyeh in un dibattito in video con il Comitato per gli Affari Esteri del Parlamento Europeo. Al contrario degli USA, il continuo sostegno dell’Europa alla defunta soluzione dei due Stati la legittima a colmare l’enorme divario creato dall’assenza di Washington.

Shtayyeh ha chiesto ai leader dell’UE di “riconoscere lo Stato di Palestina per permettere a noi, e a voi, di rompere lo status quo.”

Comunque ci sono già 139 Paesi che riconoscono lo Stato di Palestina. Mentre questo riconoscimento indica chiaramente che il mondo resta saldamente a favore della Palestina, riconoscerla come Stato cambia poco sul terreno. Ciò che è necessario sono sforzi condivisi per rendere Israele responsabile per la sua violenta occupazione, come anche una reale azione di sostegno alla lotta dei palestinesi.

Non solo l’Europa non ha fatto questo, ma di fatto sta facendo l’esatto opposto: finanzia Israele, arma il suo esercito e mette a tacere chi lo critica.

A sentire le parole di Shtayyeh, si ha l’impressione che l’alto dirigente palestinese si stia rivolgendo ad una conferenza di Paesi arabi, musulmani o socialisti. “Invito il vostro parlamento e i suoi onorevoli membri a far sì che l’Europa non aspetti che il presidente americano tiri fuori delle idee…Noi abbiamo bisogno di una parte terza che possa realmente porre rimedio allo squilibrio nel rapporto tra un popolo sotto occupazione ed un Paese occupante, che è Israele”, ha detto.

Ma l’Europa ha i titoli per essere quella “parte terza”? No. Per decenni i governi europei sono stati a pieno titolo dalla parte di USA-Israele. Solo perché recentemente l’amministrazione di Donald Trump ha compiuto una decisa svolta a favore di Israele ciò non dovrebbe automaticamente condurre all’errore di trasformare la storica tendenza filoisraeliana dell’Europa in solidarietà per la Palestina.

Lo scorso giugno oltre 1.000 parlamentari europei, che rappresentano diversi partiti, hanno rilasciato una dichiarazione che esprime “gravi preoccupazioni” riguardo al cosiddetto Accordo del Secolo di Trump e si oppone all’annessione israeliana di quasi un terzo della Cisgiordania. Tuttavia il filoisraeliano partito democratico USA, compresi alcuni tradizionali fedeli sostenitori di Israele, è stato parimenti critico verso il piano israeliano perché, nella loro mente, l’annessione significa che una soluzione a due Stati diventerebbe impossibile.

Mentre i democratici USA hanno chiarito che se Biden venisse eletto la sua amministrazione non modificherebbe nessuna delle azioni di Trump, anche i governi europei hanno chiarito che non prenderanno nessuna iniziativa per dissuadere – e tanto meno punire – Israele per le sue ripetute violazioni del diritto internazionale.

Tutto ciò che i palestinesi hanno ottenuto dall’Europa sono vuote promesse, come anche molto denaro che è stato largamente intascato dai fedeli di Abbas in nome della “costruzione dello Stato” ed altre fantasie. Di fatto molte delle infrastrutture dell’immaginario Stato palestinese che sono state sovvenzionate dall’Europa negli anni recenti sono state fatte saltare in aria, demolite o ne è stata interrotta la costruzione da parte dell’esercito israeliano nel corso delle sue tante guerre e incursioni. Eppure l’Europa non ha punito Israele, né l’ANP ha smesso di chiedere altri soldi per continuare a finanziare uno Stato inesistente.

Non solo l’UE non ha reso Israele responsabile per la sua perdurante occupazione e violazione dei diritti umani, ma sta anche finanziando di fatto Israele. Secondo ‘Defence News’ [rivista e sito web USA che si occupa di armamenti, ntr.] un quarto dei contratti delle esportazioni belliche di Israele (che ammontano a 7,2 miliardi di dollari nel solo 2019) è destinato a Paesi europei.

Inoltre l’Europa è il principale partner commerciale di Israele, importando un terzo delle esportazioni totali di Israele ed esportando circa il 40% delle importazioni complessive israeliane. Queste cifre includono anche merci prodotte nelle colonie ebraiche illegali.

Per di più, l’UE fa in modo di includere Israele nello stile di vita europeo attraverso eventi culturali e musicali, gare sportive e in mille altri modi. Benché l’Europa possieda potenti mezzi che potrebbero essere usati per ottenere concessioni politiche e imporre il rispetto del diritto internazionale, sceglie semplicemente di fare ben poco.

Si confronti ciò con il recente ultimatum che l’UE ha dato alla leadership palestinese, condizionando il proprio aiuto ai rapporti finanziari dell’ANP con Israele. Lo scorso maggio Abbas ha compiuto il passo straordinario di considerare nulli e inefficaci tutti gli accordi con Israele e gli USA. Di fatto questo significa che l’ANP non si riterrebbe più responsabile dell’opprimente status quo creato dagli Accordi di Oslo, ripetutamente violato da Tel Aviv e Washington. Allentare i legami con Israele significa anche che l’ANP rifiuterebbe di accettare circa 150 milioni di dollari di entrate fiscali che Israele raccoglie per conto dell’ANP. Pur molto in ritardo, questa mossa palestinese era necessaria.

Invece di appoggiare l’iniziativa di Abbas, l’UE l’ha criticata, rifiutando di fornire ulteriori aiuti ai palestinesi finché Abbas non riprenderà i rapporti con Israele ed accetterà il denaro delle tasse. Secondo il portale di Axios News, la Germania, la Francia, il Regno Unito e persino la Norvegia stanno conducendo l’attacco.

La Germania in particolare è stata instancabile nel suo sostegno ad Israele. Per mesi si è spesa per conto di Israele per risparmiare a Tel Aviv un’inchiesta per crimini di guerra da parte della Corte Penale Internazionale (CPI). Ha messo sotto processo attivisti che sostenevano il boicottaggio di Israele. Recentemente ha confermato l’invio di motocannoniere con missili ed altri armamenti per assicurare la superiorità della marina israeliana in una eventuale guerra contro nemici arabi. La Germania non è sola. Israele e la maggior parte dei Paesi europei stanno serrando i ranghi relativamente a reciproca cooperazione militare e a rapporti commerciali senza precedenti, compresi accordi sul gas naturale.

Continuare a fare riferimento all’irraggiungibile soluzione a due Stati e contemporaneamente armare, finanziare e incrementare i rapporti economici con Israele è l’esatta definizione di ipocrisia. La verità è che l’Europa dovrebbe essere considerata responsabile al pari degli USA dell’incoraggiamento e del sostegno verso l’occupazione israeliana della Palestina.

Eppure, mentre Washington è apertamente filoisraeliana, l’UE ha giocato una partita più intelligente: vendere ai palestinesi vuote parole e a Israele armi letali.

Ramzy Baroud è giornalista e editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo lavoro è “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons” [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle prigioni israeliane] (Clarity Press). Il dott. Baroud è ricercatore non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA) e anche presso il Centro Afro-Mediorientale (AMEC).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Documenti esclusivi rivelano decenni di stretta cooperazione fra il Fondo Nazionale Ebraico (FNE) ed Elad

Uri Blau 

19 ottobre 2020 – +972

Una relazione interna rivela che, fin dagli anni ’80, il Fondo Nazionale Ebraico ha permesso ai coloni di Elad di intentare azioni legali in loro nome. La collaborazione ha portato allo sfratto di palestinesi mentre si è rafforzata la presenza degli ebrei a Gerusalemme Est

Da tempo la famiglia Sumarin è un simbolo della lotta fra palestinesi e coloni israeliani a Silwan, quartiere di Gerusalemme Est. Sin dagli inizi degli anni ’90, la casa dei Sumarin, accanto alla moschea Al-Aqsa e che condivide un muro divisorio con la città di David, sito archeologico e attrazione turistica ebraica, è stata oggetto di una battaglia legale condotta dal Fondo Nazionale Ebraico (FNE) per ottenerne lo sfratto.

Recentemente però è emersa una vicenda molto più profonda. Ad agosto è stato rivelato che Elad, un’organizzazione che promuove colonie ebraiche a Gerusalemme Est, da dietro le quinte aveva avviato una causa presso tribunali israeliani. Con il crescere della pressione dell’opinione pubblica internazionale sul FNE per lo sfratto previsto, il rapporto fra Elad e JNF sembra essersi guastato. La scorsa settimana si è persino affermato che qualcuno all’interno dell’organizzazione stava cercando di porre termine alla cooperazione con Elad sul caso Sumarin, una decisione che probabilmente verrà presa lunedì.

Eppure questo caso è solo la punta dell’iceberg. Nel 1998, una relazione interna del FNE rivelata per la prima volta qui su +972 Magazine, insieme ad altri documenti storici e interviste condotte nelle ultime settimane, descrive una cooperazione deliberata, stretta e fruttuosa fra le due organizzazioni fin dai lontani anni ’80. Tale collaborazione, che include lettere personali scritte a mano e contratti, mostra che il FNE aveva concesso volentieri a Elad il diritto di perseguire il caso per conto proprio, ottenendo l’occupazione di varie proprietà a Silwan. “Niente è stato fatto in segreto,” ci ha detto l’altra settimana l’autore del rapporto.

È tutto organizzato’

ll Fondo Nazionale Ebraico è stato fondato nel 1901 per comprare e sviluppare terre per le colonie ebraiche in Palestina sotto controllo ottomano e britannico, e poi con lo Stato di Israele. Negli anni l’organizzazione è stata pesantemente criticata dai palestinesi e dai sostenitori dei loro diritti per le sue attività in Israele e oltre la Linea Verde [cioè nei territori palestinesi occupati, ndtr.]. Il FNE ha una forte presenza filantropica negli Stati Uniti, dove una sua sezione non-profit ha raccolto 72 milioni di dollari solo nel 2018.

La Fondazione Ir David, comunemente nota come Elad, è un’organizzazione non-profit fondata nel 1986 da David Be’eri, ex ufficiale dell’esercito delle unità di élite Sayeret Matkal e Duvdevan, insignito nel 2017 del Premio Israele, la più alta onorificenza civile del Paese. L’organizzazione persegue il consolidamento delle colonie ebraiche nella “Gerusalemme antica” e lo sviluppo di grandi siti turistici ebraici, inclusa la Città di David, nella parte orientale della città dove vivono circa 350.000 palestinesi. Elad ha lavorato per inserire centinaia di coloni nei quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, in particolare nell’area di Wadi Hilweh a Silwan, dove ha aiutato a insediarsi oltre 350 persone.

La capacità di Elad di promuovere le proprie attività a Silwan è sostenuta da ingenti risorse finanziarie. Stando ai suoi bilanci, Elad ha ricevuto donazioni per oltre 200 milioni di dollari fra il 2005 e il 2018, l’ultimo anno in cui i dati sono stati resi pubblici. Come rivelato il mese scorso in un documentario del canale in arabo della BBC, circa la metà della somma proviene da sole quattro compagnie con sede nelle isole Vergini britanniche, controllate da uno degli uomini più ricchi di Israele, Roman Abramovich, l’oligarca russo proprietario squadra di calcio del Chelsea. L’altra metà è arrivata da “Friends of Ir David” [Amici della Città di David], fondo newyorkese esentasse.

Dopo aver occupato Gerusalemme Est nel 1967, Israele ha cominciato un processo di occupazione delle proprietà che erano appartenute a ebrei prima del 1948. Ha anche usato la Legge sulla Proprietà degli Assenti (varata nel 1950 per espropriare terre e case appartenenti a palestinesi che erano fuggiti o erano stati espulsi durante la guerra del 1948) per confiscare proprietà palestinesi a Gerusalemme Est. Il FNE ha partecipato a questi procedimenti tramite Hemnutah, la sua filiale che ha acquistato varie proprietà dal Custode delle Proprietà degli Assenti a Silwan.

In seguito a queste transazioni, Hemnutah ha iniziato a lavorare per sfrattare le famiglie palestinesi da queste case. Per farlo l’organizzazione ha cooperato con Elad, come provano i documenti da noi pubblicati in ebraico.

Il 16 agosto 1998, Yehiel Leket, allora copresidente del FNE, riceve un documento di 12 pagine e alcuni allegati intitolato: “Un’analisi della Città di David (Silwan), Gerusalemme.” L’autore del rapporto, Avraham Haleli, direttore del dipartimento dei beni immobili del FNE, ha lasciato l’organizzazione circa 20 anni fa per fare l’avvocato in Israele. Haleli, che ha competenze ed esperienze uniche sulle proprietà in tali aree, dice che ancora oggi il FNE si avvale dei suoi servizi e lo consulta regolarmente.

Il rapporto di Haleli del 1998 descrive in dettaglio la stretta relazione fra il FNE ed Elad iniziata a metà degli anni ’80. “Era chiaro a tutte le parti coinvolte che l’organizzazione [Elad] avrebbe richiesto di usare le proprietà del FNE nella zona e di vivere là come residenti protetti,” scrive Haleli.

In proposito c’è un documento al dipartimento dei beni immobili del FNE,” ci ha detto durante una conversazione con lui la scorsa settimana. “Tutto è organizzato. Niente è stato fatto in segreto. Era stato tutto fatto in modo normale basandosi su decisioni.”

Secondo Hagit Ofran, che lavora al progetto “Settlement Watch” (Osservatorio sulle colonie) dell’ONG israeliana Peace Now (Pace ora), negli ultimi decenni la cooperazione fra le due organizzazioni ha permesso a Elad di insediare a Silwan ebrei israeliani in almeno 10 proprietà e anche in alcuni immobili nel quartiere di Abu Tur a Gerusalemme Est. Ofran, che ha analizzato il rapporto di Haleli, spiega che la maggior parte della terra di cui Elad ha preso possesso è stata usata per turismo e il resto come residenza da circa otto famiglie di coloni.

Uno degli allegati al rapporto, una lettera scritta a mano spedita da Be’eri, fondatore di Elad e suo direttore esecutivo nel 1985, rivela la profondità della relazione ai suoi inizi. “Buongiorno signor Haleli,” scrive Be’eri un anno prima della fondazione ufficiale di Elad. “Siamo venuti a sapere di proprietà ebraiche del FNE su appezzamenti nel villaggio di Shilo [Silwan].” Parecchi appezzamenti “sono stati presi da arabi”, spiega. Da una prospettiva sionista, etica e religiosa, scrive Be’eri, “noi consideriamo di grande importanza l’occupazione di quelle case, specialmente in questa zona.” Be’eri si offriva poi “come volontario” per ottenere queste proprietà.

L’anno dopo, nel 1986, Be’eri manda un’altra lettera a Shimon Ben Shemesh, amministratore di FNE, parlando del suo impegno per collaborare all’identificazione di proprietà da acquisire a Silwan. Quella lettera si riferiva a uno specifico lotto di terra i cui abitanti erano recentemente morti. “Noi crediamo che questo sia il momento di agire urgentemente, usando mezzi legali … per garantire che la terra venga data ai suoi proprietari legali (il FNE].” Be’eri concludeva la lettera dicendosi disposto a sostenere le spese legali, anche se non si sa se l’abbia poi fatto.

Il rapporto descrive il primo caso di cooperazione fra Elad e il FNE nel 1986: un’istanza presentata al tribunale da Hemnutah per sfrattare una famiglia palestinese in collaborazione con l’avvocato di Elad. Il rapporto nota che il padrone di casa era d’accordo con lo sfratto e che l’istanza era stata presentata solo perché così “i suoi vicini avrebbero pensato che era stato costretto ad andarsene.” Haleli aggiunge che Elad aveva anche compensato la famiglia palestinese. Inoltre descrive come in alcuni casi gli avvocati di Elad avessero fornito al FNE assistenza legale volontaria e gratuita.

Il rapporto si riferisce anche a un memorandum di intesa fra le due organizzazioni firmato prima delle cause legali. Nel memorandum, Hemnutah acconsentiva che Elad affittasse le proprietà dopo lo sfratto degli occupanti palestinesi. “Ovviamente non c’era conflitto di interessi fra le parti,” affermava Haleli nel rapporto. Aggiungeva che l’affitto pagato al FNE sarebbe stato dedotto dalla somma che Elad aveva già speso per le procedure di sfratto.

Haleli era chiaramente consapevole della delicatezza di questa cooperazione, e nel rapporto del 1998 scrive “abbiamo avvertito Elad di non provocare” gli abitanti della zona per “evitare le critiche di Hemnutah e del FNE.” Per questa ragione, continuava Haleli, il FNE “sosteneva l’idea che arabi provenienti dal Libano meridionale abitassero temporaneamente nelle proprietà oggetto dello sfratto … ma per varie ragioni abbiamo dovuto rinunciare a questo piano.”

Haleli aggiunge poi di essere al corrente delle opinioni divergenti sulle attività del JNF nella zona. Chi ci sostiene, scriveva, pensa che non facciamo abbastanza, mentre gli altri presentano il FNE come un gruppo che “strappa agli arabi le loro proprietà.” Secondo Haleli nessuno aveva ragione. “Il FNE opera come un’organizzazione ebraica sionista nazionale che mira a garantire la terra al popolo di Israele per l’eternità. È stato fatto secondo le leggi di Israele senza pregiudicare i diritti degli abitanti, arabi o ebrei … Sono convinto che il modo in cui abbiamo agito nella Città David meriti un plauso,” concludeva.

Il rapporto del 1998 non è l’ultimo a essere scritto dal FNE sulle sue relazioni con Elad. Da conversazioni avvenute la scorsa settimana con due membri del FNE, sappiamo che una sua versione aggiornata è stata redatta nel 2010. Il FNE non ha risposto alle domande poste da +972 a questo proposito né alla richiesta di ricevere una copia aggiornata del rapporto.

Nessun portavoce del FNE o di Elad ha risposto alle nostre richieste di un commento.

Differenze sul caso Sumarin

La casa Sumarin era stata dichiarata proprietà di assenti nel 1987 e venduta a Hemnutah dall’Autorità israeliana per lo Sviluppo nel 1990. In seguito Hemnutah presentò un’azione legale per sfrattare la famiglia Sumarin, che per trent’anni aveva lottato per restare nella propria casa. Alla fine di giugno di quest’anno il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha deliberato che i Sumarin non erano riusciti a dimostrare i propri diritti sulla proprietà e che dovevano lasciarla libera per metà agosto. La famiglia ha presentato appello e potrà rimanere nella casa fino alla decisione dell’Alta Corte il prossimo aprile.

La decisione del tribunale distrettuale di Gerusalemme ha suscitato massicce proteste e pressioni da parte dei sostenitori e donatori progressisti del FNE per annullare lo sfratto. Non tutti i dirigenti del fondo sono entusiasti di vedere la famiglia Sumarin cacciata di casa.

In agosto, come parte dell’ultima azione legale dei Sumarins, Hemnutah ha presentato alla Corte Suprema una lettera scritta nel 1991 da David Be’eri, fondatore di Elad, alla consociata del FNE. Nella lettera, svelata per la prima volta nel documentario della BBC su Elad (e al quale l’autore di questo articolo ha contribuito), Be’eri elencava vari lotti di terra a Silwan, inclusa la casa dei Sumarin, e scriveva che “ci occuperemo dello sfratto degli attuali proprietari dai loro immobili. Pagheremo tutte le spese legali per lo sfratto e gli indennizzi ai proprietari, con un accordo giudiziario o per ordine del tribunale.” Un bollo di Hemnutah conferma l’approvazione da parte dell’organizzazione dei contenuti della lettera.

Matityahu Sperber, presidente del consiglio di amministrazione di Hemnutah nominato dal progressista Movimento Riformista, in una conversazione telefonica con +972 ha detto che era stata sua la decisione di rivelare alla Corte Suprema l’accordo del 1991 per tentare di bloccare gli sfratti. La presentazione della lettera ha segnato un cambiamento nell’approccio del FNE al caso, che era iniziato poche settimane prima. Il 20 luglio, Sperber scrisse una lettera al presidente del FNE Danny Atar, in cui chiedeva che egli si impegnasse per bloccare i procedimenti contro la famiglia Sumarin perché era preoccupato che lo sfratto potesse danneggiare l’immagine del FNE.

Nella lettera, Sperber scrive che un parere legale preparato dall’avvocato del FNE non forniva risposte soddisfacenti a proposito di una “serie di aspetti sui rapporti fra Hemnutah ed Elad riguardo alla proprietà [Sumarin].” Questo include “l’impegno di Elad con Hemnutah riguardante la proprietà, […] l’autorità delle parti che si sono prese l’impegno a nome di Hemnutah,” e la “possibile invalidità di un giudizio indipendente di Hemnutah a proposito della proprietà in questione, a causa della partecipazione di Elad nel procedimento legale e nel suo finanziamento, insieme ad altre questioni.” Tutto ciò, scrive Sperber, crea un “conflitto di interessi strutturale.”

Il 12 ottobre il CDA di Hemnutah avrebbe dovuto votare una bozza presentata da Sperber per bloccare tutte le attività della causa contro i Sumarin e sostituire gli avvocati di Elad che se ne occupavano per conto di Hemnutah. 

+972 si è rivolto per un commento allo studio legale Ze’ev Scharf & Co. che rappresenta Hemnutah nel caso Sumarin. Lo studio deve ancora fornire una risposta.  

Comunque il giorno prima della data in cui si sarebbe dovuta tenere la riunione questa venne spostata dopo l’appello alla Corte Distrettuale di Gerusalemme presentato da Nachi Eyal, uno dei membri del CDA di Hemnutah, contro le bozze della risoluzione. Nella sua dichiarazione al tribunale, Eyal, il fondatore e direttore del Foro Legale per Israele e candidato del partito Nuova Destra [estrema destra dei coloni, ndtr.] nelle precedenti elezioni della Knesset, sostenne che la delibera era illegale ed era stata presentata di fretta e furia; Eyal obiettò che la riunione era stata fissata con poco preavviso e che Sperber l’aveva iniziata perché probabilmente avrebbe rischiato di perdere la presidenza nelle elezioni del CDA dell’Organizzazione Mondiale Sionista fissato per il martedì.

Il tribunale ha accolto la petizione di Eyal. Durante una conversazione con +972 Atar, il presidente del FNE, ha detto che il consiglio si sarebbe riunito lunedì 19 ottobre [2020] per votare sul blocco dello sfratto e la sostituzione degli avvocati.

Nel frattempo, la scorsa settimana, Elad’s Be’eri ha mandato una lettera esprimendo la sua ira a Sperber e Atar, criticando veementemente Hemnutah e il suo presidente. Noi abbiamo investito “una fortuna” nel caso Sumarin, scrive Be’eri e i diritti di occuparsi del caso erano stati affidati a Elad, non possono essere revocati. Be’eri aggiunge che ogni decisione sul caso presa da Hemnutah e dal FNE dovrà coinvolgere Elad. Ha anche dichiarato che Sperber è rapporto con gruppi di estrema sinistra, sostenitori del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.].

È uno scandalo. Non sarebbe dovuto succedere’

La fede politica di Sperber e Atar, che rappresentano l’ala progressista del FNE (Atar è un ex parlamentare laburista della Knesset che si è guadagnato il sostegno di Benny Gantz, leader del partito Blu e Bianco), verrà messa alla prova martedì 20 ottobre, quando il Congresso Mondiale Sionista si riunirà da remoto per scegliere i suoi nuovi rappresentanti.

Il CMS seleziona i leader di varie associazioni sioniste, inclusa l’Organizzazione Mondiale Sionista, l’Agenzia Ebraica per Israele e il FNE. Se Sperber e Atar resteranno al potere verrà deciso dal tipo di coalizione formata dalle varie parti del CMS su cui di solito ci si mette d’accordo in precedenza. Secondo il Jerusalem Post, Atar deve affrontare una grossa sfida alla sua posizione da parte della lista del Likud Mondiale, che si era diviso ma poi si è riconciliato alla vigilia delle elezioni grazie ad accordi di coalizione.

Negoziati per le alte cariche continueranno fino a poco prima dell’inizio del congresso. Ma la scorsa settimana, secondo il Jerusalem Post, sembrava che la presidenza del FNE sarebbe stata divista fra Avraham Duvdevani, della Lista religiosa Zionist World Mizrachi [movimento dei sionisti religiosi, ndtr.] e Haim Katz, parlamentare Likud, lascando Atar fuori dalla direzione dell’organizzazione. Secondo il giornale finanziario The Maker, probabilmente il nuovo direttore di Hemnutah sarà di Yisrael Beiteinu, il partito di [estrema] destra di Avigdor Liberman.

In una conversazione telefonica con Sperber, gli ho chiesto perché la sua decisione di bloccare lo sfratto dei Sumarin verrà presentata al consiglio solo alla vigilia delle elezioni. Sperber ha detto di aver saputo dell’accordo fra Elad e JNF solo agli inizi di quest’anno, e ha cercato di occuparsi del caso da allora. Ha aggiunto che ha il sostegno di Atar, ma ha ammesso che non è chiaro se Atar o Sperber manterranno i loro incarichi dopo le elezioni.

Sperber ha parlato della campgna dei Sumarin e ha espresso la speranza che influirà sulla decisione della Corte Suprema israeliana di esaminare l’appello della famiglia. Durante la nostra conversazione è apparso chiaro che Sperber conta sulla corte per risolvere il dilemma di Hemnutah che si è assunto il caso della famiglia.

Ma Sperber ha anche chiarito che il FNE non rinuncerà ai diritti sulla proprietà dei Sumarin. “Non abbiamo diritto a (rinunciarci),” ha detto, spiegando che la Corte Distrettuale di Gerusalemme ritiene che la casa sia di proprietà di Hemnutah. “Noi non possiamo farlo per il bene di un ebreo riformato, un ebreo ortodosso o un palestinese di Gerusalemme Est,” ha detto Sperber. L’unica possibilità per Hemnutah, ha continuato, è votare di congelare l’esecuzione del verdetto della corte. E se in un futuro il CDA decidesse di revocare il blocco? “È un rischio,” ha ammesso.

Hagit Ofran di Peace Now [Pace Adesso] dice che “il FNE deve immediatamente tagliare tutti i suoi rapporti con l’organizzazione di coloni Elad e permettere alla famiglia Sumarin di vivere in pace a casa propria.”

Atar, nel frattempo ha detto che lui ha scoperto dell’accordo fra il FNE e Elad solo due settimane fa. “Stiamo facendo di bloccarlo in qualche modo e di annullare l’accordo. C’è molta resistanza,” ha aggiunto. “Se non riusciamo a farlo ora, lo faremo subito dopo il congresso (dell’OSM)”. È molto complicato, ha detto, dato che Elad ha pagato 30 anni di battaglie legali contro i Sumarin.

Per me non ha senso che l’abbiate saputo solo due settimane fa.

È stato veramente così. L’abbiamo saputo per caso … durante una discussione di Sperber con gli avvocati … discutevano e noi ci siamo resi conto che non aveva senso che usassero il nostro nome ma non facessero quello che gli dicevamo.”

Eppure non era la prima udienza della corte sulla famiglia Sumarin avvenuta durante il suo ruolo come direttore del FNE.

Giusto, ma non eravamo entrati nei dettagli. Non sono cose di cui mi occupo giornalmente e non erano in programma fino a quando Matityahu [Sperber] non ha sollevato la questione.” 

Le relazioni fra le organizzazioni non sono cosa nuova. Haleli ne ha scritto nei suoi rapporti.

Vero. [Ma] Io l’ho saputo solo ora, nelle ultime due settimane.” 

Cosa pensa di quello che ha saputo nelle ultime settimane sui rapporti fra Elad e FNE?

Uno scandalo. Non sarebbe dovuto succedere … Stiamo studiando questi (rapporti) ora e il nostro ufficio legale li sta analizzando. Abbiamo imparato la lezione. Non è l’unica cosa su cui stiamo lavorando per migliorarla.”

Perché ha aspettato fino all’ultimo momento per occuparsene? È possibile che lei lo stia facendo ora in vista delle imminenti elezioni? 

Proprio l’opposto. È come un osso che mi si è incastrato in gola. Non ci guadagno nulla a occuparmene ora. Evitare questa ulteriore tensione in questo periodo sarebbe stato molto meglio per me.” 

Supponiamo che lei riesca a liberarsi degli avvocati di Elad. Cosa farà dopo?

Il nostro ufficio legale si occuperà dello status di ‘residenza protetta’(di Elad). Non è un caso semplice.”

La corte ha già deciso che la casa dei Sumarin appartiene al FNE. Se dipendesse da lei, ritirerebbe la petizione presentata alla corte per sfrattare la famiglia Sumarin?

La proprietà resterbbe (nostra), ma non sono sicuro che valga la pena sfrattarli. Dovremmo trovare un’altra soluzione… in base a quanto consentito dalla legge.”

Pubblicherete un rapporto sui rapporti con Elad? 

Naturalmente, come sempre. Quando finiremo la causa pubblicheremo tutto.”

Uri Blau è un giornalista investigativo nato in Israele con oltre 20 anni di esperienza nell’ indagare corruzione politica, sicurezza nazionale e problemi di trasparenza. Al momento vive a Washington.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gal Gadot [attrice israeliana], Stephen Miller [nuovo consigliere politico della Casa Bianca] e Richard Spencer [giornalista e attivista di destra statunitense]: lo strano caso di ciò che li accomuna

Benny Blend

17 ottobre 2020 palestinechronicle

“Qualunque cosa si pensi del suo essere stata scelta come Cleopatra”, ha twittato Steven Salaita [studioso, autore e docente americano], “non si deve mai dimenticare che Gal Gadot ha servito con orgoglio (e continua a sostenere) un esercito coloniale noto per mutilare e uccidere civili”. Quasi subito, dice Salaita, Richard Spencer ha risposto al twitt postando le sue critiche, aprendo così il forum di Salaita ai suoi 80.000 seguaci nazisti.

“Per molte ore”, lamenta Salaita, “non sono riuscito a capire se gli orrendi commenti razzisti che si riversavano sulla mia pagina fossero di sostenitori dello Stato ebraico o di nazionalisti bianchi antisemiti”.

In queste parole Salaita condensa il paradosso che vede i sionisti indistinguibili dai nazionalisti bianchi antisemiti. Alla fine, i seguaci di Spencer non amano gli ebrei più di qualunque altro “diverso”, quindi questa sovrapposizione è sensata tanto quanto Gal Gadot, forte sostenitrice delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) nei panni di Cleopatra regina egiziana (sebbene di origine greca).

In effetti, subito dopo l’approvazione della legge di Israele sullo “Stato-Nazione” nel luglio 2018, Spencer aveva twittato:

“Apprezzo molto la legge sullo Stato Nazione di Israele. Gli ebrei sono ancora una volta all’avanguardia, nel loro ripensare una politica e una sovranità rivolte al futuro, mostrando un percorso di progresso agli europei “. E continuava: “La critica dei media liberali alla legge dello Stato-Nazione come “antidemocratica” ne rivela la falsità. Quando dicono “democratico” intendono in realtà non il governo del popolo, ma un ordine sociale liberale e multiculturale”.

Proprio quell’ambiente molto “liberale e multiculturale” aveva fornito un porto sicuro a rifugiati come la mia famiglia, ma ora qualcuno lo condanna perché cozza con la nozione di Stato ebraico di Israele. Quando fu istituito nel 1948 Israele si rifiutò di riconoscere la nazionalità, facendo così una inedita distinzione tra “cittadinanza” e “nazionalità”. Sebbene tutti gli israeliani siano poi cittadini, lo Stato è definito “nazione ebraica” che appartiene solo agli ebrei israeliani e a quelli della diaspora.

Nel luglio 2018, la coalizione di governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha convertito in legge il decreto dello “Stato-Nazione del popolo ebraico”. A lungo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto ai palestinesi di riconoscere l’esistenza del suo paese come “Stato-Nazione del popolo ebraico”. In effetti, si tramuta in legge ciò che era già presente nelle istituzioni e nella vita quotidiana israeliane. Dichiarando il diritto all’autodeterminazione nazionale “unicamente per il popolo ebraico”, si toglie quel diritto ai cittadini palestinesi e va in pezzi ogni parvenza di democrazia o uguaglianza fra il popolo.

In sostanza, la legge sulla nazionalità non ha cambiato molto. Però ha trasformato il razzismo de facto in razzismo de jure, esattamente quello che i nazionalisti bianchi vorrebbero accadesse qui.

“Al centro del problema”, osserva Salaita, c’è Stephen Miller, scrittore di discorsi e consigliere politico di Donald Trump. Attingendo alle ricerche finanziate da eugenetisti e a scrittori nazionalisti bianchi, Miller ha contribuito anche agli attacchi di Trump contro i messicani e musulmani che cercano di entrare nel paese.

In Hate Monger: Stephen Miller, Donald Trump, and the White Nationalist Agenda (2020, Mercanti di odio: SM, DT e il programma dei nazionalisti bianchi), Jean Guerrero traccia l’ascesa di Miller sino a diventare l’architetto delle politiche di Trump su confini e immigrazione.

E’ interessante notare che, nel 2004, ancora studente alla Duke University, Miller aveva guidato un’iniziativa dell’associazione Students for Academic Freedom fondata da David Horowitz per protestare contro l’assegnazione da parte dell’Università di un palco al Palestine Solidarity Movement, movimento palestinese centrato sulla resistenza all’occupazione israeliana con l’azione diretta e non violenta (Guerrero, p. 90).

Nel marzo del 2007 Miller organizzò un dibattito sull’immigrazione con Richard Spencer, allora studente universitario. Come scrive Guerrero, Spencer si definiva “sionista” per i bianchi, appropriandosi in tal modo di una espressione di sostegno allo Stato ebraico nonostante nella sua sfera di influenza “alternativamente bianca” (p. 101) [alt-white o anche alt-right è un movimento di subcultura politica non strutturato promosso da Spencer che sostiene ideologie di destra e suprematismo bianco, ndtr.] sia diffuso l’antisemitismo.

Contribuendo alla confusione, Guerrero definisce “sionista” un termine “ebraico”, aggravando così (almeno per me) la confusione del far coincidere il sionismo con l’ebraismo piuttosto che riconoscerlo come movimento politico separato.

In questo modo, Miller ha tempestivamente indicato ciò che Salaita chiama “fulcro”, consentendo sia ai nazionalisti bianchi che ai sionisti di lanciare insulti alle critiche di Salaita sull’ultimo ruolo da protagonista di Gadot.

A sua volta Spencer ha definito il suo obbiettivo una “sorta di sionismo bianco”, che incoraggerebbe i bianchi a costruire una patria simile a Israele, un Altneuland – un vecchio, nuovo paese, ha spiegato, usando un termine attribuito a Theodor Herzl, fondatore del sionismo moderno.

“L’ho detto ai sionisti”, conclude Salaita, “quando ai nazisti piace quello che fai, devi davvero ripensarci”.

– Benay Blend ha conseguito il dottorato in Studi Americani presso l’Università del New Mexico. I suoi lavori accademici includono ” ‘Né la patria né l’esilio sono parole’: ‘Conoscenza locale’ nelle opere di scrittori palestinesi e nativi americani” in un volume a cura di Douglas Vakoch e Sam Mickey (2017). Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’inviato dell’ONU non ha niente da dire mentre Israele respinge i suoi colleghi

Maureen Clare Murphy

16 ottobre 2020 – The Electronic Intifada

Giovedì Middle East Eye ha riferito che Israele, con una nuova aggressione contro ogni forma di controllo, ha sospeso la concessione dei visti ai dipendenti dell’ OHCHR, Agenzia per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Israele a febbraio ha annunciato l’interruzione dei rapporti con l’ONU dopo che questa ha creato una lista di aziende coinvolte nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est.

La pubblicazione della lista è stata rinviata per anni, creando il sospetto che l’ONU stesse cedendo alla pressione politica affinché cancellasse l’informazione.

Ora che la notizia è stata resa pubblica, Israele sembra voler dar seguito alla sua promessa di punire l’agenzia ONU.

Secondo Middle East Eye “a partire da giugno nessuna delle richieste di nuovi visti ha ricevuto risposta, e i passaporti inviati per il rinnovo [del visto] sono tornati indietro vuoti”.

Nove dei 12 dipendenti stranieri dell’organizzazione hanno ora lasciato Israele e i territori palestinesi per timore di trovarsi là privi di documenti”, ha aggiunto Middle East Eye. “Tra loro vi è il direttore [della missione ONU] nel Paese, James Heenan.”

Divieto di ingresso

Da lungo tempo Israele, che controlla i movimenti verso e dalla Cisgiordania e Gaza, ha espulso e negato l’ingresso a cittadini stranieri legati ad associazioni per i diritti umani o di solidarietà con i palestinesi.

Da molto tempo ha negato l’ingresso a Michael Lynk, incaricato dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU di monitorare la situazione dei diritti umani in Cisgiordania e a Gaza.

Tuttavia altri responsabili dell’ONU, come Nickolay Mladenov, inviato di pace per il Medio Oriente del Segretario Generale dell’ONU, continuano a godere dei favori di Israele e dei suoi sostenitori – anche quando attaccano le agenzie per i diritti umani dell’ONU e le loro indagini.

Il contrastante trattamento di questi due rappresentanti dell’ONU è in linea con i loro sforzi – o con l’assenza di essi – di rendere Israele responsabile per le sue violazioni dei diritti dei palestinesi. Rispecchia anche le loro divergenti vedute riguardo ai diritti dei palestinesi come qualcosa da proteggere o come moneta di scambio da negoziare in colloqui con Israele.

Lynk ha approvato la pubblicazione della lista delle attività economiche con le colonie, dicendo che “la continua violazione da parte di una potenza occupante non rimarrà senza risposta.”

Ha aggiunto che, in assenza delle colonie, sostenute dall’attività economica di imprese israeliane e straniere, “l’occupazione israeliana che dura da cinquant’anni perderebbe la sua ragion d’essere coloniale.”

Mladenov invia regolari rapporti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sull’applicazione (o violazione) della Risoluzione 2334, che chiede a Israele di cessare la costruzione di colonie in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est.

Nonostante la rilevanza di ciò per il suo incarico, Mladenov è rimasto vistosamente in silenzio riguardo alla lista delle attività economiche con le colonie – sia prima che dopo la sua pubblicazione. Né ha aperto bocca contro il divieto d’ingresso israeliano nei confronti dei suoi colleghi dell’ONU, come Lynk.

Le richieste di intervento di Mladenov si limitano ad invitare a non specificati passi “verso una soluzione negoziata di due Stati.”

In evidente contrasto, Lynk ha accolto calorosamente la conclusione della procuratrice capo della Corte Penale Internazionale secondo cui vi è un ragionevole fondamento per indagare sui crimini di guerra (israeliani) in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Non così Mladenov.

Lynk ha evidenziato l’uso da parte di Israele di punizioni collettive per sottomettere i palestinesi che vivono sotto il suo governo militare. Ha invitato gli Stati terzi a prendere contromisure, incluse sanzioni “necessarie ad assicurare il rispetto da parte di Israele del suo obbligo di porre fine all’occupazione, conformemente al diritto internazionale.”

Invece Mladenov chiede che venga ripristinato “il dialogo tra tutti i decisori, senza precondizioni.”

Tuttavia il dialogo senza attribuzione di responsabilità non farà che consentire ad Israele di guadagnare altro tempo per colonizzare rapidamente la terra palestinese e reprimere violentemente la resistenza palestinese – come è stato negli ultimi 25 anni, segnati dal paradigma del processo di pace di Oslo.

Spazi ridotti

Nel frattempo le associazioni palestinesi impegnate nella responsabilizzazione [di Israele] stanno lavorando in un ambito sempre più ristretto, in quanto Israele cerca di limitare qualunque accesso alla giustizia.

I deputati del partito Likud del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno proposto di ampliare la definizione statale di agenti stranieri.

Come sottolinea il Consiglio palestinese per i Diritti Umani, la legge israeliana “impone una condanna a 15 anni di carcere nei confronti di chiunque abbia coscientemente contattato un agente straniero senza fornire spiegazioni di ciò”.

Attualmente la legge definisce agente straniero chi agisce “per conto di uno Stato straniero o di un’organizzazione terroristica” in modo che “potrebbe mettere a rischio la sicurezza di Israele”.

Un emendamento proposto a questa legge sostituirebbe “Stato straniero” con “entità politica straniera”. I parlamentari promotori dell’emendamento citano l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Unione Europea – che non sono Stati – come la ragione della necessità di modificare il linguaggio.

Il Consiglio palestinese per i Diritti Umani ha affermato che l’emendamento prende di mira “organizzazioni che cooperano con, o ricevono appoggio da, UE e ANP. Esso cerca di limitare ulteriormente il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani presentando la nostra attività come contatti con enti stranieri.”

Israele ha già approvato una legge che impone severe sanzioni a coloro che difendono il boicottaggio di Israele o delle sue colonie nella Cisgiordania occupata e sulle alture del Golan.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno affermato che il boicottaggio è “il principale strumento di protesta civile…per porre fine all’occupazione.”

La legge israeliana impone anche alle associazioni per i diritti umani con sede nel Paese che ricevono più della metà dei loro finanziamenti da Stati esteri di dichiararlo nelle loro pubblicazioni.

Maureen Clare Murphy è vicedirettrice di The Electronic Intifada e vive a Chicago.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Netanyahu scagionato per lo scandalo dei sottomarini

Ben Caspit

16 ottobre 2020 – Al Monitor

Adesso che il procuratore generale ha deciso di non indagare su di lui né per lo scandalo dei sottomarini né per quello della compravendita di azioni, il primo ministro Benjamin Netanyahu può tirare un sospiro di sollievo.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu può star tranquillo, dato che il procuratore generale Avichai Mandelblit ha annunciato il 15 ottobre che non ordinerà un’indagine penale per la compravendita di azioni, spiegando ancora una volta il motivo per cui non lo incriminerà per il caso dei sottomarini.

Il primo episodio si riferisce all’acquisto di azioni che gli ha fruttato un considerevole guadagno in seguito alla loro vendita al miliardario americano Nathan Milikowsky, suo cugino. Il secondo riguarda l’acquisto di sottomarini e navi da guerra dall’acciaieria tedesca Thyssenkrupp.  

I due scandali continuano a perseguitare Netanyahu e hanno fatto emergere un movimento di protesta contro la sua condotta e la sua permanenza al potere. Una petizione presentata alla Corte Suprema include dichiarazioni da parte di ex ufficiali di alto grado della difesa. Il 15 ottobre, Benny Gantz, principale alleato di Netanyahu nel governo e ministro della Difesa, ha annunciato che stava prendendo in considerazione la nomina di una commissione di inchiesta all’interno del ministero della Difesa per andare a fondo sullo scandalo dei sottomarini acquistati per oltre un miliardo dall’azienda tedesca. Gantz, lui stesso un ex capo di stato maggiore dell’esercito, che nelle ultime tre campagne elettorali ha usato la vicenda per provocare Netanyahu adesso sta cercando di approfittarne per forzare il primo ministro a presentare e approvare il bilancio dello Stato e a nominare un procuratore generale e il capo della polizia.

La storia potrebbe rivelarsi la più rischiosa per Netanyahu, per cui le conseguenze politiche potrebbero essere enormi. I tre atti di accusa che il procuratore generale Mandelblit ha depositato contro Netanyahu nel gennaio 2020, incluso uno per corruzione, non hanno intaccato il sostegno fra i suoi seguaci, indifferenti alle accuse di regali illeciti e tentativi di controllare i media israeliani. Però quella dei sottomarini è tutta un’altra storia. Netanyahu sapeva che se lui o i suoi collaboratori fossero stati accusati di ricavare un guadagno personale da un appalto militare persino i suoi più ardenti sostenitori l’avrebbero abbandonato.

Per sua fortuna, Mandelblit l’ha scagionato, dicendo fin dall’inizio delle indagini che non era un sospettato, persino quando la polizia raccomandava di incriminare alcuni dei suoi collaboratori e parenti.

Netanyahu deve aver tirato un sospiro di sollievo, allora e di nuovo questa settimana, ma non può comunque rilassarsi. Molti israeliani si sentono traditi e l’ondata di proteste è culminata questa settimana quando dal nord e sud di Israele è arrivato a Gerusalemme un lungo corteo di auto e camion recanti modelli di sottomarini di cartone. Il Movimento per la Qualità al Governo in Israele ha presentato una petizione all’Alta Corte chiedendo che Netanyahu sia interrogato sul caso che coinvolge anche l’accordo israeliano con la Germania per vendere sottomarini all’Egitto. Sono state anche presentate decine di dichiarazioni scioccanti da parte di alti ufficiali dell’establishment della difesa. Generali della riserva, ufficiali di alto grado e tutti quelli che sono coinvolti nell’acquisto hanno descritto nei dettagli le pesanti pressioni esercitate dall’ufficio del primo ministro per acquistare direttamente dalla Thyssenkrupp anche grandi motovedette, senza fare una gara d’appalto internazionale.

La Corte Suprema deciderà questo mese. Il 15 ottobre Mandelblit ha presentato la sua risposta al ricorso spiegando perché Netanyahu non sia stato messo sotto accusa. Mandelblit ha anche annunciato che non indagherà sull’acquisto di 600.000 dollari di azioni della SeaDrift, un’azienda siderurgica controllata da Milikowsky (che sembra fornisca anche alcuni prodotti alla Thyssenkrupp). Netanyahu ha venduto le azioni con un guadagno enorme nonostante le performance in caduta dell’azienda.

Mandelblit ha ammesso che Netanyahu ha notevolmente beneficiato da questa transazione, ma ha anche dichiarato che non c’erano prove sufficienti per un’inchiesta penale. Ha concluso che Netanyahu non era a conoscenza del conflitto di interesse e che la vendita costituisse un vantaggio illecito.

Queste decisioni hanno suscitato le dure critiche degli oppositori di Netanyahu, ma anche enorme soddisfazione fra i suoi sostenitori. Mandelblit è anche lui al centro di un nuovo scandalo scoppiato questa settimana a causa di registrazioni segrete di sue conversazioni di alcuni anni fa con Efi Nave, il potente capo dell’Ordine degli avvocati israeliano, poi costretto a dimettersi e incriminato per frode e millantato credito.

Negli ultimi mesi i sostenitori di Netanyahu hanno condotto una campagna concertata contro la credibilità di Mandelblit per provare che le accuse avevano una motivazione politica o che era stato ricattato dall’ex pubblico ministero Shai Nitzan per incastrare Netanyahu. Anche se tutte queste teorie complottiste sono maldestre, destabilizzano ancor più Israele. Il pubblico ministero è al centro della tempesta perfetta, metà degli israeliani sono convinti che ha incastrato Netanyahu per farlo cadere e l’altra metà pensa che in realtà sia in combutta con Netanyahu e il suo seguito, come prova la sua decisione di questa settimana di non indagare e di far decadere le accuse perché non sufficienti per mandarlo in galera.

Molti degli accoliti di Netanyahu concordano che la sua era è più vicina alla fine che a un nuovo inizio. È già chiaro che quando lui uscirà dalla scena politica, lo Stato dovrà ricostruire le istituzioni che lui ha mandato in rovina.

Per ora sul fronte “sottomarini” Netanyahu può star tranquillo. Se fosse stato incriminato il suo nome sarebbe stato disonorato per sempre come traditore e la sua memoria infangata. Se riuscirà a prenderne le distanze potrà continuare a combattere per un posto nella storia e anche per la sua poltrona come primo ministro, a cui non ha intenzione di rinunciare.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché il mito di “Pallywood” persiste

Natasha Roth-Rowland

15 ottobre 2020 – +972

Un’eredità durevole della Seconda Intifada è la perfida idea che i palestinesi non siano affidabili quando raccontano le loro esperienze dell’oppressione israeliana.

Il 30 settembre 2000, all’inizio della Seconda Intifada, un cineoperatore palestinese che lavorava per una rete televisiva francese filmò quello che sarebbe diventato un famoso scontro a fuoco a Gaza. Durante una prolungata sparatoria al valico di Netzarim, il dodicenne Muhammad al-Durrah e suo padre Jamal si trovarono in mezzo dal tiro incrociato tra israeliani e palestinesi.

Il cineoperatore, Talal Abu Rahma, filmò la coppia mentre cercava un rifugio e, dopo qualche raffica di arma da fuoco durante le quali le riprese vennero interrotte, le immagini mostrarono Muhammad crollare in braccio al padre. Colpito da uno sparo letale all’addome, morì poco dopo in seguito alle ferite.

L’incidente, spesso citato come “la questione Al-Durrah”, divenne il punto d’inizio del termine dell’hasbara [propaganda israeliana] “Pallywood”. Parola composta di “palestinese” e “Hollywood”, suggerisce che, per scopi propagandistici contro Israele, i palestinesi recitano scene che mostrano gli spari dell’esercito israeliano contro civili. Il termine venne coniato da Richard Landes, un medievalista americano, che nel 2005 fece un breve documentario definendo la sua teoria di quella che chiamò “una fiorente industria di cinema all’aperto.”

L’accusa di “Pallywood” ora è una fiorente industria in sé, essendo stata ampiamente applicata ad episodi che vanno dagli attacchi aerei israeliani fino all’uccisione con armi da fuoco nel 2014 di due adolescenti palestinesi durante le proteste del giorno della Nakba. È diventata un luogo comune, il cui scopo è mettere in dubbio a priori ogni accusa di crudeltà o uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane, soprattutto quando vengono riprese in video. Infatti, in base alla logica dell’accusa di “Pallywood”, il solo fatto che la violenza sia stata documentata in immagini è una ragione in più, non in meno, per dubitare della sua esistenza.

Seguendo le orme di Landes, è spuntata una legione di esperti di psicologia forense e comportamentale in poltrona che decostruiscono video della violenza israeliana contro i palestinesi. Lo scopo è screditare quello che è stato filmato, e quindi minare tutta la narrazione palestinese sull’occupazione, un proiettile alla volta.

Questa guerra contro le immagini, e la solidarietà, non è iniziata con il cliché di “Pallywood”, e non è affatto unica. Come in ogni zona di conflitto, la propaganda gioca un importante ruolo nelle società sia israeliana che palestinese, una pratica che spesso interferisce con i tentativi di decodificare narrazioni in contrasto tra loro e riferire informazioni accurate sul terreno. Tuttavia questa propaganda non può essere disgiunta dal differenziale di potere tra le due parti, una che tenta di resistere all’occupazione e all’oppressione, l’altra che cerca di conservarle, giustificarle o persino negarle.

Questa asimmetria è una ragione fondamentale per la quale Israele è stato particolarmente sensibile al conflitto di narrazioni fin da molto prima che emergesse il cliché di “Pallywood”. La Prima Intifada, iniziata nel 1987, rese famosa l’iconica dinamica dei manifestanti palestinesi, soprattutto giovani e donne, che affrontavano i carrarmati israeliani con nient’altro che pietre.

La consapevolezza israeliana della pubblicità negativa determinata dal suo uso eccessivo della forza è a lungo sopravvissuta a quel momento. Nel 2013, per esempio, l’esercito israeliano annunciò che avrebbe smesso di utilizzare fosforo bianco come arma chimica contro i palestinesi a Gaza perché “non è fotogenico” (questa dichiarazione giunse dopo che l’esercito aveva negato di aver utilizzato fosforo bianco durante l’operazione “Piombo Fuso” del 2008-09, poi negò di averlo utilizzato in aree urbane, e infine ammise di averlo fatto con l’avvertenza che il suo uso era giustificato).

Una riedizione di “Pallywood”

Le indagini iniziali di Israele sulla sparatoria di al-Durrah riconobbero che il ragazzino poteva essere stato colpito da una pallottola israeliana. Ma il capo dell’esercito nei territori occupati dell’epoca, il generale di divisione Yom-Tov Samia, dichiarò che c’erano “forti dubbi” riguardo a questa possibilità e disse che era molto probabile che al-Durrah fosse stato ucciso da un proiettile palestinese.

A cinque anni di distanza, poco dopo che uscisse il film di Landes, questa velata supposizione venne ritirata: un altro ufficiale delle IDF [Israeli Defence Forces, l’esercito israeliano, ndtr.] affermò invece che l’esercito non era assolutamente responsabile della morte di al-Durrah. Nel 2013 il governo andò anche oltre: su richiesta personale del primo ministro Benjamin Netanyah il governo avviò un’ulteriore inchiesta, che concluse non solo che le IDF non avevano sparato ad al-Durrah, ma che egli non era stato affatto colpito. Una riedizione di “Pallywood”.

Questi amanti di “Pallywood” per sostenere le loro affermazioni riescono in genere a basarsi sulle smentite e sugli insabbiamenti del governo israeliano. Quando nel 2014 durante le proteste del Giorno della Nakba a Beitunia le forze di sicurezza israeliane colpirono tre adolescenti palestinesi con proiettili veri, uccidendone due, fonti ufficiali israeliane, sia militari che civili, si unirono per affermare che le immagini della CCTV [televisione cinese, ndtr.] di tutta la sparatoria erano state manipolate.

A loro si unirono importanti commentatori della diaspora, uno dei quali suggerì che le accuse contro l’esercito israeliano avrebbero potuto benissimo rappresentare “una nuova versione dell’accusa del sangue (sic) di al-Durrah”, evocando un mito antisemita cristiano medievale. La Corte Suprema israeliana in seguito condannò un agente della polizia di frontiera a 18 mesi di prigione per aver sparato uno dei proiettili.

Allo stesso modo quando nell’agosto 2015 nel villaggio di Nabi Saleh un soldato israeliano si mise a cavalcioni sul dodicenne Mohammed Tamimi e lo prese per il collo per arrestarlo nonostante Tamimi avesse il braccio destro ingessato, entrò di nuovo in azione il marchio “Pallywood”. Questa volta la diffamazione venne diretta contro l’allora tredicenne Ahed Tamimi, una parente di Mohammed che era tra coloro che avevano impedito il suo arresto. Benché le foto della vicenda fossero indiscutibili, Mail Online, con sede in GB, istigato da propagandisti filoisraeliani, modificò il proprio titolo sull’incidente per sostenere che Ahed si era “rivelata come una prolifica stella di ‘Pallywood’.”

Numerosi messaggi sulle reti sociali cercarono inoltre di sostenere che il braccio di Mohammed non fosse per niente rotto, mostrando foto di lui con il gesso su un altro braccio, omettendo il fatto che queste foto erano di anni prima. La difesa delle azioni dei soldati da parte dell’esercito fu che Mohammed aveva lanciato pietre e che non sapevano che fosse un minorenne.

Diffamare gli oppressi

L’accusa di “Pallywood” non svanisce nemmeno quando l’esercito conferma la versione degli avvenimenti che risulta dai filmati. Nell’ottobre 2015 agenti israeliani in borghese vennero ripresi e fotografati mentre si infiltravano in una manifestazione nei pressi di Betlemme, nella Cisgiordania occupata, con kefiah attorno alla testa, prima di brandire le loro armi e arrestare dei manifestanti, a uno dei quali spararono a una gamba da distanza ravvicinata.

Un portavoce delle IDF confermò questa serie di avvenimenti, descrivendo lo sparo [contro il manifestante] come “un colpo preciso che ha reso innocuo il principale sospettato.” Tuttavia commentatori del video sulle reti sociali insistettero che si trattava di una ingannevole produzione di “Pallywood”. Come ha scritto acutamente all’epoca su +972 Lisa Goldman, “quando la gente non può credere ai propri occhi, in genere si tratta di ideologia.”

Questa ideologia alimenta una più generale e pericolosa idea secondo cui gli atti di violenza contro i palestinesi, sia da parte di soldati che di civili israeliani, non sono mai quello che sembrano. È per questo che, per esempio, quando nel 2014 i coloni israeliani rapirono il sedicenne Muhammad Abu Khdeir fuori da casa sua a Gerusalemme est e lo torturarono a morte, inizialmente la polizia insinuò, con un certo successo, che Abu Khdeir fosse stato ucciso dalla sua famiglia perché era gay (e non lo era), oppure che fosse stato vittima di una faida locale.

È per questo che, dopo che nell’estate 2015 due coloni israeliani uccisero membri della famiglia Dawabshe a Duma, investigatori dilettanti produssero “prove” infinite secondo cui gli ebrei non erano stati responsabili dell’attacco, compresa l’affermazione che le scritte sul muro trovate sul posto non fossero di un ebreo madre lingua. Ed è per questo che, nel tentativo di dimostrare che i palestinesi di Gaza non stiano soffrendo in seguito al blocco e agli attacchi militari [israeliani], interventi in rete a favore di Israele amano condividere foto (vere e false) di supermercati, caffè e altre zone di Gaza che non sono state ridotte in macerie dai bombardamenti aerei israeliani, come se ogni apparenza di “normalità” palestinese rendesse ogni distruzione israeliana un lavoro di fantasia, un miraggio inteso solo a ingannare.

Insieme al suo pernicioso razzismo, il problema dell’accusa di “Pallywood”, ancora fiorente due decenni dopo la vicenda di al-Durrah, consiste nelle sue disoneste pretese di preoccuparsi della correttezza giornalistica. In un’epoca di “deepfakes” [false notizie ottenute manipolando le immagini, ndtr.] e bots [programmi che infettano i computer, ndtr.], i tentativi di garantire la verità nell’informazione sono fondamentali. Ma le innumerevoli “inchieste” sui video della violenza israeliana contro i palestinesi non riguardano l’approfondimento di avvenimenti specifici, intendono inculcare il concetto secondo cui i palestinesi non possono essere creduti riguardo a niente di quello che dicono in merito a ciò che subiscono per mano dei soldati e dei coloni israeliani.

Come strategia essa precede di molto le accuse di “notizie false” che accompagnano informazioni tutt’altro che lusinghiere su politici e governi. Ma il tentativo è lo stesso: diffamare gli oppressi, delegittimare le loro lotte e distogliere lo sguardo del mondo dalla violenza dell’oppressore.

Natasha Roth-Rowland è studentessa di dottorato in storia all’università della Virginia, è ricercatrice e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele-Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come giornalista, editorialista e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast [sito di notizie statunitense, ndtr.], sul blog della London Review of Books [prestigiosa rivista britannica, ndtr.], Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.], The Forward [storico giornale della comunità ebraica statunitense, ndtr.], e Protocols [rivista di sinistra della diaspora ebraica, ndtr.]. Scrive con il vero cognome della sua famiglia in memoria di suo nonno, Kurt, che venne obbligato a cambiare il suo cognome in Rowland quando cercava di rifugiarsi in GB durante la Seconda Guerra Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il razzismo dei coloni israeliani non è un’anomalia. È parte di un sistema di apartheid

Ben White

14 ottobre 2020 – Middle East Eye

Molti di coloro che hanno criticato la recente istigazione anti-araba nella colonia di Yitzhar continuano a sostenere la discriminazione istituzionale contro i palestinesi

La colonia israeliana di Yitzhar [in Cisgiordania, a sud della città di Nablus, ndtr.], a lungo sinonimo di estremismo nazionalista e violenza anti-palestinese, è tornata all’onore delle cronache lunedì, dopo che i suoi abitanti hanno collocato all’esterno della colonia un cartello che recita: “Questa strada conduce alla comunità di Yitzhar – L’ingresso per gli arabi è pericoloso.”

Come illustrato da Haaretz, il retroscena della trovata è un fatto avvenuto due settimane fa, quando “è stato rifiutato l’ingresso a Yitzhar ad un operatore sanitario arabo inviato per somministrare un test per il Covid-19”, in quanto, secondo quanto riportato, “era un arabo”.

In risposta il comandante in capo israeliano della regione “ha chiarito agli abitanti di Yitzhar che devono consentire l’ingresso degli arabi”, interpretando la posa del cartello stradale come un segnale di “protesta”.

Le foto del cartello sono state rapidamente condivise su Twitter, suscitando indignazione e contrarietà generali.

Secondo alcuni, il motivo per cui la scritta è diventata virale è che rappresenterebbe un momento rivelatore del fatto che un sistema di segregazione sia stato espresso in modo brutale ed esplicito. Questo potrebbe essere parzialmente vero, ma racconta solo una parte della storia, come possiamo vedere dalla ampia varietà di individui che hanno espresso irritazione per il cartello di Yitzhar.

Tra chi ha manifestato delle critiche sono compresi, ad esempio, apologeti e persino compartecipi del processo di colonizzazione israeliana nella Cisgiordania occupata, come l’ex leader delle colonie e diplomatico israeliano Dani Dayan, che ha definito il cartello “razzista”.

Un colono della Cisgiordania, insegnante Uri Pilichowski, ha dichiarato: “Sono un colono e ho trovato quella scritta spregevole”. Ha aggiunto in un post di Facebook: “Ogni gruppo ha le sue mele marce e la comunità dei coloni non è diversa”.

In modo significativo, Pilichowski ha concluso così il suo post: “Il mio unico sollievo è che Yitzhar si comporta continuamente in questo modo, il che evidenzia come tutte le altre comunità ebraiche in Giudea e Samaria [cioè le colonie in Cisgiordania] non fanno mai queste cose”.

Sulla base di questo modo di vedere, i comportamenti dei cittadini di Yitzhar, sebbene deplorevoli, diventano in realtà una prova della moralità del 99% dei coloni (si noti che l’immagine di Yitzhar come eccezione, o anomalia, è una risposta abituale di fronte al verificarsi di questo tipo di episodi).

Storia della violenza

In effetti, il razzismo dei coloni di Yitzhar può essere compreso solo in quanto parte, piuttosto che elemento estraneo o eccezionale, delle politiche attuate nel corso della storia e attualmente e sostenute dalla leadership politica, militare e giudiziaria di Israele e dalla maggioranza dell’opinione pubblica ebraica.

L’esclusione e l’allontanamento dei palestinesi dalla terra e dalle comunità attraverso la violenza, le leggi e la prassi sono parte integrante della storia di Israele, a cominciare dall’esodo causato dai coloni sionisti prima della fondazione dello Stato e dalla pulizia etnica della Nakba.

Oggi il controllo ebreo israeliano sulla terra e sulle risorse – a spese dei cittadini palestinesi – è assicurato attraverso varie leggi e meccanismi di pianificazione, incluso il rifiuto di consentire ai palestinesi esiliati di tornare nelle loro terre e il ruolo dei comitati di ammissione residenziale [in alcune zone di Israele queste commissioni possono negare il diritto di residenza a persone indesiderate ed escludono metodicamente i palestinesi cittadini di Israele, ndtr.].

Nella Cisgiordania occupata, nel frattempo, le autorità israeliane hanno a lungo escluso i palestinesi da aree estese della regione, un divieto di accesso che è inseparabile dalla colonizzazione del territorio [che avviene] principalmente attraverso la creazione di colonie ebraiche.

Come ha evidenziato su Twitter l’esperto della colonizzazione Dror Etke, è il massimo dell’ipocrisia che qualcuno come Dayan condanni l’episodio del cartello di Yitzhar quando, come documentato in dettaglio nel rapporto di Kerem Navot [organizzazione di valutazione e ricerca sulle politiche israeliane del territorio in Cisgiordania, ndtr.] del 2015, i settori amministrativi delle colonie giocano un ruolo chiave nell’esclusione dei palestinesi da aree della Cisgiordania occupata.

Il rapporto ha rilevato che quasi un terzo della Cisgiordania e più della metà dell’Area C [il 60% della Cisgiordania dove, in base agli accordi di Oslo, Israele esercita il pieno controllo civile e della sicurezza, ndtr.] sono state “definite come aree militari chiuse” – l’obiettivo principale è “ridurre drasticamente le possibilità da parte della popolazione palestinese di utilizzare la terra e consegnarne il più possibile ai coloni israeliani.”

“Minaccia demografica”

I coloni che imbrattano i muri delle case e delle moschee palestinesi con graffiti razzisti sono condannati da vaste fasce della società israeliana, ma l’istigazione anti-araba e anti-palestinese è diffusa sui media e nella politica israeliana, a partire dai commenti dei lettori fino alle politiche strategiche nei confronti dei palestinesi.

Secondo l’indice annuale di 7 amleh [ONG palestinese ndtr.] su razzismo e istigazione nei media informatici israeliani, il 2019 ha visto un commento razzista ogni 64 secondi. Nel frattempo, le comunità palestinesi nella Cisgiordania occupata sono descritte nelle riunioni di commissione della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] come un “virus” e un “cancro”.

I più importanti leader israeliani abitualmente trattano con sufficienza, minacciano e disumanizzano i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949, ndtr.] con politici come Gideon Saar [membro del parlamento israeliano, ndtr.] del Likud o il defunto Shimon Peres [laburista, presidente di Israele dal 2007 al 2014, ndtr.] che si preoccupavano dei “tassi di fertilità” ebrei rispetto a quelli arabi o definivano i cittadini palestinesi una “minaccia demografica”.

Concentrarsi su attori come i coloni “estremisti” può essere indispensabile e vantaggioso, in particolare quando vengono alla ribalta gli attacchi violenti commessi contro i palestinesi e le loro proprietà, condotti nell’impunità e persino con la cooperazione attiva delle forze israeliane.

Tuttavia, è importante contestualizzare eventi come il cartello di Yitzhar in modo tale da non oscurare gli abusi pluridecennali e quotidiani subiti dai palestinesi per mano dello Stato israeliano di apartheid. Il parlamentare del Meretz [partito politico della sinistra sionista, ndtr] ed ex generale dell’esercito Yair Golan è stato tra coloro che hanno condannato la scritta dei coloni di Yitzhar, chiedendo retoricamente: “È questo quello che vogliamo essere, uno Stato razzista?”

Una simile risposta mostra che i momenti rivelatori possono anche essere utili come opportunità di autocompiacimento morale da parte di coloro che disdegnano e prendono le distanze in modo assertivo dal volgare razzismo dei coloni, pur sostenendo la discriminazione e la segregazione istituzionalizzata la cui portata e impatto fanno sì che gli attivisti di Yitzhar appaiano, al confronto, ben poca cosa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White

Ben White è uno scrittore, giornalista e analista specializzato sul tema Palestina / Israele. I suoi articoli sono apparsi ampiamente sui media internazionali, tra cui Al Jazeera, The Guardian, The Independent e altri. È autore di quattro libri, l’ultimo dei quali, ‘Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine / Israel’ [Crepe nel muro: dietro l’apartheid in Palestina, ndtr.] (Pluto Press), è stato pubblicato nel 2018.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La guerra sionista contro il festival della Palestina a Roma è un segno minaccioso di cose a venire

Romana Rubeo e Ramzy Baroud 

9 ottobre 2020, Middle East Monitor

Un attacco guidato dai sionisti contro un festival culturale palestinese a Roma ha messo in luce la fragilità del sistema politico italiano quando si tratta della discussione su Palestina e Israele. La triste verità è che, sebbene l’Italia non sia spesso associata a una lobby pro-Israele”potente”, come nel caso di Washington, l’influenza pro-Israele in Italia è altrettanto pericolosa.

L’ultima vicenda è iniziata il 24 settembre, quando la comunità palestinese di Roma ha annunciato il progetto di realizzare il “Falastin – Festival della Palestina”, evento culturale che mira a rappresentare la ricchezza della cultura palestinese in tutta la sua grandezza. L’idea di fondo non è semplicemente umanizzare i palestinesi agli occhi degli italiani comuni, ma esplorare punti in comune, cementare legami e costruire ponti. Tuttavia, per gli alleati di Israele in Italia, anche obiettivi così poco minacciosi erano troppo pesanti da sopportare.

Il festival, patrocinato dal II Municipio di Roma – una delle suddivisioni amministrative del comune centrale di Roma – si è trovato al centro di una grande – e ridicola – controversia. Il 25 settembre, uno strano post filo-israeliano è apparso dal Partito Democratico II Municipio, il partito politico italiano di centrosinistra che controlla quel municipio. Privo di qualsiasi contesto e senza segnalare un’occasione specifica, il post, che mostrava la bandiera israeliana, esaltava l’amicizia tra il Partito Democratico e Israele e condannava il Movimento palestinese per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS).

La casualità del post e lo strano tempismo hanno suggerito che il Partito Democratico fosse sotto attacco per la sua sponsorizzazione del festival palestinese. Sopraffatta dai commenti rabbiosi sui social media, la pagina Facebook del Partito ha rimosso bruscamente il post anti-palestinese senza troppe spiegazioni. Ma le cose si sono chiarite in fretta, quando, il 30 settembre, la Comunità ebraica di Roma ha pubblicato una dichiarazione in cui esprimeva indignazione verso il II Municipio per la presunta sponsorizzazione di “una festa antisemita”. Approfittando della deliberata distorsione tra antisemitismo e legittima critica a Israele dell’apartheid, i rappresentanti della Comunità si sono infuriati contro il BDS e il presunto boicottaggio delle imprese ebraiche.

La dichiarazione, parte della quale traduciamo qui, afferma che “… il movimento BDS parteciperà all’iniziativa (Il Festival), e questo è inaccettabile e pericoloso (perché) il movimento di boicottaggio nega l’esistenza stessa dello Stato di Israele ed è legato ai gruppi terroristici di Hamas e Fatah “. A parte le affermazioni infondate – anzi completamente false -, la dichiarazione fa riferimento alla “definizione IHRA di antisemitismo”, ulteriormente spiegata di seguito, che è stata accettata dal governo italiano e dai parlamenti francese e austriaco. In base a questa logica, il comunicato concludeva che, uno, “il movimento BDS è antisemita” e, due, “il II Municipio legittima l’odio antiebraico”.

Con una mossa chiaramente coordinata, anche il Centro Wiesenthal, che spesso si pone come un’organizzazione progressista, è andato all’attacco. Lo stesso giorno in cui la Comunità ebraica di Roma ha rilasciato la sua dichiarazione, il Centro ha inviato una lettera al Primo Ministro italiano, Giuseppe Conte, enumerando anche le stesse false affermazioni sul presunto antisemitismo del BDS, la definizione IHRA e così via. Il Centro è sceso così in basso da confrontare il movimento BDS con il programma nazista tedesco. Ha affermato che il movimento di boicottaggio palestinese si ispira, infatti, al boicottaggio degli ebrei da parte dei nazisti, facendo riferimento allo slogan “Kaufen nicht bei Juden” (Non comprare dagli ebrei).

L’effetto è stato rapido e, a giudicare dalla tipica mancanza di coraggio dei politici europei, anche prevedibile. Una assessora del II Municipio, tale Lucrezia Colmayer, ha rassegnato bruscamente le sue dimissioni, “prendendo le distanze” dalla decisione della presidente del II Municipio, Francesca Del Bello, di aver patrocinato il Festival. “Con questo gesto voglio rinnovare la mia vicinanza alla Comunità ebraica di Roma, con la quale ho condiviso questo importante percorso culturale e amministrativo”, ha scritto Colmayer.

Ha fatto seguito la dichiarazione della Del Bello: “Chiedo scusa se il patrocinio del II Municipio a ‘Falastin – Festival della Palestina’ … ha offeso la comunità ebraica e ha portato una assessora a dimettersi”, ha scritto, respingendo le dimissioni di Colmayer e invitandola a tornare in Consiglio. Fortunatamente, nonostante tutti gli ostacoli, “il Festival è stato un grande successo”, ci ha detto Maya Issa, membro della Comunità Palestinese di Roma e Lazio.

Il Festival “è stato un modo per le persone di conoscere la Palestina e di vedere la Palestina sotto una luce diversa. L’atmosfera era magica: colori, profumi, cibo, Dabkah, arte e letteratura palestinesi ”. La buona notizia è che, nonostante la campagna sionista italiana ben coordinata, il Festival palestinese è andato ancora avanti e, secondo Issa, “molti politici italiani hanno capito il nostro messaggio e hanno deciso di partecipare”.

Festival della Palestina

Ora che il Festival si è concluso, i gruppi filo-palestinesi in Italia sono pronti a contrastare le false accuse e il linguaggio diffamatorio lanciati contro di loro dal campo filo-israeliano. “Risponderemo con la verità e confuteremo tutte le false affermazioni, in particolare le bugie sul movimento BDS”, ha detto Issa, aggiungendo “noi, la comunità palestinese, dobbiamo resistere, insieme a tutti coloro che sostengono la vera democrazia e libertà” . Non c’è dubbio che la comunità palestinese italiana sia più che capace di realizzare questo compito cruciale. Tuttavia, due punti importanti devono essere tenuti a mente:

In primo luogo, la “definizione IHRA* di antisemitismo”, nota anche come EUMC*, è stata deliberatamente utilizzata in modo improprio dai sionisti al punto che un autentico tentativo di frenare il razzismo antiebraico è stato trasformato in uno strumento per difendere i crimini di guerra israeliani in Palestina, e per mettere a tacere i critici che osano, non solo censurare le azioni illegali di Israele, ma persino celebrare la cultura palestinese. Di particolare importanza è che la stessa persona che ha redatto quella “definizione”, l’avvocato statunitense Kenneth S. Stern, ha condannato l’uso improprio dell’iniziativa. In una dichiarazione scritta presentata al Congresso degli Stati Uniti nel 2017, Stern ha affermato che la definizione originale è stata ampiamente utilizzata in modo improprio e che non è mai stata concepita per essere manipolata come strumento politico.

“La” definizione di lavoro “dell’EUMC è stata recentemente adottata nel Regno Unito e applicata al campus universitario. Un evento della “Settimana dell’apartheid israeliano” è stato cancellato in quanto violava la definizione. A un sopravvissuto all’Olocausto è stato richiesto di cambiare il titolo di un discorso nel campus e l’Università (di Manchester) ha ordinato che fosse registrato, dopo che un diplomatico israeliano si era lamentato del fatto che il titolo violava la definizione “, ha scritto.

“Forse la cosa più eclatante”, ha continuato Stern, “che un gruppo fuori dal campus, citando la definizione, ha invitato un’università a condurre un’indagine su un professore (con dottorato di ricerca della Columbia University) per antisemitismo, sulla base di un articolo che lei aveva scritto anni prima. L’Università (di Bristol) ha quindi condotto l’indagine. Anche se alla fine non ha trovato alcuna base per azioni disciplinari contro la docente, la azione in se stessa aveva un’ agghiacciante analogia con quelle di McCarthy. “

Un secondo punto da considerare è anche che la politica italiana è arrivata al punto che, su molte questioni, è diventato difficile distinguere facilmente tra partiti che si suppongono progressisti e quelli populisti. La Palestina, nel nuovo discorso politico italiano, soprattutto quello del Partito Democratico è, forse, il caso più evidente.

Questo è particolarmente inquietante, considerando che il Partito Democratico è stato, esso stesso, la punta di diamante ideologica dei partiti esistenti durante l’era della Prima Repubblica italiana (1948-1992), noti per le loro forti posizioni a favore dei diritti e dell’autodeterminazione palestinese e la forte opposizione alle violazioni israeliane del diritto internazionale. Non è più così, poiché la posizione del partito sulla Palestina ormai difficilmente si discosta dal soffocante mantra “Due popoli due stati” –

La nuova era della politica italiana consente a personalità come Lia Quartapelle – deputata del Partito Democratico – di atteggiarsi a difensore dei diritti umani sulla scena globale, riferendosi a Israele come “un’eccezione straordinaria, una democrazia plurale in una regione che alimenta politiche settarie e fondamentaliste ”. La sua affermazione non è solo sbagliata e deludente, ma esprime anche una forma profondamente radicata di sentimento anti-arabo, se non, senza dubbio, di razzismo.

Il tentativo di chiudere il Festival palestinese è, in piccolo, l’agenda della politica estera italiana in Palestina e Israele, dove Roma non offre ai palestinesi nient’altro che vuota retorica, rimanendo praticamente sottomessa all’agenda sciovinista e razzista di destra di Tel Aviv. Gli italiani devono capire che non si tratta più semplicemente di un discorso su Palestina e Israele, ma di una questione che riguarda direttamente anche loro e la loro democrazia. L’Italia è un paese che ha prima portato, poi combattuto e sconfitto il fascismo; prima alleata con, poi ha combattuto e sconfitto il nazismo. Ancora una volta, si trovano di fronte alle stesse nette opzioni: schierarsi con il razzismo e l’apartheid israeliani o sostenere la lotta del popolo palestinese per la libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi da Palestinaculturalibertà.org




Israele verso una massiccia espansione delle colonie dopo la normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti

Tamara Nassar 

9 ottobre 2020 – Electronic Intifada

Israele sta avanzando con migliaia di nuove unità di insediamento nella Cisgiordania occupata.

Si tratta di una imponente espansione dell’opera di colonizzazione da parte di Israele: la stragrande maggioranza delle unità abitative sono pianificate in colonie “isolate”, fuori dalle vaste zone già individuate per l’annessione israeliana nel cosiddetto piano “Pace per la prosperità” del presidente Donald Trump.

Circa 350 unità saranno aggiunte a ciascuno degli insediamenti di Beit El, a nord della città occupata di Ramallah in Cisgiordania, a quello di Geva Binyamin, a nord-est di Gerusalemme est occupata, e all’insediamento di Nili, nella Cisgiordania centrale.

Quasi 1.000 nuove unità abitative dovrebbero essere consentite nel cosiddetto insediamento di Har Gilo, stretto tra Gerusalemme e Betlemme.

Israele sta anche portando avanti piani per quasi 700 nuove unità abitative nella colonia di Eli nella Cisgiordania centrale.

La costruzione è già iniziata e alcune unità sono in fase di approvazione retroattiva.

Altre 140 unità abitative saranno aggiunte a Shiloh, una colonia tra i villaggi palestinesi di Jalud e Quryut, che hanno avviato un’azione legale contro la costruzione.

Si prevede che lunedì l’Amministrazione Civile – il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana – darà il via libera definitivo a 2.500 unità e la prima approvazione per altre migliaia.

Tutte le colonie israeliane sono illegali ai sensi del diritto internazionale e la costruzione di insediamenti nei territori occupati è un crimine di guerra.

Tuttavia, l’espansione di colonie da parte di Israele oltre i territori dei cosiddetti blocchi [di colonie] segnala la rinnovata fiducia di non dover affrontare alcuna conseguenza per le proprie azioni.

Gli Emirati Arabi Uniti fanno un regalo a Israele

Ciò avviene mentre i principali negoziatori degli Accordi di Abramo – l’accordo di normalizzazione tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele – continuano a sostenere di aver congelato il piano di Israele di annettere formalmente ampie zone della Cisgiordania in cambio dell’accordo.

In realtà, sono stati gli Stati Uniti a congelare i piani di annessione di Israele mesi prima che fosse annunciato ad agosto l’accordo Emirati Arabi Uniti-Israele.

Da quando l’accordo di normalizzazione è stato reso pubblico, i leader israeliani hanno ripetutamente ribadito il loro impegno per l’annessione.

L’ambasciatore degli Emirati a Washington Yousef Al Otaiba e il suo amico, il miliardario e grande finanziatore della lobby israeliana Haim Saban, hanno discusso in un panel virtuale dietro le quinte i preparativi per l’accordo di normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti e Israele.

L’incontro, alla fine del mese scorso, è stato ospitato dalla pubblicazione Jewish Insider e moderato dall’ex funzionaria dell’amministrazione Trump Dina Powell McCormick.

Al Otaiba ha detto che il governo degli Emirati lo aveva incaricato di pubblicare a giugno un editoriale su un giornale israeliano segnalando che un’annessione israeliana di territori in Cisgiordania avrebbe rallentato gli sforzi di normalizzazione delle relazioni.

Al Otaiba spiegava che l’annessione sarebbe stata “pericolosa per la regione” e “pericolosa per Israele”, aggiungendo che, “ancora peggio”, sarebbe stato difficile per gli “americani proteggere la nostra parte di mondo”.

Non ha fatto menzione di quale posto avessero nella faccenda i palestinesi, nonostante l’oggetto dei negoziati fosse la loro terra.

L’idea è venuta da Abu Dhabi [la capitale degli EAU, ndtr.]. E mi è stata comunicata”, ha detto.

Al Otaiba quindi si è consultato con Saban su “dove avrebbe dovuto apparire e quando, e l’indicazione di fondo è stata: lo devi fare in ebraico”.

L’articolo, pubblicato sull’israeliano Yedioth Ahronoth [per molti anni il quotidiano israeliano più venduto, ndtr.], non era tanto un avvertimento quanto una lettera d’amore per Israele: intriso di lusinghe e offerte a Israele di ulteriori normalizzazioni – e di quelle decise dagli Emirati Arabi Uniti.

Ora Al Otaiba ammette che l’intento era davvero questo. Dice che il messaggio era: “ Vi diamo in cambio qualcosa di molto meglio dell’annessione”.

In altre parole, invece di essere messo di fronte alle ripercussioni per il suo esteso e pluri-decennale furto e la avvenuta colonizzazione della terra palestinese occupata, Israele sarebbe ricompensato per non aggiungere il crimine di annessione ai crimini in corso.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di fare a Israele un regalo per il quale, come ha detto Saban, gli israeliani “avrebbero dato il braccio destro”.

Al Otaiba ha insistito sul fatto che gli Accordi di Abramo “salvaguardano la fattibilità e la possibilità di una soluzione a due Stati che sarebbe altrimenti sepolta”.

In realtà, la soluzione dei due Stati è sepolta da tempo.

Al Otaiba ha persino ammesso che gli Emirati Arabi Uniti intendevano solo “fissare un tempo sull’orologio”, indipendentemente da come “venga alla fine utilizzato quel tempo “.

L’espulsione forzata dei palestinesi da parte di Israele nella Cisgiordania occupata non è mai cessata, come l’espansione di colonie solo ebraiche.

L’annessione, che Israele la faccia ora o più tardi, è solo il timbro ufficiale a decenni di demolizioni, espulsioni e costruzione di colonie.

In effetti, come dimostrano gli ultimi annunci, Israele sta espandendo ulteriormente i suoi insediamenti, a dispetto del regalo degli Emirati Arabi Uniti.

Il blocco è temporaneo

Nel frattempo, a seguito di un’azione legale da parte del gruppo di difesa Adalah contro la demolizione di case palestinesi nella Gerusalemme est occupata, Israele avrebbe interrotto temporaneamente “a livello nazionale” le demolizioni.

II 5 ottobre Adalah ha inviato un’altra lettera all’Amministrazione Civile esortandola a cessare le demolizioni e a concedere licenze edilizie nel resto della Cisgiordania, non solo a Gerusalemme est annessa da Israele [è praticamente impossibile per i palestinesi ottenere permessi edilizi in Cisgiordania e a Gerusalemme, ndtr.].

Dall’inizio dell’anno Israele ha fatto di più di 700 palestinesi dei senzatetto, la maggioranza dei quali durante la pandemia.

Ma la sospensione delle demolizioni a Gerusalemme, come lo stop all’annessione, rimangono solo una tregua temporanea, sempre che Israele la rispetti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)