I palestinesi non sono numeri: sul futuro della narrazione palestinese

Ramzy Baroud

23 settembre – The Palestine Chronicle

La Palestina non potrà mai essere compresa attraverso i numeri, perché essi sono disumanizzanti, impersonali e, quando necessario, possono anche essere un espediente per significare integralmente qualcos’altro. I numeri non sono adatti a raccontare la storia della condizione umana, né dovrebbero mai essere usati per sostituire le emozioni.

Di sicuro le storie della vita, della morte, e di tutto quello che vi intercorre, non possono essere veramente e completamente apprezzate attraverso carte, cifre e numeri. Questi ultimi, pur se utili a molti scopi, sono un mero assemblamento numerico di dati. L’angoscia, la gioia, le aspirazioni, la resistenza, il coraggio, la perdita, la lotta collettiva, eccetera, comunque, si possono esprimere genuinamente solo attraverso le persone che hanno vissuto queste esperienze.

I numeri, per esempio, ci dicono che più di 2.200 palestinesi sono stati uccisi durante la guerra israeliana contro la Striscia di Gaza tra l’8 luglio e il 27 agosto 2014, e che oltre 500 di loro erano minori. Più di 17.000 case sono state distrutte e migliaia di altri edifici, compresi ospedali, scuole e fabbriche sono stati anch’essi distrutti o gravemente danneggiati nel corso dei bombardamenti israeliani.

Tutto questo è vero, il genere di verità che è sintetizzata in un’accurata infografica, d’ogni tanto aggiornata nel caso che, inevitabilmente, alcuni dei feriti gravi abbiano alla fine perso la vita.

Ma un singolo documento, o un migliaio, non potrà mai descrivere in modo veritiero il reale terrore provato da un milione di bambini che hanno temuto per la propria vita durante quei terribili giorni; o trasportarci in una stanza da letto dove una famiglia di dieci membri si stringe nel buio, invocando la grazia di dio quando la terra trema, i muri crollano e i vetri si infrangono tutto intorno; o trasmettere l’angoscia di una madre che tiene in braccio il corpo senza vita di suo figlio.

E’ facile – e giustificabile – accusare i media di disumanizzare i palestinesi o, a volte, di ignorarli del tutto. Tuttavia, se vanno attribuite delle colpe, allora anche altri, compresi quelli che si ritengono “filopalestinesi”, devono riconsiderare la propria posizione. Siamo tutti, in una certa misura, collettivamente colpevoli di vedere i palestinesi come semplici vittime, sventurati, passivi, persone intellettualmente deboli e sfortunate, senza speranza di essere ‘salvate’.

Quando i numeri monopolizzano i riflettori nella narrazione di un popolo, fanno un danno maggiore di una semplice riduzione della complessità degli esseri umani a dati: cancellano anche la vita. Riguardo alla Palestina, raramente i palestinesi vengono trattati da eguali: continuano ad essere i ricettori di assistenza, aspettative politiche e indicazioni non richieste su che cosa dire e come resistere. Spesso alimentano contese politiche tra fazioni o governi, ma raramente prendono l’iniziativa e plasmano il proprio discorso politico.

La narrazione politica palestinese per anni ha oscillato tra una, costruita intorno al soggetto della vittimizzazione – che spesso è corroborata dai numeri dei morti e dei feriti – ed un’altra riguardante la fantomatica unità tra Fatah e Hamas. La prima emerge ogni qual volta Israele decide di bombardare Gaza con qualunque pretesto utile al momento, la seconda è stata una risposta alle accuse occidentali secondo cui i vertici politici palestinesi sono troppo divisi per costituire un potenziale “partner di pace” per il primo ministro di destra israeliano, Benjamin Netanyahu. Molti in tutto il mondo riescono a comprendere – o a riferirsi ai – i palestinesi solo attraverso la loro vittimizzazione o affiliazione a fazioni – che di per sé comportano ulteriori significati attinenti al ‘terrorismo’ o al ‘radicalismo’, tra le altre cose.

Tuttavia la realtà è spesso diversa dai discorsi riduzionisti dei media e della politica. I palestinesi non sono solo numeri. Non sono nemmeno spettatori di una partita politica che continua a marginalizzarli. Poco dopo la guerra del 2014 un gruppo di giovani palestinesi, con sostenitori in tutto il mondo, hanno lanciato un’importante iniziativa rivolta ad affrancare la narrazione palestinese, almeno a Gaza, dai confini dei numeri e di altre interpretazioni riduttive.

Non siamo numeri’ è stata lanciata all’inizio del 2015. La pagina del gruppo ‘Su di noi’ recita: “i numeri non riportano…le quotidiane lotte e vittorie personali, le lacrime e le risa, le aspirazioni che sono talmente universali che, se non fosse per il contesto, entrerebbero immediatamente in risonanza potenzialmente con tutti.”

Recentemente ho parlato con diversi membri del gruppo, compreso il Direttore del Progetto Gaza, Issam Adwan. E’ certamente stato emozionante ascoltare giovani palestinesi preparati e molto determinati parlare un linguaggio che trascende tutti i discorsi stereotipati sulla Palestina. Non erano né vittime né faziosi ed erano decisamente stufi del bisogno patologico di soddisfare le richieste e le aspettative occidentali.

Abbiamo dei talenti – siamo scrittori, romanzieri, poeti ed abbiamo un potenziale molto grande di cui il mondo conosce poco”, mi ha detto Adwan.

Khalid Dader, uno dei circa 60 scrittori e blogger dell’organizzazione a Gaza, contesta la definizione secondo cui loro sono ‘narratori di storie’. “Noi non raccontiamo storie, piuttosto le storie ci raccontano…le storie ci creano”, mi ha detto. Per Dader, non si tratta di numeri o parole, ma di vite vissute e di lasciti che spesso rimangono inespressi.

Somaia Abu Nada vuole che il mondo conosca suo zio, perché “era una persona che aveva una famiglia e persone che lo amavano.” E’ stato ucciso nella guerra israeliana contro Gaza del 2008 e la sua morte ha colpito profondamente la sua famiglia e la sua comunità. In quella guerra furono uccise più di 1.300 persone. Ognuna di loro era lo zio, la zia, il figlio, la figlia, il marito o la moglie di qualcuno. Nessuna di loro era solo un numero.

“ ‘Non siamo numeri’ mi ha fatto capire quanto necessarie siano le nostre voci”, mi ha detto Mohammed Rafik. Questa affermazione non può essere considerata eccessiva. Tanti parlano a nome dei palestinesi, ma raramente sono i palestinesi a parlare di sé. “Questi sono tempi di paura senza precedenti, in cui la nostra terra appare spezzata e triste”, dice Rafik, “ma non perdiamo mai il nostro senso della comunità”.

Adwan ci ricorda la famosa citazione di Arundhati Roy: “Non esiste una cosa come ‘l’assenza di voce’. Ci sono solo quelli costretti deliberatamente al silenzio, o quelli preferibilmente inascoltati.”

E’ stato piacevole parlare con dei palestinesi che stanno compiendo il decisivo passo di dichiarare di non essere numeri, perché è soltanto attraverso questa consapevolezza e determinazione che i giovani palestinesi possono sfidare tutti noi ed affermare la propria identità collettiva come popolo.

Certamente i palestinesi hanno una voce, una voce forte e in risonanza l’una con l’altra.

Ramzy Baroud è giornalista e redattore capo di The Palestine Chronicle. E’ autore di cinque libri. L’ultimo è “Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e resistenza nelle prigioni israeliane” (Clarity Press, Atlanta). Il dott. Baroud è ricercatore associato non residente al Centro per l’Islam e Affari Globali (CIGA), dell’università Zaim di Istambul.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Ridefinire l’antisemitismo su Facebook

Neve Gordon

22 settembre 2020 – Al-Jazeera

Se Facebook adottasse la definizione di antisemitismo dell’ IHRA, ciò sarebbe dannoso per la libertà di parola.

Con i suoi 2,7 miliardi di utenti Facebook è la rete sociale più estesa e probabilmente più influente del mondo. Pertanto, non sorprende che le organizzazioni sioniste di destra labbiano identificata come una piattaforma chiave per promuovere i loro progetti.

Diversi anni fa, ad esempio, il Ministero israeliano degli Affari strategici insieme agli studenti dell’IDC, un’università israeliana di Herzliya, ha contribuito a creare ACT.IL, una “comunità online che si impegna nel promuovere un’influenza positiva sull’opinione pubblica internazionale nei confronti dello Stato di Israele tramite le piattaforme dei social media”. ACT.IL ha creato un esercito di troll [agenti provocatori o che condizionano l’opinione pubblica attraverso le reti sociali, ndtr.] e poi ha sviluppato un’applicazione per rendere il loro lavoro più efficace coordinando l’insieme delle segnalazioni dei commenti critici nei confronti di Israele postati su Facebook.

Ben presto, è diventato chiaro che nessun esercito di troll può far fronte al monitoraggio dell’enorme quantità di contenuti su Facebook. Questo è il motivo per cui le organizzazioni sioniste di destra hanno recentemente iniziato a fare pressioni su Facebook affinché includa le critiche a Israele come parte della propria definizione di incitamento all’odio. In altre parole, il loro obiettivo è costringere Facebook ad alterare gli algoritmi che utilizza per rilevare l’incitamento all’odio in modo che gli algoritmi della società rimuovano automaticamente qualsiasi critica a Israele dalla piattaforma. Si sono resi conto che gli algoritmi sono più efficienti dei troll.

La campagna

La scorsa estate, lavorando a stretto contatto con il governo israeliano, il gruppo di pressione pro-Israele StopAntisemitism.org ha lanciato la nuova campagna dopo aver ricevuto finanziamenti dal filantropo di destra Adam Milstein [investitore immobiliare e lobbista israeliano-americano, ndtr.].

A luglio Orit Farkash-Hacohen, ministro israeliano degli Affari Strategici, ha pubblicato un editoriale su Newsweek [noto settimanale USA, ndtr.] in cui esorta le società di social media a sradicare il “virus” antisemita adottando pienamente la definizione corrente di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce governi ed esperti al fine promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.]

Poche settimane dopo, il 7 agosto, 120 organizzazioni che rappresentano il gotha dei gruppi sionisti di destra hanno inviato una lettera al Consiglio di amministrazione di Facebook, invitandolo ad adottare pienamente la definizione dell’IHRA come “pietra angolare della politica di Facebook contro l’incitamento all’odio riguardo l’antisemitismo”.

Questa definizione, che è stata approvata o adottata in una qualche veste ufficiale da più di 30 Paesi, include 11 esempi di antisemitismo, molti dei quali implicano la critica di Israele. Questa è solo l’ultima manifestazione concreta di come ogni critica al governo israeliano e alla sua politica assuma ora lo stigma di essere antisemita.

Qui cè certo un pizzico di ironia. Storicamente, la lotta contro l’antisemitismo ha cercato di promuovere la parità di diritti e l’emancipazione degli ebrei. Tuttavia nella definizione dell’IHRA coloro che si pronunciano contro la sottomissione dei palestinesi sono definiti antisemiti.

Così, invece di favorire la lotta contro chi ambisce a opprimere, dominare e sterminare gli ebrei, questa nuova definizione di antisemitismo persegue coloro che desiderano prendere parte alla lotta per la liberazione dal dominio coloniale. In questo modo – come ha osservato Judith Butler [filosofa statunitense esperta in filosofia etica e politica, ndtr.] – “la passione per la giustizia [viene] ribattezzata antisemitismo”.

Tuttavia, le persone che stanno dietro questa campagna non sono interessate né all’ironia né alla giustizia, e certamente non alla giustizia nei riguardi dei palestinesi. Come ha sottolineato Lara Friedman, presidentessa della Foundation for Middle East Peace [organizzazione no profit americana che promuove una giusta soluzione al conflitto israelo-palestinese, ndtr.], che ha scritto per Jewish Currents [rivista trimestrale ebraica progressista e secolare e sito di notizie della sinistra ebraica, ndtr.] un articolo sulla campagna nei confronti di Facebook, la loro lettera al Consiglio di amministrazione [di Facebook] “rappresenta l’ultimo fronte nella battaglia per utilizzare la definizione dell’IHRA per escludere ufficialmente le critiche a Israele dal novero dei pareri accettabili”.

Facebook risponde

Monika Bickert, vicepresidente di Facebook in materia di contenuti, ha inviato una lettera ai firmatari, osservando che la società “attinge allo spirito – e al testo – dell’IHRA” e che, secondo la politica di Facebook, “l’essere ebreo e israeliano sono considerate caratteristiche che implicano un particolare riguardo’”.

Sheryl Sandberg, direttore generale di Facebook, ha persino scritto una nota personale a Milstein, che ha finanziato la campagna. Lo ha assicurato che la definizione dell’IHRA è stata “preziosa, sia per indirizzare il nostro approccio, sia come punto di avvio di schiette discussioni relative alla politica [di Facebook] con organizzazioni come la sua”.

Tuttavia la società sembra essere ancora riluttante ad adottare le parti della definizione che si riferiscono a Israele, e non è una coincidenza che nelle risposte di Facebook essa menzioni solo l’incitamento all’odio nei confronti degli ebrei.

Friedman, della Foundation for Middle East Peace, cita Peter Stern, alto funzionario di Facebook, che tre mesi prima del lancio della campagna ha affermato: “Noi non consentiamo alla gente di fare certi tipi di dichiarazioni di odio contro le persone. Se l’attenzione si concentra su un Paese, un’istituzione, una filosofia, allora consentiamo alle persone di esprimersi più liberamente, perché pensiamo che sia una parte importante del dialogo politico … e che ci sia una componente legittima importante in questo. Quindi permettiamo alle persone di criticare lo Stato di Israele, così come gli Stati Uniti e altri Paesi “.

La battaglia continua

Non sorprende che la nuova politica di Facebook sull’incitamento all’odio non abbia soddisfatto la lobby filo-israeliana, e nella lettera del 7 agosto parte della collera era rivolta contro Stern in quanto vi si sosteneva che egli avesse “ammesso che Facebook non abbraccia la piena adozione della definizione frutto del lavoro dell’IHRA in quanto questa sostiene che le moderne manifestazioni di antisemitismo riguardino Israele”.

In un tweet in risposta alla lettera di Sandberg, Milstein ha chiarito che la campagna continuerà: “Non vediamo l’ora di lavorare con @Facebook per garantire che #antisemitismo venga sradicato dalla piattaforma e che la definizione di antisemitismo dell’#IHRA sia pienamente adottata dalla vostra organizzazione.”

Dall’altro lato dello spettro politico, un gruppo di studiosi (me compreso) specializzati in antisemitismo, storia ebraica e dell’Olocausto e sul conflitto israelo-palestinese ha scritto a Facebook sui pericoli dell’adozione della definizione dell’IHRA.

Esortando Mark Zuckerberg a “combattere tutte le forme di incitamento all’odio su Facebook”, lo abbiamo invitato ad astenersi dall’ “adottare e applicare una definizione politicizzata di antisemitismo, che è stata utilizzata come arma per minare la libertà di parola, al fine di proteggere il governo israeliano e mettere a tacere le voci palestinesi e dei loro sostenitori”.

Se Facebook alla fine cedesse e includesse nei suoi algoritmi la definizione testuale dell’IHRA, la libertà di parola su Israele/Palestina, che è già sotto un’enorme pressione, riceverà un colpo letale. Spetta agli utenti di Facebook esprimere la loro preoccupazione notificando a Zuckerberg e Sandberg che essi abbandoneranno la piattaforma nel momento in cui il gigante dei media decidesse di adottare la definizione dell’IHRA. In definitiva siamo noi, gli utenti, ad avere in mano il potere.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon

Neve Gordon è borsista del Marie Curie [le azioni Marie Skłodowska-Curie sono una serie di importanti borse di ricerca create dall’Unione europea per sostenere la ricerca in Europa, ndtr.] e professore di diritto internazionale presso la Queen Mary University di Londra.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Intifada palestinese: come Israele orchestrò una sanguinosa conquista

Ali Adam

20 settembre 2020 – Al Jazeera

Nel ventesimo anniversario della Seconda Intifada i palestinesi ricordano come Israele cercò di consolidare la sua occupazione.

Gaza City – La Seconda Intifada, comunemente definita dai palestinesi l’Intifada di Al-Aqsa, iniziò dopo che il 28 settembre del 2000 l’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon scatenò la rivolta quando fece irruzione con più di 1.000 poliziotti e soldati pesantemente armati nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata.

L’iniziativa scatenò sdegno unanime tra i palestinesi che avevano appena celebrato l’anniversario del massacro del 1982 a Sabra e Shatila [due campi profughi a Beirut in cui i falangisti libanesi, con l’appoggio dell’esercito israeliano occupante, commisero una terribile strage, ndtr.] per il quale Sharon [allora ministro della Difesa israeliano, ndtr.] era stato considerato responsabile per non aver bloccato lo spargimento di sangue, a seguito dell’invasione israeliana del Libano.

Ma già prima della controversa iniziativa di Sharon la frustrazione e la rabbia erano aumentati anno dopo anno tra i palestinesi sullo sfondo del rifiuto dei successivi governi israeliani di rispettare gli accordi di Oslo e porre fine all’occupazione.

Diana Buttu, analista residente a Ramallah ed ex- consigliera dei negoziatori palestinesi a Oslo, dice ad Al Jazeera: “Tutti, compresi gli americani, avevano avvertito gli israeliani che i palestinesi stavano raggiungendo un punto critico, e che fosse necessario acquietare la situazione. Invece alimentarono ancor di più il fuoco.

La visita di Sharon fu la scintilla che accese l’Intifada, ma le sue basi erano state poste negli anni precedenti.”

Secondo gli accordi di Oslo entro il 4 maggio 1999 avrebbe dovuto nascere una Palestina indipendente, nota Buttu, aggiungendo che dall’inizio dei negoziati nel 1993 fino all’inizio dell’Intifada “quello che vedemmo fu una rapida espansione delle colonie israeliane.”

“Di fatto vedemmo che solo nel breve periodo dal 1993 all’anno 2000 il numero dei coloni raddoppiò da 200.000 a 400.000. Si vedeva che quello che stava succedendo sul terreno era progettato per garantire che non ci sarebbe stato uno Stato palestinese indipendente,” afferma.

Soluzioni israeliane”

Le tensioni e la frustrazione crebbero anche dopo il fallimento dei colloqui di pace di Camp David che si tennero nel luglio 2000, quando l’allora leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Ehud Barak non trovarono un accordo di pace a causa delle divergenze sullo status di Gerusalemme, la contiguità territoriale [del futuro Stato palestinese, ndtr.] e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Hani al-Masri, direttore generale di Masarat, il Palestinian Center for Policy Research and Strategic Studies [Centro Palestinese per la Ricerca Politica e gli Studi Strategici, Ong palestinese indipendente, ndtr.] aggiunge: “La principale ragione che stava dietro l’Intifada fu che i dirigenti israeliani volevano punire Arafat e i palestinesi per obbligarli ad accettare le soluzioni israeliane, in sostanza lo status quo dell’occupazione. Intendevano obbligare la coscienza palestinese ad accettare quello che voleva Israele.

Attraverso l’Intifada i palestinesi volevano migliorare le condizioni del dopo Oslo, che avevano raggiunto un punto bassissimo nel summit di Camp David, quando ad Arafat venne chiesto di lasciar perdere Gerusalemme e la questione dei rifugiati.”

Wasel Abu Yusuf, un importante politico palestinese e membro del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) afferma: “Dopo il summit di Camp David, in cui Israele cercò di privare i palestinesi della loro capitale Gerusalemme est, del diritto al ritorno per i palestinesi, così come della contiguità territoriale, il panorama politico si era chiuso in faccia ai palestinesi.

“Con la visita di Sharon Israele voleva provocare i palestinesi perché reagissero con la violenza. Gli israeliani pensarono che, assestando un duro colpo militare ai palestinesi, essi avrebbero ridotto le richieste politiche nei negoziati all’indomani del summit di Camp David.”

Come Israele esacerbò la violenza nella Seconda Intifada

I primi giorni della rivolta vennero caratterizzati da grandi manifestazioni non violente che includevano la disobbedienza civile e qualche lancio di pietre. Iniziò a Gerusalemme e rapidamente si diffuse alla Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est.

Le autorità israeliane reagirono alle manifestazioni con un uso eccessivo della forza che incluse proiettili ricoperti di gomma e pallottole vere. Subito dopo seguirono incursioni militari con il coinvolgimento di elicotteri e carrarmati in zone palestinesi densamente popolate.

Come rivelò Amos Malka, allora direttore dell’intelligence militare israeliana, si stima che durante i primi 5 giorni della Seconda Intifada i soldati israeliani abbiano sparato circa 1.3 milioni colpi di arma da fuoco. Ciò avvenne nonostante il fatto che nelle prime settimane la violenza dei palestinesi fosse minima.

“La violenza israeliana dimostrò che gli israeliani non erano interessati a una rapida fine del conflitto,” dice Abu Yusuf. “Il fatto che Israele abbia sparato più di un milione di proiettili, provocato molte vittime tra i palestinesi e violato i luoghi santi musulmani, tutto ciò dimostra che Israele voleva militarizzare l’Intifada. L’uso eccessivo della forza da parte dell’esercito israeliano intendeva trascinare i palestinesi in uno scontro militare.”

Buttu afferma che i leader israeliani volevano distogliere l’attenzione dalla costruzione delle colonie. “Fu una copertura per tutto quello che avevano voluto fare fino ad allora.”

Nei primi cinque giorni dell’Intifada vennero uccisi 47 palestinesi e altri 1.885 vennero feriti. Amnesty International scoprì che la maggioranza delle vittime palestinesi era composta da spettatori e che l’80% degli uccisi nel primo mese non rappresentava una minaccia letale per le forze israeliane. Durante quello stesso periodo vennero uccisi dai palestinesi cinque israeliani.

Gli analisti hanno a lungo sostenuto che l’uso eccessivo della forza sia stata la ragione per cui la fase della resistenza popolare palestinese nella Seconda Intifada terminò rapidamente e venne rimpiazzata dalla rivolta armata.

“Il livello dell’aggressione israeliana e delle perdite da parte palestinese non consentiva di conservare il carattere non violento dell’Intifada palestinese,” sostiene al-Masri.

Vittime di massa

Parlando della Seconda Intifada, gli israeliani citerebbero gli attentati suicidi palestinesi, ma alcuni osservatori affermano che fu solo dopo più di un mese che i palestinesi subivano mortali attacchi militari che alcuni fecero ricorso alla violenza suicida.

Secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani, nel corso della Seconda Intifada vennero uccisi almeno 4.973 palestinesi. Tra essi ci furono 1.262 minorenni, 274 donne e 32 operatori sanitari.

Secondo Defence for Children International, un’organizzazione indipendente con sede in Svizzera che si dedica alla promozione e alla protezione dei diritti dell’infanzia, più di 10.000 minori rimasero feriti nel corso dei cinque anni dell’Intifada.

Oltre ai morti e ai feriti, l’esercito israeliano demolì più di 5.000 case palestinesi e ne danneggiò in modo irreparabile altre 6.500, secondo il Centro Palestinese per i Diritti Umani.

In generale la Seconda Intifada adottò una resistenza non violenta, ignorata dai principali mezzi di comunicazione, mentre i palestinesi si organizzavano e protestavano in modo non violento contro la campagna militare, le colonie israeliane, le demolizioni di case palestinesi, così come contro la barriera di separazione.

“La stragrande maggioranza della Seconda Intifada fu non violenta. Ciò non venne metodicamente ignorato perché non rientrava nella narrazione tramessa ai media occidentali,” afferma Buttu.

“Ricordo di aver partecipato a molte di quelle manifestazioni a cui gli israeliani risposero con molta violenza. Venni colpita da un proiettile ricoperto di gomma alla gamba destra.”

Durante gli anni dell’Intifada i palestinesi fecero tentativi di porre fine alla violenza, ma gli israeliani rifiutarono questa disponibilità.

Nel febbraio 2003 fonti israeliane rivelarono una proposta presentata dall’Autorità Nazionale Palestinese a Israele. Si impegnava a porre totalmente fine agli attacchi contro Israele in cambio di un graduale ritiro dell’occupazione israeliana alle posizioni precedenti all’Intifada.

Nel 2002, quando Arafat appoggiò l’iniziativa di pace araba lanciata dall’Arabia Saudita, i leader palestinesi rinnovarono i tentativi di porre fine allo scontro militare. Israele, da parte sua, ignorò la proposta e continuò le sue operazioni militari.

Come Israele continui a utilizzare la Seconda Intifada come pretesto

Buttu nota che in seguito Israele ha utilizzato la rivolta per accampare pretese basate sulla necessità di “sicurezza”.

“Iniziarono a fare pesanti richieste per prendersi tutta la valle del Giordano, tutta Gerusalemme, mantenendovi le colonie. In seguito si sono trasformate nella costruzione del muro, nei posti di controllo e nelle basi dell’esercito all’interno della terra palestinese.

“È per questo che il piano di Trump è così com’è oggi. Il piano di Trump si conforma a tutte le richieste che Israele ha posto in seguito alla Seconda Intifada, che Israele ha cercato e voluto.”

Abu Yusuf, politico palestinese, afferma che 20 anni dopo l’inizio della Seconda Intifada Israele rifiuta ancora diritti ai palestinesi in qualunque forma.

“Continua ad espandere le colonie, demolisce case palestinesi e mette in pratica la sua annessione di fatto dei territori palestinesi con l’appoggio dell’amministrazione Trump,” afferma Abu Yussuf.

“Esattamente come 20 anni fa il popolo palestinese, nonostante tutto, è ancora impegnato a resistere contro l’occupazione e per i propri diritti in base alle leggi internazionali, e lo rimarrà finché otterrà la libertà in uno Stato palestinese sovrano e indipendente con Gerusalemme est come capitale e la soluzione del dramma dei rifugiati in base alla risoluzione 194 dell’ONU.

Anni dopo gli attacchi israeliani contro i palestinesi durante la Seconda Intifada, Israele ancora “commette ogni sorta di crimini”, dice al-Masri. “Il silenzio da parte della comunità internazionale è ciò che ancora incoraggia Israele a commettere crimini e flagranti violazioni dei diritti umani.”

Abu Yusuf afferma che le recenti sfide, come il cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump, l’annessione israeliana e la normalizzazione tra Israele ed alcune Nazioni Arabe, mirano tutte “a obbligare i palestinesi ad accettare di vivere in cantoni e bantustan [territori destinati alla popolazione nera nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.].”

“Ma come hanno fatto negli anni dell’Intifada e in quelli prima di Oslo, i palestinesi rifiutano di accettare qualcosa meno della fine dell’occupazione e continueranno a farlo ora e in futuro.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Pace senza giustizia: perché la sinistra in Israele sostiene gli accordi di Netanyahu coi Paesi del Golfo

Orly Noy,

23 settembre 2020 – Middle East Eye

Senza coraggio storico e priva di una solida determinazione morale, la sinistra sionista plaude ai pericolosi accordi conclusi dal governo più di destra che Israele abbia mai avuto

Se ci fosse stato bisogno di un’ulteriore prova dell’intrinseca incapacità della sinistra sionista di Israele di analizzare correttamente le circostanze politiche e rispondere di conseguenza, l’abbiamo avuta quando i leader di questo fronte si sono affrettati a concedere la loro benedizione agli “accordi di pace” tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e successivamente con il Bahrain.

Tamar Zandberg, leader del partito Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndtr.], ha dichiarato di “plaudire alla decisione di rinunciare all’annessione e di passare invece a un accordo con un importante Paese arabo”. Peace Now [movimento israeliano non-governativo pacifista, ndtr.] ha dichiarato che “l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti è un grande passo nella giusta direzione”.

Nitzan Horowitz, presidente del partito Meretz, ha affermato che “l’instaurazione di relazioni con gli Emirati Arabi Uniti dimostra che la revoca dell’annessione e [il perseguimento] di una soluzione a due Stati è la via per la normalizzazione regionale”.

Il New Israel Fund [organizzazione statunitense no profit per la giustizia e uguaglianza in Israele, ndtr.] lo ha descritto come un importante sviluppo. Anche Gideon Levy, il giornalista di solito più critico e attento, ha plaudito all’iniziativa: “Qualsiasi tentativo da parte di Israele di essere accettato con mezzi non violenti nel contesto regionale in cui è entrato con passo pesante circa un secolo fa è uno sviluppo positivo”.

Un triste scherzo

Indaffarata a concedere le sue benedizioni, la sinistra ebraica israeliana è stata del tutto cieca alla reazione ovunque profondamente critica dei palestinesi all’accordo. Che avrebbe dovuto essere in sé un campanello di allarme.

Ma a prescindere dalla ferma opposizione palestinese, la natura problematica della posizione della sinistra israeliana sarebbe stata evidente, se qualcuno si fosse preso la briga di chiedersi in cosa consistessero veramente quegli accordi, cosa spingesse il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a firmarli, a favore di chi fossero stati progettati e quale fosse il loro obiettivo.

Normalizzazione: che scherzo triste.

Basta guardare agli accordi di pace che Israele ha firmato con l’Egitto e la Giordania per capire esattamente quanto Israele sia oggi “normalizzato” agli occhi dei cittadini di quei Paesi. Non solo non si sono mai visti turisti egiziani o giordani per le strade di Israele, gli accordi non sono serviti a mitigare il modo in cui gli egiziani e i giordani vedono Israele – come un brutale occupante.

Non appena i nuovi accordi sono stati resi pubblici, il popolo del Bahrein stava già protestando con rabbia contro qualsiasi normalizzazione con Israele. Mentre gli accordi di Israele con l’Egitto e la Giordania hanno portato almeno a un’era senza guerre con due dei vicini e hanno risolto controversie di confine di vecchia data, l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein non servono nemmeno a qualcosa di simile. Quale conflitto risolvono esattamente questi accordi?

Quand’è che abbiamo paventato una guerra con gli Emirati Arabi Uniti? Quale nostro confine è ora più sicuro? Israele non ha confini con gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein.

Eludere la questione palestinese

È triste e scoraggiante che la sinistra ebraica in Israele si sia affrettata a sposare un accordo il cui obiettivo principale, oltre all’apertura di un altro mercato per l’industria delle armi israeliana, è di eludere la questione palestinese e ottenere la legittimità regionale pur continuando a perpetrare l’occupazione, le violenze e la spoliazione del popolo palestinese.

L’argomento della sinistra secondo cui un accordo con Emirati Arabi Uniti e Bahrein “ha tolto dal tavolo l’opzione dell’annessione” è infantile in modo imbarazzante. Sin dall’inizio l’annessione è stata una minaccia architettata per fornire a Israele proprio questo spazio di manovra.

Bisognerebbe essere davvero ingenui per pensare che le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti o il Bahrein possano eliminare dal programma l’annessione. Dopotutto, Netanyahu e il suo governo di estrema destra esistono da oltre un decennio. Se davvero avessero voluto l’annessione, l’avrebbero realizzata molto tempo fa.

Ma poiché l’annessione de facto si rafforza quotidianamente senza comportare alcun costo reale per Israele né a livello locale né internazionale, Netanyahu non ha alcun interesse a scatenare l’opinione pubblica mondiale attraverso un’annessione de jure.

Al contrario con quella vuota minaccia miete capitale politico, mentre la deplorevole stoltezza della sinistra alimenta la sua corsa.

Contrariamente a quanto sostiene la sinistra, non solo questi accordi non fanno nulla per risolvere il conflitto con i palestinesi, peggio, ribadiscono il vecchio slogan della destra: puoi ottenere la pace per la pace, non è necessario pagare per la pace restituendo la terra.

L’etica della “pace”

Come spiegare allora il sostegno della sinistra ebraica israeliana a un accordo così irrealistico e dannoso?

Ha molto a che fare con l’etica della “pace” abbracciata tanto orgogliosamente dalla sinistra israeliana come fronte israeliano della pace. Penso non sia un caso che la sinistra sionista abbia scelto come emblema la “pace”, piuttosto che l’idea di giustizia.

Questo è in realtà da sempre uno dei maggiori inganni nel ruolo di quella che è conosciuta come la sinistra sionista: convertire la richiesta di giustizia in vaghi sogni di pace. Non che la pace non sia un valore importante; anzi. I Paesi, come le persone, dovrebbero certamente aspirare alla pace. Ma quando la pace diventa una via per aggirare la giustizia, non solo la giustizia viene fatta a pezzi, di fatto non si raggiunge nemmeno la pace.

La ragione per cui la sinistra sionista in Israele preferisce parlare più di pace e meno di giustizia ha a che fare con il carattere del sionismo. Il sionismo può offrire vuoti accordi di pace ma non può offrire alcun tipo di giustizia, perché per sua natura aspira a preservare ed estendere la superiorità ebraica e i privilegi che ne derivano.

Così, questa sinistra immaginaria a Oslo è stata in grado di imporre ai palestinesi un “accordo di pace” progettato per perpetuare l’inferiorità palestinese nei confronti di Israele (e nemmeno il poco che Oslo ha promesso ai palestinesi è stato reso effettivo da Israele) – ma Israele si è attentamente astenuto da qualsiasi accenno alla giustizia storica per non aprire il vaso di Pandora dell’ingiustizia intrinseca che è stata la Nakba.

Oggi, senza coraggio storico e priva di una solida determinazione morale, una sinistra che sta gradualmente scomparendo plaude agli accordi manipolatori e pericolosi conclusi dal primo ministro del governo più a destra che Israele abbia mai avuto.

Le opinioni espresse in questo articolo sono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica della redazione di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista e attivista politica che risiede a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La raccolta fondi per un terrorista israeliano evidenzia un razzismo antipalestinese profondamente radicato

Robert Andrews

22 settembre 2020 – Middle East Monitor

Un razzismo antipalestinese profondamente radicato è endemico in larghe fasce della società israeliana. Questo è stato nuovamente confermato la scorsa settimana, quando una campagna israeliana di raccolta fondi ha raccolto in soli 5 giorni oltre 1,38 milioni di shekel (equivalenti a 339.000 euro) per finanziare le spese legali dell’appello di Amiram Ben Uliel, il terrorista israeliano condannato a tre ergastoli per l’uccisione cinque anni fa di tre membri della famiglia palestinese Dawabsheh. L’attacco incendiario di Ben Uliel del 31 luglio 2015 uccise il piccolo Ali Dawabsheh, di 18 mesi, e i suoi genitori Saad e Riham. Ahmed Dawabsheh, unico sopravvissuto all’attacco e che all’epoca aveva solo cinque anni, subì ustioni di secondo e terzo grado su oltre il 60% del corpo.

La raccolta fondi razzista, organizzata dalla moglie di Ben Uliel, Orian, e dall’associazione di estrema destra di sostegno legale Honenu dopo la sua condanna lo scorso lunedì, in soli cinque giorni ha superato gli obiettivi della campagna. Finora essa ha ricevuto soldi da oltre 4.900 sottoscrittori ed è stata sostenuta da alcune importanti personalità israeliane, compresi più di una ventina di rabbini di tutto lo spettro nazional – religioso [tendenza religiosa e nazionalista dei coloni estremisti, ndtr.] e dal figlio maggiore di Netanyahu, Yair.

In previsione dell’appello alla Corte Suprema si è formata a caro prezzo un’equipe di difensori composto da ottimi avvocati,” hanno scritto i rabbini in un comunicato congiunto in cui si chiede il rilascio di Ben Uliel. “Chiediamo all’opinione pubblica di contribuire generosamente (a questa campagna di raccolta fondi), ognuno in base alle proprie possibilità, a questa campagna per salvare una vita.”

In un comunicato separato Elyakim Levanon, rabbino capo di Samaria [zona centrale della Cisgiordania, ndtr.] e capo della scuola religiosa di Elon Moreh [colonia israeliana particolarmente violenta, ndtr.] ha notato: “Tutto Am Yisrael [il popolo di Israele, ndtr.] è in crisi. Chiedo ad ognuno di unirsi alla campagna per il rilascio di questo innocente e per liberarlo da ogni colpa, sia con preghiere per Rosh HaShana [capodanno ebraico, ndtr.] che con contributi concreti.”

Il comunicato congiunto dei rabbini e tale chiaro appoggio da parte degli israeliani per il successo del processo di appello di Ben Uliel esemplificano una crescente ondata di sentimenti antipalestinesi nella società israeliana, che considera sempre di più gli israeliani che attaccano ed uccidono palestinesi degli eroi. Sulle reti sociali un video diventato virale che mostra gruppi di israeliani mentre ballano festeggiando la notizia della morte di Ali Dawabsheh illustra l’esultanza con cui tali notizie sono accolte in Israele.

Più di recente un soldato israeliano ha sparato in testa al palestinese Abdel Fattah Al-Sharif mentre era a terra ferito e disarmato. Elor Azaria è stato rilasciato nel maggio 2018 dopo aver scontato solo nove mesi dei 18 a cui era stato condannato per omicidio colposo. Azaria aveva giustiziato Al-Sharif 11 minuti dopo che era stato colpito ed era a terra: il soldato era stato inizialmente condannato per omicidio e solo per questo cacciato in fretta e furia dalla polizia militare israeliana.

Prevedibilmente la condanna di Azaria per omicidio colposo ha provocato una rivolta in tutto Israele ed ha portato una vasta gamma di dirigenti sociali e politici a solidarizzare con lui e a chiedere che venisse perdonato. Secondo il parlamentare della Knesset Yifat Shasha-Biton, fin da subito tutto questo caso è stato “radicalmente falsato”, mentre Netanyahu, dopo aver appreso della condanna di Azaria, ha rimarcato che si trattava di “un giorno difficile e penoso per tutti noi”. In tutto Israele si sono tenute proteste di massa che chiedevano il rilascio di Azaria; secondo stime della polizia, fino a 5.000 persone si sono riunite in piazza Rabin a Tel Aviv, con slogan come “morte agli arabi”.

Dal suo rilascio dalla prigione nel 2018 Azaria è diventato una celebrità in Israele, ha ricevuto un vasto appoggio popolare e nel 2019 è persino stato pagato per comparire sui manifesti della campagna politica del Likud insieme al viceministro della Difesa Ambientale Yaron Mazuz.

La crescente notorietà di Azaria si manifesta sullo sfondo di un sistema giudiziario in cui, per esempio, l’allora diciassettenne palestinese Ahed Tamimi è stata tenuta in una prigione militare per otto mesi per aver schiaffeggiato un soldato israeliano dopo che suo cugino era stato colpito alla testa con un proiettile ricoperto di gomma, mentre l’uccisione a sangue freddo di un palestinese comporta irrisorie condanne al carcere o, in molti casi, neppure quello. Ha scritto Allison Kaplan Sommer su Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.]: “Senza le immagini diventate virali nel Paese e in tutto il mondo… nessuno avrebbe conosciuto il suo (di Azaria) nome.”

La schiacciante accusa di razzismo all’interno della società israeliana, esemplificata dai diffusissimi appelli a rilasciare l’assassino della famiglia Dawabsheh e la mancata punizione garantita ai soldati che uccidono palestinesi, probabilmente sorprende quanti sono ancora assorbiti dal mito di un Israele egualitario e democratico. Fungono da campanello d’allarme che obbliga le persone ragionevoli a prendere in considerazione la situazione della società israeliana nel 2020, che è così diversa dall’immagine promossa dai suoi apologeti. Lontano dal contratto sociale tracciato dalla sua dichiarazione di fondazione, Israele è diventato un luogo in cui persino l’omicida condannato di un piccolo bambino di 18 mesi e dei suoi genitori è difeso in modo veemente e sostenuto finanziariamente in modo palese e, per eterna vergogna di Israele, entusiastico.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La polizia israeliana sa come placare i sospetti aggressori – quando sono ebrei

Oren Ziv

21 settembre 2020 – +972 magazine

Quando un israeliano pare abbia cercato di investire con la sua auto i manifestanti anti-Bibi, la polizia lo ha sopraffatto in modo pacifico. I palestinesi spesso non sono così fortunati.

Non è un segreto che le forze di sicurezza israeliane trattino ebrei israeliani e palestinesi, sia cittadini [di Israele] che vittime dell’ occupazione militare, in modo molto diverso. Mentre i cittadini ebrei spesso godono del beneficio del dubbio da parte della polizia, i palestinesi sono spesso trattati come sospetti terroristi che devono prima di tutto essere repressi.

Questo divario è stato del tutto evidente domenica notte, quando la polizia israeliana ha sventato un sospetto tentativo di investimento con l’auto da parte di un uomo ebreo-israeliano durante la manifestazione settimanale contro il primo ministro Benjamin Netanyahu a Gerusalemme.

Un video dell’attacco, che ho realizzato e pubblicato per la prima volta su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.], mostra il responsabile che accelera mentre guida la sua macchina in direzione dei manifestanti in King George Street. L’auto viene vista avvicinarsi a un posto di blocco della polizia prima di fermarsi all’alt facendo stridere i freni, dopodiché l’autista viene portato via dal veicolo e arrestato dagli agenti.

In seguito all’incidente la polizia israeliana ha pubblicato una dichiarazione secondo cui “le forze che operano in King George Street hanno arrestato un sospetto che si dirigeva velocemente con un veicolo verso i posti di blocco della polizia, rappresentando un pericolo per i manifestanti e la polizia”. In seguito all’incidente, il vice sovrintendente della polizia Alon Halfon ha dichiarato: “È arrivato un veicolo, l’uomo è stato arrestato ed è sotto inchiesta. La recinzione [della polizia] gli ha impedito di continuare e provocare danni “.

È troppo presto per determinare cosa abbia spinto il guidatore a condurre l’auto verso i manifestanti. Quando la polizia lo ha preso in custodia, gli ho chiesto perché avesse cercato di investire i manifestanti. Non ha voluto rispondere e ha cercato di aggredirmi.

Un gruppo di quattro manifestanti era seduto su delle sedie in mezzo alla strada a pochi metri da dove l’auto si è fermata di colpo. Hanno detto che pensavano che sarebbero stati investiti e che forse qualcosa all’ultimo momento ha impedito al conducente di aggredirli. Forse ha visto la polizia, forse ha cambiato idea.

Tutto ciò che si sa al momento sul sospetto è che ha 20 anni e risiede a Gerusalemme. Al contrario i nomi e i dettagli sui sospetti palestinesi vengono spesso rilasciati dalle forze di sicurezza subito dopo il fatto.

Gli agenti, ovviamente, devono essere elogiati per la sensibilità con cui hanno gestito la situazione. A quanto pare coloro che hanno arrestato il conducente hanno creduto che si trattasse di un tentativo di aggressione, o almeno hanno sentito le loro vite in pericolo, dal momento che circa quattro di loro hanno estratto e puntato le armi. Eppure non hanno aperto il fuoco, mostrando invece con precisione come fermare un autista pericoloso senza sparare un solo colpo.

Come ha osservato un giornalista esperto, la polizia ha riportato i fatti dal punto di vista degli agenti senza aggiungere alcun ulteriore commento. Non si è discusso di un “tentativo di attacco” e anche le parole “tentato investimento con un’auto” non sono state inserite nel rapporto della polizia. Ciò nonostante l’autista ha chiaramente accelerato e ha frenato all’ultimo momento a pochi metri da un gruppo di manifestanti – un evento che miracolosamente non si è concluso con delle vittime.

Non ci vuole molto per immaginare come sarebbe finito un evento del genere se l’autista fosse stato un palestinese: esecuzione sul posto, prima di lasciare il corpo a terra fino all’arrivo di un artificiere per escludere la possibilità di un ordigno esplosivo. Entro pochi minuti dall’incidente la polizia avrebbe rilasciato una dichiarazione su un tentato attacco terroristico.

Questo è esattamente quello che è successo nel caso di Yacoub Abu al-Qi’an, un cittadino beduino che è stato ucciso dalla polizia nel gennaio 2017, e Ahmed Erakat, un palestinese di Gerusalemme che quest’anno è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane ad un checkpoint. Subito dopo aver sparato la polizia israeliana e i media li hanno immediatamente descritti come aggressori, nonostante prove discutibili nei loro confronti.


Abu al-Qi’an ed Erakat sono solo due degli innumerevoli palestinesi che hanno perso la vita e sono stati subito definiti terroristi. Ma lunedì la polizia ci ha ricordato che esiste un altro modo di gestire i sospetti che non include aprire il fuoco sui presunti aggressori. Un modo, a quanto pare, riservato solo ai cittadini ebrei.

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [formato da fotografi israeliani e internazionali con il proposito di utilizzare la fotografia come strumento di cambiamento sociale e politico, ndtr.] e un redattore di Local Call. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati con una particolare attenzione sulle comunità di attivisti e sulle loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sugli alloggi a prezzi accessibili e su altre questioni socioeconomiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulle battaglie animaliste.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Corte Penale Internazionale esclude l’indagine sulla Freedom Flottiglia a Gaza

Maureen Clare Murphy 

19 Settembre 2020 – Electronic Intifada

Una giuria della Corte Penale Internazionale ha respinto il ricorso contro la decisione della procuratrice capo di non procedere nell’indagine sull’attacco mortale di Israele a una nave in acque internazionali nel 2010.

I soldati israeliani avevano ferito a morte 10 persone a bordo della Mavi Marmara  dopo aver fatto irruzione sulla nave, che era parte di una flottiglia civile intenzionata a rompere l’assedio in corso a Gaza.

La decisione della camera preliminare di questa settimana sembra porre fine a sette anni di procedimenti legali e di botta e risposta tra la procuratrice Fatou Bensouda e il collegio dei giudici che le hanno ripetutamente chiesto di riconsiderare la sua decisione di non indagare.

Bensouda ha riconosciuto che “c’è un ragionevole margine di dubbio per credere che siano stati commessi crimini di guerra” dalle forze israeliane quando sono salite a bordo della Mavi Marmara.

Ma ha insistito sul fatto che l’attacco israeliano in alto mare non è “sufficientemente grave” da giustificare un procedimento giudiziario.

I giudici hanno identificato una serie di errori che è stato chiesto a Bensouda di correggere.

Nella loro decisione di questa settimana, i giudici affermano che Bensouda “non ha veramente riconsiderato” la sua decisione del 2014 di eludere l’indagine. Secondo i giudici, ha anche “commesso nuovi errori” lo scorso anno nel riaffermare le proprie decisioni.

Gli errori includono la valutazione del pubblico ministero della gravità dell’eventuale causa derivante dai fatti.

Nella sua conferma del 2019 della decisione di non perseguire, Bensouda ha affermato che i commando israeliani che hanno preso d’assalto la Mavi Marmara sembrano essere i principali responsabili dei presunti crimini e sarebbero perciò stati al centro di qualsiasi indagine.

Ha ritenuto non esserci basi ragionevoli per credere che gli alti comandi israeliani e i leader civili non presenti sulla Mavi Marmara fossero responsabili.

Come riassumono i giudici, Bensouda ha sostenuto che l’ambito dell’eventuale causa [giudiziaria] sarebbe probabilmente limitato e che l’identificazione degli autori dei crimini di omicidio intenzionale e lesioni gravi sarebbe difficile data la “situazione caotica” durante l’attacco alla Mavi Marmara.

I giudici sottolineano che la procuratrice ha “essenzialmente escluso dall’ambito” di un’eventuale indagine, “a parte gli stessi responsabili, altre categorie di persone, dai comandanti diretti… agli alti comandi [militari] e leader israeliani”.

I giudici aggiungono che una valutazione iniziale “non dovrebbe mai portare all’esclusione di alcune categorie di persone ancor prima che le indagini siano iniziate”.

La procuratrice ha dichiarato di essere stata incaricata in fase istruttoria non di “valutare se l’indagine si sarebbe estesa” a comandanti e funzionari di alto livello, “ma se si potesse portarla avanti per i principali responsabili, chiunque fossero”.

Non considerate le nuove prove

Bensouda inoltre si è basata solo sulle informazioni messe a sua disposizione al novembre del 2014. Ciò escluderebbe le prove derivanti tra l’altro dalle testimonianze a una commissione pubblica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e di Ehud Barak, ministro della Difesa israeliano al momento dell’attacco alla Mavi Marmara.

Le affermazioni di Bensouda sono state contestate dal governo delle Comore, di cui la Mavi Marmara batte bandiera. In un appello presentato nel marzo di quest’anno, le Comore hanno sostenuto che le prove “dimostrano che l’intera operazione è stata attentamente pianificata e diretta da diversi ministeri e dai vertici” dell’esercito israeliano.

Le richieste della camera preliminare affinché Bensouda riconsiderasse la sua decisione, tuttavia, sostenevano che la cosa “avrebbe dovuto essere condotta sulla base delle informazioni già in possesso della procuratrice.

La quale era già in possesso di informazioni che “possono ragionevolmente suggerire che ci fosseroro un’intenzione e un piano preesistenti di uccidere i passeggeri”, notano i giudici. Si tratta dell’uso di armi da fuoco da parte dei militari israeliani deciso prima dell’assalto alla Mavi Marmara.

I giudici hanno anche criticato come “prematura” la decisione della procuratrice secondo cui il presunto maltrattamento dei passeggeri sulla Mavi Marmara da parte dei soldati israeliani non si qualifica come trattamento disumano.

“La procuratrice avrebbe dovuto riconoscere che c’era una ragionevole base per credere che fosse stato commesso il crimine di guerra di tortura o di trattamento disumano”, affermano i giudici.

Aggiungono che “il deliberato rifiuto di cure mediche nella giurisprudenza della Corte e di altri tribunali [israeliani] è da considerarsi equivalente a un trattamento crudele che costituisce un crimine di guerra … o altri atti disumani costituiscono un crimine contro l’umanità”.

I soldati israeliani e la polizia negano abitualmente cure mediche ai palestinesi colpiti da colpi di arma da fuoco in quelli che Israele sostiene siano attacchi ai suoi militari, ma che in molti casi non sono altro che uccisioni illegali.

I giudici accusano inoltre la procuratrice di aver introdotto considerazioni irrilevanti ai fini della valutazione della gravità dell’eventuale causa facendo riferimento alla “resistenza violenta dei passeggeri” sulla Mavi Marmara, ipotizzando addirittura che i soldati israeliani possano aver agito per legittima difesa.

Nella sua decisione del 2014 di non indagare, Bensouda comunque ha stabilito che i passeggeri a bordo della Mavi Marmara fossero protetti dalle Convenzioni di Ginevra e che la loro uccisione o lesioni fossero crimini di guerra.

Bensouda considerava che vi fosse un margine ragionevole per credere che fosse stato commesso un crimine che rientrasse nella giurisdizione della Corte. Per questo motivo, affermano i giudici, “non è appropriato che faccia affidamento su incertezze o sull’esistenza di diverse spiegazioni plausibili in merito alla presunta attuazione dei crimini”.

I giudici incolpano il pubblico ministero anche di non aver “dichiarato come abbia valutato il danno subito dalle vittime”, portandoli a concludere che “non ha attribuito alcun peso all’impatto dei presunti crimini sulle vittime dirette e indirette”.

Questo è altro rispetto all’entità dei crimini, che “si riferisce al numero delle vittime, all’area geografica colpita e alla durata e ‘intensità nel tempo dei presunti crimini “.

Secondo i giudici l’impatto è in relazione all’entità del danno subito dalle vittime, sia esso fisico, psicologico o materiale, e affermano che il numero delle vittime registrate per partecipare al procedimento relativo all’assedio di Mavi Marmara “è vicino a 500”.

Altri casi “di gravità paragonabile o minore” rispetto alle circostanze della Mavi Marmara erano stati riconosciuti tali da giustificare ulteriori azioni da parte della Corte, notano i giudici.

La “mancata e coerente applicazione del requisito di gravità” da parte di Bensouda …. “sottopone la Corte alle critiche di doppio standard e di arbitrio”, affermano.

Conclusione scioccante

I giudici, tuttavia, alla fine hanno respinto l’appello del governo delle Comore perché si proceda nell’indagine perché non è chiaro “se e in quale misura si possa chiedere alla procuratrice di correggere gli errori individuati dalla camera (preliminare)”.

Meno di 10 paragrafi nelle 51 pagine dell’istanza sono dedicati a spiegare il rigetto.

È una conclusione scioccante, viste le critiche alla procuratrice di non aver considerato in modo soddisfacente gli errori nel resto dell’istanza.

Il rifiuto della Corte Penale Internazionale ad indagare su quei crimini di guerra sarà senza dubbio frustrante per le vittime di Mavi Marmara che invocano giustizia da più di un decennio. Ancora una volta, Israele non deve farsi carico di conseguenze durature per presunti crimini di guerra.

Ma non si è liberato della CPI.

Nel dicembre dello scorso anno, dopo una lunga indagine preliminare, Bensouda ha raccomandato al tribunale di indagare sui presunti crimini di guerra perpetrati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

La stessa camera preliminare dei giudici che hanno liquidato la vicenda della Mavi Marmara presso la CPI sta attualmente valutando se il tribunale internazionale eserciti giurisdizione sul territorio palestinese occupato.

L’amministrazione Trump a Washington ha adottato una misura senza precedenti imponendo sanzioni economiche a Bensouda e a un altro membro della Corte Penale Internazionale a causa delle indagini della Corte in Afghanistan, che potrebbero portare all’incriminazione di personale statunitense, così come nella situazione in Palestina.

Nonostante le Comore abbiano portato il caso della Mavi Marmara alla Corte Penale Internazionale, si ipotizza che l’isola dell’Oceano Indiano sarà tra le prossime nazioni della Lega Araba a normalizzare le relazioni con Israele.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Per il momento la dirigenza palestinese è immune agli accordi di normalizzazione

Daoud Kuttab

18 settembre 2020 – Al-Monitor

In seguito agli accordi di normalizzazione tra EAU, Bahrein e Israele, potrebbero essere concessi incentivi finanziari all’Autorità Nazionale Palestinese, benché senza un pieno consenso palestinese nessun cambiamento sia in vista.

In tempi normali continue pressioni e l’uso combinato di carota e bastone in genere rendono più malleabile la maggior parte dei leader politici. Ma quando si ha a che fare con un conflitto durato decenni come quello israelo-palestinese e con un leader ostinato come il presidente Mahmoud Abbas, spesso le pressioni ottengono i risultati opposti.

La posizione del dirigente palestinese sembra aver sorpreso il presidente USA e la sua cerchia ristretta. Il 16 settembre il presidente Donald Trump, parlando con i giornalisti, ha rivelato le sue tattiche di pressione finanziaria nei confronti dei palestinesi. Si è vantato di aver tagliato 750 milioni di dollari di supporto annuale ai palestinesi e di aver fatto pressioni sui Paesi arabi perché facessero altrettanto.

Ho smesso di finanziare i palestinesi abbastanza presto perché stavano parlando male del nostro Paese. Quindi da subito ho smesso di finanziarli. Penso che finalmente i palestinesi stiano per rendersi disponibili [a un accordo],” ha detto Trump durante una conferenza stampa alla Casa Bianca.

Trump ha sostenuto che i due Paesi del Golfo che hanno normalizzato i rapporti con Israele smetteranno di finanziare i palestinesi. Tuttavia il ministro dell’Economia degli EAU Abdullah bin Touq Al Marri ha lasciato intendere che, invece di tagliare gli aiuti, gli Emirati Arabi Uniti stanno prendendo in considerazione investimenti sia in Israele che nei territori palestinesi, affermando che nei loro impegni economici bilaterali gli EAU ed Israele stanno progettando di includere alcune aree palestinesi.

Finora i palestinesi si sono opposti agli accordi, una posizione che si è ulteriormente rafforzata quando David Friedman, ambasciatore [USA] in Israele si è messo nei guai allorchè ha pubblicamente chiesto che Abbas venga sostituito da Mahmoud Dahlan [ex-responsabile dell’intelligence di Fatah a Gaza ed espulso dall’organizzazione per aver partecipato all’assassinio di Arafat e per corruzione, ndtr.], l’ex-leader di Fatah che vive negli EAU.

In un’intervista su Israel Hayom [giornale israeliano gratuito di destra, ndtr.] è stato chiesto a Friedman se l’amministrazione Trump stesse cercando di “nominare” Dahlan nuovo leader palestinese. Secondo l’articolo di Israel Hayom, Friedman ha risposto: “Ci stiamo pensando.” Ed ha aggiunto: “Non vogliamo progettare la dirigenza palestinese.” In seguito Friedman ha affermato che intendeva dire: “Non ci stiamo pensando.”

Ma, indipendentemente dalle sue intenzioni, il danno era stato fatto. L’attivista palestinese Dimitri Diliani, di Gerusalemme, portavoce della cosiddetta ala riformista di Fatah, ha stigmatizzato le affermazioni di Friedman, insistendo sul fatto che i palestinesi continueranno a scegliersi i propri dirigenti.

La dichiarazione di Friedman ha persino obbligato Dahlan a fare altrettanto. Dahlan ha twittato: “Chiunque non sia eletto dal proprio popolo non può guidarlo e raggiungere l’indipendenza nazionale…Penso fermamente che la Palestina abbia disperatamente bisogno di rinnovare la legittimità di qualunque dirigenza e istituzione palestinese, e ciò si otterrà solo attraverso corrette elezioni nazionali e non è ancora nato chi possa imporci la propria volontà.”

Invece di obbligare Abbas ad ammorbidire la sua posizione, le pressioni di USA e EAU sembrano avergli dato una nuova vitalità politica.

Si potrebbe sostenere che l’appoggio popolare emerso a favore di Abbas sarà di breve durata, ma la situazione è che i palestinesi stanno godendo di una rara atmosfera di unità nazionale. Di fronte a un pericolo esiziale sia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che i dirigenti islamici hanno seppellito l’ascia di guerra per rafforzare la pace, mettendo da parte le differenze tra loro.

Mentre i rivali politici di Abbas sono in svantaggio, l’opinione pubblica è ancora scettica riguardo alla dirigenza e alla strategia. Gli attuali tentativi di intensificare la resistenza popolare non sono riusciti a prendere piede. Mentre i dirigenti palestinesi stanno ancora guidando macchine di lusso e vivono agiatamente, la popolazione palestinese sta soffrendo e i dipendenti pubblici non ricevono lo stipendio.

L’impatto definitivo degli accordi sulla dirigenza palestinese alla fine porterà alle elezioni a lungo attese. Un complessivo riesame popolare degli obiettivi, dei mezzi e della dirigenza per una nuova strategia per la liberazione può essere fatto solo all’interno di un contesto di elezioni sia legislative che presidenziali, così come con la riconvocazione dei rappresentanti del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, che negli ultimi 22 anni si è riunito solo una volta, ndtr.]. Il tentativo di unità nazionale verrà preso seriamente solo quando sarà annunciata la data per le elezioni e verrà riformata l’OLP.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




COVID-19 in Palestina: annessione nella Valle del Giordano

Yumna Patel

17 settembre 2020 – Mondoweiss

Se seguite le notizie su Israele e Palestina, avrete probabilmente sentito parlare della Valle del Giordano.

È l’area del territorio palestinese che si trova al confine tra la Giordania e la Cisgiordania occupata. È un’enorme superficie di terra, che si estende per oltre 100 chilometri e costituisce quasi un terzo dell’intera Cisgiordania.

È inoltre una delle principali aree di cui Israele ha previsto l’annessione – una politica che vedrebbe il governo israeliano imporre unilateralmente la sua sovranità su migliaia di ettari di terra palestinese occupata.

Si dà il caso che in base al diritto internazionale questa politica sia illegale e che sia stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale.

Nell’ambito della serie di puntate sul COVID-19 in Palestina ci siamo recati nella Valle del Giordano per vedere com’è lì la vita per i palestinesi mentre combattono due battaglie: una contro il coronavirus e una contro l’annessione.

Mentre attraversiamo la Valle del Giordano è possibile notare decine di gruppi di piccoli villaggi e accampamenti.

Molti palestinesi qui sono in realtà beduini e comunità di pastori che dipendono per il loro stile di vita dall’agricoltura. Ma a causa dei piani di annessione di Israele sono minacciati di sfollamento forzato, minaccia che affermano si sia effettivamente accentuata durante il periodo della pandemia di coronavirus.

“La pandemia da coronavirus è ovunque nel mondo ma nelle aree palestinesi, in particolare nella Valle del Giordano abbiamo due pandemie: la pandemia dell’occupazione [israeliana] e poi il coronavirus”, dice a Mondoweiss Motaz Bisharat, un attivista palestinese che abita nel nord della Valle del Giordano.

In quest’area l’occupazione – afferma – è per noi persino peggiore della pandemia da coronavirus. Le forze di occupazione hanno approfittato della pandemia da coronavirus per impossessarsi di altre porzioni del territorio della Valle del Giordano”.

Secondo Bisharat durante l’epidemia da coronavirus Israele ha confiscato nella valle del Giordano settentrionale oltre 1800 ettari di terra di proprietà palestinese e l’ha posta sotto il controllo dello Stato.

Abdelrahim Abdallah, abitante di al-Hadidiya, un piccolo borgo nella valle del Giordano settentrionale, è uno delle centinaia di palestinesi della zona a cui nel corso della pandemia da coronavirus è stata confiscata la terra e che hanno subito la minaccia di demolizione delle loro case.

L’assistenza sanitaria è un diritto dell’uomo. Il governo israeliano dovrebbe avere un po’ di umanità a ragione di questa emergenza e della pandemia che ha attaccato il mondo intero”, afferma Abdallah a Mondoweiss dall’interno della sua casa – una piccola tenda di incerata appoggiata su una lastra di cemento.

“Invece hanno accentuato i loro attacchi e le pressioni su di noi: raid notturni, arresti, divieti di pascolo e attacchi ai terreni agricoli”, aggiunge Abdallah. “Questo è ciò che stanno facendo le forze di occupazione.”

Dall’inizio della pandemia Abdallah e suo figlio, insieme ad altri uomini del villaggio, sono stati arrestati in varie occasioni dalle forze israeliane.

Abdallah afferma che in una circostanza le forze israeliane lo hanno accusato di “aver rubato l’acqua” da una sorgente naturale posta nel territorio palestinese, ma sottratta dai coloni israeliani durante la pandemia.

All’una del mattino sono arrivati più di 100 soldati e ci siamo svegliati con loro in piedi davanti a noi”, afferma. “Ci hanno arrestati e ci hanno ammanettati, ci hanno coperto gli occhi e ci hanno portato in una base militare a pochi chilometri di distanza”.

“Ci hanno tenuti lì dall’una di notte alle nove – racconta Abdallah – senz’ acqua, senza liberarci le mani e senza nemmeno permetterci di usare il bagno”.

Oltre ad affrontare le aggressioni quotidiane da parte dei militari israeliani, le comunità palestinesi della Valle del Giordano vivono senza avere accesso ai beni di prima necessità come l’elettricità, l’acqua corrente e all’assistenza sanitaria.

L’ospedale o la clinica più vicini dove fare il test per COVID-19 si trova a circa 25 chilometri da al-Hadidiya e per arrivarci si impiegano 30 minuti in auto.

Anche se i residenti potessero avere la disponibilità di un veicolo privato dovrebbero percorrere strade non asfaltate e superare lungo il percorso una serie di posti di blocco e insediamenti militari israeliani.

“Per tutta la nostra esistenza non abbiamo certo avuto una vita decente perché l’occupazione ci ha negato tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere”, dice Abdallah.

“L’unica cosa che non possono negarci è l’aria che respiriamo. Se potessero negarcela, lo farebbero”.

Motaz Bisharat sottolinea il fatto che “la Quarta Convenzione di Ginevra prevede che lo Stato occupante si assuma la responsabilità dell’area occupata”.

“Dovrebbero fornire assistenza sanitaria, istruzione, acqua e tutto il resto“, afferma. “Ma ciononostante l’occupazione non offre assolutamente nulla”.

Ad agosto Israele ha raggiunto un accordo con gli Emirati Arabi Uniti, il che ha reso gli Emirati il terzo Paese arabo a normalizzare le relazioni con Israele.

Come parte dell’accordo gli Emirati Arabi Uniti hanno rivendicato la responsabilità di aver fermato l’annessione. Ma i palestinesi della Valle del Giordano affermano che nella realtà l’annessione è in corso da anni, specialmente durante la pandemia da coronavirus, ed è una politica che Israele probabilmente non smetterà mai di cercare di applicare.

“Il presupposto secondo cui gli Emirati Arabi Uniti avrebbero stipulato questo accordo con Israele per fermare l’annessione è una totale assurdità“, sostiene Bisharat. “Qualsiasi civile, qualsiasi leader, qualsiasi politico nel mondo che afferma che l’occupazione ha fermato l’annessione sta delirando“.

Le forze di occupazione hanno fatto l’opposto. Hanno accentuato gli attacchi e hanno scoperto che il coronavirus rappresenta la migliore occasione per portare a termine il loro piano di annessione sul campo”.

“Il nostro messaggio al mondo, alle persone libere del mondo, è di mettere il loro Paese al posto della Palestina”, dice Abdallah. “Accetteresti che i tuoi figli vivano come vivono i bambini palestinesi? Accetteresti di perdere i tuoi diritti come i palestinesi, che non hanno (più) diritti?”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perché i leader arabi si inchinano improvvisamente all’opportunità di normalizzare i rapporti con Israele

Miko Peled

17 settembre 2020MintPress News

I leader arabi capiscono che i rapporti con Israele forniscono l’accesso all’impero USA e a tutto ciò che ne deriva, compresi gli agognati armamenti statunitensi ed altri vantaggi come la cooperazione economica e per la sicurezza.

Mentre scrivo queste parole i Ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein sono a Washington per firmare accordi di normalizzazione dei rapporti tra i loro Paesi e lo Stato di Israele. Mentre gli Stati Uniti ed Israele sono rappresentati dal Presidente Donald Trump e dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, gli Stati arabi hanno inviato alla cerimonia per la firma i loro ministri degli esteri in rappresentanza dei loro Paesi. Ciò potrebbe avere a che fare meno con il protocollo quanto piuttosto con il fatto che sia Trump che Netanyahu stanno lottando per la propria vita politica e per loro questa è stata un’esibizione di pubbliche relazioni estremamente necessaria.

Lo spettacolo odierno appare ben lontano dalla posizione risoluta, di principio e coraggiosa presentata dai leader arabi a Kartoum quasi esattamente 53 anni fa. Appena dopo l’attacco israeliano alle terre arabe nel 1967, mentre le canne dei fucili erano ancora fumanti, nella capitale sudanese Kartoum fu convocata una riunione dei capi degli Stati arabi. Questo incontro produsse una coraggiosa risoluzione che affermava il rifiuto del riconoscimento, di negoziati e della pace con Israele. Gli eserciti arabi dell’Egitto, il più grande degli Stati arabi, della Siria e della Giordania vennero completamente distrutti, circa 18.000 soldati arabi uccisi e centinaia di migliaia di civili restarono senza casa, eppure i leader degli Stati arabi furono fermi nel dire “no” al potente aggressore, Israele.

La risoluzione degli Stati arabi di respingere il brutale regime di apartheid israeliano fu accettata nell’agosto 1967 al summit della Lega Araba, appena due mesi dopo che Israele aveva decimato gli eserciti di tre Stati arabi ed aveva occupato con la violenza le alture del Golan siriano, la penisola del Sinai egiziana ed aveva completato la conquista della Palestina occupando la Cisgiordania, Gerusalemme est e la Striscia di Gaza.

La risoluzione, che in seguito venne conosciuta come quella dei “tre no”, viene tuttora usata dalla propaganda sionista per dimostrare la mancanza di volontà degli Stati arabi di fare la pace con Israele e riconoscere il cosiddetto Stato ebraico. Tuttavia, alla luce del mortale attacco israeliano a questi Paesi, il loro rifiuto di capitolare fu eroico. Ciò che invece è deplorevole è il successo del movimento sionista nel ribaltare l’impegno arabo per la Palestina. Passo dopo passo, a partire dallo Stato più grande, l’Egitto, e poi la Giordania, ed ora gli Stati del Golfo e persino il Sudan, i regimi arabi sono andati “normalizzando” i rapporti con Israele.

 

Accesso all’impero

Se si potesse solo per un momento mettersi nei panni del capo di uno Stato arabo, cosa si proverebbe? Si vedrebbe che i Paesi arabi che erano determinati nell’appoggiare la causa palestinese sono ora distrutti. A partire dall’Iraq, lo Yemen, la Libia e la Siria. La punizione di quelli che non hanno voluto arrendersi è stata dura. A parte c’è l’Iran, che mentre per ora è al riparo da un attacco militare totale, soprattutto perché gli USA ed Israele non sono in grado di affrontare di petto le forze iraniane, sta soffrendo molto a causa di dure sanzioni.

I rapporti con Israele danno accesso agli agognati armamenti di fabbricazione USA e ad altri vantaggi, come la cooperazione economica e per la sicurezza. Che scelta potrebbe essere fatta nei panni di leader di uno Stato Arabo? I commentatori della CNN hanno ripetutamente affermato che i leader degli EAU e del Bahrein, e forse di altri Stati arabi che presto normalizzeranno i rapporti con Israele, hanno deciso di abbandonare la causa palestinese e di concentrarsi su altre questioni come la cooperazione economica e il turismo, e porre le necessità e sicuramente il futuro dei propri Paesi al di sopra della questione palestinese.

E’ facile criticare gli Stati arabi per aver voltato le spalle ai loro fratelli e sorelle palestinesi. Tuttavia Paesi più grandi ed influenti non si comportano diversamente. Russia, Unione Europea, Cina e India fanno una quantità di affari con Israele e si sono da tempo scordati dei palestinesi. Israele è riuscito a cancellare la causa palestinese dalla scena mondiale. A prescindere da quanto frequenti siano gli attacchi israeliani contro Gaza, o da quanto siano feroci, a prescindere da quanti palestinesi siano detenuti nelle carceri israeliane e da quanto drammatiche siano le condizioni di vita dei palestinesi, Israele è riuscito a far voltare il mondo dall’altra parte.

L’opposizione

Ci sono state informazioni circa una resistenza popolare in Bahrein da parte di gruppi che si oppongono alla normalizzazione dei rapporti con Israele e giustamente la considerano un tradimento del popolo palestinese. E’ probabile che queste voci verranno velocemente messe a tacere dal governo del Bahrein.

Inoltre fonti del governo del Kuwait hanno informato che “la posizione del Kuwait nei confronti di Israele non è cambiata dopo il suo accordo con gli Emirati Arabi Uniti”. Dirigenti del Kuwait hanno anche negato ad aerei israeliani il diritto di volo nello spazio aereo del Paese.

Il Sudan

I tentativi di Israele di costruire alleanze vanno oltre la penisola arabica e si spingono anche in Africa. Il Primo Ministro sudanese Abdalla Hamdokmet ha recentemente incontrato il Segretario di Stato USA Mike Pompeo, che ha visitato il Sudan dopo un viaggio per incontrare dirigenti israeliani a Gerusalemme. Israele è stata la prima tappa di Pompeo in un tour ideato per convincere ulteriori Paesi arabi a normalizzare i legami con lo Stato sionista. Inoltre ci sono conferme che la visita a Kartoum del Segretario di Stato USA era finalizzata a discutere i rapporti tra Sudan ed Israele.

Il Primo Ministro sudanese ha detto a Pompeo che il suo governo “non aveva mandato per normalizzare i rapporti con Israele” ed ha aggiunto che la cancellazione del Sudan dall’elenco degli Stati che sponsorizzano il terrorismo non dovrebbe essere correlata alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Chiaramente la cancellazione da quell’elenco è la carota che Pompeo sta offrendo al Sudan.

Dopo l’incontro il Dipartimento di Stato USA ha affermato in una dichiarazione che Pompeo e Hamdok hanno discusso di “positivi sviluppi nei rapporti tra Sudan ed Israele”, cosa che non dovrebbe sorprendere. E’ difficile immaginare che la leadership sudanese possa osare rifiutare un’offerta degli USA, sicuramente non una attraente come la cancellazione dell’etichetta di Stato sponsor del terrorismo, che aprirebbe le porte e consentirebbe la crescita economica della Nazione africana.

Ora torniamo un attimo indietro e presumiamo di essere il capo di una Nazione africana o araba. La scelta è tra capitolare e accettare rapporti con il regime di apartheid israeliano, il che aprirebbe nuove possibilità economiche, e mantenere una posizione ferma e di principio, e subire devastazioni per una guerra o soffocare lentamente a causa di sanzioni.

Miko Peled è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. E’ autore di “Il figlio del generale. Viaggio di un israeliano in Palestina”, e “Ingiustizia, la storia dei cinque della Fondazione Terra Santa.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di MintPress News.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)