No, la chiusura di Israele per Passover, non è pari al blocco dell’occupazione

Orly Noy*

8 aprile 2020   +972 Magazine

11 aprile 2020 Cultura è Libertà

E’ duro per gli ebrei israeliani essere separati dai propri cari a causa del coronavirus. Ma per loro la chiusura è temporanea, mentre per i palestinesi è senza fine

Questa sera, saremo seduti, milioni di ebrei in Israele e nel mondo per un triste Seder di Passover, forse il più strano che molti di noi hanno vissuto in tutta la loro vita. I più fortunati tra noi saranno seduti con i membri della propria famiglia, altri, compresi molti anziani, si siederanno da soli o dovranno affrontare un Seder virtuale.

Stasera canteremo le canzoni di Passover. Canteremo Ma Nishtana e le quattro domande e desidereremo il familiare chiasso di cui ci lamentavamo spesso. Avremo nostalgia dello zio con le sue vecchie battute, quello che insiste a recitare l’ Hagaddah dall’inizio alla fine senza saltare una sola parola. E naturalmente ci mancheranno le infinite discussioni politiche senza costrutto.

Un’auto della polizia è rimasta ferma sulla strada di fronte a casa mia dalla notte di lunedì. I poliziotti controllano i documenti d’ identità alle poche auto che passano sulla strada. La chiusura che imponiamo ai palestinesi in occasione di ogni vacanza ebraica improvvisamente ha un nuovo significato: anche noi siamo chiusi dentro. E’ una cosa sorprendente per noi cittadini ebrei di Israele. La parola “chiusura” sembra emergere da un altro universo semantico, del tutto estranea a noi, per definizione. Ma per altri, il cui destino è rimanere chiusi dietro cancelli, privati della libertà di movimento, la chiusura è semplicemente parte del loro ordine naturale.

Improvvisamente ci troviamo tutti, Ebrei e Palestinesi, a condividere lo stesso destino. Il coronavirus è diventato un grande livellatore, costringendo l’occupante e l’occupato a vivere chiusi nelle loro case. L’eguaglianza si è fatta strada in questa terra, anche se per poco tempo, con l’aiuto di una furiosa pandemia e ora ci troviamo tutti nella stessa barca. Ma è proprio vero?

E’ facile farsi prendere da questa versione dei fatti – una narrazione che non deriva necessariamente da insensibilità, ma da un profondo desiderio di esprimere solidarietà per i Palestinesi e di vedere un legame tra le difficoltà che affrontiamo. Si dovrebbe sperare che la schadenfreude ( il gioire della disgrazia altrui: “finalmente gli ebrei israeliani assaggiano un po’ della loro stessa medicina”) non entri in gioco, ma che si tratti piuttosto del bisogno di vedere la nostra impotenza riflessa nella loro.

E’ importante chiarire questo punto non solo perché non metto in dubbio questa sensazione di un destino comune e neppure sottovaluto il peso del disagio che stiamo affrontando in questa settimana: chiarire cioè che non c’è nessuna somiglianza tra la chiusura che noi ebrei israeliani stiamo affrontando questa settimana di Passover e le ripetute serrate imposte ai Palestinesi nei territori occupati.

Quando ci sediamo a tavola stasera, saremo chiusi nelle nostre case da una chiusura che è stata decisa prima di tutto per la salvaguardia della nostra salute. Non si tratta di una misura punitiva e arbitraria e, anche se abbiamo riserve circa il grado di necessità che l’ha giustificata, sappiamo che è stata decisa da un governo che il pubblico, di cui noi siamo parte, ha eletto. Anche i più radicali di sinistra tra di noi godono del privilegio di un dibattito pubblico e possono usufruire di istituzioni statali.

Un Palestinese, dall’altro lato, non potrà uscire di casa stasera a causa di una serrata imposta da un esercito di occupazione e da un governo ostile sul quale non hanno alcun modo di esercitare una qualche influenza. Devono starsene chiusi in casa perché non hanno altra scelta che quella di obbedire anche ai più stravaganti e arbitrari ordini di questo esercito che è insediato su quei territori con il compito di rendere penosa la vita ai palestinesi.

Quando ce ne stiamo a casa per via della chiusura, lo facciamo non perché ci è stato imposto come cittadini, ma come un atto di solidarietà con la nostra comunità – soprattutto con i più vulnerabili tra di noi. La maggior parte di noi non se la prenderà se gli agenti di polizia impongono di starcene a casa e ci impediscono di passare la serata con i nostri cari. Se dovessimo essere costretti a lasciare le nostre case per una emergenza, ci aspettiamo che gli agenti siano di aiuto e persino che si prendano cura di noi. Nel peggiore dei casi, potremmo ricevere dei rimproveri o una multa.

Dall’altra parte, un palestinese che viola la chiusura nei territori occupati, rischia la vita. I soldati, all’entrata di un villaggio o di una città palestinese non saranno gentili e non staranno a sentire le ragioni di un palestinese prima di premere il grilletto. Il palestinese sa che, diversamente da quel che accade a un ebreo israeliano, nessuno se ne accorgerà se saranno uccisi da un soldato o da un agente di polizia. E’ altamente improbabile che qualcuno in Israele venga anche a sapere dell’incidente.

Noi ebrei israeliani stasera staremo a casa per una chiusura che ha una data di scadenza. I nostri vicini palestinesi staranno sotto una chiusura che è solo una di un’ infinita serie di chiusure. Mentre noi stanotte celebreremo la nostra liberazione, sappiamo che la nostra reale libertà non è minacciata in nessun modo. Quando i Palestinesi staranno a casa stasera, la libertà rimarrà per loro un’ idea molto lontana.

Non accade spesso che lo stesso concetto possa descrivere due situazioni tanto distanti tra loro nella loro essenza. Questo è proprio quello che succederà stasera. E così, nonostante i nostri sentimenti soggettivi, è importante non cadere nella tentazione, anche in situazioni come questa, di depoliticizzare la nostra realtà. I cittadini israeliani dovranno sopportare per la serata di rimanere chiusi in casa. La chiusura di milioni di Palestinesi, dall’altro lato, deve ancora essere sconfitta.

Traduzione Gabriella Rossetti

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica, trduttrice di poesia e prosa farsi. Fa parte dell’Esecutivo di B’Tselem’s executive ed è attivista del partito Balad. Scrive sulle linee di intersezione e definizione della sua identità, come Mizrahi, donna di sinistra, migrante temporanea che vive all’interno d una migrante perpetua e nel costante dialogo tra le due.




Israele trasforma in propaganda il plauso dell’ONU

Tamara Nassar

2 aprile 2020 – Electronic Intifada

Alcuni funzionari dell’ONU stanno elogiando Israele nonostante il modo in cui tiene i palestinesi in condizioni di scarsità di servizi sanitari basilari mentre affrontano la pandemia di COVID 19. António Guterres, segretario generale dell’ONU, si è persino rallegrato della cooperazione tra l’occupazione israeliana e l’Autorità Nazionale Palestinese nell’arginare la minaccia del nuovo coronavirus.

Come prevedibile, Il suo elogio è stato sfruttato per scopi propagandistici dal ministero degli Esteri israeliano.

Nikolay Mladenov, l’inviato ONU per il Medio Oriente, ha descritto il coordinamento come “eccellente”.

Il coordinatore per gli aiuti umanitari dell’ONU Jamie McGoldrick ha fatto eco alle lodi del suo collega.

Foglia di fico

Non solo l’ONU plaude al cosiddetto coordinamento per la sicurezza tra l’esercito israeliano e l’ANP, ma fornisce anche una foglia di fico a Israele per nascondere i suoi continui attacchi contro il diritto alla salute dei palestinesi.

Israele ha il dovere giuridico di garantire questo diritto. In quanto potenza occupante, in base al diritto internazionale Israele è obbligato a garantire ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza le infrastrutture necessarie.

Invece per più di un decennio Israele ha ripetutamente compromesso e danneggiato il sistema sanitario di Gaza, riducendo sistematicamente la fornitura di cibo, carburante, medicinali e materiale da costruzione alla Striscia al punto da calcolare persino il numero minimo di calorie che ogni persona potrebbe consumare per non morire di fame.

Oltre ad imporre un assedio devastante, Israele ha scatenato tre gravi attacchi, spianando interi quartieri e uccidendo migliaia di palestinesi. Dopo ogni invasione ha gravemente intralciato la ricostruzione.

“Le restrizioni al movimento e all’accesso, e ora uno stato d’emergenza imposto a livello mondiale dalla pandemia, sono stati la situazione quotidiana per i palestinesi di Gaza da circa 13 anni,” ha affermato questa settimana Al Mezan, un’associazione per i diritti umani di Gaza.

In Cisgiordania Israele ha continuato ad aggredire le comunità palestinesi, ha sequestrato attrezzature per la costruzione di ospedali da campo, ha confiscato pacchi di alimenti per famiglie in quarantena, ha fatto incursioni in casa nel cuore della notte ed ha continuato con gli arresti arbitrari di minorenni.

Tutte queste attività espongono le comunità palestinesi a un maggior rischio di contrarre il virus.

Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha commentato uno di questi raid nella città della Cisgiordania occupata di Ramallah, sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, paragonando le forze israeliane ad “alieni ostili senza alcun rapporto con l’umanità.”

Tuttavia Ashrawi non ha fatto alcuna menzione a come normalmente l’Autorità Nazionale Palestinese collabora con l’occupazione militare israeliana.

L’apparato statale di polizia dell’ANP gioca un ruolo molto importante nel reprimere il dissenso palestinese per conto dell’esercito israeliano, arrestando frequentemente attivisti e condividendo informazioni con gli investigatori israeliani.

Ora Israele si congratula con se stesso in quanto si è guadagnato le lodi delle Nazioni Unite per aver fornito il minimo indispensabile alle persone che sottopone all’occupazione e all’assedio.

La propaganda dell’occupazione

Il COGAT, l’organo burocratico dell’occupazione militare israeliana che sovrintende alla punizione collettiva dei due milioni di abitanti di Gaza, spesso usa Twitter per vantarsi di aver inviato alla Striscia kit di analisi ed altre apparecchiature. Questi invii vengono presentati come gesti di buona volontà.

Tuttavia consentire a qualche prodotto di arrivare ai palestinesi non è molto, dato che il COGAT controlla tutto il movimento dei beni dentro e fuori la Striscia di Gaza.

Anche l’OCHA, agenzia di monitoraggio dell’ONU, ha rilevato la “stretta collaborazione senza precedenti” tra le autorità palestinesi ed israeliana dall’inizio dell’attuale crisi sanitaria.

L’organizzazione ha riconsociuto ad Israele di aver agevolato l’Autorità Nazionale Palestinese nell’ importazione di 10.000 kit di analisi e di aver tenuto una formazione per equipe mediche nell’ospedale al-Makassed della Gerusalemme est occupata.

Questi presunti esempi di generosità hanno fornito materiale bell’e pronto al COGAT da sfruttare a fini di propaganda.

Il COGAT ha anche limitato gli spostamenti di milioni di palestinesi nella Cisgiordania occupata con posti di controllo militari.

I checkpoint provocano quotidiane sofferenze ai palestinesi. Eppure il COGAT ha esaltato come il loro incremento “migliorerà la qualità di vita della popolazione della regione.”

Nel contempo un rapporto stilato da associazioni per i diritti umani ha evidenziato l’“impunità cronica” di Israele riguardo all’uccisione e alla mutilazione di personale medico palestinese.

Il rapporto è stato firmato da Al Mezan di Gaza e dalle associazioni benefiche con sede nel Regno Unito “Medical Aid for Palestinians” [Soccorso Medico per i Palestinesi] e “Lawyers for Palestinian Human Rights” [Avvocati per i Diritti Umani dei Palestinesi].

Vi si afferma che l’impunità cronica “rende più probabile che ciò si ripeta.”

Israele ha anche metodicamente negato o ritardato la concessione di permessi di viaggio per i palestinesi che necessitano di cure mediche fuori da Gaza.

Quindi perché le Nazioni Unite stanno lodando Israele perché fa il minimo possibile per la popolazione che aggredisce ed opprime?

Come scrisse il famoso scrittore palestinese Ghassan Kanafani: “Ci rubano il pane, ce ne danno una briciola, poi ci chiedono di ringraziarli della loro generosità…Che sfacciataggine!”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In Israele Netanyahu e Gantz si mettono d’accordo su un piano per annettere parti della Cisgiordania

Redazione di MEE

6 aprile 2020 – Middle East Eye

Secondo Haaretz, i due leader israeliani potrebbero presentare quest’estate un piano per il governo

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo rivale politico Benny Gantz hanno raggiunto un accordo per annettere parti della Cisgiordania, spianando la strada a un governo di unità dopo mesi di stallo e tre tornate elettorali inconcludenti.

Secondo Haaretz, lunedì, dopo un incontro, i leader israeliani si sono accordati su un piano per iniziare quest’estate un processo formale e reclamare alcune zone dei territori palestinesi occupati come parte di Israele.

Se Washington sarà d’accordo, il progetto verrà presentato al governo, riferisce il quotidiano israeliano. Dopo l’approvazione del gabinetto, il piano richiederà l’approvazione della Knesset, il parlamento israeliano. 

Gli Stati Uniti hanno già espresso la propria disponibilità all’annessione di insediamenti israeliani e della Valle del Giordano in Cisgiordania. 

Accordo del secolo’

A gennaio, il presidente Donald Trump aveva svelato il cosiddetto “accordo del secolo” per risolvere il conflitto, con cui si permetterebbe a Israele di annettere vaste zone della Cisgiordania in cambio del riconoscimento di uno Stato palestinese frammentato, senza controllo delle proprie frontiere o dello spazio aereo.

La maggioranza dei palestinesi ha respinto la proposta.

Sia Netanyahu, che guida il Likud, di destra, che Gantz, il capo del blocco di centro Blu e Bianco, si sono impegnati ad annettere parti della Cisgiordania.

Facendo seguito a tre elezioni che non hanno prodotto un chiaro vincitore, Gantz e Netanyahu sono impegnati in colloqui per formare un governo di unità dopo l’ultima tornata elettorale del 3 marzo.

Dopo segnali iniziali che un accordo avrebbe posto termine all’impasse, Blu e Bianco di Gantz ha dichiarato che i colloqui si erano bloccati sulle nomine dei magistrati.

“Dopo aver raggiunto un accordo su tutti i punti, il Likud ha chiesto di riaprire la questione della Commissione di selezione dei magistrati ” ha detto il partito in una dichiarazione.

“In seguito a ciò i negoziati si sono interrotti: non permetteremo alcun cambiamento nel ruolo della Commissione di selezione della magistratura o un danno per la alla democrazia.” 

Illegale

Gli esperti di diritto internazionale dicono che annettere i territori palestinesi sarebbe illegale.

Israele ha formalmente annesso Gerusalemme Est nel 1980 e le Alture del Golan siriane un anno dopo. Ma la comunità internazionale, compresa Washington, non ha riconosciuto il possesso di Israele di queste zone. Tuttavia alla fine del 2017 Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele e l’anno scorso ha riconosciuto la sovranità di Israele sulle Alture del Golan. 

All’inizio di quest’anno, dopo che Trump ha annunciato il piano per porre fine al conflitto, l’avvocato dei diritti umani Jonathan Kuttab ha detto a MEE che il divieto di acquisire territori con la forza è un principio fondamentale del diritto internazionale.

Dalla Seconda Guerra Mondiale ci sono stati tre tentativi di annessione: l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990; l’annessione russa della Crimea a danni dell’Ucraina nel 2014 e l’acquisizione di Israele dei territori arabi a partire dal 1967.

“Per 70 anni, l’intero ordine internazionale è stato costruito sul principio che non ci si può impossessare della terra altrui con la forza e annetterla” ha detto Kuttab.

“Fino a quando è arrivato Israele e ha detto: ‘Noi possiamo farlo’. Nessuno era d’accordo con loro fino a quando è arrivato Trump.”

Ha aggiunto che il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan da

parte di Washington stabilisce un “pericoloso” precedente che non ha incontrato l’opposizione della maggioranza dei Paesi arabi.

“Secondo la legge internazionale è chiaro come il sole che l’annessione è illegale. Non si tratta di una questione che si presti a interpretazioni.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La battaglia dell’acqua in Palestina ( II Parte)

Francesca Merz

25 marzo 2020 Nena News

(per la leggere la prima parte clicca qui)

Fin dal 1936 era stata proposta una «Jordan Valley Authority » posta sotto controllo internazionale. In gran parte, questa idea fu ripresa per la valle del Giordano dal Piano Johnston, dal nome di un inviato del Presidente americano Eisenhower, con l’intento di creare tra il 1954-1955 un’autorità regionale, fondata su una cooperazione fra gli Stati bagnati dal Giordano, allo scopo di attribuire e gestire al meglio le risorse d’acqua. Anche in questo caso Israele non fu d’accordo, e nel 1959, per tutta risposta, approvò una legge secondo la quale rendeva le risorse idriche «una proprietà pubblica (…) sottoposta all’autorità dello Stato». Con questa legge vede di fatto la nascita un sistema che impedisce ai Palestinesi di disporre liberamente delle loro risorse idriche.

E’ il 1967, e subito dopo le invasioni di Gaza e Cisgiordania, le prime due disposizioni introdotte, riguardano proprio l’argomento acqua: la prima è la proibizione alla costruzione di qualsiasi nuova infrastruttura idrica, di perforazione e di nuovi pozzi, senza autorizzazione; la seconda è la confisca delle risorse idriche, che vengono dichiarate proprietà dello Stato, in conformità alla legislazione israeliana sull’acqua. La quantità d’acqua a disposizione degli agricoltori della Cisgiordania è congelata proprio a quel 1967: il plafond è fissato a 90-100 milioni di metri cubi all’anno, per 400 villaggi, assai diversa la quantità d’acqua messa a disposizione delle colonie ebraiche, che è aumentata del 100% nel corso degli anni Ottanta. A questo si aggiunga la perquisizione degli antichi pozzi palestinesi in ottemperanza alla famosa «legge sulla proprietà degli assenti ». Non è questa la sede poi per approfondire la quantità di limitazioni imposte da Israele in Cisgiordania, regioni sottoposte a razionamento, distretti di drenaggio, aree di sicurezza militare, come nel caso di una striscia di terra lungo il Giordano, dichiarata «zona militare », che i Palestinesi utilizzavano a scopo di irrigazione. Nella Striscia di Gaza, prima del 1967, non esisteva alcun sistema di permessi e l’utilizzazione dell’acqua dipendeva dal diritto consuetudinario. In seguito, attraverso le ordinanze militari n° 450 e 451 del 1971, il diritto di concedere licenze di utilizzazione dell’acqua, prerogativa del Direttore del catasto giordano, veniva trasferito alle autorità israeliane. Secondo diverse fonti, dopo il 1967, sono stati concessi dai 5 ai 10 permessi. Allo stesso modo, come in ogni colonizzazione che si rispetti, anche il rifacimento e la manutenzione dei pozzi sono sottoposti ad autorizzazioni israeliane, mai accordate.

La finalità, anche questa tipica del colonialismo, come ci ricorda già il sempre illuminante Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, era quella di porre i Territori palestinesi in una situazione di dipendenza giuridica, amministrativa ed economica. A partire dal 1967, la Mekorot, l’azienda israeliana che controlla i rifornimenti d’acqua sul territorio, ha sviluppato reti di distribuzione in favore di un profitto quasi esclusivo per le colonie, mentre nei settori palestinesi serviti dalla Mekorot, lo stato di manutenzione è tale che fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania è persa in rete. A Gaza, la situazione è ancora più drammatica, dato che la falda acquifera costiera super sfruttata viene infiltrata attualmente dall’acqua del mare. Le distruzioni delle reti idriche e delle riserve obbligano a far arrivare l’acqua tramite camion-cisterna, facendone rincarare il prezzo, che può arrivare fino a 40 NIS/metro cubo (più di 8 euro), vale a dire un prezzo quasi 10 volte più alto di quello inizialmente richiesto dalle municipalità. Se gli Israeliani beneficiano dell’acqua corrente tutto l’anno, i Palestinesi sono vittime di interruzioni arbitrarie, in particolar modo durante l’estate. Per quel che riguarda il prezzo pagato da un consumatore palestinese, l’acqua è fortemente sovvenzionata per le colonie ebraiche, mentre un Palestinese deve pagarla 4 volte più cara di un colono per accedervi. D’altra parte l’acqua e la sua riduzione fa ridurre drasticamente anche la già scarsissima possibilità che aveva l’agricoltura palestinese di poter competere in un mercato fatto di mille restrizioni alla circolazione dei beni. In aggiunta, il 75 % delle acque del Giordano sono deviate da Israele prima che queste bagnino i Territori.

A Gaza, proprio ai margini della Striscia, il governo israeliano ha costruito delle pompe che seccano in buona parte i pozzi palestinesi, la cui acqua disponibile risulta salmastra e oramai inquinata. Non esistono corsi d’acqua nella striscia di Gaza, ma un Wadi che raccoglie le acque di molti wadi della regione. Gli Israeliani hanno disposto piccoli sbarramenti su questi wadi e la sola acqua che scorre ormai nel Wadi Gaza è quella già usata e non ritrattata della città di Gaza.

Dulcis in fundo, come se ci fosse qualcosa di non amaro in tutto questo, come già detto, i Palestinesi non hanno il diritto di perforare pozzi, mentre i coloni lo possono fare e sempre più a grandi profondità (dai 300 ai 500 metri) non solo infatti viene proibito ai Palestinesi di perforare dei nuovi pozzi senza l’autorizzazione militare israeliana, ma soprattutto i loro pozzi non possono arrivare oltre i 140 metri di profondità, mentre quelli dei coloni hanno la potenzialità di arrivare oltre gli 800 metri. Un rapporto dell’ONU indica che fra la firma degli accordi di Oslo del 1993 e del 1999, sono stati distrutti 780 pozzi che fornivano acqua per uso domestico e per l’irrigazione. Nel marzo 2003, ed in seguito all’inizio della Seconda Intifada, i danni procurati nei Territori occupati potevano enumerarsi come segue : 151 pozzi, 153 sorgenti, 447 cisterne, 52 cisterne mobili (tankers), 9.128 serbatoi da abitazione, 14 bacini di riserva, 150 km di condutture e canalizzazioni che collegavano più di 78.000 abitazioni. Come ho già avuto modo di spiegare in un precedente articolo, dal titolo “i fiori del deserto”, la nascita di questa leggenda che pone Israele, come unico Stato capace di far fiorire il deserto, ha purtroppo un’origine macabra, quei fiori fondano la loro crescita su un sistema che non solo, come abbiamo brevemente analizzato, non rispetta la scarsità delle risorse, oggettiva a tutto il territorio, ma distrugge al contempo un fragilissimo ecosistema, schiacciando giornalmente i più basilari diritti umani.

Per sostenere questo sistema di fioritura Israele sta da anni affrontando una delle crisi più ampie sul rifornimento di acqua, il lago di Tiberiade, che era stata la principale fonte d’acqua potabile per Israele, si sta prosciugando. Da un paio di decenni, resisi conto che il problema stava divenendo assai importante per tutta l’economia dello Stato, le autorità israeliane hanno avviato un piano di desalinizzazione dell’acqua di mare riuscendo a ridurre la quantità di acqua che veniva estratta dal lago per irrigare le vaste coltivazioni del deserto. Tiberiade rimane però in condizioni sempre sotto soglia. Il governo israeliano era arrivato a prendere 400 milioni di metri cubi all’anno di acqua, per poter gestire la sempre maggiore richiesta idrica per coltivazioni, allevamenti e colonie con esigenze ben lontane da quel calibrato uso delle risorse che era stato attuato per secoli dalle comunità storiche. È il motivo per cui Israele aveva deciso di investire circa 250 milioni di euro per pompare nel lago acqua presa dal Mediterraneo, che dista circa 50 chilometri, e in seguito desalinizzarla. È risultata però un’impresa complicata, perché mai nella storia un lago di acqua dolce è stato ri-riempito in questo modo, una volta installate tutte le pompe, ci si aspettava di stabilizzare il livello del lago entro il 2020, obiettivo che appare quanto mai lontano. I lavori fanno parte di un ancora più grande piano del Ministro dell’Energia Yuval Steinitz, che vuole raddoppiare la quantità d’acqua che Israele desalinizza ogni anno, e che al momento è pari a circa 600 milioni di metri cubi.

Il problema dell’acqua, abbiamo visto, è stato vivo sin dall’inizio dell’occupazione: la crescente quantità di popolazione, e le necessità di una popolazione con abitudini occidentali, hanno comportato fin dall’inizio la necessità di controllare le risorse idriche del territorio. Il 90 per cento dell’acqua del Giordano viene portata al Negev per il progetto sul deserto, non solo bypassando tutte le necessità dei palestinesi sulla strada, ma sballando completamente tutti gli equilibri naturali. Assolutamente esemplare è l’esempio della valle di Gerico, in cui sono sorte 33 colonie, per la maggior parte specializzate in monocolture molto richieste dal mercato interno e internazionale, come il caffè e il the, piantagioni tipicamente inadatte al luogo, e che tendono ad inaridire terreni, che avrebbero necessità di colture a rotazione. Parallelamente, proseguendo nella valle, le intense monocolture sono invece di ananas, banane, palma da dattero, manghi, avocados. Coltivazioni non endemiche, disadatte alla ciclicità e al naturale rinnovamento del terreno; in tutta la valle di Gerico e non solo, sono completamente scomparsi gli alberi più caratteristici del territorio, ovvero gli alberi di arance, il commercio delle arance, come tristemente ci racconta anche l’esperienza economica siciliana, era troppo poco redditizio rispetto a datteri, manghi o avocados, cibi che oramai con la nuova cultura alimentare sono molto più richiesti e vengono pagati maggiormente.

La gestione di questo modello economico, e i progetti di immensa portata, che prevedono la costruzione di pompe idrauliche e la desalinizzazione progressiva delle acque pompate dal mare, sono salutati dalla comunità internazionale con l’afflato salvifico che fa come sempre di Israele il salvatore di un territorio arido, senza invece capire minimamente che questa immensa opera è pensata per arginare i danni irreversibili di uno sviluppo economico insostenibile sul piano ambientale, prosciugando il lago di Tiberiade, il Giordano e conseguentemente il Mar Morto, a causa di una politica dello spreco senza precedenti. Il medesimo discorso fatto per Tiberiade vale ovviamente per il Mar Morto, il calo dei livelli di acqua non è il solo risultato dei cambiamenti climatici, ma è dovuto all’aumentato uso delle acque degli immissari che dovrebbero rifornire il lago per l’irrigazione, e allo sfruttamento per l’estrazione di minerali. Il bacino è alimentato principalmente dal fiume Giordano, che si immette nel lago a nord, ma il Giordano non ha emissari, dunque modificando il suo corso prelevando una ingente parte delle sue acque per l’agricoltura e le colonie, il contraccolpo non solo sul fiume stesso ma anche sul mar Morto è risultato insostenibile: il ritiro dell’acqua ha lasciato intere sezioni del lago completamente secche, e questa rapida diminuzione del livello del Mar Morto ha una serie di conseguenze dannose, che vanno dai più elevati costi di pompaggio per le fabbriche che utilizzano il Mar Morto per estrarre il cloruro di potassio, magnesio e sale, ad un accelerato deflusso delle acque dolci sotterrane e circostanti dalle falde acquifere, inoltre, sempre per portare i famosi “fiori nel deserto”, il Giordano da circa cinquanta anni viene sfruttato per irrigazione su larga scala sottraendo gran parte dell’acqua che da sempre alimenta il lago.

Buona giornata dell’acqua, a chi può considerarla un bene non in discussione, ma soprattutto, a chi non ha questa fortuna.




Cadere tra le crepe a Gerusalemme

J. Ahmad

30 marzo 2020 – The Electronic Intifada

In questa parte del nostro mondo malato, come dovunque, mentre continua a crescere il numero di contagiati con il nuovo coronavirus, che provoca la patologia respiratoria COVID-19, palestinesi e israeliani contano i propri infettati.

Ma non è affatto chiaro quali statistiche andrei ad ingrossare se dovessi essere così sfortunata da contrarre il virus.

Perché? Sono una palestinese con uno status indefinito che vive nella Gerusalemme est occupata.

Come chiunque altro su questo pianeta ora, sto cercando di uscire da questa epidemia nel modo più sicuro possibile per me e per la mia famiglia.

Eppure, mentre seguo tutte le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Salute, dei Centri per il Controllo delle Malattie e dei governi (sia israeliano che palestinese) di lavarmi le mani, isolarmi fisicamente e lavorare da casa, la mia situazione è straordinariamente precaria.

Faccio tutto ciò dalla mia piccola casa nella Città Vecchia di Gerusalemme, confortevolmente nascosta nel cuore del quartiere musulmano. E, benché mi senta a volte come se fossi l’unica in questa situazione, sono sicura che non sia così. Ci sono decine di migliaia di persone come me.

Ecco il nostro problema: senza permessi delle autorità israeliane per rimanere a Gerusalemme – dove abbiamo famiglia, o proprietà, o lavoro, o di cui siamo originari – non abbiamo copertura sanitaria e rischiamo di essere “riportati” in Cisgiordania.

Ora, io sono cittadina sia palestinese che statunitense. Tuttavia, ai fini di questo articolo, ignorerò la mia identità statunitense dato che non mi offre assolutamente alcuna protezione contro i capricci delle autorità militari israeliane.

Ho vissuto per oltre vent’anni in questa Città Vecchia con mio marito e due figli, ma non ho alcun diritto alla residenza. Per i primi 11 anni ho vissuto qui a Gerusalemme “illegalmente” a causa del ritardo del trattamento delle domande di ricongiungimento familiare di palestinesi a Gerusalemme da parte di Israele.

Permessi e controllo della popolazione

Negli ultimi 10 anni il ministero dell’Interno israeliano mi ha rilasciato un permesso – rinnovato annualmente e subordinato a una pletora di documenti che dimostrano il mio luogo di residenza – tale per cui possa vivere in casa mia senza timore di essere arrestata o deportata.

A parte la burocrazia kafkiana, in questi 10 anni ho iniziato a sentirmi a mio agio con il mio status a Gerusalemme. Non ero cittadina di Israele, neppure residente permanente della città come mio marito e i miei figli, ma almeno ero, per così dire, una specie di inquilina legalmente riconosciuta.

Potevo viaggiare in autobus (anche se non guidare un qualunque mezzo), attraversare i posti di blocco e di fatto dormire nel mio letto senza temere che un poliziotto israeliano bussasse alla porta e mi informasse che sarei stata deportata in Cisgiordania perché vivevo “illegalmente” in città.

Tuttavia di recente sono involontariamente finita in un limbo. Cioè, non mi è stato negato un permesso di ricongiungimento familiare in senso stretto, ma non mi è stato neppure rinnovato, a quanto pare in attesa dell’approvazione da parte della polizia –e ora della giustizia – israeliana.

Quello che ciò significa in termini concreti è che il permesso che mi consente di viaggiare all’interno di Gerusalemme e dentro e fuori dalla Cisgiordania non mi è stato rilasciato. E, ciò che è più grave e più preoccupante date le circostanze, la mia copertura sanitaria israeliana mi è stata revocata. Da qui la precarietà della mia attuale situazione.

Mettiamo il caso che io contragga il nuovo coronavirus e mi ammali gravemente di CODIV-19. Come autorità occupante di Gerusalemme, Israele controlla i servizi medici della città. Quindi, se dovessi andare in un ospedale israeliano, dovrei mostrare la mia carta d’identità e – se non volessi pagare un occhio della testa – la mia tessera sanitaria.

Permettetemi solo di aggiungere: Israele ha uno dei migliori sistemi sanitari al mondo. Non mento, ho goduto di una sensazione di sicurezza durante questi pochi anni in cui ho avuto l’assicurazione.

Beh, non più, e non avrebbe potuto succedere in tempi peggiori. Dato che la mia carta d’identità è rilasciata in Cisgiordania, ciò di fatto mi esclude da ogni diritto a Gerusalemme.

Non solo rischierei di essere mandata via da un ospedale israeliano, ma aprirei un vaso di Pandora di guai amministrativi/punitivi con le autorità israeliane – che non si vergognano di continuare con le loro misure oppressive contro i palestinesi durante questa pandemia – sul perché non sono tornata in Cisgiordania, benché il mio caso sia ancora in sospeso.

Perché non andare in Cisgiordania? In primo luogo lì non ho la copertura sanitaria. Ma, cosa molto più importante, la mia famiglia non sta lì. Una volta in Cisgiordania non potrei vederli. Cosa succederebbe se uno di loro contraesse il virus e finisse in ospedale? Come potrei raggiungerli?

Timore e contagio

Quindi, adottando la filosofia del “minore dei mali”, ho deciso di restarne fuori a Gerusalemme, nei confini della mia casa e sperando che tutto il mio rigoroso lavarmi le mani, disinfettare e mantenere la distanza sociale alla fine diano risultati ed io e la mia famiglia ne usciamo relativamente indenni.

Quando mi avventuro fuori lo faccio solo per comprare alimenti e porto sempre con me di scorta mio marito “legalmente residente”, solo nel caso veniamo fermati e interrogati. In questi giorni la polizia israeliana sta pattugliando le strade più del solito, alla ricerca di cittadini con la febbre o di persone indisciplinate che sfidano la quarantena.

La mia è un’esistenza inquietante. Sono caduta nelle crepe di un sistema discriminatorio e segregazionista. Ma non sono affatto un’anomalia. Essere un abitante palestinese di Gerusalemme – “legale” o “illegale” – di per sé ti relega in uno status di seconda classe, anche nella disponibilità di cure mediche.

In questo nuovo mondo pandemico in cui viviamo, i gerosolimitani palestinesi, oltre alle preoccupazioni per l’epidemia da coronavirus nella loro comunità, devono ancora affrontare le incursioni della polizia e dell’esercito, gli arresti e i soprusi.

Proprio la notte scorsa la polizia israeliana ha fatto irruzione nel nostro quartiere, ha arrestato un giovane in casa sua e ci ha spruzzato tutti con spray al peperoncino.

Gli abitanti del quartiere sono usciti per liberare l’uomo, scontrandosi con la polizia, spingendo, tirando e gridando. Questo tipo di incursioni è già abbastanza traumatico in tempi normali, figuriamoci ora che aleggia su di noi la minaccia di un virus letale.

Inutile dirlo, quella notte non c’è stata nessuna distanza fisica, con la famiglia, gli amici e i vicini del giovane, tutti che cercavano di salvarlo dalle grinfie di poliziotti israeliani senza guanti e senza mascherine, che brandivano spray al peperoncino, fucili e manganelli sui nostri volti, anch’essi senza mascherine.

Pertanto la mia ultima preoccupazione è che una o più persone spinte quella notte una contro l’altra da entrambe le parti dello scontro politico siano portatrici del virus (che lo sappiano o meno) e che di conseguenza un numero imprecisato di noi lo abbia contratto.

Ho coperto bocca e naso sia dallo spruzzo di spray al peperoncino che da ogni particella di carica virale che si possa essere librata nell’aria. Solo i prossimi giorni diranno se è stato sufficiente.

J. Ahmad vive a Gerusalemme. Ha scritto sotto pseudonimo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi) 




Il punto di vista di un epidemiologo sul COVID-19 in Palestina

Rob Lipton

2 aprile 2020 Mondoweiss

In deroga al mio solito focus su Muzzlewatch sui tentativi di censurare il BDS e su altri punti di vista “pro-palestinesi” e anti-sionisti, indosso le vesti del mio lavoro quotidiano come epidemiologo socio- territoriale per parlare di alcuni aspetti della pandemia COVID-19, in via di diffusione in Paestina e Israele. Questo nell’ambito di un ciclo di interventi che seguirà gli effetti della pandemia in Israele e Palestina. Chiaramente, questo evento mondiale avrà ripercussioni di vasta portata e molto imprevedibili.

La prima cosa da capire è che ci troviamo nei primissimi giorni della pandemia. Al momento della stesura di questo articolo, ci sono 6.360 casi in Israele con 33 morti, mentre in Palestina 155 casi e 1 morto. Queste [cifre] cresceranno rapidamente su entrambi i lati della linea verde. Ovviamente la Cisgiordania, prosciugata delle sue risorse, e Gaza, prigione a cielo aperto, sono a gravissimo rischio, come in questa sede è stato a lungo ribadito – ma, come è ovvio, i confini non sono qualcosa che il COVID-19 riconosca.

Il problema più importante riguarda la capacità di assistenza sanitaria, e la Palestina semplicemente non ha le risorse per affrontare alcun genere di forte impennata nelle cure di emergenza, le cure intensive e le cure post ricovero. Al momento della stesura di questo articolo la maggior parte dei casi gravi e dei decessi riguardano la popolazione più anziana e, a questo proposito, la piramide delle età in Cisgiordania e Gaza potrebbe essere effettivamente favorevole. Rispetto all’età della popolazione israeliana possiamo rilevare che ci sono molti più giovani in Palestina. Al momento, le persone anziane sono più a rischio di malattie gravi e decessi rispetto alle più giovani (anche se sembra che, negli Stati Uniti, anche gli adulti relativamente più giovani, di età compresa tra 25 e 44 anni, siano a rischio di ricovero). D’altra parte, sebbene i giovani possano contrarre una malattia lieve o essere asintomatici, queste persone risultano comunque contagiose. Non sappiamo con precisione cosa questo implicherà col procedere della pandemia.

Il problema più consistente, tuttavia, riguarda i confini artificiali e il controllo micro-territoriale dei movimenti dei palestinesi. L’impossibilità per i palestinesi, già abbastanza grave in tempi “normali”, di suddividere le risorse sanitarie in base alle necessità, di organizzare correttamente la popolazione in base alle esigenze di distanziamento sociale e di una razionale quarantena e di tracciare e testare correttamente le persone, prevedibilmente comporterà molti più casi di malattie gravi e di morti, al di là di ciò che potrebbe accadere in uno scenario meno ad ostacoli. Se Israele imporrà un duro coprifuoco / quarantena alla Palestina, simile a quello del 2002 durante la seconda Intifada, diventerà estremamente difficile rispondere alla pandemia in crescita, fino al punto di vietare la libertà di movimento di ambulanze e operatori di Pronto Soccorso.

Una popolazione segregata, che sia per la porosità dei confini della Cisgiordania che per il contesto carcerario di Gaza, fa sì che il coronavirus sarà molto più grave per i palestinesi e lo stesso per gli israeliani, perché ci sarà un enorme serbatoio di infezione facilmente travasabile tra popolazioni contigue. La struttura a patchwork della Cisgiordania implica che sarà davvero difficile mantenere un effettivo isolamento in quanto palestinesi e israeliani vivono essenzialmente fianco a fianco. Questa situazione sarà aggravata dalla mancanza, in Palestina, di risorse sanitarie disponibili. Le malattie gravi dei palestinesi sono spesso curate in Israele e possiamo facilmente immaginare una situazione di quarantena “stretta” che impedisca tale assistenza sanitaria. Inoltre, se il sistema sanitario israeliano risultasse sovraccarico, ci sarebbero ancora minori possibilità per tutte le persone in Israele e in Palestina.

Rob Lipton è membro di lunga data di Jewish Voice for Peace, ha scritto per il Muzzlewatch di JVP, è stato membro dell’ISM [Movimento Internazionale di Solidarietà, ONG impegnata nel sostegno della causa palestinese, ndtr.] ed è stato il direttore di FAIR [organizzazione che monitora le notizie dei media degli Stati Uniti per “inesattezza, pregiudizi, e la censura”, ndtr.] di Los Angeles durante la prima guerra del Golfo. È poeta laureato a Richmond, California e epidemiologo territoriale.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)

 

 




Deir Yassin, 9 aprile 1948/2020 Il diritto alla memoria.

Dirar Tafeche,

8 aprile 2020.

A Gerusalemme ci sono due colline affacciate l’una di fronte all’altra che raccontano due diverse storie. La prima è famosa in tutto il mondo, viene visitata anche da alcuni capi di Stato e sulla quale è situato lo Yad Vashem, simbolo della condanna dei crimini contro l’umanità. Sulla seconda, oggi, è ubicata la cittadina israeliana Kfar Sha’ul, dove un giorno c’era il villaggio di Deir Yassin.

Le due colline sono separate nello spazio da una vallata, ma anche nel tempo, in quanto ognuna racconta dei fatti generati da contesti differenti. Cosicché non esistono paragoni, anche se Edward Said, saggista palestinese, afferma che ce n’è uno: ebrei e palestinesi, nella loro tragedia, sono stati lasciati da soli. La sofferenza degli ebrei è ricordata e celebrata. Invece non una targa, una lapide o un monumento che ricordi il massacro di Deir Yassin: mancanza imposta dalla legge dello Stato di Israele. E’ un sentenza che nega ed elimina deliberatamente un evento di commemorazione. Il messaggio “mai più” atrocità e barbarie per lo Stato di Israele, vale per gli uni e non per gli “altri”. Ripeto, è la legge dello Stato di Israele che vieta ogni celebrazione della Nakba (catastrofe) perchè Palestina e palestinesi finiscano nell’oblio della storia.  Il nome del villaggio deriva dall’esistenza di un Deir (che tradotto dall’arabo, significa monastero) e da una tomba di un dotto musulmano di nome Yassin. Le case (nel 1944 erano 144) erano state edificate con  pietre massicce e separate da vie strette e curve. Alcune di queste case si possono vedere ancora oggi. La popolazione (nel 1948 c’erano 708 abitanti) era in buona parte benestante, lavorava la terra nella vallata, ricca di due sorgenti che permettevano di coltivare olivi, grano e mandorle. Alcuni abitanti, data la posizione strategica della vicinanza alla strada di collegamento tra Giaffa Gerusalemme, erano commercianti. Altri, soprattutto ai tempi del mandato britannico, erano famosi tagliapietre nelle ricche quattro cave che fornivano pietre solide e buon guadagno.

Gli scolari, all’inizio, studiavano nella scuole della vicina Lifta, ma nel 1943 Deir Yassin si arricchì di due scuole, una femminile e l’altra maschile, e di una moschea. Nel 1906, ad ovest nacque la colonia Kfar Sha’ul e più tardi, a sud est, Yefe Nof e Beit HaKerem. Attualmente la collina è letteralmente circondata da molte altre cittadine israeliane. I rapporti tra palestinesi ed ebrei, prima della dichiarazione di Balfour nel 1917 che promise agli ebrei un focolare nazionale in Palestina, erano di buon vicinato, con scambi commerciali. Man mano, quando divenne chiara l’intenzione sionista di costruire uno Stato ebraico, l’atmosfera pacifica si incrinò, fino a rompersi durante la rivolta palestinese del 1933 contro gli inglesi che assicurarono la migrazione ebraica in Palestina, per essere poi ripresa dopo che la Gran Bretagna sedò la rivolta nel 1939.

Il massacro

Il villaggio è stato teatro di un massacro, nonostante il trattato di non belligeranza stipulato tra i notabili del villaggio di Deir Yassin e i capi dell’ Haganah [la principale milizia sionista]. L’attacco cominciò all’alba del 9 aprile 1948. Fu opera delle due bande ebraiche del IZL (Irgun Zvai Leumi) capeggiate dal futuro Primo Ministro e Premio per la Pace Menachem Begin, e dalla banda Stern di Yizhak Shamir, anch’egli futuro Primo Ministro. Le due squadre entrarono nel villaggio alle 4.00 del mattino, con lancio di bombe da un aeroplano, seguite dall’invasione di uomini e carri armati. 120 uomini armati con mitragliatrici avanzarono nel villaggio lanciando bombe a mano nelle finestre e minando la base di ogni edificio. Gli abitanti, barricati nelle case, riuscirono a fermare l’attacco per breve tempo ma la resistenza finì presto per le scarse munizioni e per l’arrivo, in aiuto agli assalitori, dell’unità del Palmach, compagnia d’élite dell’ Haganah, futuro esercito di Israele. “Il comandante [ dell’ Haganah] Ya’akov Vaag portò i suoi uomini a Deir Yassin e cominciò a bombardare il villaggio con i mortai. Eliminata la resistenza, Meir Pa’il, l’ufficiale di collegamento dell’ Haganà che accompagnava la “missione”, ordinò a Ya’akov Vaag di ritirare i suoi uomini e di  lasciare il seguito nelle mani degli uomini dell’Irgun e della Stern”… “Gli abitanti vengono rastrellati casa per casa e uccisi. Decine di cadaveri vengono gettati nel pozzo nella piazza del villaggio”.(1)

Quel 9 aprile, 120 assalitori eseguirono il massacro uccidendo 254  abitanti inermi, secondo la Croce Rossa a Gerusalemme, giunta il giorno dopo sul luogo. Molti furono i cadaveri per terra e sotto le macerie delle case. I pochi sopravvissuti si rifugiarono a Gerusalemme, Jerico e Hebron. Alle cinque di sera, alcuni prigionieri ammanettati e scalzi, furono caricati su camionette e portati a Gerusalemme come vittoria, gridando slogan trionfalistici per le vie della città. Lo storico israeliano Benny Morris, nel libro Vittime [Rizzoli 2002,  pgg. 265-266] scrive: “I maschi adulti vennero portati in città su alcuni camion, fatti sfilare per le strade, [di Gerusalemme] riportati al punto di partenza e fucilati con mitragliatrici e fucili mitragliatori. Prima di caricarli sui camion, gli uomini dell’ IZL e della Lehi [acronimo di Lohamei Herut Israel, un gruppo paramilitare terroristico sionista, ndr] perquisirono donne, uomini e bambini e presero loro denaro e gioielli. Il trattamento riservato a costoro fu particolarmente barbaro, con calci, pressioni con le canne dei fucili, sputi e insulti (alcuni abitanti di Givat Shaul parteciparono alle sevizie)”. “Il servizio informazione dell’IDF (Israel Defense Forces) definì Deir Yassin ,” un fattore decisivo di accelerazione della fuga in massa”. ll massacro di Deir Yassin non è tra i più grandi commessi a danno dei civili palestinesi, ma servì a creare panico e paura in tutta la Palestina, costringendo gli abitanti a lasciare le loro case nel 1948.

Le testimonianze

La sistematica distruzione di più di 400 villaggi e la cacciata di 700/800mila palestinesi dalle loro case faceva parte del Piano Dalet, decretato dall’ Haganah, con la prima operazione che prese il nome di Operazione Nachshon ed era diretta precisamente ad occupare i villaggi rurali nell’area delle montagne di Gerusalemme. Al riguardo, ci sono molte testimonianze nei libri degli storici arabi, israeliani e di altri Paesi, alcuni dei quali sono pubblicati in Internet e sul sito “palestineremembered.com”. Credo però che la più efficace, netta e idonea al caso, sia la dichiarazione degli stessi esecutori, documentata in un lungo ed interessante articolo di Ofer Aderet nel quotidiano Haaretz, che consiglio di leggere per la loro consapevolezza della finalità e per la crudeltà dell’esecuzione. (2) Per essere breve, solo due stralci da quell’articolo al quale rimando per l’eventuale lettura: “Un giovane legato ad un albero e dato alle fiamme. Una donna ed un vecchio vengono fucilati alla schiena. Ragazze messe al muro e colpite con una pistola”; “Abbiamo confiscato un sacco di soldi, gioielli d’argento e d’oro sono caduti nelle nostre mani”. Invece dell’articolo di Aderet preferisco la citazione di un ragazzino documentata da Ilan Pappe, storico israeliano, nel libro “La  Pulizia Etnica della Palestina” [ Fazi Ed., 2008, pag.117]: “Fahim Zaydan, che a quei tempi aveva dodici anni, così ricorda l’esecuzione della sua famiglia, avvenuta davanti a suoi occhi: ‘Ci portarono fuori uno dopo l’altro; spararono a un uomo anziano e quando una delle sue figlie si mise a piangere spararono anche a lei. Poi chiamarono mio fratello Muhammed e gli spararono davanti a noi, e quando mia madre gridò chinandosi su di lui, con in braccio la mia sorellina Hunda che stava ancora allattando, spararono anche a lei.’ Spararono allo stesso Fahim, che fu fortunato a sopravvivere, nonostante le ferite”.

L’Operazione Nachshon, dopo Deir Yassin, continuò nei villaggi vicini: Qalunia, Sais, Beit Surik e Biddo. Tuttavia, dopo alcuni giorni “cinquantatre bambini orfani furono trovati dalla signorina Hind Husseini lungo le mura della Città Vecchia, e portati a casa sua, che sarebbe diventata l’orfanotrofio di Dar El-Tifl El-Arabi(“casa del bambino arabo”)(3).  Questo orfanotrofio esiste ancora oggi.

Deir Yassin oggi

L’Operazione Nachshon è stata progettata dall’ Haganà, futuro esercito di Israele e mirava al controllo totale dei villaggi del distretto di Gerusalemme per la loro posizione strategica di vicinanza alla strada Giaffa-Gerusalemme. Dopo il massacro, le bande ebraiche occuparono il villaggio, ormai evacuato e liberato da palestinesi. Qua e là, restano in piedi alcuni case oggi usate da israeliani ebrei come abitazioni e magazzini commerciali. Alla periferia, nei campi, qualche albero d’olivo sommerso dall’erba, come anche il cimitero dove le lapidi, attestano alcuni defunti in data remota.

Conclusione

“Il popolo che non ha memoria, non ha storia”.

Deir Yassin è stato un evento molto doloroso e in gran parte è stato sepolto da Israele e non dai palestinesi. Oggi questi ultimi, a dispetto di ogni avversità, stanno cercando di far rinascere la loro storia e di promuovere il lato umano, politico e culturale di un popolo, vittima del razzismo sionista portato avanti da un Stato che si dichiara democratico. Attraverso associazioni, iniziative con presentazioni di documenti, dibattiti, filmati, mostre e quant’altro, si vuole rianimare la memoria per accrescere la consapevolezza dell’ingiustizia subita dai palestinesi per mano delle bande ebraiche. Tutte le iniziative sono intimamente connesse a due principi: il Diritto al Ritorno e il Diritto alla Memoria. In entrambi i casi, Israele è sempre stata un impedimento e un oppressore.

(1)- Dal libro “Palestina” pag. 60. edizione Zambon, 2010.

(2)- Haaretz del 17.7.2017, titolo: Testimonies From the Censored Deir Yassin Massacre: ‘They Piled Bodies and Burned Them’ di Ofer Aderet.

(3)- Dal libro (pubblicato in arabo in palestineremembered.com) “La Nakba e il Paradiso Perduto” di Aref el Aref, storico palestinese e sindaco di Beer Sheba nel ‘48.




Le spese per fronteggiare il COVID-19 bloccano l’approvazione della finanziaria dell’ANP

Ahmad Melhem

3 aprile 2020 – Al-Monitor

Ramallah, Cisgiordania —Si prevede che lo stato di emergenza dichiarato il 5 marzo da Mahmoud Abbas, presidente della Palestina, e le rigide misure annunciate dal governo il 18 marzo per arrestare l’espandersi del COVID-19 nei territori palestinesi limiteranno ancora di più la capacità finanziaria dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Il governo avrebbe dovuto pagare per intero gli stipendi dei dipendenti statali, ma, se lo stato di emergenza continuerà, si prospetta una crisi finanziaria.

Due fattori contribuiranno al peggioramento della crisi finanziaria dell’ANP: una diminuzione delle entrate fiscali (cioè tasse e dazi doganali) derivanti da una diminuzione dei commerci e un aumento delle spese, in risposta allo stato di emergenza, come il vasto impiego di servizi di sicurezza nelle città, i provvedimenti presi per fronteggiare gli effetti della disoccupazione, le spese mediche crescenti e l’apertura di centri per la quarantena. Dal 2 aprile, in Cisgiordania e Gaza sono stati registrati 160 casi di COVID-19, un decesso e diciotto ricoveri ospedalieri.

L’incertezza sui costi associati alla crisi da COVID-19 ha, in parte, frenato gli sforzi del governo per annunciare il bilancio dello Stato per l’anno finanziario 2020, che segue l’anno solare. La finanziaria di solito viene presentata entro il primo quadrimestre. Il Governo ha proceduto alla seconda lettura il 15 marzo, ma il primo aprile non c’era ancora stata la terza lettura necessaria prima di presentare il bilancio ad Abbas per l’approvazione.

Il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh alla conferenza stampa del 29 marzo ha detto che, secondo il budget presentato al Gabinetto, le entrate statali caleranno di oltre il 50% e che diminuiranno anche gli aiuti internazionali. A causa di questa situazione finanziaria unita allo scoppio della pandemia, il governo si baserà su un bilancio di emergenza e austerità. Shtayyeh stima che il governo avrà bisogno di circa 120 milioni di dollari per fronteggiare il virus. “Nei prossimi giorni la situazione finanziaria sarà difficile” ha detto chiedendo ai palestinesi di prepararsi.

Amjad Ghanem, il segretario-generale di gabinetto dell’ANP ha detto ad Al-Monitor che “lo stato di emergenza impone oneri finanziari al governo che però non nasconderà la testa sotto la sabbia e farà fronte alla diminuzione degli introiti statali e delle spese mediche.” 

Si prevede che la finanziaria 2020 sarà simile a quella stilata in emergenza dal governo nel marzo 2019 quando Israele iniziò a trattenere fondi dalle entrate dell’ANP in misura equivalente ai soldi spesi per aiutare i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e le loro famiglie. In seguito agli accordi Oslo Israele riscuote per conto dell’ANP i dazi doganali sulle importazioni e le tasse.

I fondi decurtati da Israele potrebbero porre termine alla crisi finanziaria che affligge l’ANP, aiutare il governo con la crisi da COVID-19 e a onorare i suoi obblighi finanziari” asserisce Ghanem. 

Afferma anche che il 22 marzo Israele ha trasferito all’ANP 120 milioni di shekel (30,4 milioni di euro) di imposte. Il giorno dopo, il Ministero delle Finanze ha detto che Israele continuava a trattenere 1.047 miliardi di shekel (circa 255 milioni di euro), di cui circa 650 milioni (161 milioni di euro) derivanti dalle tasse che ha riscosso. La cifra rimanente si riferiva a dati contabili di pagamenti precedenti.

Per resistere alla tempesta economica, l’ANP dovrà dipendere dagli aiuti internazionali, inclusi quelli provenienti dagli Stati arabi, e dalle donazioni locali. Il 24 marzo, il Ministero delle Finanze ha annunciato l’apertura di un conto bancario dove individui, aziende e altre imprese possono depositare donazioni per aiutare il governo a combattere il coronavirus.

Anche prima che si aprisse il conto, la Arab Bank e l’imprenditore Munib al-Masri avevano già donato 1 milione di dollari ognuno, rispettivamente il 19 e il 24 marzo. Il 9 marzo, la Paltel, l’azienda privata palestinese di telecomunicazioni, ha donato mezzo milione di dollari.

Il Qatar ha annunciato il 9 marzo che avrebbe fornito 10 milioni di dollari all’ANP per aiutare a contenere il diffondersi del coronavirus e il 18 marzo ha preannunciato una cifra ulteriore non specificata di assistenza finanziaria urgente. I qatarini progettano di donare 150 milioni di dollari nei prossimi 6 mesi per combattere il coronavirus a Gaza e il 16 marzo il Kuwait ha contribuito con 5,5 milioni di dollari. Le Nazioni Unite il 18 marzo hanno offerto 1 milione di dollari di aiuti sanitari urgenti.

May Kila, il ministro della Salute dell’ANP ha detto ad Al-Monitor: “Noi dobbiamo affrontare una sfida speciale perché non abbiamo il controllo delle nostre risorse finanziarie.” Kila ha detto che, oltre al problema dei fondi, le difficoltà maggiori sono quelle di ottenere i tamponi per i test e i respiratori. Data la loro scarsità, ci si deve concentrare sulla prevenzione.

Nasr Abdel Karim, un docente di economia e finanza dell’Arab American University in Cisgiordania, ha detto ad Al-Monitor che “se la crisi non si allenta entro uno o due mesi, l’ANP non riuscirà a rispettare i suoi impegni finanziari causati da un’economia paralizzata e dai minori introiti fiscali.”

Abdel Karim crede che tali introiti potrebbero diminuire del 50% e che l’ANP potrebbe coprire in parte il disavanzo tramite un sostegno internazionale o prestiti limitati delle banche e del settore privato. Per sostenere il funzionamento del settore sanitario, ha detto, l’ANP potrebbe pagare solo metà degli stipendi dei dipendenti statali come ha fatto nel 2019 durante la crisi di liquidità.

L’ANP si trova davanti a una crisi finanziaria ancora più grave perché è una crisi di cui non si intravede la fine” dice Abdel Karim, facendo anche notare l’ulteriore aggravio delle spese sanitarie abbinato alla diminuzione delle entrate fiscali.

La crisi, afferma, non si limiterà all’ANP, ma colpirà imprenditori, lavoratori, contadini e le istituzioni civili.

Ahmad Melhem è un giornalista e fotografo palestinese di Ramallah e collabora con Al-Watan News e vari altri media arabi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




In Cisgiordania i coloni approfittano del confinamento dovuto al coronavirus per annettere terre palestinesi

Akram Al-WaaraBetlemme, Cisgiordania occupata

1 aprile 2020Middle East Eye

Mentre gli attacchi dei coloni sono moneta corrente, è stato constatato un netto aumento delle violenze dopo la proclamazione dello stato d’emergenza sanitaria.

Nella Cisgiordania occupata i coloni sfruttano l’isolamento imposto allo scopo di rallentare la propagazione del nuovo coronavirus per annettere terre palestinesi e condurre attacchi contro i civili e le loro case.

Negli ultimi giorni sono stati riferiti almeno tre episodi durante i quali dei coloni israeliani hanno spianato dei terreni palestinesi e pavimentato delle strade nei distretti di Nablus, Gerusalemme e Betlemme.

È stato anche osservato un picco di aggressioni contro i palestinesi e i loro beni. Middle East Eye ha documentato violenze nei villaggi di Madama, Burqa e Burin.

Normalmente subiamo attacchi da parte di coloni diverse volte al mese,” spiega a MEE Ghassan al-Najjar, un attivista di Burin, villaggio situato a 5 km. a sud di Nablus.

Ma dopo che siamo stati posti in isolamento a causa del coronavirus essi sono decuplicati”, dice il trentenne, aggiungendo che i coloni, sotto la protezione dei soldati israeliani, ormai fanno quotidianamente delle incursioni nel villaggio.

Aggiunge che degli abitanti della colonia di Har Brakha hanno cercato di impadronirsi di terre palestinesi nella periferia del villaggio.

I coloni sanno che le persone restano in casa per via del coronavirus, quindi cercano di approfittarne per attaccarci e prendere ancor più terre”, lamenta l’attivista.

Un netto aumento delle aggressioni

Mentre gli attacchi di coloni in Cisgiordania sono moneta corrente, alcuni attivisti di tutto il territorio occupato hanno segnalato un netto incremento di violenze dopo la proclamazione dello stato d’emergenza sanitaria a causa della pandemia di coronavirus all’inizio di marzo.

A sud della Cisgiordania, nel distretto di Betlemme, centro dell’epidemia del coronavirus in Palestina, l’attivista quarantottenne Mahmoud Zawahreh riferisce a MEE che in questi ultimi giorni i coloni hanno adottato tattiche simili nel comune di Khallet al-Nahleh.

I coloni cercano di impadronirsi di una collina di questo villaggio fin dal 2013. Nel corso degli anni, racconta Zawahreh, i coloni della vicina mega-colonia di Efrat hanno tentato di ricostruire l’“avamposto” che vi si trovava, dopo il suo smantellamento da parte delle forze israeliane.

Una sentenza ha stabilito che le terre appartengono a palestinesi e le tende dei coloni sono state smantellate”, ricorda Zawahreh. “Fino a poco tempo fa non avevano tentato di tornare qui.”

Negli ultimi giorni in effetti i coloni sono tornati, questa volta con più tende, serbatoi d’acqua e generatori elettrici. Lunedì scorso hanno iniziato a tracciare una strada sterrata per creare un più facile accesso all’avamposto.

La crisi del coronavirus limita gli spostamenti dei palestinesi, soprattutto intorno a Betlemme, a causa della quarantena e del coprifuoco imposti dal governo”, spiega Mahmoud Zawahreh.

I coloni lo sanno e ne approfittano. Sanno che le persone avranno troppa paura di venire in gran numero e protestare contro questi tentativi, come si faceva prima. Quindi è una situazione ideale per prendere il controllo del territorio”.

«Tra il martello dell’occupazione e l’incudine del coronavirus »

Mentre la pandemia non mostra alcun segnale di rallentamento, i palestinesi dicono di essere costretti a scegliere tra proteggere la loro salute e proteggere le loro terre.

A causa dei coloni e dell’occupazione noi non possiamo seguire le direttive fissate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità o dal nostro governo per proteggerci dal coronavirus”, afferma Ghassan al-Najjar.

Se restiamo a casa ci proteggiamo dal virus, ma finiamo per perdere le nostre terre”.

Cercando di difendere il villaggio riducendo al minimo l’esposizione degli abitanti tra di loro e coi coloni, l’attivista e altri giovani della regione di Burin hanno creato un piccolo gruppo incaricato di proteggere le terre durante l’isolamento.

Normalmente tutto il villaggio viene a difendere le terre, ma ora lavoriamo in piccoli gruppi e facciamo dei turni per ridurre al minimo l’esposizione potenziale”, spiega. “È quello che possiamo fare per il momento.”

Da Khallet al-Nahleh, Mahmoud Zawahreh esorta la comunità internazionale a fare pressione sul governo israeliano perché metta fine ai “crimini dei coloni” in Cisgiordania.

È triste e frustrante per noi palestinesi vedere che durante questa epidemia l’umanità dovunque si unisce per difendersi e proteggersi reciprocamente da questo virus, mentre qui i coloni fanno il contrario. Sfruttano il virus a loro vantaggio, per nuocere all’umanità degli altri e rubare la terra altrui”, denuncia.

In Palestina siamo schiacciati tra il martello dell’occupazione e l’incudine del coronavirus”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Se si propagasse la pandemia, i villaggi beduini non riconosciuti potrebbero ‘diventare come il nord Italia’

Oren Ziv

29 marzo 2020 – +972 Magazine

Privati dei servizi essenziali, i villaggi non riconosciuti del Naqab non sono in grado di affrontare il coronavirus – e il governo israeliano non interviene.

Abitanti e attivisti affermano che i villaggi beduini non riconosciuti nel Naqab / Negev nel sud di Israele  si trovano ad affrontare una crisi in conseguenza della pandemia da coronavirus. Per la mancanza di infrastrutture e servizi sanitari, le comunità non sono in grado di seguire le linee guida stabilite dal Ministero della Salute israeliano.

Attiah al-Aasem, presidente del Consiglio Regionale dei Villaggi Non Riconosciuti del Naqab, avverte che “il coronavirus aggraverà i problemi quotidiani nei villaggi”. In assenza di servizi come acqua, fognature e raccolta dei rifiuti, aggiunge al-Aasem, gli abitanti devono fare del loro meglio per prendersi cura di se stessi.

“Il Naqab potrebbe diventare come il nord Italia”, afferma Salame Alatrash, capo del Consiglio Regionale di Al-Kasom.

Qui le persone vivono in condizioni di grande affollamento. Una baracca di 50 metri può ospitare da sette a dodici persone”, afferma. “Il governo è a conoscenza del grave affollamento e della mancanza di infrastrutture. E cosa hanno fatto in tutti questi anni? Noi li abbiamo avvertiti che ciò avrebbe portato al disastro.”

“Un abitante di un villaggio non riconosciuto afferma che non ci sono stati provvedimenti e che non sono disponibili dispositivi di protezione individuale. “Siamo consapevoli [della situazione], ma come ci proteggeremo?” dice. “Abbiamo paura, ma abbiamo la necessità di recarci al supermercato.”

‘Stiamo vivendo nella paura e nel panico’

Nei 37 villaggi non riconosciuti del Naqab vivono circa 150.000 persone. A causa del pluridecennale rifiuto del governo israeliano di concedere loro lo status legale, questi villaggi si vedono negati i servizi essenziali come l’acqua, un sistema fognario o la raccolta dei rifiuti, e sono in continua lotta per resistere alle demolizioni di case e ai trasferimenti forzati. Il loro relativo isolamento dai centri urbani ha contribuito, per il momento, a tenere a bada la pandemia, ma gli abitanti temono che una volta arrivato il virus la mancanza di infrastrutture possa provocare un’epidemia di massa.

“Questa crisi sta evidenziando una realtà che in tempi normali passa inosservata”, afferma Sari Arraf, un avvocato dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Adalah. “Sta mettendo in evidenza la disuguaglianza che devono affrontare i villaggi non riconosciuti. Se fossero state soddisfatte le richieste che avevamo fatto di collegare i villaggi alle infrastrutture essenziali, non ci troveremmo in una situazione che sta mettendo in pericolo non solo gli abitanti dei villaggi non riconosciuti, ma anche l’intera popolazione del Naqab.”

“Viviamo nella paura e nel panico”, afferma Aziz Abu Mdeghem, abitante di Al-Araqib, che le autorità israeliane hanno demolito 175 volte negli ultimi 10 anni. “Non abbiamo modo di proteggerci dal coronavirus. Non possiamo conservare il cibo e non c’è nessun posto nelle vicinanze dove possiamo lavarci le mani regolarmente, perché non c’è acqua corrente”.

Gli abitanti hanno paura di lasciare il villaggio per procurarsi il cibo e temono il giorno in cui uno dei loro vicini potrebbe essere costretto ad autoisolarsi, perché il villaggio non è in grado di consentire un simile distanziamento.

Alatrash, il capo del consiglio di Al-Kasom, ha segnalato la stessa preoccupazione al Ministero della Sanità, chiedendo diverse settimane fa il permesso di trasformare le scuole del suo distretto in centri di isolamento. Sta ancora aspettando di ricevere il consenso.

Mentre Al-Araqib non ha acqua corrente, altri villaggi non riconosciuti sono in grado di utilizzare punti di approvvigionamento idrico isolati a pagamento installati dalla compagnia idrica nazionale israeliana. Questi punti di accesso possono trovarsi a chilometri di distanza dai villaggi e non forniscono acqua a sufficienza per le comunità.

“I villaggi ricevono la quantità minima di acqua al massimo costo”, afferma Arraf. Il prezzo si basa su due tariffe: il volume della fornitura e l’entità del surplus del consumo oltre la fornitura. Gli utenti abituali dell’acqua pagano per una determinata quantità, al di sopra della quale pagano un extra. I beduini residenti “pagano il doppio fin dalla prima goccia d’acqua, il che rende costoso rispettare le linee guida del Ministero della Salute. È assurdo “, aggiunge Arraf. Inoltre, poiché gli abitanti hanno dovuto costruire le proprie reti idriche utilizzando lunghe tubazioni non interrate all’interno dei loro villaggi, spesso sorgono problemi di pressione e qualità dell’acqua.

La mancanza di infrastrutture fa sì che, anche in tempi normali, le ambulanze non possano raggiungere i villaggi a causa dell’assenza di strade asfaltate. Non è quindi chiaro come potrebbe arrivare l’assistenza medica se le vittime del coronavirus richiedessero un’evacuazione urgente.

“Qui siamo tutti in crisi”, afferma Alatrash. “Questa non è una situazione normale e non c’è distinzione tra ebrei e arabi: dobbiamo lavorare insieme”.

Tutto è stato annullato, eccetto le demolizioni’

Le misure del governo israeliano per combattere la pandemia potrebbero avere gravi conseguenze economiche per molti dei villaggi non riconosciuti. “Ci sono migliaia di beduini che sono lavoratori temporanei e guadagnano 150-200 shekel [38-51 euro, ndtr.] al giorno nell’agricoltura, nei ristoranti, hotel e lavando le automobili”, afferma Alatrash. “Non hanno diritto alla disoccupazione e se questa crisi persiste, avranno bisogno di un sostegno che non possiamo fornire”.

Nel frattempo, fino a lunedì scorso, nonostante lo stato di emergenza, le autorità israeliane stavano ancora effettuando demolizioni di case e distruggendo i raccolti appartenenti a villaggi beduini non riconosciuti. La preoccupazione principale degli abitanti di Al-Araqib rimane il rischio di perdere la casa, anche se dall’inizio dell’epidemia le autorità, diversamente dal solito andamento settimanale, hanno demolito le loro baracche solo una volta. “Le demolizioni delle case sono il nostro coronavirus”, afferma Abu Mdeghem.

Domenica scorsa, gli urbanisti e gli ispettori del ministero delle finanze sono arrivati nel villaggio di Rahma e hanno distribuito avvisi di demolizione per gli edifici che erano stati ristrutturati dopo essere stati danneggiati da inondazioni due settimane prima. Gli abitanti hanno rilevato che i funzionari sono arrivati senza dispositivi di protezione individuale e sono entrati nelle loro case in gruppi di otto persone, senza mantenere alcuna distanza tra loro.

“Tutto è stato annullato, eccetto le demolizioni contro i beduini”, dice al-Aasam. “Questo è ciò di cui lo Stato si preoccupa: di qualcuno che stia piazzando una lamiera o stia martellando su un chiodo. La distribuzione degli ordini [di demolizione] è una scusa: vogliono sfruttare l’opportunità di danneggiare le persone, che ora non hanno il tempo per costruire perché sono impegnate a preoccuparsi del coronavirus”.

Le visite degli ispettori rischiano di mettere in pericolo gli abitanti, aggiunge al-Aasem. “Qualcuno di loro potrebbe avere il virus, dal momento che si è diffuso in tutto il Paese.”

In seguito alla visita degli ispettori, un certo numero di organizzazioni per i diritti ha fatto un appello al governo affinché interrompa tutte le attività di demolizione contro le case e le terre dei villaggi non riconosciuti, soprattutto nel corso della pandemia, sottolineando che tali operazioni mettono a repentaglio non solo la salute degli abitanti dei villaggi, ma anche i tentativi di contrastare l’epidemia da coronavirus. Devono ancora ricevere una risposta.

Tuttavia, nonostante la persistenza delle operazioni di demolizione ci sono segnali che il governo stia iniziando a modificare i suoi interventi nei villaggi non riconosciuti, nella consapevolezza della potenziale catastrofe. Il 22 marzo, per la prima volta dall’istituzione dell’Autorità per lo Sviluppo e l’Insediamento dei Beduini nel Negev (chiamata di solito “Autorità Beduina”), il ministero dell’Agricoltura ha deciso che l’organismo avrebbe gestito, in cooperazione con vari ministeri, aiuti governativi per i villaggi non riconosciuti.

Normalmente l’Autorità Beduina è responsabile della cosiddetta “regolarizzazione” dei villaggi non riconosciuti e svolge attività di applicazione della legge, demolizioni e sfratti. Nei giorni scorsi, tuttavia, l’ente ha inviato dei dipendenti a distribuire materiale in lingua araba su come affrontare la pandemia. Secondo l’Autorità, il suo personale avrebbe avuto il compito di identificare i bisogni della popolazione beduina.

Il responsabile dell’Autorità Beduina, Yair Maayan, ha riferito a Local Call [sito di notizie israeliano, versione in ebraico di +972, ndtr.] che sono state congelate tutte le attività, comprese le demolizioni, e che “tutti i dipendenti stanno lavorando con la popolazione per cercare di prevenire la malattia”. Con una mossa del tutto inusuale, Maayan ha scritto al Ministero delle Finanze, dopo che i suoi ispettori avevano distribuito avvisi di demolizione in uno dei villaggi, chiedendo loro di interrompere tutti questi interventi. Invece di effettuare demolizioni e sfratti, ha scritto, il dipartimento dovrebbe “concentrarsi sulla sensibilizzazione e sulla riduzione delle infezioni da coronavirus”.

Tuttavia, Haia Noach, direttrice esecutiva del Negev Coexistence Forum – una delle organizzazioni che ha chiesto allo Stato di fermare le demolizioni – afferma che, mentre l’Autorità Beduina è competente sulle demolizioni, non è competente in merito alla salute pubblica. “Lasciare che queste persone [nell’Autorità] affrontino la situazione, – sostiene – significa abbandonare la comunità”.

Interruzione massiccia dell’istruzione

All’inizio della crisi le scuole israeliane sono state chiuse e il Ministero dell’Educazione ha creato dei programmi online nazionali per l’apprendimento a domicilio da parte degli studenti. Ma il progetto, chiaramente, non ha tenuto conto della popolazione di lingua araba, afferma il dott. Sharaf Hassan, che dirige un comitato di valutazione dell’educazione araba. “Non hanno pensato al divario tra ebrei e arabi. Circa un terzo degli studenti arabi non ha la tecnologia necessaria per accedere alle lezioni”.

Secondo Hassan circa la metà degli studenti arabo-palestinesi in Israele non partecipa all’apprendimento a distanza e metà vive al di sotto della soglia di povertà. Inoltre, aggiunge, non tutte le famiglie hanno accesso a un computer, per non parlare della disponibilità di corrente elettrica o di Internet.

Nel migliore dei casi, i bambini dei villaggi non riconosciuti devono lottare per accedere all’istruzione. Ora, tuttavia, il comitato per i villaggi non riconosciuti stima che circa il 70% degli studenti di queste comunità non partecipi all’apprendimento a distanza, a causa della mancanza di risorse.

“La mancanza di preparazione per una situazione di emergenza è dovuta a una discriminazione di lunga data”, afferma Hassan. Nel caso in cui l’apprendimento a distanza debba continuare per un lungo periodo, il governo deve garantire che gli studenti senza accesso a Internet possano comunque ricevere un’istruzione, fornendo loro router e computer.

Anche l’accesso alle informazioni sulla pandemia è stato un problema. “La gente ha impiegato un po’ di tempo per capire che la chiusura delle scuole non fosse dovuta a una vacanza”, afferma Huda Abu Obeid, attivista e abitante del Naqab. “Non c’erano abbastanza informazioni in arabo. Le stesse organizzazioni sanitarie, per un senso del dovere, hanno iniziato a distribuire le linee guida. È preoccupante.”

“Abbiamo bisogno di una task force che includa medici che conoscano la comunità e che fornisca delle soluzioni”, afferma Noach. “Lo Stato deve assumersi la sua responsabilità”.

Nel contempo al-Aasem propone una rapida fornitura di servizi essenziali, come un ambulatorio medico, anche se solo provvisorio. “Se riconoscessero i villaggi – afferma – e fornissero loro le infrastrutture essenziali, saremmo in grado di prevenire questo disastro”.

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills e cronista di Local Call. Dal 2003 ha documentato una serie di problemi sociali e politici in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione verso le comunità di attivisti e le loro battaglie. La sua attività di reporter ha messo a fuoco le proteste popolari contro il muro e le colonie, l’edilizia popolare e altre questioni socio-economiche, le lotte contro il razzismo e la discriminazione e le battaglie per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)