“È incitamento all’odio”: la deputata democratica affronta l’AIPAC

Alex Kane

14 febbraio 2020 – +972

In un’intervista esclusiva, la parlamentare Betty McCollum risponde all’inserzione dell’AIPAC secondo cui lei sarebbe “più pericolosa” dell’ISIS a causa del suo impegno per i diritti dei palestinesi.


La pubblicità negativa è una sporca, costante caratteristica della vita politica americana. Ma la deputata Betty McCollum (Democratici-Minnesota) è rimasta comunque sorpresa quando la sua segreteria le ha mostrato due inserzioni pubblicate su Facebook dall’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee – Comitato Israelo-Americano per gli Affari Pubblici, lobby americana di sostegno allo Stato di Israele, ndt) che prendono di mira direttamente lei e due sue colleghe, Rashida Tlaib (Democratici – Michigan) E Ilhan Omar (Democratici – Minnesota), un approccio insolito per un’organizzazione che ha tentato in tutti i modi di mantenere i Democratici dalla propria parte.

Le inserzioni diffamatorie – una delle quali contiene foto di McCollum, Tlaib e Omar – rimandavano ad una petizione che definiva le deputate “antisemite” e suggeriva che fossero “probabilmente più pericolose” di gruppi terroristici come l’ISIS e Hezbollah.

Vedere un attacco personale così pieno d’odio è stato davvero sconvolgente” ha dichiarato la McCollum a +972 Magazine, nella sua prima intervista dopo la pubblicazione delle inserzioni. “Con il loro linguaggio, incitano all’odio. E, per quel che posso capire, stanno cercando di intimidire i membri del Congresso perché non facciano sentire la propria voce”.

Circa una settimana dopo la pubblicazione delle inserzioni, McCollum è passata dallo shock all’azione. Mercoledì, la deputata ha pubblicato una feroce dichiarazione, in cui definisce l’AIPAC “gruppo d’odio”, dice che l’AIPAC “ha usato l’antisemitismo e l’odio come arma per mettere a tacere il dissenso” e che, nel farlo, “ha deriso i Democratici, facendosi beffe dei nostri valori fondanti”.

McCollum ha anche respinto il tentativo dell’AIPAC di limitare i danni: una dichiarazione pubblicata sabato, con la quale hanno chiesto scusa per le inserzioni e le hanno rimosse. Comunque il gruppo ha ribadito la propria preoccupazione per un piccolo numero di Democratici che stanno “pregiudicando le relazioni USA-Israele”.

Le scuse, di qualsiasi tipo, dovrebbero essere sincere, venire dal cuore, essere pubbliche. Dovrebbero dire che hanno sbagliato e che non lo faranno mai più, e che non useranno più espressioni di questo tipo contro nessuno,” ha detto McCollum a +972.

Il ginepraio tra McCollum e l’AIPAC è uno scontro senza precedenti tra un Democratico e il gigante delle lobbies israeliane. Il che, ora, minaccia di tormentare l’organizzazione mentre si prepara all’annuale dimostrazione di forza, la conferenza politica dell’AIPAC, che di solito vede la partecipazione dei più potenti Democratici del Congresso.

McCollum aggiunge: “La reazione dei miei colleghi al Congresso, di qualsiasi appartenenza, è stata di sdegno e dispiacere per il modo in cui sono stata trattata”.

Non è chiaro se qualcuno, tra i Democratici del Congresso, boicotterà la conferenza dell’AIPAC alla luce degli attacchi contro McCollum, Tlaib e Omar. La candidata alle presidenziali Elizabeth Warren, però, aveva già dichiarato, prima che le inserzioni fossero pubblicate, che non sarebbe andata all’incontro.

Al di là della conferenza politica, comunque, c’è una preoccupazione ben più grande per l’AIPAC. Le inserzioni diffamatorie sono forse l’esempio più lampante del perché il marchio AIPAC si stia velocemente trasformando in un punto debole all’interno del Partito Democratico.

L’AIPAC si dedica da lungo tempo a garantire, attraverso relazioni personali e contributi elettorali, che entrambi i partiti politici restino irremovibili nel loro sostegno a Israele. Ma oggi, di fronte ai cambiamenti demografici nel Partito Democratico, a un movimento per i diritti dei palestinesi organizzato che sta facendo un’opposizione efficace, e alle dispute tra Netanyahu e Obama a cui è seguita l’alleanza Netanyahu-Trump, l’AIPAC sta lottando per mantenere la propria influenza all’interno del partito.

Non è chiaro quale sia esattamente il motivo per cui l’AIPAC abbia scelto di immischiarsi in questa faccenda proprio adesso, ma McCollum avanza un’ipotesi.

Ecco un esempio di qualcuno che è paranoico o spaventato, al punto da inveire utilizzando espressioni così piene d’odio per cercare di far fuori qualcuno o far sì che la gente abbia paura di venirvi associata. Mi fa pensare che derivi dalla paura”.

L‘AIPAC ha molto da temere in questo momento. La base del Partito Democratico si sta allontanando dal sostegno incondizionato a Israele. Bernie Sanders, candidato democratico capolista alle presidenziali, è il primo candidato credibile che chiede che, relativamente agli aiuti statunitensi a Israele, sia imposta la condizione del rispetto dei diritti umani, e di fare pressione su Israele perché smetta di costruire colonie nei territori occupati.

Nel frattempo, nel Congresso, l’AIPAC è in lotta con una nuova generazione di Democratici che non esitano a denunciare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele. E McCollum, ormai veterana tra i deputati, guida la carica nelle stanze del potere.

Già in precedenza McCollum si era scontrata pubblicamente con l’AIPAC, dopo che un rappresentante del Minnesota della lobby aveva dichiarato che “il suo [di lei, ndt] sostegno ai terroristi non verrà tollerato”. La dichiarazione è arrivata dopo che la deputata aveva votato contro un disegno di legge del 2006 che avrebbe tagliato l’assistenza umanitaria ai territori palestinesi occupati, una mossa che gli alleati di Israele al Congresso avevano intrapreso in seguito alla vittoria di Hamas alle elezioni democratiche di quell’anno. McCollum aveva poi sotterrato l’ascia di guerra con l’AIPAC, e ne aveva incontrato i rappresentanti di recente, proprio l‘anno scorso.

Ma McCollum non ha smesso di difendere i diritti dei palestinesi. L’anno scorso ha presentato una proposta di legge che vieterebbe a Israele di utilizzare l’aiuto militare statunitense per arrestare e commettere abusi sui minori palestinesi, una versione leggermente modificata della proposta del 2017, che aveva la stessa finalità. Questa è stata in assoluto la prima proposta di legge presentata al Congresso incentrata sui diritti umani dei palestinesi. Israele arresta centinaia di minori palestinesi ogni anno: spesso li tiene bendati, li picchia e li costringe a firmare confessioni in ebraico, una lingua che molti di loro non capiscono.

Tutti i minori meritano di essere trattati con dignità e rispetto, e non smetterò di battermi per questo,” ha dichiarato McCollum.

La proposta di legge ha oggi il sostegno di altri 23 Democratici. Il che non è abbastanza per farla procedere al Congresso, ma la normativa è appoggiata dalle stelle della nuova classe congressuale: Alexandra Ocasio-Cortez (Democratici-New York), Ayanna Pressley (Democratici – Massachusetts), Tlaib e Omar, comunemente note come “La Squadra”.

In merito all’AIPAC, McCollum ha dichiarato che, per il momento, non accetterà di parlare con i rappresentanti dell’AIPAC, riportando così il gelo nelle relazioni tra la deputata e l’organizzazione.

Perché dovrei incontrare qualcuno che pensa che io sia peggio di un terrorista?” chiede la deputata.

Alex Kane è un giornalista di New York i cui articoli su Israele-Palestina, libertà civili e politica estera USA sono stati pubblicati, tra gli altri, da Vice News, The Intercept, The Nation, In These Times.

(traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




In che modo i coloni si prendono la terra palestinese? La risposta è: con una strada

Dror Etkes 

12 febbraio 2020 – + 972

Per collegare le enclavi che compongono Kedumim, i coloni hanno assunto il controllo di una importante strada che serviva ai palestinesi e gliene hanno bloccato l’accesso.

Il 28 gennaio, il giorno in cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha reso pubblico l’ “accordo del secolo”, nella colonia di Kedumim una donna seduta in un’auto a noleggio digitava sul cellulare mentre gli spari risuonavano dalla vicina Kufr Qaddum. Si potevano sentire rumori di veicoli militari arrivare dal villaggio palestinese a poche centinaia di metri a ovest della colonia.

La donna continuava a guidare verso sud, verso l’uscita principale di Kedumim, e io proseguivo verso ovest lungo Nahlah Street. Dall’altra parte della strada, ho visto un allievo della scuola elementare tornare a casa mentre passava l’auto di servizio del consiglio dei coloni. Routine quotidiana della colonia.

Dopo un po’ sono arrivata alla casa più a ovest di Kedumim, accanto agli uliveti di Kufr Qaddum. È probabile che questo punto diventerà presto un altro segnale dei confini internazionali di Israele, se il piano di Trump verrà attuato e Israele annetterà gli insediamenti.

Kedumim fu fondata nel 1975 in seguito al famigerato “compromesso di Sebastia”, quando i coloni di Gush Emunim raggiunsero un accordo con l’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin e il Ministro della Difesa Shimon Peres per fondare un nuovo insediamento come risarcimento dell’essere stati allontanati dalla terra che avevano occupato alla stazione ferroviaria di Sebastia, adiacente all’omonimo villaggio palestinese nella Cisgiordania settentrionale. Da molti anni, però, Nahlah Street era la strada utilizzata dagli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum per accedere a Nablus, la grande città a loro più vicina.

Ma un tratto di 2 chilometri di quella strada si snoda tra gli ulivi e i campi di Kufr Qaddum orientale, su cui Kedumim è stata fondata 45 anni fa. E negli ultimi vent’anni, quella strada è stata chiusa agli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum. Mentre la lotta popolare si è in gran parte attenuata in tutta la Cisgiordania occupata, il villaggio è uno degli ultimi posti in cui è possibile assistere a manifestazioni quasi settimanali del venerdì che protestano contro la chiusura della strada.

Kufr Qaddum non è affatto l’unica comunità palestinese in Cisgiordania ad avere uno dei propri punti di accesso chiuso dall’espansione delle colonie. La colonia di Kiryat Sefer, per esempio, ha inglobato la strada Bil’in-Safa. La colonia di Maale Adumim controlla il tragitto Abu Dis-Old Jericho. E la colonia di Neve Daniel ha inglobato una strada locale che collegava diversi villaggi palestinesi a Maqam Nabi Daniel.

Per di più, la maggior parte delle aree che l’esercito ha assegnato alle colonie è composta da enclavi e territori non contigui, e comprende campi agricoli che le autorità israeliane riconoscono come terra privata palestinese. In quanto tali, fin dall’inizio queste aree non potevano essere ufficialmente sotto la giurisdizione delle colonie.

La cosa può suonare strana a chiunque pensi in modo tradizionale ai progetti di una comunità – dove le persone normali desiderano condurre una vita in base alle regole che non implichi il furto di proprietà. Ma la Cisgiordania non è un posto normale, e il sistema di assegnazione e pianificazione del territorio che Israele vi ha imposto obbedisce ad un principio organizzativo supremo: rubare e saccheggiare a piacimento e poi pensare a come fare col bottino.

Oltretutto, esiste solo una connessione statisticamente casuale tra le aree giurisdizionali ufficiali e quelle effettive delle colonie. Il motivo è che i coloni essenzialmente fanno ciò che vogliono e le autorità responsabili dell’applicazione della legge non la applicano. È ciò che è successo a Kedumim: l’area totale delle sette enclavi assegnate in aree non contigue è di 3.300 dunam [330 ettari], mentre i coloni sostengono che la comunità occupa circa 6.000 dunam [600 ettari]. Da dove vengono i 2.700 dunam [270 ettari] in più?

Oggi Kedumim occupa tutta la terra di Kufr Qaddum, che l’esercito ha “donato” ai coloni a spese degli abitanti palestinesi. Tra il 1970 e il 1978 l’esercito israeliano ha cominciato ad emanare una serie di “ordini di sequestro militare temporaneo per esigenze di sicurezza”, espropriando oltre 450 dunam [45 ettari] di terra, di cui oltre la metà è stata data ai coloni.

Le fotografie aeree scattate nel 1970 mostrano l’area acquisita quell’anno. Nella parte meridionale si trova la base militare di Kadum dell’esercito israeliano, nello stesso punto in cui prima del 1967 si trovava una base militare giordana. L’area settentrionale divenne, nel corso degli anni, il punto di partenza della colonia di Kedumim e della piccola zona industriale adiacente. A nord della colonia si vede chiaramente la strada che collega Kufr Qaddum a Nablus.

Nel 1979, con l’istanza Alon Moreh, l’Alta Corte di Israele decretò che era illegale assegnare per la costruzione di colonie i terreni palestinesi espropriati dall’esercito israeliano per un preteso scopo militare. Ma poco dopo, per espandere le colonie, Israele cominciò a dichiarare “terreni di stato” ampie fasce di terreno attorno a quello sotto ordine di sequestro, appartenenti agli abitanti di Kufr Qaddum,.

Le immagini aeree del 1983 mostrano chiaramente che i “terreni statali” consegnati ai coloni non erano adiacenti al nucleo della colonia, perché in quei luoghi c’erano – e ci sono ancora – uliveti di proprietà degli abitanti di Kufr Qaddum. I residenti palestinesi possono accedere ad alcuni dei loro uliveti solo un certo numero di giorni fissati ogni anno, e gran parte di quei terreni rimane loro del tutto inaccessibile. Già nei primi anni ’80, Kedumim si espanse al punto che i confini della colonia erano 2 chilometri più a nord del suo originale centro.

Le foto aeree del 2019 mostrano il punto più a nord a cui è arrivata Kedumim, a quarant’anni dalla sua fondazione. Gli edifici costruiti da allora si trovano prevalentemente all’interno dei confini meridionale e settentrionale della colonia.

Dunque, come hanno fatto queste zone separate a formare un unico, continuo insediamento in Cisgiordania? Secondo Daniella Weiss, leader dei coloni ed ex sindaco di Kedumim, basta costruire una strada che attraversa gli uliveti di Kufr Qaddum. Lo studio ravvicinato di una foto aerea del 1983 mostra che, nell’area sotto ordine di sequestro, una strada dalla zona meridionale sbuca nella parte settentrionale lungo la strada Kufr Qaddum-Nablus.

L’espansione della colonia verso nord è stata il colpo finale alla strada Kufr Qaddum-Nablus. Nel corso degli anni, mentre Kedumim si espandeva ed estendeva su più di 10 colline, la strada è diventata determinante per la crescita della colonia e tutto ciò che i coloni hanno dovuto fare è stato aspettare un’opportunità per bloccarvi il traffico palestinese.

L’opportunità è arrivata nei primi anni della Seconda Intifada, che vedevano i coloni di Kedumim nel pieno di una aggressiva campagna di occupazione iniziata alcuni anni prima. Questa campagna per il controllo su più terra intorno alla colonia includeva le solite mosse di questo tipo di colonie: creare nuove strade, bloccare violentemente l’accesso alle aree intorno alla colonia e costruire avamposti.

È così che, alla fine degli anni ’90, il monte Mohammad di Kufr Qaddum è diventato l’avamposto “Har Hemed”. Ed è così che nel 2004 è stato costruito il quartiere in cui vive attualmente il parlamentare di estrema destra e Ministro dei Trasporti Betzalel Smotrich.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il “campo pacifista” di Israele rischia di scomparire

Jonathan Cook

7 Febbraio 2020 –The Electronic Intifada

Per il cosiddetto “campo pacifista” di Israele gli scorsi 12 mesi di elezioni generali – la terza è prevista il 2 marzo – sono stati vissuti come una continua roulette russa, con sempre minori opportunità di sopravvivenza.

Ogni volta che la canna della pistola elettorale è stata ruotata, i due partiti parlamentari collegati al sionismo liberale, Labour e Meretz, si sono preparati alla loro imminente scomparsa.

Ed ora che la destra israeliana ultranazionalista celebra la presentazione del cosiddetto “piano” per la pace di Donald Trump, sperando che porterà ancora più dalla sua parte l’opinione pubblica israeliana, la sinistra teme ancor di più l’estinzione elettorale.

Di fronte a questa minaccia Labour e Meretz – insieme ad una terza fazione di centro-destra ancor più minuscola, Gesher – a gennaio hanno annunciato l’unificazione in una lista unica in tempo per il voto di marzo.

Amir Peretz, capo del Labour, ha ammesso francamente che i partiti sono stati costretti ad un’alleanza.

“Non c’è scelta, anche se lo facciamo contro la nostra volontà”, ha detto ai dirigenti del partito.

Alle elezioni di settembre i partiti Labour e Meretz, presentatisi separatamente, hanno a malapena superato la soglia di sbarramento.

Il partito Labour, un tempo egemone, i cui leader hanno fondato Israele, ha ottenuto solo cinque dei 120 seggi in parlamento – il risultato più basso di sempre.

Il partito sionista più di sinistra, il Meretz,, ha ottenuto solo 3 seggi. È stato salvato solo dall’alleanza con due partiti minori, teoricamente di centro.

Sempre fragile

Anche al culmine del processo di Oslo alla fine degli anni ’90, il “campo pacifista” israeliano era una costruzione fragile, senza sostanza. Al tempo vi era un dibattito scarsamente rilevante tra gli ebrei israeliani riguardo a quali concessioni fossero necessarie per raggiungere la pace, e sicuramente riguardo a come potesse configurarsi uno Stato palestinese.

Le recenti elezioni, che hanno fatto del leader del Likud Benjamin Netanyahu il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, e la generale euforia riguardo al piano “di pace” di Trump, hanno indicato che l’elettorato ebraico israeliano favorevole ad un processo di pace – anche del tipo più blando – è del tutto scomparso.

Da quando Trump è diventato presidente, la principale opposizione a Netanyahu è passata dal Labour al partito Blu e Bianco, guidato da Benny Gantz, un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che è stato il responsabile della distruzione di Gaza nel 2014.

Il suo partito è nato un anno fa, in tempo per l’ultimo voto di aprile e nelle due elezioni generali dello scorso anno i partiti di Gantz e Netanyahu hanno praticamente pareggiato.

I commentatori, soprattutto in nord America e in Europa, hanno accomunato Blu e Bianco con Labour e Meretz come il “centro sinistra” israeliano. Ma il partito di Gantz non si è mai presentato come tale.

Si pone stabilmente a destra, attraendo gli elettori stanchi dei guai molto discussi sulla corruzione di Netanyahu –deve affrontare tre diverse imputazioni per frode e corruzione – o del suo continuo accondiscendere ai settori più religiosi della società israeliana, come i seguaci del rabbinato ortodosso e il movimento dei coloni.

Gantz e il suo partito si sono rivolti agli elettori che vogliono un ritorno ad un sionismo di destra più tradizionale e laico, che un tempo era rappresentato dal Likud – capeggiato da figure come Ariel Sharon, Yitzhak Shamir e Menachem Begin.

Non è stata quindi una sorpresa che Gantz abbia fatto a gara con Netanyahu nell’appoggiare il piano di Trump che sancisce l’annessione delle colonie illegali della Cisgiordania e della Valle del Giordano.

Ma le difficoltà della destra israeliana sono iniziate molto prima della nascita di Blu e Bianco. E per un po’ di tempo sia il Labour che il Meretz hanno cercato di reagire ostentando una linea più intransigente.

Abbandonare Oslo

Sotto la guida di diversi leader il Labour si è progressivamente allontanato dai principi degli accordi di Oslo che ha firmato nel 1993. Il discredito di quel processo è avvenuto in larga misura perché lo stesso Labour all’epoca ha rifiutato di impegnarsi in buona fede nei colloqui di pace con la leadership palestinese.

Nel 2011, dando un segnale generalmente interpretato come il riposizionamento del partito Laburista, la candidata alla sua guida ed ex capo del partito, Shelly Yachimovich, ha puntualizzato che le colonie, che violano il diritto internazionale, non erano un “peccato” o un “crimine”.

In un momento di sincerità ha attribuito direttamente al Labour la loro creazione: “È stato il partito Laburista che ha dato inizio all’impresa coloniale nei territori. Questo è un fatto. Un fatto storico.”

Questo graduale allontanamento dal sostegno anche solo a parole il processo di pace è culminato nell’elezione del ricco uomo d’affari Avi Gabbay come leader del partito Laburista nel 2017.

Nel 2014 Gabbay aveva contribuito a finanziare, insieme a Moshe Kahlon, un ex Ministro delle Finanze del Likud, il partito di destra Kulanu. Lo stesso Gabbay, benché non eletto, ha ricoperto brevemente un ruolo ministeriale nella coalizione di estrema destra di Netanyahu dopo le elezioni del 2015.

Una volta diventato leader del Labour, Gabbay ha fatto eco alla destra stralciando in gran parte il processo di pace dal programma del partito. Ha dichiarato che qualunque concessione ai palestinesi non doveva includere l’“evacuazione” delle colonie.

Ha anche suggerito che fosse più importante per Israele mantenere per sé l’intera Gerusalemme, compresa la parte est occupata, piuttosto che raggiungere un accordo di pace.

Il suo successore (e due volte predecessore) Amir Peretz potrebbe sembrare teoricamente più moderato. Ma ha mantenuto legami con il partito Gesher, fondato da Orly Levi-Abekasis alla fine del 2018.

Levi-Abekasis è un ex deputato di Yisrael Beitenu [Israele è casa nostra], il partito di estrema destra che è ripetutamente entrato nei governi di Netanyahu ed è guidato da Avigdor Lieberman, ex Ministro della Difesa e colono.

Abbandonare la minoranza palestinese di Israele.

Il Meretz ha intrapreso un percorso ancor più drastico di allontanamento dalle proprie origini di partito pacifista, lo scopo per il quale è stato espressamente creato nel 1992.

Fino a poco tempo fa il partito aveva l’unico gruppo parlamentare apertamente impegnato per la fine dell’occupazione e posto i colloqui di pace al centro del proprio programma. Tuttavia, a partire dall’indebolimento (degli accordi) di Oslo alla fine degli anni ’90, non ha mai conquistato più di una mezza dozzina di seggi.

Di fatto dal 2014 il Meretz si è pericolosamente avvicinato alla scomparsa elettorale. In quell’anno il governo Netanyahu ha alzato la soglia elettorale a quattro seggi per poter entrare in parlamento, nel tentativo di eliminare quattro partiti che rappresentavano l’ampia minoranza di 1,8 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

I partiti palestinesi hanno reagito creando una Lista Unita per superare la soglia. Ed in un chiaro esempio di conseguenze impreviste, la Lista Unita è attualmente il terzo più grande partito della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.].

Da parte sua, il Meretz è stato lacerato dalle divisioni su come procedere.

Dopo le elezioni di aprile dello scorso anno, in cui a fatica ha superato la soglia, nel Meretz ci sono state voci che chiedevano di prendere una nuova direzione, promuovendo la partnership ebraico-araba. I suoi molto votati rappresentanti “arabi”, Issawi Freij e Ali Salalah, si dice abbiano salvato il partito raccogliendo in aprile un quarto dei voti dai cittadini palestinesi di Israele, quelli che rimasero di quanti vennero espulsi dalle proprie terre nel 1948 durante la Nakba.

La minoranza palestinese è diventata sempre più politicamente polarizzata, esasperata dall’incapacità dei partiti ebraici di affrontare le sue preoccupazioni riguardo alla sistematica discriminazione che subisce.

I più votano per la Lista Unita. Ma una piccola parte della minoranza palestinese sembra stanca di gettare via quello che finisce per essere un voto di protesta.

Di fronte ad una sempre più forte istigazione anti-araba da parte della destra, guidata dallo stesso Netanyahu, alcuni erano sembrati pronti ad andare verso la società ebraica israeliana attraverso il Merertz.

Alcuni dirigenti del Meretz, guidati da Freij, hanno anche proposto di scindere la Lista Unita e creare un’alleanza con alcuni dei suoi partiti, soprattutto Hadash-Jebha, un’alleanza socialista che già include un gruppo ebraico minoritario.

Ma nella corsa al voto di settembre i dirigenti del Meretz hanno di fatto cassato qualunque ulteriore intenzione di promuovere questi tentativi di collegamento con la minoranza palestinese. In luglio il partito ha istituito un nuovo gruppo, chiamato Unione Democratica, con due nuovi partiti guidati da ex politici del Labour – il Movimento Verde di Stav Shaffir e il partito Democratico di Ehud Barak.

Improbabili alleati

Shaffir si era inimicata molti cittadini palestinesi durante le brevi proteste per la giustizia sociale nel 2011 in cui si è messa in risalto. I leader della protesta hanno lavorato sodo per mantenere a distanza i cittadini palestinesi e hanno ignorato le questioni relative all’occupazione, in modo da creare un’ampia coalizione ebraica sionista.

I precedenti di Barak – l’ex Primo Ministro è stato colui che ha messo il campo pacifista sulla sua strada di autodistruzione dichiarando che i palestinesi non erano “partner per la pace” –erano ancor più problematici.

Ha descritto il suo partito Democratico come “a destra del partito Laburista”. Il suo programma non faceva menzione di una soluzione di due Stati e della necessità di porre fine all’occupazione.

Nitzan Horowitz, il leader del Meretz, in quel momento ha giustificato l’alleanza in base al fatto che “abbiamo bisogno di aumentare la nostra forza (elettorale)”.

E, a parte il ruolo di Barak nell’ostacolare il processo di Oslo, nel 2000 come Primo Ministro all’inizio della seconda intifada diresse anche una violenta repressione poliziesca delle proteste civili dei cittadini palestinesi, in cui furono uccise 13 persone.

L’anno seguente Barak perse le elezioni a Primo Ministro dopo che i cittadini palestinesi infuriati boicottarono in massa il voto, di fatto spianando la strada alla vittoria del suo sfidante del Likud, Ariel Sharon.

Solo l’anno scorso, vent’anni dopo, Barak ha espresso le scuse per il suo ruolo in quelle 13 morti, come verosimile prezzo per entrare nell’alleanza con Meretz.

Ora il Meretz ha rotto l’alleanza con Barak e Shaffir. Ma facendolo, si è spostato ancor più a destra. Il suo accordo elettorale di gennaio con Labour e Gesher per le elezioni del 2 marzo sembra chiudere la porta ad ogni futura alleanza arabo-ebraica.

Il Meretz ha relegato Freij, il suo candidato palestinese di punta, in una irrealistica undicesima posizione [nella lista dei candidati].

Recenti sondaggi indicano che la nuova coalizione si aggiudicherà solo nove seggi.

Un improbabile scenario

Né il Meretz né il Labour hanno mai veramente rappresentato un significativo campo pacifista. Entrambi hanno una storia precedente di entusiastico appoggio a ogni recente guerra che Israele ha lanciato, benché parti del Meretz abbiano avuto abitualmente dei ripensamenti quando le operazioni si prolungavano e aumentavano le vittime.

Pochi, anche nel Meretz, hanno chiarito che cosa significhi il campo pacifista o come considerino uno Stato palestinese.

La “prospettiva” di Trump ha risposto a queste domande in modo del tutto negativo per i palestinesi. Ma il suo piano si allinea ai sondaggi che indicano che molto meno della metà degli ebrei israeliani sostiene alcun tipo di Stato palestinese, praticabile o no.

Ugualmente problematico per i sionisti liberali del Meretz e del partito Laburista è come contrastare la sistematica discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele senza compromettere lo status ebraico dello Stato imposto per legge.

I fondamenti sionisti di Israele implicano privilegi per i cittadini ebrei rispetto a quelli palestinesi, dall’immigrazione ai diritti sulla terra e la separazione tra le due popolazioni negli ambiti sociali, dalla residenza all’istruzione.

Ma senza qualche forma di accordo con la minoranza palestinese è impossibile immaginare come il cosiddetto campo pacifista possa ottenere qualche successo elettorale, come previsto l’anno scorso dall’ex leader del Meretz Tamar Zandberg.

L’enigma è che sottrarre potere alla destra estremista e religiosa guidata da Netanyahu dipende da una quasi impossibile alleanza sia con la destra laica e militarista guidata da Gantz, sia con la Lista Unita.

Dato il razzismo anti-arabo dilagante nella società israeliana, nessuno crede davvero che una tale configurazione politica sia realizzabile. Questo è in parte il motivo per cui Netanyahu, gli estremisti religiosi e i coloni continuano a dettare l’agenda politica, mentre il “centro-sinistra” israeliano rimane a mani vuote.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale per il Giornalismo ‘Martha Gellhorn’.

I suoi ultimi libri sono: ‘Israel and the clash of civilization: Iraq, Iran and the plan to remake the Middle East’ [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridefinire il Medio Oriente] (Pluto Press) e ‘Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair’ [Palestina che scompare: esperimenti israeliani di disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I tagli dell’ANP provocano uno shock a Gaza

Isra Saleh el-Namey

10 febbraio 2020 – The Electronic Intifada

Inam Ibrahim non dimenticherà presto la mattinata faticosa e deludente che di recente ha dovuto affrontare. La donna cinquantatreenne ha aspettato per cinque ore all’interno della sua banca per ricevere il suo regolare sussidio da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Invece un impiegato le ha detto che il suo conto era vuoto e non c’era denaro da prendere. “Lo scorso dicembre” ha detto a The Electronic Intifada “ho seguito ansiosamente alla radio le notizie sui tagli da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e sono rimasta in attesa di qualunque cosa riguardasse la distribuzione delle indennità. Ho cercato di andare presto in banca per riscuotere i sussidi per me e mia sorella. Ma quando ho saputo che non c’era niente da ritirare, sono scoppiata in lacrime e sono tornata a casa con il cuore spezzato.”

Inam e sua sorella sono entrambe cinquantenni, nubili e non hanno nessun’altra fonte di reddito a parte l’aiuto governativo. Ogni tre mesi le sorelle aspettano una sovvenzione totale di 220 dollari che le aiuti a coprire le necessità economiche.

L’assegnazione è gestita dall’Autorità Nazionale Palestinese, che ha sede nella città cisgiordana occupata di Ramallah.

Con quel sussidio pagavo alcune delle medicine per i miei forti dolori alla schiena e potevo andare spesso dal dottore,” afferma Inam. “Mia sorella Muna, che ha 56 anni, ogni volta prende la sua parte per le sue necessità. Quando otteniamo quei soldi paghiamo anche i debiti al negozio di alimentari.”

I nostri genitori,” dice Inam, “sono morti da molto tempo e nostro fratello vive con la sua famiglia lontano da noi. Riesce a malapena a mantenerla. Quindi non abbiamo altro che questo sussidio. Ne abbiamo bisogno. Le persone povere e in difficoltà come noi non devono essere coinvolte dai problemi politici.”

Shock

Molte altre persone si sono trovate ad affrontare lo stesso shock a causa dei tagli degli aiuti.

Aziza al-Kahlout, portavoce del ministero degli Affari Sociali di Gaza, dice a The Electronic Intifada che nelle ultime settimane più di 1.470 famiglie hanno sofferto dei tagli ai loro sussidi. Il ministero ha ricevuto molte lamentele e richieste da parte di famiglie perché approfondisca la questione.

Le famiglie sono scioccate” afferma. “Abbiamo difficoltà quando cerchiamo di spiegare loro la situazione e che stiamo facendo ogni sforzo per far capire ai politici di Ramallah le loro sofferenze. Allo stesso tempo continuiamo a coordinarci con i colleghi di Ramallah per risolvere questo problema”.

Aggiunge che il personale del ministero ha condotto verifiche su tutte le famiglie colpite dai tagli. Il ministero ha stabilito che tutti, tranne due casi, hanno diritto a ricevere le somme intere in quanto la maggioranza si trova in gravissime condizioni economiche o soffre di gravi malattie come cancro o insufficienza renale.

Altre ancora sono vedove o donne divorziate che devono occuparsi di bambini o giovani disabili. “La situazione è molto pesante” sottolinea Kahlout. “Ricevo visite quotidiane di persone che vengono a controllare cosa ne è dei loro casi e per sapere se saranno pagate o meno. Questi tagli drastici ed arbitrari determinano il fatto che parecchie migliaia di donne e bambini poveri siano lasciati senza cibo o cure.”

Abbiamo spiegato la situazione ai nostri colleghi di Ramallah e li abbiamo avvertiti delle sofferenze delle persone qui, ma finora la situazione non è cambiata.”

Al-Kahlout sostiene anche che il suo ministero deve far fronte a molte difficoltà nel seguire i casi, registrarli e aggiornare i dati, in quanto il ministero a Ramallah ha impedito ai suoi colleghi di avere accesso ai documenti che classificano le famiglie in possesso dei requisiti.

Negarci l’accesso a questa documentazione fondamentale ha reso il nostro lavoro ancora più difficile. Dovremmo poter accedervi in quanto Gaza ha più di 60.000 casi registrati.”

Ulteriore assistenza a un maggior numero di persone a Gaza è fornita dall’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi. Il solo aiuto alimentare a Gaza arriva a circa un milione di rifugiati.

Futuro in pericolo”

A Gaza famiglie con problemi di salute sono colpite dai drastici tagli nello stesso modo di quelle con difficoltà economiche.

Per Muhammad al-Bashiti la vita è diventata un inferno dopo che la sua ultima fonte di reddito è finita.

Il quarantaseienne stava aspettando il denaro per pagare la retta universitaria di suo figlio in modo che il giovane potesse ottenere i voti dei suoi esami più recenti ed iscriversi al semestre successivo. “Ho promesso a mio figlio, che studia legge all’università Al-Azhar, che gli avrei dato la cifra di cui ha bisogno in modo che possa finire la sua formazione. Ora il futuro di mio figlio è in pericolo,” afferma. Al-Bashiti ha sei figli, tutti a scuola o all’università.

La sua famiglia dipende principalmente dall’assistenza. Dice che ogni tre mesi riceve aiuti alimentari dalle Nazioni Unite, che aiutano a rifornire la famiglia di farina, riso e olio. E il sussidio dell’ANP, che riceve in contanti, copre alcune delle altre spese indispensabili.

Sono andato al ministero di Gaza per lamentarmi dei tagli ed hanno mandato i loro impiegati a controllare la mia situazione,” sostiene al-Bashiti. “Hanno scoperto che ho veramente bisogno di questo sussidio. Spero che non gli ci voglia molto per risolvere la questione.”

Vogliamo che ci venga pagato quello che abbiamo perso,” aggiunge, “e che non ci siano più tagli.”

In un comunicato il ministro degli Affari Sociali con sede a Ramallah Ahmad Majdalani ha affermato che più di 100.000 famiglie palestinesi, di cui circa 70.000 a Gaza, ricevono questa assistenza.

Ha sostenuto che l’ultima distribuzione di fondi è costata più di 27 milioni di dollari, rilevando che circa 2.000 nuove famiglie, di cui 1.500 di Gaza e altre 500 in Cisgiordania, sono state aggiunte alla lista.

Ha sostenuto che le famiglie sono state escluse se hanno un’altra fonte di reddito e non hanno più bisogno di aiuti.

Però questa spiegazione non riesce ad alleviare la sofferenza e il disappunto di Khalil Abu Amra dopo che non ha ricevuto il suo sussidio.

Ho un tumore. Ho bisogno dei soldi per continuare le mie cure e salvarmi la vita in modo che i miei quattro figli non rimangano orfani di padre,” dice il trentanovenne con la voce rotta. “Abbiamo bisogno che questo problema venga risolto in fretta. Rivogliamo i nostri diritti. Questo è scorretto.”

Isra Saleh el-Namey è una giornalista di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’ONU ha reso nota una lista di imprese che hanno rapporti con le illegali colonie israeliane

Areeb Ullah

12 febbraio 2020 – Middle East Eye

Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola sono tra le 112 imprese citate dal Consiglio per i Diritti Umani

Il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (OHCHR) ha pubblicato una lista a lungo attesa di imprese che operano nelle illegali colonie israeliane.

Nel documento sono elencate più di 100 aziende, comprese 18 imprese internazionali, che stanno lavorando nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

Le imprese internazionali inserite nel documento includono Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola Solutions. 

Michelle Bachelet, alta commissaria ONU per i diritti umani, ha affermato che la lista è stata stilata “dopo un approfondito e accurato processo di controllo”.

Sono consapevole che questo problema è stato e continuerà ad essere molto controverso,” ha affermato Bachelet in un comunicato.

Tuttavia, dopo un approfondito e accurato processo di controllo siamo convinti che questo rapporto basato su dati di fatto rifletta la seria attenzione che è stata dedicata a questo incarico senza precedenti e molto complesso, e che risponda in modo adeguato alla richiesta del Consiglio per i Diritti Umani contenuta nella risoluzione 31/36.”

Imprese che l’ONU mette in relazione con le illegali colonie israeliane

Impresa

Paese coinvolto

1

Afikim Public Transportation Ltd.

Israele

2

Airbnb Inc.

Stati Uniti

3

American Israeli Gas Corporation Ltd.

Israele

4

Amir Marketing and Investments in Agriculture Ltd.

Israele

5

Amos Hadar Properties and Investments Ltd.

Israele

6

Angel Bakeries

Israele

7

Archivists Ltd.

Israele

8

Ariel Properties Group

Israele

9

Ashtrom Industries Ltd.

Israele

10

Ashtrom Properties Ltd.

Israele

11

Avgol Industries 1953 Ltd.

Israele

12

Bank Hapoalim B.M.

Israele

13

Bank Leumi Le-Israel B.M.

Israele

14

Bank of Jerusalem Ltd.

Israele

15

Beit Haarchiv Ltd.

Israele

16

Bezeq, the Israel Telecommunication

Corp Ltd.

Israele

17

Booking.com B.V.

Olanda

18

C Mer Industries Ltd.

Israele

19

Café Café Israel Ltd.

Israele

20

Caliber 3

Israele

21

Cellcom Israel Ltd.

Israele

22

Cherriessa Ltd.

Israele

23

Chish Nofei Israel Ltd.

Israele

24

Citadis Israel Ltd.

Israele

25

Comasco Ltd.

Israele

26

Darban Investments Ltd.

Israele

27

Delek Group Ltd.

Israele

28

Delta Israel

Israele

29

Dor Alon Energy in Israel 1988 Ltd.

Israele

30

Egis Rail

Francia

31

Egged, Israel Transportation Cooperative Society Ltd.

Israele

32

Energix Renewable Energies Ltd.

Israele

33

EPR Systems Ltd.

Israele

34

Extal Ltd.

Israele

35

Expedia Group Inc.

Stati Uniti

36

Field Produce Ltd.

Israele

37

Field Produce Marketing Ltd.

Israele

38

First International Bank of Israel Ltd.

Israele

39

Galshan Shvakim Ltd.

Israele

40

General Mills Israel Ltd.

Israele

41

Hadiklaim Israel Date Growers Cooperative Ltd.

Israele

42

Hot Mobile Ltd.

Israele

43

Hot Telecommunications Systems Ltd.

Israele

44

Industrial Buildings Corporation Ltd.

Israele

45

Israel Discount Bank Ltd.

Israele

46

Israel Railways Corporation Ltd.

Israele

47

Italek Ltd.

Israele

48

JC Bamford Excavators Ltd.

Regno Unito

49

Jerusalem Economy Ltd.

Israele

50

Kavim Public Transportation Ltd.

Israele

51

Lipski Installation and Sanitation Ltd.

Israele

52

Matrix IT Ltd.

Israele

53

Mayer Davidov Garages Ltd.

Israele

54

Mekorot Water Company Ltd.

Israele

55

Mercantile Discount Bank Ltd.

Israele

56

Merkavim Transportation Technologies Ltd.

Israele

57

Mizrahi Tefahot Bank Ltd.

Israele

58

Modi’in Ezrachi Group Ltd.

Israele

59

Mordechai Aviv Taasiot Beniyah 1973 Ltd.

Israele

60

Motorola Solutions Israel Ltd.

Israele

61

Municipal Bank Ltd.

Israele

62

Naaman Group Ltd.

Israele

63

Nof Yam Security Ltd.

Israele

64

Ofertex Industries 1997 Ltd.

Israele

65

Opodo Ltd.

Regno Unito

66

Bank Otsar Ha-Hayal Ltd.       

Israele

67

Partner Communications Company Ltd.

Israele

68

Paz Oil Company Ltd.

Israele

69

Pelegas Ltd.

Israele

70

Pelephone Communications Ltd.

Israele

71

Proffimat S.R. Ltd.

Israele

72

Rami Levy Chain Stores Hashikma Marketing 2006 Ltd.

Israele

73

Rami Levy Hashikma Marketing Communication Ltd.

Israele

74

Re/Max Israel

Israele

75

Shalgal Food Ltd.

Israele

76

Shapir Engineering and Industry Ltd.

Israele

77

Shufersal Ltd.

Israele

78

Sonol Israel Ltd.

Israele

79

Superbus Ltd.

Israele

80

Supergum Industries 1969 Ltd.

Israele

81

Tahal Group International B.V.

Olanda

82

TripAdvisor Inc.

Stati Uniti

83

Twitoplast Ltd.

Israele

84

Unikowsky Maoz Ltd.

Israele

85

YES

Israele

86

Zakai Agricultural Know-how and inputs Ltd.

Israele

87

ZF Development and Construction

Israele

88

ZMH Hammermand Ltd.

Israele

89

Zorganika Ltd.

Israele

90

Zriha Hlavin Industries Ltd.

Israele

91

Alon Blue Square Israel Ltd.

Israele

92

Alstom S.A.

Francia

93

Altice Europe N.V.

Olanda

94

Amnon Mesilot Ltd.

Israele

95

Ashtrom Group Ltd.

Israele

96

Booking Holdings Inc.

Stati Uniti

97

Brand Industries Ltd.

Israele

98

Delta Galil Industries Ltd.

Israele

99

eDreams ODIGEO S.A.

Lussemburgo

100

Egis S.A.

Francia

101

Electra Ltd.

Israele

102

Export Investment Company Ltd.

Israele

103

General Mills Inc.

Stati Uniti

104

Hadar Group

Israele

105

Hamat Group Ltd.

Israele

106

Indorama Ventures P.C.L.

Thailandia

107

Kardan N.V.

Olanda

108

Mayer’s Cars and Trucks Co. Ltd.

Israele

109

Motorola Solutions Inc.

Stati Uniti

110

Natoon Group

Israele

111

Villar International Ltd.

Israele

112

Greenkote P.L.C.

Regno Unito

Il rapporto evidenzia anche che 60 imprese sono state tolte da un precedente elenco compilato dall’OHCHR.

La lista è stata pubblicata dopo che nel 2016 il Consiglio per i Diritti Umani ha approvato la risoluzione 31/36 ed ha richiesto informazioni su imprese “coinvolte in alcune specifiche attività legate alle colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.”

Anche l’ex alto commissario ONU Zeid Raad al-Hussein ha confermato che la lista delle imprese è stata ricavata da informazioni di dominio pubblico e da una serie di fonti. Secondo il Consiglio per i Diritti Umani, le imprese elencate hanno agevolato la costruzione di colonie, fornito loro apparecchiature per la sorveglianza o servizi per la sicurezza alle imprese che vi lavorano.

In base alle leggi internazionali le colonie israeliane su terre conquistato da Israele nella guerra del 1967 in Medio Oriente sono considerate illegali.

Altre categorie citate nel rapporto includono la fornitura di macchinari per la demolizione di edifici e la partecipazione ad attività che “danneggiano” le attività economiche palestinesi attraverso l’applicazione di restrizioni agli spostamenti.

Commentando la pubblicazione della lista, il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni guidato dai palestinesi ha affermato che l’ONU è stata “significativa” ma “incompleta”.

La banca dati è incompleta. Deve essere aggiunta qualunque impresa che sia complice del regime di apartheid israeliano e delle sue gravi violazioni dei diritti dei palestinesi in base al diritto internazionale, per assicurare il fatto che ne paghi le conseguenze,” ha affermato il BDS in un comunicato. 

Bruno Stagno, vice direttore esecutivo di Human Rights Watch per la difesa ha affermato che l’elenco dovrebbe “mettere in guardia” tutte le imprese che intendano lavorare con le colonie israeliane. “La pubblicazione a lungo attesa dei dati dell’ONU sulle attività economiche con le colonie dovrebbe mettere in guardia le imprese: avere rapporti economici con colonie illegali significa collaborare con la perpetrazione di crimini di guerra,” ha sostenuto Stagno in un comunicato.

La banca dati segna un notevole progresso negli sforzi internazionali per fare in modo che le attività economiche interrompano ogni complicità con le violazioni dei diritti e rispettino le leggi internazionali. La principale istituzione per i diritti dell’ONU dovrebbe garantire che la banca dati sia regolarmente aggiornata per agevolare le imprese nel rispetto dei loro obblighi in base al diritto internazionale.”

Lo scorso anno molti gruppi per i diritti avevano criticato il ritardo “inspiegabile” e “a tempo indefinito” nella pubblicazione della banca dati dell’ONU. Tuttavia il Consiglio per i Diritti Umani non aveva fornito nessuna ragione che determinava il continuo rinvio della pubblicazione della lista nera.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dove sono finite le masse arabe?

Amira Abo el-Fetouh

10 febbraio 2020 – Middle East Monitor

Donald Trump ha fatto scoppiare una bomba con il suo “accordo del secolo”, che elimina ciò che rimane della Palestina storica e liquida completamente la causa palestinese. I Paesi arabi avrebbero dovuto ribellarsi all’unanimità contro di esso. Le masse arabe avrebbero dovuto scendere in piazza a milioni come reazione naturale all’accordo. Non è successo, nemmeno nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania. Quelli che sono scesi in strada, un po’ timidamente, lo hanno fatto in Giordania, Algeria e Marocco.

Che cosa è successo al popolo arabo? Dove sono finite le masse? Si sono affievoliti i loro sentimenti verso la principale causa araba, la Palestina? Abbiamo assistito a manifestazioni di massa negli anni passati, quando, ad esempio, Ariel Sharon profanò la moschea di Al-Aqsa; quando Mohammad Al-Durra, 12 anni, fu ucciso; quando lo sceicco Ahmed Yassin, Abdel Aziz Al-Rantisi e altri furono trasformati in martiri. Le masse sono scese in piazza anche durante i frequenti attacchi israeliani contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.

La recente debole risposta ricorda la reazione alla decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale “indivisa” dello Stato di Israele. All’epoca lo stesso presidente degli Stati Uniti dichiarò di essersi aspettato una reazione maggiore dagli arabi. Sono sicuro che sia stata la mancanza di una reazione infuriata che lo ha incoraggiato a fare tante altre mosse ingiuste a favore del nemico sionista, che avrebbero dovuto provocare gli arabi – ma gli era stato assicurato che, come Nazione unita, sono moribondi. Tali mosse includono il via libera a Israele per annettere le alture del Golan siriano e gli insediamenti sionisti illegali, oltre al taglio delle donazioni statunitensi all’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro [per i rifugiati palestinesi in Medio Oriente, ndtr.] (UNRWA), tutte preludio al malaugurato accordo.

Invece di scendere in strada, le masse arabe apparentemente si accontentano di dichiarare la loro rabbia attraverso i social media, senza dubbio perché sono essi stessi oppressi da dittatori che governano con il pugno di ferro e non consentono alcun tipo di dissenso pubblico. Quando hanno preso il controllo della situazione, durante e dopo le rivoluzioni delle primavere arabe, le bandiere palestinesi sventolavano nelle piazze in solidarietà con il popolo palestinese.

In Egitto, ad esempio, dopo la rivoluzione un uomo scalò il muro del grattacielo dove al 12 ° piano si trova l’ambasciata israeliana e tirò giù la bandiera israeliana, che fu poi gettata a terra e bruciata; l’atto fu applaudito dai presenti. Al confronto è ben diverso il destino del giovane che qualche mese fa ha alzato una bandiera palestinese mentre guardava una partita di calcio. É stato arrestato e mandato a processo.

Questo è ciò che è accaduto al popolo arabo, e chiarisce perché Israele abbia cospirato contro le primavere arabe con i suoi agenti nella regione, in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, in modo che leader nazionali controllati da Israele possano essere suoi subordinati a guardia dei confini. Nel suo discorso alla cosiddetta Lega araba il presidente del coordinamento della sicurezza con Israele, Mahmoud Abbas, ha ammesso il proprio tradimento. Ha detto di aver dato agli israeliani informazioni che potevano solo sognare di avere, ma che ora ha smesso e che dovranno difendersi da soli. Ha anche detto di credere che i palestinesi non abbiano bisogno di armi, e che cercherà di rendere lo Stato palestinese un’entità demilitarizzata. È un dato di fatto che i sovrani arabi vedano Israele come un’ancora di salvezza, per cui si affrettano a compiacerlo in ogni modo per garantirsi di rimanere sui propri troni.

È quindi vergognoso che il presidente del Consiglio militare di transizione in Sudan, Abdel Fattah Al-Burhan, abbia incontrato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in Uganda dopo l’annuncio dell’accordo della vergogna di Trump e abbia annunciato di aver accettato di normalizzare le relazioni con lo Stato sionista. Incredibilmente, ha affermato che la sua visita a Entebbe andrà a beneficio del popolo palestinese.

Dopo il viaggio di Al-Burhan – un tradimento sia per la nostra religione che per il popolo arabo – possiamo dire senza esagerazione che l’intera Valle del Nilo è ora sotto il dominio israeliano. Così si conclude l’assedio arabo totale del popolo palestinese, a cui viene ora chiesto di rinunciare a tutto all’interno del documento di resa mascherato da “piano di pace”.

Tuttavia, questo non accadrà. L’eroico popolo palestinese non si arrenderà mai e non abbandonerà mai la lotta. I palestinesi hanno già iniziato con azioni individuali, ma vogliamo che mettano in atto una rivolta collettiva guidata da una leadership unita che faccia tremare la terra sotto i piedi dei sionisti. Vogliamo una resistenza unita e un ritorno alla lotta del passato. La terra storica della Palestina, dal fiume al mare [cioè dal Giordano al Mediterraneo, ndtr.], sarà recuperata solo attraverso ogni tipo di legittima resistenza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




“Una morte lenta”: le dighe israeliane hanno inondato i campi di Gaza prima del raccolto

Maha Hussaini dalla Striscia di Gaza

8 febbraio 2020 – Middle East Eye

I contadini palestinesi accusano Israele di condurre deliberatamente una guerra contro il settore agricolo di Gaza

Per 5 mesi i contadini palestinesi come Naim al-Khaissi hanno coltivato e irrigato i loro terreni nella Striscia di Gaza assediata, in attesa della fine di gennaio per raccogliere ortaggi nelle coltivazioni a est, situate nei pressi della barriera di separazione con Israele.

Ma dopo un duro lavoro i coltivatori palestinesi hanno scoperto che le autorità israeliane avevano vuotato il vicino invaso per la raccolta dell’acqua piovana allagando di fatto i campi di Gaza pochi giorni prima della stagione del raccolto.

Secondo il ministero palestinese dell’Agricoltura, il fatto che Israele abbia aperto le paratie della diga ha provocato solo in gennaio più di 500.000 dollari di perdite in oltre 332 ettari di terre.

I terreni agricoli nella “zona di sicurezza” imposta da Israele nei pressi della barriera di separazione rappresentano la fonte di sussistenza per centinaia di famiglie palestinesi e costituiscono la principale fonte di frutta e verdura della Striscia.

L’allagamento si è accompagnato ad altre misure che secondo i palestinesi sono state deliberatamente messe in atto dalle forze israeliane per colpire la riserva di cibo del territorio assediato e impoverito e cacciare i contadini dalle loro terre.

Terre coltivate allagate

Khaissi, 75 anni, è coltivatore dal 1962. Prima del 2005, quando Israele evacuò i coloni dalla Striscia di Gaza, era proprietario di circa 10 ettari di terre. Ma vide la grande maggioranza dei suoi terreni rientrare nella zona di sicurezza e non essere più raggiungibile.

Sono cresciuto contadino, mio padre e mio nonno mi hanno insegnato la professione, ma le cose sono cambiate molto da allora. Abbiamo perso buona parte delle nostre terre e posso a malapena arrivare fino a ciò che ne rimane,” dice a Middle East Eye.

Lo scorso settembre ho seminato molte varietà di ortaggi, compresi cavoli, patate e cipolle, e stavo aspettando la fine di gennaio per raccoglierli. Ma, dopo che lo scorso mese per quattro volte Israele ha aperto il bacino di acqua piovana, le coltivazioni sono state completamente distrutte.” Per Khaissi l’inondazione delle terre palestinesi è stata una mossa deliberata.

Israele ha intenzionalmente allagato in questo periodo dell’anno le terre coltivate, in particolare dopo essersi assicurato che abbiamo fatto tutto il possibile e speso un sacco di soldi per far crescere i nostri ortaggi ed eravamo finalmente pronti a raccoglierli,” dice.

Khaissi dice di aver perso più di 10.000 shekel (circa 2.600 €) per i danni provocati dall’allagamento – ma si considera fortunato rispetto ad altri contadini.

Ho perso molto meno dei miei vicini perché attualmente ho solo due acri (poco meno di un ettaro), ma quelli che hanno cinque o sei acri hanno perso una fortuna,” afferma.

L’agricoltore stima che dal 2004 le pratiche israeliane – come allagare, spianare terre con veicoli dell’esercito e spargere erbicidi chimici – gli siano costate più di 111.000 dollari di danni.

Lo fanno in modo sistematico per obbligarci a rinunciare alle nostre terre e ad andarcene,” dice Khaissi. “Ma non importa quello che fanno, semplicemente non possiamo andarcene. È occuparci della terra che ci tiene vivi.”

Massimo danno”

Gli agricoltori palestinesi hanno detto di aver visto, poco dopo l’allagamento delle terre coltivate, aerei israeliani per i trattamenti agricoli spruzzare all’interno di Gaza prodotti chimici che ritengono fossero erbicidi.

Abbiamo visto soldati israeliani bruciare un copertone nei pressi della barriera per capire la direzione del vento,” dice Aref Shamali, un contadino quarantenne. “Quando hanno visto che il fumo andava verso ovest, per cui i prodotti chimici avrebbero raggiunto vaste aree all’interno di Gaza e provocato il massimo danno, hanno mandato l’aereo a cospargere tutti i campi.”

L’esercito israeliano abitualmente sostiene che gli erbicidi vengano usati per ripulire dalla vegetazione la zona di sicurezza sul lato di Gaza della barriera, per avere una vista senza ostacoli dell’area per ragioni militari. Ma i palestinesi affermano che questa politica infligge notevoli danni agli abitanti di Gaza.

I prodotti chimici e gli erbicidi che spruzzano non danneggiano solo le terre coltivate, ma hanno anche conseguenze catastrofiche se la gente mangia gli ortaggi irrorati,” dice Shamali a MEE. “Pochi giorni fa rappresentanti del ministero dell’Agricoltura sono corsi nei mercati dove alcuni agricoltori vendevano quelli che si pensava fossero ortaggi irrorati e li hanno distrutti prima che la gente potesse comprarli.”

Shamali e i suoi fratelli possiedono circa 24 ettari di terra, quasi tutti danneggiati prima del raccolto di gennaio, con una perdita stimata di 20.000 dollari.

Nessun contadino è stato fortunato o al sicuro,” dice. “Loro (gli israeliani) affermano di aver sparso solo pesticidi, ma chi è così ingenuo da credere che si siano presi cura gratis delle nostre terre coltivate? Questa zona sfama praticamente tutti gli abitanti di Gaza City, e questa è la ragione per cui la prendono sempre di mira,” aggiunge Shamali. “Vogliono cacciare i contadini e dimostrare che la loro fatica non è valsa a niente.”

Effetti a lungo termine

L’agronomo ed esperto ambientale Nizar al-Wahidi afferma che il fatto che Israele danneggi l’agricoltura palestinese ha conseguenze politiche, economiche, ambientali e sociali. Secondo lui, i prodotti chimici spruzzati non danneggiano solo gli ortaggi, ma anche il terreno, i contadini e gli animali e inquinano la falda freatica.

Anche se loro (gli israeliani) volessero spargere profumo (dentro Gaza), non ne avrebbero il diritto senza il coordinamento con la parte interessata e un mutuo accordo sulla sostanza, sulla sua quantità e sul modo in cui viene irrorata,” dice a MEE. “Perché non si mettono d’accordo almeno con la Croce Rossa in modo che i coltivatori e i loro figli non vengano colpiti?” L’esperto afferma che rimane difficile accertare l’esatto contenuto e l’impatto dei pesticidi.

Non possiamo individuare fino a che punto questi prodotti chimici siano velenosi. Questi esami richiedono apparecchiature che non sono disponibili nella Striscia, e Israele proibisce assolutamente ogni tentativo di inviare le sostanze fuori da Gaza perché siano esaminate,” afferma. “La procedura è molto complicata.”

Anche se la correlazione non è stata ufficialmente stabilita, i contadini palestinesi accusano i prodotti chimici dei problemi di salute che affrontano da anni, ed esprimono timori che queste conseguenze negative possano colpire anche quelli che mangiano i prodotti contaminati.

Soffro di problemi respiratori cronici,” dice a MEE il contadino Abu Zor. “Ci sono tante ragioni per cui abbiamo questo tipo di problemi. Per esempio l’ultima volta che sono andato a lavorare la terra con mio figlio, i soldati israeliani hanno sparato un lacrimogeno proprio tra noi due. Non avevamo fatto niente di male, volevano solo che smettessimo di coltivare gli ortaggi nella zona.”

Il quarantaseienne dice che i soldati israeliani schierati lungo la zona di sicurezza spesso aprono il fuoco contro agricoltori per impedire loro di lavorare.

Non c’è bisogno di camminare nei pressi della barriera o di attaccarli per essere presi di mira. Far crescere un albero può essere una ragione sufficiente perché ti sparino,” dice Abu Zor. “Ogni contadino nella Striscia sta patendo le conseguenze delle pratiche israeliane che prendono regolarmente di mira loro e le loro terre coltivate. Il messaggio è chiaro: non vogliono che Gaza sia autosufficiente. Si può dire che gli abitanti sono condannati a una morte lenta.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il legame tra Mussolini e Jabotinsky: le radici nascoste del passato fascista di Israele

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

4 febbraio 2020 – Palestine Chronicle

Non è sorprendente che il capo dell’opposizione italiana, Matteo Salvini, abbia promesso che, se diventerà il prossimo primo ministro italiano, riconoscerà Gerusalemme capitale di Israele.

Salvini guida la Lega, precedentemente nota come Lega Nord, un partito che è stato a lungo considerato una moderna espressione dell’ideologia fascista a lungo in letargo del Paese.

I precedenti di Salvini in quanto ad affermazioni a favore di Israele e di cieca fedeltà a Tel Aviv sono antichi quanto la carriera politica del personaggio. Il fatto che Salvini abbia fatto il suo debutto politico a livello nazionale con un annuncio non fatto a Roma ma a Tel Aviv è sufficiente a evidenziare la centralità di Israele nel suo discorso politico.

Inoltre Salvini è il ragazzo prodigio della politica di estrema destra italiana nel sul complesso. Prendendo in considerazione i risultati della Lega nelle elezioni europee del maggio 2019 si potrebbe sostenere che il politico italiano sia il più importante leader di estrema destra d’Europa.

Non è un segreto che Israele abbia apertamente schierato la propria politica con quella di movimenti politici di estrema destra in ascesa ovunque, soprattutto in Occidente. Ciò riguarda l’alleanza tra Israele ed India, così come i preoccupanti legami di Israele con l’amministrazione Trump, con la presidenza di Jair Bolsonaro in Brasile e il governo britannico dominato dai conservatori.

Tuttavia i rapporti di Israele con l’Italia meritano un ulteriore approfondimento e non dovrebbero essere accomunati alla crescente vicinanza politica di Tel Aviv con l’estrema destra globale. La ragione di ciò è che l’Italia è stata all’origine delle moderne ideologie fasciste, che sono direttamente legate all’ideologia sionista di Israele.

Nell’epoca successiva alla Seconda Guerra Mondiale l’Italia riuscì con successo ad eliminare la corrente politica fascista al suo interno, a cominciare dagli ultimi due anni di guerra, quando Roma si unì alla spinta internazionale contro l’alleanza nazifascista. La costituzione post-bellica italiana ha fatto il possibile per opporsi a qualunque forma di fascismo che continuava ad annidarsi all’interno della società italiana.

Fu quindi naturale che, in molte occasioni, le forze rivoluzionarie che ebbero un grande impatto nel configurare il discorso politico italiano dopo la guerra trovassero un terreno comune con la richiesta palestinese di libertà e con la continua lotta del popolo palestinese contro il sionismo e i suoi alleati reazionari ovunque nel mondo.

Sfortunatamente non è più così. Mentre in Italia la vera sinistra radicale continua nella sua ibernazione politica – un processo iniziato poco dopo il crollo dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90 – le forze di estrema destra hanno fatto passi da gigante, consentendo negli ultimi anni a gente come Salvini e alle sue orde razziste di tornare nell’arena politica. Com’era prevedibile, l’ascesa di Salvini ha iniziato a preparare la strada per riprendere l’alleanza neo-sionista-fascista a lungo latente.

Nel contempo il sorgere delle forze di estrema destra in Italia sta obbligando i partiti politici del parlamento nazionale a ridefinire i propri programmi politici avvicinandosi sempre più alla destra, nel disperato tentativo di attirare la rafforzata base elettorale di estrema destra.

I gruppi sionisti filo-israeliani, in Italia e altrove, stanno ora sfruttando la scena politica frammentata del Paese per portare avanti l’agenda internazionale di Tel Aviv.

Il 17 gennaio il governo italiano ha adottato all’unanimità la scorretta e autoreferenziale definizione di antisemitismo, così come formulata dalla filoisraeliana ‘Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto’, che mette sullo stesso piano antisemitismo e antisionismo.

La sconcertante “definizione provvisoria” ha poco a che vedere con il razzismo e moltissimo con la politica, dato che il sionismo è un’ideologia politica moderna e non è né una razza né una religione. Un corrispettivo italiano di questa bizzarra iniziativa sarebbe come equiparare l’antifascismo e opinioni anti-italiane o anticattoliche. Se ciò suona strano nel contesto italiano, dovrebbe essere lo stesso riguardo al contesto sionista-israeliano.

Tuttavia questa apparente assurdità è del tutto ragionevole se analizzata in un contesto storiografico.

Spesso le critiche al sionismo descrivono il movimento sionista come fascista. Questa analogia apparentemente azzardata è pienamente giustificata su base storica. Infatti ciò di cui molti non sono al corrente è che, durante gli anni di formazione, le ideologie sionista e fascista avevano basi intellettuali simili e molti elementi in comune in termini di strutture ideologiche e politiche. Alcuni dei padri fondatori del sionismo, soprattutto i sionisti revisionisti, vedevano se stessi come ideologicamente fascisti e il loro passaggio dal fascismo al sionismo era logico, reso necessario solamente da un espediente politico.

Prima dell’alleanza opportunistica nel 1936 tra il capo della Germania nazista, Adolf Hitler, e il dittatore fascista italiano, Benito Mussolini, che diede come risultato le infami leggi razziali italiane, a Roma esisteva un livello di affinità tra dirigenti sionisti e fascisti.

Vladimir Jabotinsky, fondatore del sionismo revisionista, di cui l’attuale partito Likud e altri gruppi di destra ed estrema destra israeliani sono la progenie, vedeva nell’Italia una “patria spirituale”.

Durante quegli anni tutte le mie opinioni sul nazionalismo, sullo Stato e sulla società si svilupparono sotto influenza italiana,” scrisse Jabotinsky nella sua autobiografia, in riferimento ai suoi anni di formazione ideologica in Italia.

In cambio Mussolini parlò apertamente a favore del sionismo, e di Jabotinsky in particolare: “Perché il sionismo abbia successo, dovete avere uno Stato ebraico con una bandiera e una lingua ebraiche. La persona che lo capisce è il vostro fascista, Jabotinsky,” disse Mussolini nel novembre 1934 durante una conversazione privata a Nahum Goldman, fondatore del Congresso Ebraico Mondiale, come riporta Lenni Brenner nel suo libro “Il sionismo nell’epoca delle dittature.”

Il Duce si era già alleato con il movimento giovanile Betar di Jabotinsky, che si formò sul modello di idee e simboli fascisti.

Nel 1934 Jabotinsky e il suo movimento giovanile Betar erano alleati del Duce, quando il Betar fondò una base della Marina a nord di Roma,” ha scritto Steven Meyer nel suo articolo “Israele sopravviverà ai suoi fascisti?”, pubblicato nel 2002 sulla Executive Intelligence Review.

Meyer approfondisce il discorso: “‘L’idea Sionistica’, la rivista del Betar in Italiano, descriveva la cerimonia di inaugurazione che lanciò l’accademia [navale]. ‘In fila- Attenti!’ Risuonò un triplo grido ordinato dall’ufficiale al comando della squadra – ‘Viva l’Italia, Viva il Re! Viva il Duce!’, seguito dalla benedizione in cui il rabbino Aldo Lattes invocò in italiano e in ebraico dio, il re e il duce…‘Giovinezza’ (l’inno del partito fascista) venne cantato con moltissimo entusiasmo dai Betarim.

Questo racconto è confermato anche da altre fonti, come in “Mussolini e il Sionismo” [M & B Publishing, Milano, 2002] dello storico Furio Biagini. Biagini sostiene che “all’inizio Mussolini non era contrario all’aspirazione degli ebrei di creare una patria ebraica in Palestina.”

Biagini spiega anche lo sbocciare di un’alleanza tra fascisti e sionisti sulla base di una necessità geostrategica: “Nel suo disegno espansionistico nella regione mediterranea, l’Italia fascista era in diretto conflitto con la presenza britannica. La flotta inglese dominava il Mediterraneo da Gibilterra a Cipro, fino alla Palestina. Appoggiando il movimento sionista nella sua lotta contro il potere mandatario britannico, l’Italia voleva indebolire l’impero britannico nel Mediterraneo orientale, accentuando nel contempo il prestigio italiano a livello internazionale.”

In realtà Jabotinsky non era l’unico contatto di Mussolini con il sionismo, ma uno dei più importanti alleati, che si dimostrò conseguente negli anni successivi. Goldman scrive nella sua autobiografia “The Autobiography of Nahum Goldman: Sixty Years of Jewish Life”  [L’autobiografia di Nahum Goldman: sessant’anni di vita ebraica] che Mussolini era un grande ammiratore del sionismo.

Dovete creare uno Stato ebraico. Sono un sionista, e l’ho detto al dottor Weizmann. Dovete avere un vero Paese, non quel ridicolo focolare nazionale che gli inglesi vi hanno offerto. Vi aiuterò a creare uno Stato ebraico,” scrisse Goldman, trasmettendo il messaggio di Mussolini alla dirigenza sionista dell’epoca. L’entusiasmo di Mussolini per la fondazione di uno “Stato ebraico” andava in parallelo con il piano britannico di cambiare la dichiarazione Balfour del 1917, che impegnava la corona britannica a fondare uno Stato ebraico in Palestina.

Nell’ottobre del 1933 il capo dell’Agenzia Ebraica a Ginevra, Victor Jacobson, scrisse a Chaim Weizman, che era il presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale e in seguito fu il primo presidente di Israele, che “Mussolini è desideroso di aprire ancora di più le porte della Palestina all’immigrazione ebraica, soprattutto per i rifugiati che arrivano dalla Germania.”

Nella sua postfazione al libro “Stato e Libertà” il diplomatico italiano Sergio Minerbi ha scritto: “Mussolini pensava che fosse impossibile riconciliare ebrei e arabi e che essi dovessero essere politicamente separati, quindi suggerì l’idea della partizione della Palestina.”

Tutto ciò cambiò quando nel 1936 suo genero, Galeazzo Ciano, venne nominato ministro degli Esteri italiano. Fu allora che “Mussolini schierò inequivocabilmente l’Italia con Hitler,” come scrive Susan Zuccotti nel suo libro “The Italians and the Holocaust” [Gli italiani e l’Olocausto]. Il partito fascista italiano fu allora obbligato ad allontanarsi dalla dirigenza sionista, cosa che portò alla decisione di Mussolini di non incontrarsi con Jabotinsky.

In seguito al trionfo del movimento sionista, coronato nel maggio 1948 con la fondazione di Israele sulle rovine della Palestina storica, i sionisti riuscirono ancora una volta a ri-etichettare il loro movimento come una forza progressista, benché non avessero mai abbandonato la loro ideologia fascista. La legge sullo Stato-Nazione del luglio 2018, che definisce Israele come Stato etnico-razziale è stata una delle molte prove che Israele rimane fino ai nostri giorni pienamente fedele al fascismo.

Dire che il sionismo è una forma di fascismo non è né un’esagerazione né un’affermazione azzardata. Invece le radici profonde di entrambe le ideologie dovrebbero essere evidenti a qualunque avveduto studente di storia.

Il fatto che Salvini e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu stiano ora rinnovando o, quanto meno, apertamente accogliendo l’antico legame tra queste due ideologie distruttive riflette due realtà sconvolgenti: da una parte parla del fatto che l’Italia non è riuscita a sradicare il fascismo come modello politico dopo la Seconda Guerra Mondiale, e dall’altra rivela le vere basi ideologiche del sionismo, quindi dello stesso Stato di Israele.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri, di cui l’ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

– Romana Rubeo è una scrittrice e giornalista italiana di PalestineChronicle.com. Rubeo ha conseguito un master in Lingua e Letteratura Straniera ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Elogi prudenti, silenzio e rifiuto: i gruppi ebraici americani divisi sull’ “accordo del secolo”

Richard Silverstein

giovedì 6 febbraio 2020 – Middle East Eye

Le organizzazioni di destra hanno elogiato il piano di Trump per Israele e la Palestina, mentre quelle di sinistra e di centro l’hanno criticato

Mentre l’“accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump è stato quasi universalmente criticato nei circoli politici al momento della sua presentazione pubblica la settimana scorsa, le reazioni delle organizzazioni di ebrei statunitensi sono state piuttosto contraddittorie e moderate.

Le dichiarazioni comprendono l’insieme dello spettro dei soliti noti, dalla destra alla sinistra. La lobby filo-israeliana AIPAC ha salutato il tentativo dell’amministrazione Trump di “lavorare di concerto con i dirigenti dei due principali partiti politici israeliani per presentare delle idee per risolvere il conflitto in modo da riconoscere le imperiose necessità in materia di sicurezza del nostro alleato” ed ha esortato i palestinesi a “unirsi agli israeliani al tavolo dei negoziati.”

È tipico di questa lobby individuare fino a che punto questo piano sia utile agli interessi di Israele omettendo al contempo ogni riferimento agli interessi palestinesi.

Strane reazioni

La Coalizione degli Ebrei Repubblicani, formata in gran parte da ricchi uomini d’affari e da miliardari di Wall Street filo-israeliani, ne ha fatto ossequiosamente le lodi, definendolo una “proposta coraggiosa ed equilibrata, profondamente ancorata ai valori fondamentali dell’America, che sono la libertà, le opportunità e la speranza nel futuro.”

Chi non ne sapesse abbastanza potrebbe pensare che il piano stilato dal genero di Trump, Jared Kushner, sia l’equivalente attuale della Dichiarazione d’Indipendenza e della Magna Carta messe insieme.

I deputati ebrei del Congresso, che sono in maggioranza democratici e stretti alleati della lobby israeliana, hanno avuto reazioni stranamente apatiche, moderando i loro elogi. Eliot Engel, presidente della commissione Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti ha dichiarato: “Come mi piace dire, il diavolo sta nei dettagli. Abbiamo visto la proposta. Non l’ho studiata attentamente. Ci sono buone ragioni per sperare.”

Anche Ted Deutch, altro rappresentante ebreo vicino alla lobby, ha fatto commenti positivi, dichiarando che l’accordo di Trump “sembra garantire la possibilità di una soluzione a due Stati…Penso e spero che il dialogo continui e porti a negoziati tra le parti.”

Il capo della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, nelle sue considerazioni al riguardo stranamente non ha espresso nessun parere sul piano di Trump. Si è limitato a ripetere il proprio sostegno a una soluzione a due Stati, senza pronunciarsi nel merito dell’accordo. È una dichiarazione senza esserlo.

Rispondere alla lobby filoisraeliana

Ciò che è curioso riguardo a queste reazioni è che, nel momento stesso in cui i democratici sono nel pieno della procedura per la destituzione del presidente, i democratici ebrei si pronunciano a favore di un piano che quasi tutti, dai candidati democratici alle elezioni presidenziali al principale giornale progressista israeliano, Haaretz, hanno universalmente condannato.

È possibile che questi politici non si preoccupino di quello che la comunità ebraica americana pensa di questo piano. Un sondaggio condotto l’anno scorso da J Street [associazione di ebrei americani moderatamente critici con l’occupazione, ndtr.] presso potenziali elettori alle primarie democratiche ha rilevato che solo il 12% di chi ha risposto aveva una buona opinione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre un altro sondaggio della Commissione Ebraica Americana che ha interpellato americani di religione ebraica ha concluso che il 59% di loro disapprova la gestione dei rapporti israelo-americani da parte di Trump.

Tuttavia i democratici filoisraeliani non rispondono all’elettorato ebraico medio, ma piuttosto alla lobby filoisraeliana e ai suoi ricchi donatori, che finanziano le loro campagne elettorali. Non ci sono altre spiegazioni logiche al fatto che manifestino un sostegno, pur se modesto, a una proposta così mal formulata da parte di un presidente repubblicano in disgrazia.

L’Unione per la Riforma dell’Ebraismo da parte sua ha pubblicato questo timido comunicato: “Salutiamo ogni tentativo per riportare la pace e pensiamo fermamente che un Israele sicuro da una costa all’altra con uno Stato palestinese vitale sia nell’interesse della politica estera americana e, ovviamente, del futuro di Israele in quanto Stato democratico ed ebraico.”

Continua esprimendo delle “preoccupazioni” relative alla promessa di Netanyahu di “imporre, unilateralmente, il diritto degli ebrei su tutte le colonie della Cisgiordania e della Valle del Giordano proposte per lo status finale in base al piano di Trump”, definendo l’iniziativa “pericolosa per l’avvenire di Israele e per la stabilità e la pace nella regione.”

Al contempo diversi gruppi dal centro alla sinistra hanno unanimemente criticato l’accordo. I sionisti liberal di J Street, rigorosamente schierati con il partito Democratico, l’hanno definito l’“apogeo logico delle ripetute misure in malafede che questa amministrazione ha preso per confermare il programma della destra israeliana, per impedire la realizzazione di una soluzione dei due Stati praticabile e negoziata e per assicurarsi che l’illegale occupazione dei territori palestinesi in Cisgiordania da parte di Israele diventi permanente.”

Hanno cercato di utilizzare l’annuncio a proprio vantaggio, come uno strumento dell’organizzazione per rafforzare la propria base di appoggio. Hanno persino lanciato su Twitter l’hashtag #peacesham (pace truffa).

Piano dell’apartheid”

Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace], la più grande organizzazione progressista del Paese, ha condannato il piano in modo ancora più deciso, definendolo “piano dell’apartheid” e “un diversivo di due guerrafondai che danno la priorità alle proprie campagne elettorali personali su qualunque parvenza di capacità politica.”

Il candidato ebreo alla presidenza, Bernie Sanders, è parso esitare a inserire la sua risposta nella sua campagna elettorale, che è in pieno svolgimento con le primarie in Iowa. Il suo ufficio al Senato ha pubblicato il seguente comunicato: “Ogni accordo di pace accettabile deve corrispondere al diritto internazionale e alle molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Deve porre fine all’occupazione israeliana iniziata nel 1967 e permettere l’autodeterminazione dei palestinesi nel loro Stato indipendente, democratico ed economicamente sostenibile accanto a uno Stato israeliano sicuro e democratico. Il cosiddetto ‘accordo di pace’ di Trump è ben lontano da ciò e non farà altro che perpetuare il conflitto.”

Paragonata alle sue veementi denunce contro le “élite imprenditoriali miliardarie”, questa risposta è stranamente moderata per Sanders. Ciò potrebbe riflettere la sua convinzione che un atteggiamento realmente progressista verso Israele e la Palestina non sarebbe altrettanto ascoltato dall’elettorato che un’analisi economica di classe. Ma almeno è più consistente [di quella] di Chuck Schumer.

– Richard Silverstein è l’autore del blog « Tikum Olam » che mette in evidenza gli eccessi della politica della sicurezza nazionale israeliana. Il suo lavoro è stato pubblicato da “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha collaborato alla raccolta di saggi dedicati alla guerra del Libano del 2006 “A Time to speak out” [Il momento di parlare forte] (Verso) ed è l’autore di un altro saggio di una futura raccolta: “Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di statualità] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano che il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




VITTORIO ARRIGONI. RICORDO DI UN VINCITORE

Patrizia Cecconi

1 febbraio 2020 Vitamine Vaganti

Nasceva il 4 febbraio del 1975 in un piccolo comune lombardo, Besana in Brianza, e per 16 anni, prima di venire ucciso appena trentaseienne, si era portato ovunque potesse aiutare, sia lavorando materialmente, sia provando a far conoscere al mondo le drammatiche situazioni dei popoli con i quali entrava empaticamente in sintonia.
Fu così che poco dopo il diploma Vittorio Arrigoni partiva per l’Europa dell’est, poi per l’America latina, poi per Africa.
Era uno spirito libero Vittorio, e come ricorda sua madre Egidia portando i suoi libri e la sua memoria ovunque venga invitata, aveva da sempre questo desiderio di dar senso alla sua vita aiutando gli altri. Aveva, come lui stesso diceva e come sua madre ricorda in ogni occasione, «un folle amore per i diritti umani».
Aveva aiutato a costruire e ristrutturare centri per disabili o per senzatetto tanto in Africa che in altri luoghi massacrati da guerra e povertà senza mai perdere quel suo look di giovane che, alla bellezza regalatagli dalla natura, aveva aggiunto un’espressività data dai valori che lo guidavano. Era questo che gli conferiva un forte carisma.
Era il 2002 quando toccò per la prima volta la Palestina, inviato a Gerusalemme Est dalla Ong nella quale era volontario. Successivamente entrò nell’Ism (International Solidarity Movement) prendendo a cuore la causa palestinese dopo aver visto cosa significasse vivere sotto la feroce occupazione militare israeliana.
Vittorio era un partigiano della giustizia e dei diritti umani, e mentre si batteva contro le quotidiane e sistematiche ingiustizie israeliane, aveva sufficienti critiche da fare anche alle leadership palestinesi, che si chiamassero Hamas o Fatah non faceva differenza.
Cominciò a scrivere report sulla situazione in cui era immerso dal vivo; faceva grande uso dei social e questo fece conoscere le sue parole ben oltre quelle frontiere odiose rappresentate dai muri di cemento e dai muri del pregiudizio. Non era un giornalista ma molto di più. Anche volendolo inserire nella categoria che secondo il grande Kapuscinski connota il giornalismo empatico, Vittorio era qualcosa di più, era uno scrittore prestato per congiunture drammatiche e per necessità di comunicazione al giornalismo. Passava alla tastiera ciò che vedevano i suoi occhi e senza cedimenti da libro-Cuore raccontava con un’empatia che riusciva a trasmettere a chiunque lo leggesse o lo ascoltasse quella verità generalmente filtrata e deformata dai media mainstream per “esigenze” di redazione.Probabilmente questo suo trasmettere ciò che portava conoscenza autentica, mettendo in comunicazione mente e cuore con l’efficacia del testimone diretto, fu la causa del suo inserimento nel libro nero di Israele e, nella primavera del 2005, mentre varcava la frontiera dalla Giordania che, come ogni accesso alla Palestina, è controllata dai soldati israeliani fin dal 1967, venne prelevato, massacrato e buttato in strada morente. Fu per un caso fortunato che alcuni militari giordani raccolsero il suo corpo ancora vivo e lo salvarono ma, chiaramente, per quella strada non sarebbe più potuto passare. Ci fu un’interrogazione parlamentare da parte di un senatore del gruppo dei Verdi ma si sa, a Israele – come diceva Golda Meir – dopo la Shoah tutto è permesso e quindi non successe nulla.
L’anno successivo Vittorio era in Congo, poi in Libano dove diede il suo aiuto nell’ampliamento di un centro sanitario in un campo profughi. Finalmente, nel 2008, quando la Striscia di Gaza era già sotto l’assedio israeliano, eludendo i controlli, via mare riuscì ad entrare come attivista umanitario e riprese a diffondere i suoi report.
La sua voce andava molto oltre l’assedio – immorale e illegittimo eppure ancora in atto dopo 13 anni di inutili appelli alle Nazioni Unite – e arrivava nel mondo.
Israele non poteva sopportare questo giovane italiano, insieme spavaldo e generoso, eccentrico e coraggioso, solidale con i pescatori e i contadini fino a rischiare la pelle, tenero con i bambini e duro nel denunciare i crimini quotidiani che l’assediante commetteva in quella striscia di terra lunga appena 40 chilometri e larga al massimo 10 nelle zone più estese. In totale 360 chilometri quadrati di carcere a cielo aperto.
Fu in una delle sue azioni di interposizione fisica a difesa dei pescatori che venne di nuovo preso dai soldati israeliani, picchiato duramente e probabilmente – se non si fosse gettato in acqua – sarebbero riusciti ad ucciderlo, magari simulando un incidente, visto che era cittadino di un Paese amico e non un palestinese per la cui uccisione non avrebbero avuto alcun obbligo di giustificazione.
Era il secondo tentativo di eliminazione di una voce troppo ascoltata e quindi troppo pericolosa. Ricordo che in quei giorni mi tornavano alla mente le parole che dalle elementari alle superiori avevo sentito tante volte nelle lezioni sul Risorgimento. Erano le parole dell’austriaco Metternich, primo ministro asburgico che vista la diffusione dell’autobiografia Le mie prigioni di Silvio Pellico, aveva definito quel libro più dannoso, per l’Austria, di una guerra perduta. Altre volte ho pensato invece a quando il generale e poi ministro israeliano Moshe Dayan convocò la poeta palestinese Fadwa Tuqan dicendole che una sua poesia (Mendicare un permesso, nda) faceva più danno all’immagine di Israele di dieci fedain.

Interessante rendersi conto che quando la parola fa male perché vera, il potere non corregge sé stesso ma cerca di neutralizzare o imbavagliare chi divulga la verità. Così anche Vittorio doveva essere tacitato, ma “con destrezza”, senza sollevare noie, che poi solo noie sarebbero state data l’impunità conclamata di quello Stato, ma meglio non averne. Comunque Vittorio, ancora una volta ferito, venne arrestato e successivamente espulso.
Ma questo ragazzo aveva deciso che Gaza era il luogo che in quel momento gli occupava  mente e cuore perché le condizioni in cui viveva la popolazione, ma soprattutto la mortificazione che si univa alla ferocia dell’assedio e, in mezzo a tutto questo, il calore umano che chiunque abbia vissuto qualche tempo a Gaza può testimoniare, gli avevano fatto scegliere la Striscia come sua momentanea patria di elezione. Fu così che tentò ancora e il 21 dicembre, con l’ultima nave che riuscì ad entrare nella Striscia, la Dignity del Free Gaza Movement, si ritrovò a Gaza pochi giorni prima della terribile aggressione da terra cielo e mare che in soli 22 giorni distrusse migliaia di case, scuole (compresa una scuola dell’Onu facendo strage dei rifugiati al suo interno), moschee, uffici pubblici, uccidendo immediatamente 1.203 palestinesi di cui 410 bambini e ferendone diverse migliaia di cui non tutti sarebbero sopravvissuti. Anche Israele ebbe i suoi morti, 12 militari e un civile e quasi 200 feriti, la maggior parte dei quali ricoverati per crisi di panico.
L’operazione venne definita “piombo fuso” e sembrava il massimo della ferocia possibile contro una popolazione sostanzialmente indifesa e impossibilitata a fuggire essendo chiusa in una gabbia che si apriva solo dall’esterno e solo per far entrare artiglieria a completare il lavoro degli F16. Venne usato il fosforo bianco, arma vietata che non si limita a uccidere ma brucia il corpo arrivando velocemente alle ossa fino alla completa combustione di ogni residuo di questa materia infernale che si alimenta con l’ossigeno contenuto nella sostanza organica.
Vittorio non volle uscire da Gaza per mettersi in salvo e, forse, non avremmo mai saputo la verità su “piombo fuso” se lui fosse uscito. I media si affannavano a parlare di rottura della tregua da una parte o dall’altra e poi, finalmente, venne fuori il perché di un attacco così particolarmente feroce: 410 bambini, o terroristi in erba come li definì una deputata  israeliana, che quindi era bene eliminare da piccoli! Tanta ferocia era finalizzata a guadagnarsi le simpatie dei votanti vista l’imminenza delle democratiche elezioni in Israele, il che non fa certo onore al popolo israeliano, ma il copione purtroppo si è più volte ripetuto anche se non c’era più Vittorio a raccontarci delle ambulanze schiacciate dai carri armati con la stella di David o dei bambini arsi vivi dal fosforo bianco e del correre tra un bombardamento e l’altro cercando di salvare qualche vita.
Vittorio era in mezzo a una violenza esercitata sui più deboli, una violenza di tale entità da far dimenticare torti e ragioni e capace di produrre solo odio eppure… Ecco che mi tornano alla mente le parole tante volte sentite nelle lezioni di storia relative a Silvio Pellico. Devo essere sincera, quelle parole le trovavo sincere solo perché scritte dopo essere uscito dal terribile carcere dello Spielberg, non credevo si potessero realmente pensare in stato di cattività. Pellico, con espressioni oggi arcaiche invitava «i cuori nobili a non odiare alcun mortale ma solo la pusillanimità, la perfidia e ogni morale degradamento». Vittorio è andato oltre. Vittorio firmava i suoi report con una frase, oggi diventata un leitmotiv più recitato che praticato, ma allora, tra terrore e sangue innocente, aveva la forza di cozzare contro la disumanità dell’Idf con lo stesso effetto dell’eruzione improvvisa e spettacolare di un vulcano dormiente. Vittorio firmava con la frase «restiamo umani». Un invito, un’invocazione, un comando, un impegno morale, una promessa, una via d’uscita dalla crudeltà che porta soltanto odio che si somma ad altro odio. Restiamo umani…nonostante tutto.
La realtà fatta di dolore e di urla, di morte e di terrore, nei report di Vittorio per “Il Manifesto” e per “Peace reporter” diventava letteratura, più e oltre che giornalismo, senza mai tradire di un millimetro l’impegno civile e umano che lo portava a restare sotto le bombe. Quando “Il Manifesto” raccolse i suoi report in un volume che titolò, appunto, Restiamo umani, ci si rese conto che quelle parole arrivavano alla mente e al cuore senza mai diventare emozioni viscerali di bassa lega. Vittorio forse sarebbe diventato un vero scrittore. La morte precoce glielo impedì.
La prima volta che parlai direttamente con lui era il 31 maggio del 2010. Era il giorno in cui Israele si era macchiato di un nuovo enorme crimine, stavolta era vera e propria pirateria, abbordando le navi della prima Freedom flotilla che tentavano pacificamente di rompere l’illegale assedio di Gaza portando medicinali, cibo e addirittura giochi per i bambini. Giusto un quotidiano come “Il Giornale” poteva titolare, a caratteri cubitali e a firma di Feltri, Israele ha fatto bene a uccidere.
Calandosi dagli elicotteri militari alle quattro di notte, in acque internazionali e col supporto di imbarcazioni da guerra, Israele aveva bloccato la flottiglia, sequestrato le navi e i loro passeggeri e ucciso a sangue freddo nove pacifisti sparando loro alla testa. Fu allora che Rainews24 chiamò me (ero tra le cinque persone che seguivano la Freedom flotilla in Italia) negli studi di Saxa Rubra a Roma e Vittorio in corrispondenza da Gaza per sentire le nostre opinioni.
La trasmissione venne censurata in alcuni punti per volere della direzione di Rainews e non andò a ripetizione come volevano i redattori che l’avevano organizzata, ma dopo la prima messa in onda dovette aspettare le tre di notte per un replay.
Vittorio, al di là del mare, sapeva come me che non sarebbe successo niente, che neanche per questo Israele avrebbe avuto sanzioni, ma ugualmente bisognava parlare perché non è vero che l’opinione pubblica non conta, altrimenti non si farebbe l’impossibile per addomesticarla, e quindi ci era chiaro che dovevamo usare i social perché quell’intervista non avrebbe girato troppo per i canali ufficiali, altrimenti avrebbe reso ridicola, come in effetti era, la voce dei valletti di Israele che affermava che i poveri soldati israeliani (armati fino ai denti) calatisi dagli elicotteri sulla nave Mavi Marmara, in piena notte, in acque internazionali (e coadiuvati dalle lance militari che avevano circondato la flottiglia) erano stati “costretti” a sparare in testa a nove attivisti per proteggersi dalla brutale violenza dei passeggeri (tra loro c’era anche un’anziana pacifista ebrea quasi novantenne) che “addirittura” avevano preso dei pezzi di sedia per colpirli.
Avevamo bisogno di operatori mediatici audaci e onesti che potessero dar senso a un’operazione tanto coraggiosa e portata avanti con spirito totalmente pacifista ma, a parte “Il Manifesto”, i media, anche senza arrivare all’ignobile titolo di Feltri, non diedero a questo fatto l’importanza che meritava, né misero l’accento sull’illegalità e l’illegittimità dell’assedio. Proprio per questo i social erano importanti, perché in parte riuscivano a supplire a quei voluti buchi neri in cui la verità andava smarrita e persa. E la voce di Vittorio era una voce che arrivava molto lontano. Vittorio, pur nella durezza delle sue condanne, invocava l’umanità nascosta dietro i silenzi e chiedeva attenzione al mondo. Lo faceva già prima di “piombo fuso”e avrebbe seguitato a farlo fino al suo rapimento.
La sua voce doveva essere spenta. Lo sapevamo tutti.
Quando venne ucciso Juliano Mer Kamis, il fondatore del Freedom theater a Jenin, circa dieci giorni prima del rapimento di Vittorio, la notizia ci arrivò da una radio “di movimento” e fu come un pugno in faccia. Stavamo preparando una serata per la Palestina. La mia amica ed io ci guardammo e dicemmo all’unisono «Vittorio deve tornare subito in Italia». Vittorio stava organizzandosi per tornare perché suo padre stava molto male, era questione di giorni, al massimo di settimane. Ma circa due mesi prima, quando lo avevo invitato a un convegno all’Università La Sapienza, mi aveva risposto «non sono io il regista della mia vita, verrò se potrò, altrimenti faremo un collegamento audio e vedrai che verrà una bellezza», poi mi aveva ricordato di mandargli sempre un sms prima di chiamarlo da un numero privato, aveva infatti smesso di rispondere a chiamate anonime perché erano tutte minacce di morte.
Vittorio quindi sapeva di essere preso di mira ma c’era qualcosa, la stessa cosa che non lo rendeva “il regista della sua vita” che gli imponeva di restare lì dove sentiva di poter essere utile. Era il 15 marzo il giorno del convegno e lui fu presente in diretta attraverso un cellulare. Esattamente un mese prima che lo uccidessero.
Quel giorno ci furono molti disordini a Gaza. Il movimento dei giovani che non volevano più sentir parlare di divisioni politiche aveva deciso di manifestare organizzando presidi di piazza ma le autorità locali, quelle che con spregio e con una buona dose di malafede quando non è pura ignoranza vengono definite “i terroristi di Hamas” avevano represso la manifestazione. E Vittorio spiegò la situazione al pubblico venuto ad ascoltarlo.
Le forze governative locali avevano ed hanno molte e purtroppo giustificate paure: lo spionaggio israeliano finalizzato agli omicidi dei leader, il tentativo di infiltrazione dell’Isis, i salafiti, i disperati per disoccupazione che vivono solo di sussidi, i giovani che vorrebbero vedere e assaggiare la libertà oltre la linea dell’assedio in cui li costringe Israele, le rivalità interne tra le diverse fazioni. Tutti elementi che Vittorio conosceva bene, ma conoscerli non è servito a proteggerlo.
Venne sequestrato mentre usciva dalla palestra. Sì, a Gaza ci sono palestre e anche molto altro per fortuna, e non solo disperazione e macerie. Gaza è un mosaico multicolore dove ciò che assolutamente manca è la libertà perché Israele la chiude da cielo, da terra e dal mare, ma i gazawi – e Vittorio lo sapeva benissimo – hanno una straordinaria dote, loro la definiscono “specifica follia gazawa”, forse è vero, comunque sanno fare nella loro prigione ciò che a un occhio estraneo sembrerebbe impossibile. Quindi hanno anche palestre e Vittorio andava regolarmente nella sua palestra e lì lo hanno aspettato per sequestrarlo.
Quando il suo viso pestato e bendato è apparso sui nostri telegiornali molti di noi hanno capito subito che i sequestratori non avrebbero aspettato il riscatto. “L’oggetto” di un riscatto è prezioso, non si massacra e soprattutto non si danno poche ore per decidere della sua sorte. Vittorio fu ucciso subito.
Le mani che lo strangolarono erano palestinesi. Il perché non si sa. Ma non era ai palestinesi che la voce di Vittorio dava fastidio.
Due dei suoi rapitori furono uccisi in uno scontro a fuoco con la polizia che andava ad arrestarli. Gli altri tre non dettero giustificazioni comprensibili. Certo è solo che Vittorio non era un loro nemico! Questo è ciò che a distanza di nove anni ancora ci interroga e che ancora oggi non dà pace a sua madre: il non sapere il vero motivo della morte di questo figlio che però, paradossalmente, morendo, ha moltiplicato la sua voce, quella che Israele voleva spegnere.
Ricordo che il dolore per la sua morte colpì decine di migliaia di persone. Arrivarono ai suoi funerali a Bulciago non solo migliaia e migliaia di italiani, ma qualcuno prese l’aereo dall’Irlanda, qualcuno dalla Spagna, qualcuno dall’Africa. A me e ad altri arrivarono perfino telefonate dall’Australia.
A fronte di tanto dolore da parte di chi aveva imparato a sentire la sua voce tramite il suo blog ma anche tramite la trasmissione radio Caterpillar e di chi leggeva i suoi report o lo aveva seguito durante “piombo fuso”, c’è da dire che la sua salma arrivò in Italia senza che neanche l’ultimo straccio di un vice-vice-sotto-vice ministro andasse a riceverla all’aeroporto.
C’eravamo noi, gli  amici e i compagni, prima all’aeroporto e poi, a migliaia, a rendergli omaggio a San Lorenzo dove venne allestita la camera ardente.
Rainews24 aveva intervistato alcuni attivisti e fece un servizio decoroso. Altre TV, invece,  parlarono del «pacifista italiano ucciso dai palestinesi». Una notizia ghiotta e fasulla, perché “i” palestinesi ancora piangono Vittorio e lo definiscono un loro martire. I sicari che lo hanno ucciso, invece, di palestinese avevano solo la carta d’identità e neanche tutti. Erano altri che desideravano spegnere quella voce, esplosa invece come una galassia che è andata moltiplicandosi raggiungendo anche chi non l’aveva mai sentita prima. Chi non lo aveva conosciuto cominciò a conoscerlo allora. E cominciò ad amarlo. E a capire a distanza cosa significa vivere sotto il tallone di un’occupazione militare pluridecennale o dentro il recinto di una prigione a cielo aperto.   
Il dolore per il suo assassinio col tempo si è placato, mentre è rimasto vivo quel grido trasmesso dalla sua firma, “restiamo umani!”.
Di certo Vittorio, o Vik come veniva chiamato, è stato un sognatore e come lui stesso disse un giorno prendendo le parole di Nelson Mandela: «un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare e se un giorno, tra 100 anni dovessi morire, vorrei che sulla mia tomba fosse scritto: ‘Vittorio Arrigoni, un vincitore’».
È stato quindi un sognatore che ha vinto, ha vinto sul male e sulla morte perché, come una nuvola leggera, Vittorio ha lasciato nell’aria quell’invito accorato al mondo, quell’invito che vuole essere un programma senza scadenza, un programma da seguire, valido ovunque e per sempre: restiamo umani!

 

Patrizia Cecconi

Nata a Roma. Laureata prima in sociologia, poi in erboristeria. Si accorge che i meccanismi di inclusione ed esclusione applicati al mondo umano, il mondo umano li applica anche alla natura, così scrive qualche libro in cui tratta sia di piante che di diritti umani. Dopo 25 anni di appassionato lavoro all’interno delle scuole, lascia l’insegnamento si dedica alla scrittura e alla causa che ormai sente sua: la Palestina.