Il processo contro il software di sorveglianza israeliano si svolge a porte chiuse

Pegasus è collegato allo spionaggio politico in Messico, Emirati Arabi e Arabia Saudita: Citizen Lab dell’università di Toronto.

16 gennaio 2020 – Al Jazeera

Giovedì un tribunale israeliano ha disposto le udienze a porte chiuse del processo intentato da Amnesty International per bloccare le esportazioni del gruppo NSO [dalle iniziali dei fondatori dell’azienda: Niv, Shalev e Omri, è una società tecnologica israeliana, ndtr.] di software di spionaggio, che le associazioni per i diritti affermano vengano usati per spiare giornalisti e dissidenti in tutto il mondo.

Una giudice della Corte Distrettuale di Tel Aviv ha citato preoccupazioni relative alla sicurezza nazionale quando ha escluso il pubblico e i media dalle udienze. L’iniziativa ha comportato un’immediata condanna da parte dell’associazione di attivisti.

“È vergognoso che veniamo costretti al silenzio”, ha detto ai giornalisti Gil Naveh, un portavoce di Amnesty.

Il Ministero della Difesa di Israele – che ha richiesto il divieto della Corte – e NSO hanno rifiutato di commentare la causa intentata da Amnesty. La causa potrebbe stabilire se il governo debba inasprire i controlli sulle esportazioni di strumenti informatici – un settore in cui Israele è leader mondiale.

Amnesty afferma che i governi hanno usato il software di hackeraggio dei cellulari della società israeliana per reprimere gli attivisti in tutto il mondo. Uno studio di Citizen Lab [Laboratorio dei Cittadini, associazione che difende i cittadini dallo spionaggio illecito dei governi, ndtr.] dell’università di Toronto ha collegato Pegasus allo spionaggio politico in Messico, Emirati Arabi e Arabia Saudita.

NSO ha affermato di vendere la propria tecnologia solo ad enti statali e alle forze dell’ordine per “aiutarle nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata.”

La giudice Rachel Barkai inizialmente aveva detto che avrebbe permesso che le argomentazioni di Amnesty fossero ascoltate dal pubblico, ma gli avvocati del governo hanno sostenuto che sarebbe parso che lo Stato stesse accettando le accuse di Amnesty e Barkai ha cambiato idea.

NSO è finita sotto esame quando un dissidente saudita legato al giornalista assassinato Jamal Khashoggi ha intentato causa sostenendo che NSO aveva aiutato la corte reale ad entrare nel suo cellulare e a spiare le sue comunicazioni con Khashoggi.

NSO ha negato che la sua tecnologia sia stata utilizzata nell’omicidio di Khashoggi.

In ottobre WhatsApp, che è di proprietà di Facebook Inc., ha fatto causa a NSO presso la corte federale degli Stati Uniti a San Francisco. WhatsApp ha accusato NSO di aiutare le spie governative ad entrare nei telefoni di circa 1.400 utenti in quattro continenti.

Nella causa di Amnesty, intentata da membri e sostenitori del suo ufficio di Israele, l’organizzazione ha affermato che NSO continua a trarre profitti dal suo programma spia che viene usato per commettere violazioni contro attivisti in tutto il mondo e che il governo israeliano “è rimasto a guardare senza fare niente.”

“Il modo migliore per impedire che i potenti prodotti di spionaggio di NSO arrivino ai governi repressivi è revocare la licenza di esportazione della società, e questo è esattamente ciò che questa causa legale intende fare”, ha detto Danna Ingleton, vicedirettrice di Amnesty Tech.

Amnesty Tech è descritta sul sito web di Amnesty International come una collettività globale di avvocati, esperti di informatica, ricercatori e tecnologie che sfidano “la sistematica minaccia ai nostri diritti” da parte delle imprese di spionaggio.

NSO, che l’anno scorso è stata acquisita dalla società privata Novalpina Capital con sede a Londra, a settembre ha annunciato che avrebbe iniziato ad attenersi alle linee guida dell’ONU sulle violazioni dei diritti umani.

FONTE: Agenzia di informazioni Reuters

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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“Ci sposteranno, ma solo da morti”: scontro fra Israele e i beduini nel Negev

Jack Dodson

17 gennaio 2020 – Middle East Eye

Le autorità israeliane hanno intenzione di trasferire 36.000 beduini che vivono nella regione desertica per far posto a ebrei israeliani e progetti industriali e militari

Mohammad Danfiri, dal recinto delle pecore della sua famiglia beduina nel deserto del Negev, guarda verso i due ripetitori cellulari in cima alla collina vicina. Sono situati in uno spazio aperto fra il limitare tra il suo villaggio e un altro, un’area, spiega, dove sarà costruito un ampliamento della principale autostrada orientale di Israele.

Una fila di case sta a circa 60 metri dalle torri dove sono stati approvati i progetti per l’autostrada. Ma il governo israeliano sta procedendo con dei progetti per cacciare non solo i residenti più vicini alla strada progettata.

L’intera popolazione del villaggio, 5.000 persone e molte altre del circondario, verrà trasferita in unità abitative temporanee secondo il piano del governo, limitando seriamente la possibilità di allevare pecore e sviluppare l’agricoltura, le attività principali delle comunità beduine.

Danfiri è uno degli almeno 36.000 beduini del Negev israeliano che si trova ad affrontare l’espulsione (in arabo la Nakba, la catastrofe) a causa di vari progetti come l’ampliamento della superstrada.

Per mettere in pratica questi piani di sviluppo proposti da enti governativi, dall’esercito israeliano, da aziende private e da gruppi no-profit, l’Autorità israeliana per gli insediamenti beduini, l’ente governativo responsabile per la gestione dei rapporti tra beduini e Stato, mira a trasferire decine di migliaia di persone in alloggi temporanei.

I beduini chiamano questi alloggi provvisori “caravan”, perché sono casette mobili in cui gli israeliani intendono insediare intere famiglie. A ottobre, una commissione edilizia distrettuale israeliana ha cominciato a valutare se approvare questi piani di trasferimento.

I residenti che possono essere trasferiti vivono in villaggi che il governo ritiene “non riconosciuti”, sebbene la maggior parte sia vissuta su quei terreni o nelle vicinanze fin dalla fondazione del Paese nel 1948. Durante gli ultimi 50 anni, Israele ha cercato di spostare i beduini in comunità “riconosciute”, sostenendo ripetutamente che quelli delle aree non riconosciute non hanno diritti sulle terre.

I villaggi non riconosciuti non sono provvisti di infrastrutture o servizi governativi. Non ci sono mezzi di trasporto, strade, scuole e le autorità israeliane non riconoscono i leader locali né negoziano con loro.

Di conseguenza le comunità vivono una vita di sussistenza su una terra ostile. Molti allevano pecore per venderne la carne. Alcuni riescono a trovar lavoro in aziende israeliane nei dintorni.

‘Nessuna soluzione’

Danfiri, 47 anni, racconta di essere cresciuto nel villaggio dove l’unica fonte idrica era un pozzo che raccoglieva acqua piovana. Lui e i suoi amici tiravano su l’acqua e sua mamma usava il foulard per filtrare la sporcizia. I venerdì gli adulti attaccavano una televisione alla batteria di un’auto per guardare i cartoni animati e i film egiziani.

“Oggi i bambini hanno tutto” dice Danfiri, riferendosi ai pannelli solari che ora sono installati sopra molte case beduine. “Frigoriferi, internet, tutto è immediatamente disponibile.”

Danfiri dice che per proteggere lo stile di vita della comunità i beduini respingeranno i piani governativi di trasferimento. Nel caso dovessero assolutamente spostarsi, dice che rifiuteranno i “caravan” e staranno il più vicino possibile alle loro case originarie, anche se di fianco a un cantiere.

“Non ci sposteremo, lotteremo” dice. “Non succederà … un progetto come questo farebbe sparire la cultura e il patrimonio culturale dei beduini.”

Per una comunità che si riconosce in uno stile di vita tradizionale basato sull’agricoltura, la rimozione forzata è vista come l’ultima mossa di una campagna governativa decennale per concentrarli in aree specifiche. Per gente come Danfiri ciò significa rinunciare a una parte della propria identità.

Ovunque io vada la cosa di cui sono più fiero è essere un beduino. Ed è soprattutto nei villaggi non riconosciuti che i beduini conservano di più la loro cultura tradizionale.” dice.

Adalah, una ONG [israeliana] con sede a Haifa specializzata nei diritti sanciti dalla legge per gli arabi in Israele, si oppone ai piani per vari motivi. Innanzitutto, sostiene l’organizzazione, le unità residenziali progettate non sono adatte, a termini di legge, perché non hanno infrastrutture adeguate e non rispettano le norme relative alle dimensioni abitative.

Il mese scorso l’ONG ha anche pubblicato un libro bianco, sostenendo che i piani rappresenterebbero un approccio che considera i cittadini israeliani del Negev “separati ma uguali”.

Un sistema si baserebbe sulla pianificazione di una rete che operi per il beneficio, il benessere e lo sviluppo futuro di cittadini e comunità ebraiche israeliane e che pone i cittadini ebrei israeliani al centro del processo” scrive.

L’altro sistema si baserebbe sulla pianificazione di una rete che operi per l’evacuazione e il trasferimento dei cittadini beduini in residenze temporanee imponendo all’intera popolazione palestinese beduina una situazione opprimente senza averla consultata.”

Adalah afferma anche che il piano farà crescere la povertà dei beduini che sono trasferiti e di quelli che vivono nelle comunità dove verranno costruiti i campi, perché potrebbe danneggiare l’accesso al lavoro per entrambi i gruppi.

Myssana Morany, un’avvocatessa che lavora per Adalah, dice che non è chiara la velocità con cui i piani verranno eseguiti e quante persone verranno trasferite in totale. Dato che il modo di esprimersi del governo sui piani che hanno presentato è vago, dice, ciò rivela un progetto più ampio che potrebbe coinvolgere fino a 80.000 persone. Per questo stesso motivo l’assenza di un numero preciso di unità abitative significa che il governo può sfrattare quante persone vuole.

Per noi ciò significa che non hanno una soluzione per le persone che progettano di far sgombrare” dice Morany.

Hussein El Rafaiya, 58 anni, è di Birh Hamam un villaggio non riconosciuto e dal 2002 al 2007 è stato a capo di un comitato che rappresenta i villaggi non riconosciuti. Israele non riconosce l’autorità del comitato e non negozia con loro.

Rafaiya ha ricordato esempi fatti nel corso degli anni di pressioni israeliane sulle comunità beduine per costringerle ad andarsene dalle loro case, per esempio decenni di demolizioni di case e sfratti effettuati dal governo.

Noi non abbiamo nessuna possibilità di risolvere la situazione per vie legali” dice Rafaiya, spiegando che la legge israeliana semplicemente non riconosce le rivendicazioni dei beduini sulla terra o sulle case.

Questo non è il comportamento di uno Stato: è un comportamento da criminali … Tutti quegli sforzi per l’Autorità Beduina [ente governativo creato nel 2007 per occuparsi dei beduini, ndtr.]non sono stati abbastanza efficaci, così hanno deciso di creare questi campi temporanei di sfollati.”

Agli inizi del 2020, la commissione urbanistica del distretto meridionale israeliano deciderà se procedere. I due piani residenziali temporanei del governo enfatizzano la necessità di sfrattare “urgentemente” i beduini in base ai progetti di sviluppo. Agli occhi dei gruppi per i diritti umani è un modo per escogitare una soluzione rapida ma giuridicamente inefficace per espellere la gente.

Una presenza in espansione

In anni recenti l’esercito israeliano ha spostato delle basi nel Negev nel tentativo di espandervi la presenza militare e industriale e per aumentare la popolazione. Il governo ha anche investito risorse per promuovere Be’er Sheba, la più grande città meridionale, come un hub per la tecnologia e l’imprenditorialità.

Il Negev è diventato il luogo di un’ampia gamma di progetti, inclusi parchi solari, centrali elettriche, serre e altre imprese industriali. Il governo ha espresso interesse nel sostenere le coltivazioni di marijuana a scopo medico, l’industria manifatturiera e la difesa informatica, tutto tramite fondi e sussidi.

Secondo il Ministero dell’Economia dello Stato, l’idea è di far concorrenza alla Silicon Valley.

Uno dei protagonisti di questo processo è il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico] (JNF) un’organizzazione con sedi negli USA e a Gerusalemme che ha ricevuto un’autorizzazione governativa speciale da parte di Israele per acquistare e sviluppare dei terreni per i coloni ebrei.

Supervisiona molti progetti nella regione, spesso bonificando enormi distese di terreni per piantare foreste. Alcune comunità non riconosciute di beduini si trovano in aree destinate a essere evacuate per i progetti del JNF.

Sul sito del JNF, dove si presenta il piano per il Negev, si illustra un progetto per insediarvi 500.000 persone provenienti da altre parti della regione.

Il deserto del Negev rappresenta il 60% del territorio di Israele ma ospita solo l’8% della popolazione del Paese” c’è scritto. “E in queste cifre sbilanciate noi vediamo un’opportunità di crescita senza precedenti.”

Il “Progetto Negev” del JNF dà grande evidenza alla priorità di sostenere le comunità beduine della regione, ma elenca collaborazioni solo con città beduine “riconosciute”.

Nessun portavoce del JNF ha risposto a un’email con cui si richiedeva un commento.

Thabet Abu Rass, il co-direttore di Abraham Initiatives, un’ONG che opera per i diritti politici in Israele, ha detto di non essere d’accordo con il piano governativo principalmente perché non tiene conto di nessuna delle necessità delle comunità beduine.

È un modo diverso per parlare dello sradicamento delle persone. Qui il problema è lo sradicamento delle persone.” ha detto Rass.

Il governo israeliano sta investendo un sacco di soldi nella pianificazione. Se da un lato è bene pianificare per la gente, dall’altro non va bene pianificare contro la loro volontà … i beduini non hanno voce in capitolo.”

Rass rammenta molti casi in cui il governo d’Israele ha fatto dei piani per il Negev senza consultare i beduini e senza accettare o neppure prendere in considerazione i loro diritti sulla terra.

La terra in Israele è una questione che ha motivazioni ideologiche” ha detto Rass. “Israele si definisce uno Stato ebraico e per loro è importante controllare sempre maggiori estensioni di territorio.”

Per Rafaiya i progetti sono semplicemente inaccettabili. I beduini delle comunità riconosciute non si sposteranno.

Questo piano per noi è un disastro” dice Rafaiya. “Lo Stato può venire e distruggere case e comunità. Ma noi ci sposteremo solo da morti, saremo seppelliti nella nostra terra.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’industria agrotecnica israeliana trae profitto dall’occupazione militare

Maureen Clare Murphy

 17 gennaio 2020 – Electronic Intifada

Secondo un nuovo rapporto dell’associazione di monitoraggio delle imprese “Who Profits” le aziende agrotecniche israeliane “sono totalmente complici dell’occupazione di terre palestinesi e siriane.”

La tecnologia sviluppata nel contesto dell’occupazione viene utilizzata dall’industria agricola di precisione israeliana apparentemente ad uso civile. Queste applicazioni consentono alle imprese belliche israeliane di promuovere “una versione presentabile delle loro tecnologie repressive” come strumenti per combattere il cambiamento climatico e la fame nel mondo.

Le imprese agrotecniche israeliane, approfittando di un’‘immagine verde’ positiva, sviluppano e commercializzano sistemi di irrigazione intelligente, soluzioni per la protezione delle coltivazioni e fertilizzanti specifici per agricoltori in tutto il mondo, con un guadagno di miliardi di dollari in vendite annuali, afferma Who Profits. Questa industria contribuisce all’agricoltura nelle colonie in Cisgiordania e sul Golan, così come al de-sviluppo dell’economia palestinese.

La Valle del Giordano, la principale regione agricola della Cisgiordania, è sotto totale controllo militare israeliano.

Negli anni ’80 Israele ha trasferito la proprietà della terra espropriata nella Valle del Giordano all’Organizzazione Sionista Mondiale. L’organizzazione concede la terra a coloni per la produzione agricola.

Prodotti delle colonie della Valle del Giordano, come melograni, mandorle, datteri e olive, sono esportati in Europa, spesso con l’erronea etichetta “Prodotto in Israele”.

Nel 2013 la Banca Mondiale stimava al ribasso il valore della produzione agricola degli insediamenti nella Valle del Giordano a circa 251 milioni di dollari.

Quello stesso anno la Banca Mondiale riteneva che le coltivazioni agricole di terreni in Cisgiordania in quel momento sotto totale controllo militare israeliano avrebbero fruttato all’economia palestinese ulteriori 700 milioni di dollari all’anno.

Ai palestinesi viene impedito di coltivare la propria terra e sono privati di entrate, obbligandone molti a “cercare lavoro nell’agricoltura delle colonie, spesso sottoposti a pesanti condizioni di sfruttamento,” sottolinea Who Profits.

I dirigenti israeliani, compreso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, promettono di annettere unilateralmente la Valle del Giordano.

Rafforzamento dell’annessione unilaterale

Israele ha già rivendicato l’annessione delle Alture del Golan, territorio siriano occupato da Israele durante la guerra del 1967. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dichiarato l’iniziativa “nulla, priva di valore e senza effetti giuridici internazionali.”

Sulle Alture del Golan circa 340 fattorie e villaggi siriani vennero distrutti da Israele, che al loro posto ha costruito colonie ebraiche.

Circa 26.000 coloni israeliani controllano circa il 95% del Golan –territorio di 1.860 km2 che rappresenta l’1% dell’estensione totale della Siria. Circa lo stesso numero di siriani controlla il resto delle terre del Golan.

Sulle Alture del Golan occupate la produzione agricola delle colonie contribuisce anche al furto di terre, al de-sviluppo dell’economia siriana locale e al rafforzamento dell’annessione unilaterale del territorio da parte di Israele,” afferma Who Profits.

La produzione agricola di Gaza è stata “decimata” dall’assedio israeliano, imposto dal 2007, e da ripetuti attacchi militari contro il territorio.

Ai palestinesi viene impedito l’accesso a zone definite in modo approssimativo, che in genere dovrebbero essere entro i 300 metri dal confine con Israele. Buona parte delle terre agricole di Gaza è compresa in questa zona vietata, che Israele impone sparando per uccidere.

Trasformazione dell’agrotecnologia in arma

Secondo Who Profits Israele ha utilizzato come un’arma contro Gaza l’agrotecnica, utilizzando erbicidi “per danneggiare e distruggere le coltivazioni palestinesi” nella zona perimetrale. Martedì di questa settimana aerei israeliani per irrorare i campi hanno spruzzato prodotti chimici, che si ritiene siano erbicidi, penetrati a Gaza.

Israele effettua l’irrorazione quando il vento sta soffiando verso ovest, il che porta i prodotti chimici ben all’interno di Gaza,” hanno affermato giovedì le associazioni per i diritti umani. “In incidenti di irrorazione precedentemente documentati, gli erbicidi chimici hanno raggiunto una distanza fino a 1.200 metri all’interno della Striscia.”

Le organizzazioni per i diritti aggiungono che i dati indicano “che l’irrorazione pone una minaccia potenziale al diritto alla vita, in quanto danneggia direttamente la sicurezza alimentare e la salute della popolazione civile di Gaza.”

Nel contempo le imprese dell’agrotecnica “beneficiano della commercializzazione del know-how militare israeliano” sviluppato nel contesto dell’occupazione.

Secondo Who Profits “la collaborazione include l’adattamento del sistema di comando e controllo “Iron Dome” [Cupola di Ferro, sistema antimissilistico israeliano, ndtr.] per l’irrigazione intelligente, così come l’utilizzo di droni delle Industrie Aerospaziali Israeliane [industria pubblica israeliana con circa 15.000 dipendenti, ndtr.] per l’agricoltura di precisione su vasta scala,”.

La situazione di una prolungata occupazione militare è stata il motore propulsore che sta dietro a una prolifica e molto redditizia industria bellica, che dà come risultato un rapporto simbiotico tra il settore privato e l’apparato militare dello Stato,” sostiene Who Profits.

Il settore agrotecnico civile trae beneficio dai sussidi del governo israeliano per la ricerca e lo sviluppo in Cisgiordania e sulle Alture del Golan, trovando nel contesto dell’occupazione “un terreno di sperimentazione per lo sviluppo di prodotti e tecnologie.”

Who Profits” afferma che l’estensione delle tecnologie militari alle industrie civili “rafforza ulteriormente l’interesse personale di imprese private nella perpetuazione dello status quo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Isolate e dimenticate: cosa bisogna sapere sulle “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania

 Ramzy Baroud

14 gennaio 2020  palestinechronicle

Una notizia apparentemente ordinaria, pubblicata sul giornale israeliano Haaretz il 7 gennaio, ha fatto luce su un argomento da tempo dimenticato ma cruciale: le cosiddette “zone di tiro” di Israele in Cisgiordania.

Secondo Haaretz “Israele ha sequestrato l’unico veicolo disponibile di una equipe medica che fornisce assistenza a 1.500 palestinesi residenti all’interno di una zona di tiro militare israeliana in Cisgiordania”.

La comunità palestinese a cui è stato negato l’unico servizio medico disponibile è Masafer Yatta, un piccolo villaggio palestinese sulle colline a sud di Hebron.

Masafer Yatta, in completo e assoluto isolamento dal resto della Cisgiordania occupata, si trova nell’”Area C”, la più grande zona territoriale, circa il 60%, della Cisgiordania. Ciò significa che il villaggio, insieme a molte città, villaggi e piccole comunità isolate palestinesi, è sotto il totale controllo militare israeliano.

Non fatevi ingannare dalla fumosa logica degli Accordi di Oslo; tutti i palestinesi, in tutte le zone della Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza assediata, sono sotto il controllo militare israeliano.

Tuttavia, sfortunatamente per Masafer Yatta e per gli abitanti dell'”Area C”, il grado di controllo vi è così soffocante che ogni aspetto della vita palestinese – libertà di movimento, istruzione, accesso all’acqua potabile e così via – è controllato da un complesso sistema di ordinanze militari israeliane che non hanno alcun riguardo per il benessere delle comunità assediate.

Non sorprende quindi che l’unico veicolo di Masafer Yatta, il disperato tentativo di realizzare un ambulatorio mobile, sia stato già confiscato in passato, e recuperato solo dopo che gli abitanti impoveriti sono stati costretti a pagare una multa ai soldati israeliani.

Non esiste una logica militare al mondo che possa giustificare razionalmente il blocco dell’accesso alle cure mediche per una comunità isolata, specialmente quando una potenza occupante come Israele è legalmente obbligata, ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, a garantire l’accesso all’assistenza medica ai civili che vivono in un territorio occupato.

È naturale che la comunità di Masafer Yatta, come tutti i palestinesi nell'”Area C” e nell’intera Cisgiordania, si senta trascurata – e apertamente tradita – dalla comunità internazionale e dalla propria leadership collaborazionista.

Ma c’è qualcosa di più che rende il villaggio di Masafer Yatta veramente unico, guadagnandogli la sfortunata definizione di bantustan [territori formalmente autogovernati dalla popolazione di colore nel Sudafrica dell’apartheid, ndtr.] all’interno di un bantustan, poiché sopravvive sottoposto ad un sistema di controllo molto più complesso rispetto a quello imposto al Sud Africa nero durante il regime dell’apartheid.

Poco dopo aver occupato la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza, Israele ideò uno stratagemma a lungo termine per mantenere il controllo sui territori appena occupati. Ha destinato alcune aree alla futura ricollocazione dei propri cittadini – che ora costituiscono la popolazione di coloni ebrei illegali ed estremisti in Cisgiordania – e si è anche riservato ampie parti dei territori occupati come zone di sicurezza e aree cuscinetto.

Ciò che è molto meno noto è che, durante gli anni ’70, l’esercito israeliano ha dichiarato circa il 18% della Cisgiordania “zona di tiro”.

Queste “zone di tiro” erano presumibilmente destinate ad essere campi di addestramento per i soldati dell’esercito israeliano di occupazione – sebbene i palestinesi intrappolati in quelle regioni riferiscano spesso che all’interno delle cosiddette “zone di tiro” non si svolge quasi alcun addestramento militare.

Secondo l’Ufficio di Coordinamento delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) in Palestina, ci sono ancora circa 5.000 palestinesi, divisi in 38 comunità, che vivono in circostanze veramente terribili all’interno delle cosiddette “zone di tiro”.

L’occupazione del 1967 portò a una massiccia ondata di pulizia etnica che vide l’espulsione forzata di circa 300.000 palestinesi dai territori appena conquistati. Fra le molte vulnerabili comunità ripulite etnicamente c’erano anche i beduini palestinesi, che continuano a pagare il prezzo dei progetti coloniali israeliani nella Valle del Giordano, nelle colline a sud di Hebron e in altre parti della Palestina occupata.

La loro vulnerabilità è aggravata dal fatto che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) agisce con poco riguardo per i palestinesi che vivono nell'”Area C”, lasciati da soli a sopportare e resistere alle pressioni israeliane, ricorrendo spesso all’ingiusto sistema giudiziario di Israele per riconquistare alcuni dei propri diritti fondamentali.

Gli Accordi di Oslo, firmati nel 1993 tra la leadership palestinese e il governo israeliano, dividevano la Cisgiordania in tre regioni: “Area A”, teoricamente sotto controllo palestinese autonomo e costituita dal 17,7% della dimensione complessiva della Cisgiordania; “Area B”, 21% e sotto il controllo condiviso di Israele-ANP; “Area C”, il resto della Cisgiordania sotto il totale controllo di Israele.

L’accordo avrebbe dovuto essere temporaneo, e terminare nel 1999 una volta conclusi i “negoziati sullo status finale” e firmato un accordo di pace complessivo. Invece, è diventato a priori lo status quo.

Per quanto sfortunati siano i palestinesi che vivono nell'”Area C”, quelli che vivono nella “zona di tiro” all’interno dell'”Area C” affrontano difficoltà ancora maggiori. Secondo le Nazioni Unite, le loro traversie includono “la confisca delle proprietà, la violenza dei coloni, i maltrattamenti da parte dei soldati, le restrizioni di accesso e movimento e/o la scarsità d’acqua”.

Come ci si poteva aspettare, nel corso degli anni molti insediamenti ebraici illegali sono sorti in queste “zone di tiro”, un chiaro segno del fatto che queste aree non hanno mai avuto uno scopo militare, ma erano destinate a fornire una giustificazione legale a Israele per confiscare quasi un quinto della Cisgiordania per una futura espansione coloniale.

Nel corso degli anni, Israele ha messo in atto la pulizia etnica di tutti i palestinesi che rimanevano in queste “zone di tiro”, lasciandone solo 5.000, che probabilmente subiranno lo stesso destino se l’occupazione israeliana dovesse continuare lungo la stessa direttrice di violenza.

Questo rende la storia di Masafer Yatta un microcosmo della più ampia e tragica storia di tutti i palestinesi. È anche un riflesso della maligna natura del colonialismo israeliano e dell’occupazione militare, per cui i palestinesi sotto occupazione perdono la loro terra, la loro acqua, la loro libertà di movimento e, infine, persino le cure mediche di base.

Secondo le Nazioni Unite, queste dure “condizioni creano un ambiente coercitivo che fa pressione sulle comunità palestinesi affinché abbandonino quelle aree”. In altre parole, pulizia etnica, da sempre l’obiettivo strategico di Israele.

Ramzy Baroud è giornalista ed editore di The Palestine Chronicle. È autore di cinque libri. Il suo ultimo è These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene saranno spezzate: storie palestinesi di lotta e sfida nelle carceri israeliane], (Clarity Press, Atlanta). Baroud è ricercatore senior non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Israele comincia ad estendere la sua “annessione silenziosa” della Cisgiordania, col beneplacito dell’amministrazione Trump

Yumna Patel 

15 gennaio 2020 – Mondoweiss

Il ministro della Difesa di Israele ha annunciato mercoledì di aver approvato la creazione di sette nuove riserve naturali israeliane nell’Area C della Cisgiordania occupata.

Secondo il Jerusalem Post la mossa, che include anche l’espansione di 12 riserve naturali già esistenti, rappresenterebbe la prima approvazione di questo tipo ad essere rilasciata dalla firma degli Accordi di Oslo.

La notizia segue a ruota quella di un controverso forum di accademici e attivisti di destra la settimana scorsa a Gerusalemme dove Naftali Bennet, l’attuale ministro della Difesa, ha dichiarato alla folla che l’intera Area C della Cisgiordania occupata “appartiene a Israele”.

“Stiamo cominciando una battaglia vera, imminente per il futuro della Terra di Israele ed il futuro dell’Area C”, ha detto Bennet al Kohelet Policy Forum, facendo riferimento al 60% e più della Cisgiordania designato come sotto controllo israeliano dagli Accordi di Oslo.

Come leader del partito della “Nuova Destra”, Bennet è da lungo tempo un sostenitore del movimento dei coloni e promotore dell’annessione dei territori palestinesi occupati ad Israele. L’espressione delle sue opinioni riguardo dell’Area C non può quindi sorprendere, ma dato il sostegno dell’attuale amministrazione statunitense, sono particolarmente allarmanti.

Sostegno dagli Stati Uniti

Il Kohelet Policy Forum è stato inaugurato da un videomessaggio del Segretario di Stato [USA] Mike Pompeo che ha dichiarato che “Stiamo riconoscendo che queste colonie non sono una violazione intrinseca delle leggi internazionali. Questo è importante. Stiamo sconfessando il memorandum di Hansell del 1978 [parere giuridico di Hebert J. Hansell, consigliere del presidente Carter, che considerava illegale l’occupazione israeliana, ndtr.] che era profondamente sbagliato, e stiamo ritornando ad un più equilibrato e serio approccio alla questione come durante la presidenza Reagan.”

La posizione dell’amministrazione Trump sulla questione delle colonie ha generato un diffuso criticismo da parte della leadership e degli attivisti palestinesi, così come da parte della comunità internazionale, che a larga maggioranza considera le colonie essere il principale ostacolo per la pace nella regione.

Anche l’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, si è rivolto al forum, sottolineando la nuova posizione americana, secondo la quale le circa 200 colonie presenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non rappresentano una violazione delle leggi internazionali.

“Gli israeliani hanno il diritto di vivere in Giudea e Samaria,” ha detto Friedman, elogiando la precedente decisione del presidente degli Stati Uniti Trump di riconoscere la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle alture del Golan.

Pare che siano già in corso degli sforzi coordinati da parte dei governi di Netanyahyu e Trump per estendere la sovranità israeliana sulla Cisgiordania.

Nel suo discorso Bennett ha anche dichiarato come da circa un mese abbia iniziato a sviluppare piani per imporre la sovranità israeliana sul terreno, e ha lasciato intendere come abbia discusso con l’amministrazione Trump per “[spiegare] il modo in cui lo Stato di Israele farà tutto il possibile per garantire che queste aree siano parte dello Stato di Israele”.

Fatti sul terreno

La spaventosa realtà delle parole di Bennett è che la “guerra” di Israele a proposito dell’Area C rappresenta più delle semplici promesse di un politico.

All’incirca nello stesso momento in cui Bennett faceva la sua dichiarazione, il presidente dell’Autorità Palestinese della Commissione Contro il Muro e le Colonie, Walid Assaf, ha annunciato che nel 2019 sono state demolite dalle autorità israeliane circa 700 costruzioni palestinesi, di cui 300 demolizioni nella sola Gerusalemme.

Solo il giorno prima, l’Alta Corte di Giustizia israeliana aveva dato torto a un gruppo di cittadini palestinesi che chiedevano l’annullamento del piano regolatore per le colonie di Ofra, visto che tale piano include circa 5 ettari di terreni privati palestinesi.

E il giorno prima ancora, un’organizzazione di monitoraggio delle colonie, Peace Now, ha riportato che l’amministrazione civile israeliana ha annunciato piani per costruire 1936 abitazioni nelle colonie. Il gruppo ha fatto notare come “l’89% delle unità immobiliari proposte sono in colonie che gli israeliani potrebbero dover evacuare in caso di un futuro accordo di pace coi palestinesi.”.

Hanan Ashrawi, importante dirigente palestinese, ha dichiarato giovedì che Israele ha accelerato i suoi progetti per creare uno stato di “annessione de facto” della Cisgiordania: “Israele sta perseguendo una annessione silenziosa della terra palestinese per impedire in maniera definitiva il diritto fondamentale del popolo palestinese alla libertà e alla giustizia”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Ortona)




Ho stilato la definizione di antisemitismo. Gli ebrei di destra la stanno usando come un’arma

Kenneth Stern

venerdì 13 dicembre 2019 – The Guardian

La “bozza di definizione di antisemitismo” non è mai stata pensata per silenziare la libertà di parola, ma è ciò che ha ottenuto questa settimana il decreto di Trump

Quindici anni fa, in quanto esperto di antisemitismo della Commissione Ebraica Americana, sono stato il principale estensore di quella che allora venne denominata la “definizione provvisoria di antisemitismo” [La definizione è stata promossa dall’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, Alleanza per il Ricordo dell’Olocausto] cui aderiscono 31 governi, ndtr.]. Essa venne ideata principalmente perché gli osservatori enti di monitoraggio o europei potessero sapere cosa includere e cosa escludere. In questo modo l’antisemitismo avrebbe potuto essere monitorato in modo migliore nel tempo e tra diversi Paesi.

Non è mai stata pensata come un modo per definire i discorsi d’odio nei campus, ma questo è ciò che ha ottenuto questa settimana il decreto di Donald Trump [L’11 dicembre 2019 Trump ha firmato un decreto che estende l’applicazione del titolo VI della legge sui diritti civili ai casi di antisemitismo., ndtr.].

Questo decreto è un attacco contro la libertà accademica e la libertà di parola e danneggerà non solo i sostenitori dei palestinesi, ma anche gli studenti e i docenti ebrei, e lo stesso mondo academico.

Il problema non è che il decreto protegge gli studenti ebrei in base al titolo VI della legge sui diritti civili [Il titolo VI previene la discriminazione nelle agenzie governative che ricevono fondi federali. Se un’agenzia viola il titolo VI, può perdere i finanziamenti federali, ndtr.]. Il ministero dell’Educazione ha chiarito nel 2010 che in base a queste disposizioni ebrei, sikh e musulmani (in quanto etnie) possono protestare contro intimidazioni, soprusi e discriminazioni. Ho appoggiato questo chiarimento ed ho in seguito presentato una denuncia, che ha dato esito positivo, per studenti ebrei di scuola superiore quando sono stati minacciati e persino percossi (era una giornata “picchia un ebreo”).

Ma a partire dal 2010 gruppi ebraici di destra hanno adottato la “definizione provvisoria”, che presenta alcuni esempi riguardanti Israele (come considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni di Israele e negare il diritto degli ebrei all’autodeterminazione), e hanno deciso di utilizzarla come arma in casi relativi al titolo VI. Mentre alcune denunce riguardavano azioni, per lo più hanno preso di mira chi ha fatto discorsi, testi di programmi di studio e proteste che secondo loro violerebbero la definizione. Avendo perso in tutte queste cause, a quel punto questi stessi gruppi hanno poi chiesto all’università della California di adottare la definizione e di renderla operativa nei suoi campus. Quando ciò è fallito, si sono rivolti al Congresso e, quando questi tentativi si sono arenati, al presidente.

Come hanno chiarito i sostenitori del decreto, ad esempio la Zionist Organization of America [Organizzazione Sionista d’America, ZOA, ndtr.], essi vedono la messa in pratica della definizione come “relativa a molte offese…frequentemente guidate da… Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina], compresi…richiami all’‘Intifada’ [e] la demonizzazione di Israele.” Per quanto io sia in disaccordo con SJP, essi hanno il diritto di fare “appelli”. Questo si chiama libertà di parola.

Se si pensa che ciò non riguardi la repressione del discorso politico, si consideri un parallelo. Non c’è nessuna definizione del razzismo contro i neri che abbia forza di legge quando si prende in considerazione un caso relativo al titolo VI. Se se ne dovesse elaborare una, vi si includerebbe l’opposizione all’ affirmative action [discriminazioni positive, vasta gamma di politiche relative a favorire la presenza di minoranze discriminate in contesti in cui sono sottorappresentate, come ad esempio tra gli studenti universitari, assegnando quote alle persone svantaggiate per questa ragione, ndtr.].? L’opposizione alla rimozione di statue di confederati [in un contesto in cui sono tornati in evidenza i problemi razziali negli USA, sono state avviate campagne per eliminare i simboli che rappresentano la memoria dei confederali che, durante la Guerra Civile, difendevano la conservazione della schiavitù degli afroamericani negli Stati del sud, ndtr.]?

Jared Kushner, il genero e consigliere speciale del presidente, ha scritto sul New York Times che la definizione “stabilisce chiaramente [che] l’antisionismo è antisemitismo.” Sono un sionista. Ma nel campus di un college, in cui l’obiettivo è mettere a confronto le idee, gli antisionisti hanno il diritto di esprimersi liberamente. Sospetto che, se Kushner o io fossimo nati in una famiglia palestinese espulsa nel 1948, avremmo una visione diversa del sionismo e non necessariamente perché denigriamo gli ebrei o pensiamo che cospirino per danneggiare l’umanità. Inoltre c’è un dibattito all’interno della comunità ebraica sul fatto se essere ebreo comporti l’essere sionista. Non so se questa domanda possa essere risolta, ma tutti gli ebrei dovrebbero essere spaventati che il governo stia sostanzialmente definendo la risposta per noi.

Il vero obiettivo del decreto non è far pendere la bilancia a favore di qualche causa basata sul titolo VI, ma piuttosto avere un effetto dissuasivo. ZOA e altri gruppi andranno a caccia di discorsi politici con cui sono in disaccordo e minacceranno di sollevare azioni legali. Temo che ora gli amministratori delle università avranno una forte motivazione a reprimere, o almeno a condannare, discorsi politici per timore di contenziosi. Temo che docenti che potrebbero altrettanto facilmente insegnare la vita degli ebrei nella Polonia del XIX° secolo o l’Israele contemporaneo probabilmente sceglieranno il primo argomento in quanto più sicuro. Temo che gli studenti e i gruppi ebrei filo-israeliani, che giustamente si lamentano quando qualche conferenziere filo-israeliano viene interrotto, verranno accusati di utilizzare strumenti statali per reprimere gli oppositori politici.

L’antisemitismo è un problema reale, ma troppo spesso persone sia di destra che di sinistra chiudono un occhio se una persona ha la “giusta” opinione su Israele. Storicamente l’antisemitismo prospera quando i leader alimentano la facoltà dell’uomo di definire un “noi” e un “loro” e quando l’integrità delle istituzioni e le regole democratiche (quali la libertà di parola) sono sotto attacco.

Invece di propugnare la dissuasione di espressioni che gli ebrei filoisraeliani considerano fastidiose o criticare in modo molto moderato (o non criticare affatto) un presidente che utilizza ripetutamente luoghi comuni antisemiti, perché questi rappresentanti ufficiali delle organizzazioni ebraiche che erano presenti quando Trump ha firmato il decreto non gli hanno ricordato che lo scorso anno, quando ha demonizzato gli immigrati definendoli “invasori”, Robert Bowers è entrato in una sinagoga di Pittsburgh perché credeva che gli ebrei stessero dietro questa “invasione” di gente di colore come parte di un piano per danneggiare i bianchi, ed ha ucciso 11 di noi?

Kenneth Stern è il direttore del Bard Center for the Study of Hate [Centro Bard per lo Studio dell’Odio] ed è l’autore di The Conflict Over the Conflict: The Israel/Palestine Campus Debate [Il conflitto sul conflitto: il dibattito su Israele/Palestina nei campus], di imminente pubblicazione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come dovremmo interpretare la partecipazione di Hamas al funerale del generale iraniano?

Ahmed Al-Burai

11 gennaio 2020 – Middle East Monitor

Il comandante militare iraniano assassinato, Qasem Soleimani, è stato portato al suo ultimo riposo sulle spalle di un’enorme folla che ha riempito le strade di Teheran, la capitale iraniana. Gli oratori hanno salutato il generale come eroe nazionale iraniano e “martire di Gerusalemme”.

È stato Ismail Haniyeh, ex primo ministro palestinese e leader del movimento di resistenza islamica Hamas, a chiamare il generale ucciso “martire di Gerusalemme”. Nel suo discorso agli iraniani che partecipavano al funerale, il leader palestinese ha promesso che i palestinesi seguiranno le orme di Soleimani: “Contrastare il progetto sionista e l’influenza degli Stati Uniti”.

Il suo discorso ha fatto infuriare siriani, iracheni e persino gli attivisti palestinesi, che annoverano l’Iran fra i nemici e considerano il generale defunto il braccio armato che ha gettato nel caos sia l’Iraq che la Siria, uccidendo e cacciando senza pietà milioni di persone.

Eroe nazionale o sostenitore dei tiranni?

Qualcuno ha considerato il discorso di Haniyeh ipocrita e piuttosto offensivo per i sentimenti di milioni di siriani e iracheni, che considerano Soleimani un assassino, sostenitore sia del regime siriano che di quello iracheno nello spietato assassinio della propria gente.

Per loro, Soleimani è persino più sanguinario dell’occupazione israeliana. Sostengono che Israele può anche aver ucciso migliaia di palestinesi ed esiliati milioni, ma i regimi e le milizie sostenuti dall’Iran hanno ucciso centinaia di migliaia di persone ed espulso decine di milioni, torturandone altre decine di migliaia.

Questo gruppo di persone manifesta tolleranza zero nei confronti della glorificazione e venerazione professata da Haniyeh per il generale iraniano, che secondo loro non merita la medaglia di “martire di Gerusalemme” sul petto. Considerano che dargli un tale onore sia una provocazione per i sentimenti di milioni di musulmani e arabi in Nazioni che hanno subito le politiche oppressive del regime iraniano e dei suoi vassalli in Siria, Iraq, Yemen e Libano.

Né il pragmatismo politico, né l’isolamento regionale e internazionale del gruppo di resistenza palestinese danno ai suoi leader la scusa o il diritto di assolvere il generale ucciso, sostengono i critici del discorso di Haniyeh.

All’opposto di questa opinione c’è un gruppo che considera Hamas una fazione apostata, che non ha il diritto di rivendicare l’appartenenza al fronte sunnita. Questo gruppo è guidato da studiosi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, che sono non solo espliciti nel loro antagonismo e animosità nei confronti di Hamas, ma anche nella loro amicizia e vicinanza con Israele.

Altri considerano la mossa di Hamas politicamente ottusa, in quanto irrita le Nazioni sunnite e le sposta da professare simpatia per la causa palestinese a maledirne i rappresentanti, che si sarebbero rivelati persone senza scrupoli con indosso maschere “islamiche”.

Tuttavia, c’è un terzo gruppo che considera i rapporti di Hamas con l’Iran tattici e preventivi, poiché derivano da condizioni senza alternative. Questo gruppo sostiene che la maggior parte dei Paesi sunniti non solo ha abbandonato la causa palestinese, ma è piuttosto coinvolta e complice nelle cospirazioni per liquidarla e negare i diritti dei palestinesi.

Relazioni in prospettiva

Per mettere le cose in prospettiva, dobbiamo tornare indietro nel tempo, agli attacchi dell’11 settembre 2001. All’indomani del discorso di George W. Bush, “O con noi o con i terroristi”, quasi tutti i Paesi che sostenevano il popolo palestinese furono terrorizzati all’idea di essere etichettati come sostenitori del terrorismo, in particolare l’Arabia Saudita, che aveva 19 cittadini tra i dirottatori e gli autori dell’attacco terroristico. Di conseguenza, tutte le organizzazioni di beneficenza che inondavano i territori palestinesi di aiuti umanitari si bloccarono e cessarono tutte le attività. Più tardi, quando Hamas vinse le elezioni del 2006, le cose peggiorarono e l’assedio e il boicottaggio raddoppiarono.

L’unico Paese che non si umiliò né si vergognò di sostenere la causa palestinese fu l’Iran, che continuò ad appoggiare apertamente dal punto di vista finanziario e logistico i gruppi palestinesi. Tuttavia, quando scoppiò la rivoluzione siriana nel marzo 2011, si scatenò un grave conflitto tra Hamas e l’Iran. Hamas considerava la rivolta siriana un’estensione dell’ondata delle “Primavere arabe”, scatenate dalla rivoluzione tunisina dei gelsomini, un’ondata di proteste pubbliche contro le deplorevoli condizioni di vita.

Si disse che la leadership di Hamas esortasse il regime siriano ad arginare le proteste negoziando le richieste del popolo, senza fare ricorso alla violenza. Tuttavia, sia il regime siriano che i suoi principali sostenitori a Teheran considerarono le richieste del popolo come una cospirazione di USA e Israele per rovesciare il regime siriano e distruggere il cosiddetto “asse della resistenza” che raggruppa sciiti iracheni, Siria, Libano e il movimento di resistenza a Gaza.

Questi punti di vista divergenti deteriorarono le relazioni tra Hamas e l’Iran. Alla fine, la leadership di Hamas lasciò la Siria alla fine del 2012 e si trasferì in Qatar. Con l’ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto, l’Iran e il regime siriano pensarono che Hamas si fosse completamente allontanato dalla loro orbita, per trovare una potenza sunnita al Cairo e ad Istanbul che li sostituisse. Da allora le relazioni politiche tra le due parti non sono state particolarmente buone.

Nel maggio 2017, in seguito all’elezione dell’attuale leadership di Hamas, le relazioni sono nuovamente migliorate. Ciò è coinciso con la crisi diplomatica del Qatar, iniziata nel giugno 2017. L’Arabia Saudita ha intrapreso una severa repressione dei sostenitori di Hamas in Arabia Saudita, arrestando decine di medici, ingegneri e commercianti palestinesi in tutto il Paese, con il pretesto del riavvicinamento di Hamas all’Iran, rivale regionale di lunga data di Riyad. Hamas ha affermato che i prigionieri stavano raccogliendo donazioni per enti di beneficenza palestinesi e non erano stati accusati di attentare alla sicurezza.

Matrimonio avventato o collaborazione strategica?

La leadership di Hamas ribadisce pubblicamente che l’Iran è tra i pochi Paesi che hanno continuato a sostenere la resistenza palestinese e che Hamas difenderà gli interessi dell’Iran. Queste dichiarazioni potrebbero aver alimentato i timori dell’Arabia Saudita rispetto alla lealtà di Hamas nei confronti dell’asse iraniano.

Hamas sembra pensare che l’Iran abbia inequivocabilmente sostenuto la causa palestinese, indipendentemente dalle sue motivazioni, e meriti di essere ripagato con fedeltà e gratitudine per il suo sostegno.

Si potrebbe accusare l’Iran di sfruttare Hamas in quanto sunnita, per pubblicizzare la politica non discriminatoria dell’Iran. In un certo senso, l’Iran si presenta come se non sostenesse esclusivamente i gruppi sciiti, ma anche un gruppo sunnita a Gaza, ciò che apparentemente smentirebbe qualsiasi accusa allIran di fanatismo settario sciita.

I leader di Hamas non sono mai stati daccordo con la politica iraniana in Siria o Iraq – politica decisamente catastrofica e gravemente dannosa in misura proporzionale per tutte le parti. Tuttavia non sarebbe politicamente prudente criticare in continuo tale politica, quando è chiaro il punto di vista di base e di principio.

La posizione di Hamas rispetto all’Iran è molto più delicata e complicata di quella turca, che si sta muovendo con equilibrio e una strategia di successo nelle sue relazioni con l’Iran e la Russia.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Nel 2019 Israele ha sparato 347 volte sui pescatori di Gaza

Maureen Clare Murphy

10 gennaio 2020 – The Electronic Intifada

Israele e i suoi leader non provano vergogna di vantarsi per aver commesso crimini di guerra, benché siano sottoposti al controllo del Tribunale penale internazionale.

Più volte l’anno scorso il COGAT, braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana [il COGAT è un’unità del ministero della difesa israeliano che si occupa di coordinare le questioni civili tra il governo di Israele, le forze di difesa israeliane, le organizzazioni internazionali, i diplomatici e l’autorità palestinese, ndtr.], ha annunciato che stava adottando punizioni collettive contro i pescatori palestinesi, ponendo limitazioni all’accesso alle acque costiere di Gaza.

In quattro casi ha proibito del tutto la navigazione ai pescatori di Gaza.

Punizione collettiva

L’anno scorso per venti volte Israele ha annunciato modifiche riguardo l’accesso alle acque costiere di Gaza. Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, ha trattato l’industria della pesca di Gaza come “una leva per esercitare pressioni” sui due milioni di palestinesi che vivono nel territorio sottoposto al blocco economico israeliano dal 2007.

La punizione di una popolazione civile per atti di cui non ha alcuna responsabilità è vietata ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra, che Israele ha ratificato.

Nel corso del 2019 Israele ha imposto restrizioni ai pescatori come punizione collettiva dopo il lancio dal territorio di palloncini incendiari e razzi.

Ma Al Mezan, un’organizzazione per i diritti umani di Gaza [ONG con sede nel campo profughi di Jabalia nell’estremo nord della Striscia di Gaza che difende i diritti socio-culturali ed economici dei palestinesi, ndtr.] afferma che il vero obiettivo delle restrizioni e della violenza di Israele contro i pescatori è la distruzione del settore della pesca.

Tradizionale pietra miliare dell’economia di Gaza, l’industria della pesca si è ridotta negli ultimi anni. Nel 2000 a Gaza erano impiegati nell’industria circa 10.000 palestinesi. Oggi ci sono solo circa 2.000 pescatori che pescano regolarmente.

Nel 2019 Al Mezan ha registrato 351 violazioni contro i pescatori di Gaza.

L’anno scorso si sono verificati 347 casi in cui Israele ha aperto il fuoco contro i pescatori di Gaza, causando 16 feriti.

Nel febbraio dello scorso anno un pescatore, Khaled Saidi, è stato colpito mentre era in mare da numerosi proiettili di metallo rivestiti di gomma e i militari israeliani lo hanno arrestato.

L’ occhio destro di Saidi è stato rimosso in un ospedale israeliano e lui è stato presto rimandato a Gaza. Ma non gli è stato permesso di rientrare in Israele per le cure all’occhio sinistro, anch’esso ferito, nonostante avesse un appuntamento in un ospedale israeliano.

Alla fine si è recato al Cairo per le cure. I medici non sono stati in grado di rimediare alla lesione al suo occhio rimanente.

“Ora la mia condizione economica è inferiore allo zero, non lavoro affatto”, dice il giovane padre in un breve video sulle violazioni di Israele contro i pescatori palestinesi prodotto da Al Mezan.

I pescatori feriti sono [resi] inabili al lavoro, a volte in modo permanente, privando le loro famiglie di un reddito.

Le forze israeliane inoltre inseguono e trattengono i pescatori e le loro navi. L’anno scorso sono stati fermati trentacinque pescatori, tra cui tre minori. Nove degli arrestati si trovano ancora nelle prigioni israeliane.

Al-Mezan sostiene che le forze di occupazione ordinano ai pescatori fermati di togliersi i vestiti e di dirigersi a nuoto nelle acque marine verso le cannoniere israeliane, anche nel gelo invernale. I pescatori fermati dagli israeliani sono sottoposti a umilianti interrogatori e a varie forme di tortura fisica.

In base alla documentazione di Al Mezan, nel 2019 le forze israeliane hanno sequestrato quindici imbarcazioni e ci sono stati 11 casi di danneggiamento alle proprietà dei pescatori.

Violazioni

Secondo l’organizzazione per i diritti le violazioni contro il settore della pesca di Gaza impoveriscono ulteriormente coloro che dipendono da esso e aumentano l’insicurezza alimentare della popolazione in generale.

Al Mezan afferma che gli abusi israeliani nei confronti dei pescatori di Gaza violano anche la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare [UNCLOS, entrata in vigore nel novembre del 1994 e ratificata da 156 Stati più la UE, fissa un regime globale di leggi ed ordinamenti degli oceani e dei mari, e stabilisce norme che disciplinano tutti gli usi delle loro risorse, ndtr.].

L’articolo 3 di tale convenzione stabilisce che “Ogni Stato ha il diritto di stabilire l’estensione del suo territorio marino fino a un limite non superiore a 12 miglia nautiche [22,224 km. ndtr.]”.

Israele attualmente limita [l’accesso] alle acque ai pescatori fino a 6 miglia nautiche al largo della costa settentrionale di Gaza e tra le 9 e le 15 miglia al largo delle sue coste centrali e meridionali. Ai pescatori è proibito l’accesso alle acque di Gaza in un’area di 1,5 miglia situata parallelamente al suo confine settentrionale e in un’area di 1 miglio parallela al suo confine meridionale.

L’articolo 56 della convenzione afferma che uno Stato costiero ha “diritti sovrani allo scopo di esplorare e sfruttare, conservare e gestire le risorse naturali” delle sue acque.

Al Mezan afferma che le parti [contraenti] internazionali hanno la responsabilità legale e morale delle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.

(Traduzione di Aldo Lotta)




Il trauma di mandare da soli i minori di Gaza a farsi curare

Ghada Majadle

9 gennaio 2020 – +972 Magazine

Nel 2019 un maggior numero di genitori di Gaza ha potuto viaggiare coi propri figli per ricevere cure fuori dalla Striscia. Ma i numeri non prendono in considerazione un aspetto cruciale della vicenda.

Secondo le statistiche del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), l’ente militare israeliano responsabile di amministrare l’occupazione e il blocco [di Gaza], nel 2019 un numero inferiore di bambini di Gaza rispetto all’anno precedente è stato separato dai propri genitori quando sono stati curati fuori dalla Striscia. Questo sembra essere un miglioramento, ma ciò che i dati non mostrano sono l’ansia e il trauma inflitti a questi bambini e alle loro famiglie in conseguenza alle restrizioni di movimento da parte di Israele.

Tra ottobre 2018 e luglio 2019 il 21% dei bambini sottoposti a cure fuori dalla Striscia non è stato accompagnato dai genitori, rispetto al dato del 56% tra febbraio e settembre 2018. Pur con questo cambiamento positivo, si tratta di un bambino di Gaza su 5 che ha dovuto essere sottoposto a cure senza aver accanto la madre o il padre.

Il dato, fornito a ‘Phisician for Human Rights Israel (PHRI)’ [Medici per i Diritti Umani, Israele, ndtr.], mostra che nel 2019 sono stati concessi 4.165 permessi a genitori accompagnatori e 5.289 a minori. Tra febbraio e settembre 2018 solo 1.859 permessi sono stati rilasciati a genitori accompagnatori, a fronte di 4.581 permessi per minori.

Le cifre più positive possono aver portato sollievo a molte famiglie di Gaza, ma resta importante parlare di ciò che i numeri nascondono.

I genitori a cui sono stati negati i permessi di accompagnare i propri figli sono stati costretti a mandarli in ospedale accompagnati da parenti o estranei. Queste persone erano tendenzialmente anziane, i cui permessi richiedono un tempo relativamente breve di concessione da parte dell’esercito o che non devono sottoporsi ai controlli di sicurezza. In altri casi, a causa del respingimento delle richieste dei genitori, i minori sono stati privati di cure vitali, a volte anche urgenti.

La politica dell’esercito israeliano dei permessi medici per Gaza non prende in considerazione le conseguenze mentali e fisiche che gravano sui minori che necessitano di cure mediche o sui loro genitori. Questa situazione è evidente nella gestione da parte di PHRI delle richieste di aiuto di genitori palestinesi i cui tentativi di accompagnare i loro figli fuori da Gaza sono stati respinti.

Israele considera il fatto di concedere permessi di uscita per motivi medici come un atto umanitario, poiché non si ritiene in alcun modo in obbligo nei confronti degli abitanti della Striscia di Gaza. Di conseguenza molti genitori palestinesi non dovrebbero insistere sul diritto dei loro figli alla salute, ma accettare con umiltà e gratitudine qualunque cosa Israele sia disposto a concedere loro.

PHRI ha ripetutamente chiesto che le autorità militari attribuiscano maggior importanza a garantire ai minori in ospedale la presenza dei genitori accanto a loro, e che si eviti di mettere potenzialmente a rischio le possibilità di ricovero dei bambini negando ai loro genitori il diritto di accompagnarli. Israele giustifica il respingimento di questi permessi sostenendo che l’approvazione viene garantita ad un altro parente e che il minore raggiunge comunque il centro di cura.

È prevedibile, anche se non meno frustrante, che l’apparato di sicurezza minimizzi le preoccupazioni riguardo alla salute dei palestinesi. Tuttavia è ancor più deludente vedere la comunità medica israeliana acquiescente a questa situazione: si è sostanzialmente arresa ad una realtà in cui i minori vengono separati dai loro genitori quando sono sottoposti a cure mediche – una situazione che può provocare ansietà e grave sofferenza.

La comunità medica si allinea all’opinione prevalente in Israele relativamente all’importanza della presenza dei genitori quando i figli ricevono cure mediche. Questa prospettiva è chiaramente certificata dalle direttive del Ministero della Sanità, che ritiene estremamente scorretto che un bambino si presenti da solo ad una visita medica. Perché, allora, i professionisti del settore medico non parlano di queste direttive e non premono perché i genitori escano liberamente da Gaza?

Ritenendo sufficiente la presenza di un altro membro della famiglia, sia l’esercito che la comunità medica israeliani normalizzano standard di trattamento per i bambini palestinesi di Gaza molto inferiori rispetto a quelli per i bambini israeliani. La discrepanza nasce ed è resa possibile dalla disumanizzazione di lunga data dei palestinesi di Gaza.

Il percorso che le famiglie di Gaza devono affrontare fino a quando i loro figli partono per essere curati – accompagnati dai genitori o da parenti più lontani – è lungo, arduo e carico di una sensazione di non aver alcun controllo su di esso, di paura per il destino dei figli e di un profondo senso di ingiustizia. Ogni genitore che richiede un permesso di accompagnamento attende con inquietudine la risposta dell’esercito. La possibilità di vedere respinto il permesso e, come conseguenza, che il figlio possa perdere l’appuntamento è una preoccupazione sempre presente. Inoltre, se la richiesta non riceve risposta o viene respinta, i genitori dovranno cercare un altro accompagnatore oppure rischiare di ricominciare daccapo il procedimento burocratico.

Molti genitori che si sono rivolti a PHRI nello scorso anno avevano atteso per mesi prima di ricevere un permesso per un parente. Una volta che il minore è partito per le cure insieme a quel parente, i genitori hanno rinnovato la richiesta per sostituire l’accompagnatore, sperando che la risposta potesse arrivare in tempo e permettere loro di raggiungere il figlio. Il più delle volte queste domande non ricevono risposta o vengono nuovamente respinte.

Ogni mese decine di genitori e bambini della Striscia di Gaza passano attraverso questo calvario. Questi minori affrontano la malattia e la sofferenza in contesti a loro sconosciuti, con i genitori che si trovano a ore di distanza, preoccupati e indifesi. Nessun genitore vuole mandare il proprio figlio lontano da casa ad affrontare da solo una malattia, nemmeno accompagnato da un altro parente. Non dobbiamo normalizzare questa dolorosa realtà solo perché si tratta di famiglie palestinesi di Gaza.

Ghada Majadle è la coordinatrice per la libertà di movimento di ‘Phisician for Human Rights- Israel’.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




“Arrestati in qualsiasi momento”: studenti palestinesi nel mirino di Israele

Qassam Muaddi a Ramallah, Cisgiordania occupata

9 gennaio 2020 – Middle East Eye

La recente impennata nelle detenzioni di studenti universitari palestinesi ha riportato alla ribalta un problema di vecchia data

Per la maggior parte degli studenti, voti, esami e coinvolgimento sociale sono le maggiori preoccupazioni della vita universitaria.

Non così per Hadi Tarshah. A 24 anni, il giovane palestinese ha trascorso il semestre scorso in una prigione israeliana, e la sua preoccupazione principale è l’udienza in tribunale a marzo.

Analogamente, Mays Abu Ghosh, a un solo semestre dalla laurea, si sta riprendendo dalle brutali torture subite durante la detenzione israeliana. E un suo compagno di studi, Azmi Nafaa, ha lottato tre anni per ottenere il diploma da dietro le sbarre.

Negli ultimi mesi del 2019, l’occupazione israeliana ha lanciato una delle più aggressive campagne di arresto degli ultimi anni contro gli studenti palestinesi.

Le statistiche dell’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi Addameer dicono che circa 250 studenti universitari palestinesi sono attualmente incarcerati in Israele. Secondo la Campagna per il Diritto all’Educazione della Birzeit University, le forze israeliane hanno detenuto per quattro mesi 30 studenti solamente di quella importante istituzione palestinese.

Dal 2015, quando è nata una violenta ondata di proteste nei territori palestinesi occupati, Israele ha aumentato le politiche repressive contro i palestinesi.

Tuttavia i giovani palestinesi hanno riferito a Middle East Eye che il recente aumento è solo la continuazione di una più vasta politica di repressione israeliana, che criminalizza gli studenti palestinesi che si sono organizzati sin dall’inizio dell’occupazione.

Spezzare il morale

Abdel Munim Masoud, studente di economia di 23 anni, ricorda l’ultima volta che ha visto il suo amico Tarshah in ottobre.

” La sera prima stavamo parlando e ridendo insieme”, ha detto a MEE. “La mattina dopo, ho ricevuto un messaggio sul mio cellulare che diceva che gli occupanti avevano arrestato Hadi all’alba.”

Tarshah ha preso parte al movimento studentesco della Birzeit University da quando vi ha iniziato gli studi. Ad aprile, ha partecipato al dibattito annuale per le elezioni del consiglio studentesco, diventando un protagonista nel movimento studentesco.

“Ci aspettavamo che prima o poi sarebbe stato arrestato”, ha detto Layan Kayed, 25 anni, studente di sociologia e amico di Tarshah. “Ma siamo rimasti sorpresi perché il suo arresto è arrivato in un momento in cui gli arresti erano cessati.”

Il padre di Tarshah ha detto a MEE che le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di famiglia alle 5 del mattino.

“Sono entrati nel palazzo in cui viviamo, sfondando cinque porte prima di entrare brutalmente nel nostro appartamento, con i fucili puntati”, ha detto l’uomo. “Hanno preso Hadi dal suo letto e non gli hanno dato il tempo di vestirsi e nemmeno di mettersi le scarpe. Lo hanno messo su una jeep militare e se ne sono andati.

Ci sono voluti due giorni per la famiglia di Tarshah per scoprire dove si trovasse e sapere che era stato interrogato in un centro di detenzione israeliano noto come il quartiere russo, a Gerusalemme.

“L’occupazione cerca di spezzare il morale dei giovani palestinesi, in particolare di quelli che stanno studiando all’università, al fine di spingerli a lasciare il loro Paese – specialmente quelli che sono politicamente consapevoli e attivi”, ha aggiunto il padre di Tarshah. “Ma Hadi è molto più forte e molto più consapevole”.

Tarshah ha già perso un intero semestre di lezioni, che dovrà recuperare – ma deve anche affrontare la reale possibilità di altre detenzioni, che potrebbero bloccare ulteriormente la sua istruzione.

“Socialmente, è difficile vedere tutti i tuoi amici laurearsi mentre tu resti indietro”, ha spiegato Masoud.

“Alcuni studenti potrebbero avere dei problemi a tornare allo stesso livello di attivismo dopo il rilascio, perché non vogliono perdere un altro semestre” aggiunge Kayed. “Ma ciò non significa che non verranno nuovamente arrestati. Una volta che sei stato arrestato, ti può succedere ancora in qualsiasi momento.”

Non c’è un posto sicuro”

L’arresto più drammatico è avvenuto nel marzo del 2018, quando le forze israeliane in incognito – note anche come mustarabin perché mascherate da palestinesi – sono entrate nel campus di Birzeit per rapire il presidente del consiglio studentesco Omar Kiswani.

“All’inizio ho pensato che fosse una rissa”, ha detto Masoud, che ha assistito al fatto. “Poi hanno estratto le armi e ho capito che erano soldati israeliani, non studenti.”

“La nostra prima reazione è stata quella di precipitarci verso tutti gli ingressi del campus e bloccarli per impedire l’ingresso di altri soldati”, ha detto un compagno testimone oculare, Hazem Aweidat. “Alla fine hanno raggiunto l’ingresso principale, minacciando gli studenti con le armi, sono saliti su un’auto e se ne sono andati con Omar.”

L’arresto di Kiswani in pieno giorno ha attirato molta attenzione sul caso da parte dei media, e Aweidat ha sottolineato che i campus universitari sono da tempo esposti ai raid delle forze di sicurezza israeliane.

“Il campus non è diverso dalle nostre case”, ha detto. “Quando fanno irruzione, proviamo rabbia, ma considerarla un’aberrazione vorrebbe dire dimenticare che ci troviamo in un Paese occupato, dove nessun posto è sicuro.”

La minaccia per gli studenti va oltre le incursioni di soldati in incognito. L’Università Al-Quds nella città di Abu Dis, in Cisgiordania vicino a Gerusalemme, ha subito numerose incursioni delle forze armate israeliane nel campus apertamente in pieno giorno.

Secondo il centro legale dell’università, solo nell’ultimo semestre 25 studenti sono stati arrestati da Israele.

La posizione del campus vicino al muro di separazione israeliano lo rende più esposto alle incursioni, ha detto a MEE un ex membro del consiglio studentesco dell’Università Al Quds, Mohammad Abu Shbak.

“Quando gli studenti manifestano per l’arresto di un compagno, in genere marciano verso il muro”, ha spiegato. “I soldati israeliani allora reprimono la manifestazione, fanno irruzione nel campus sfondando porte e sparando gas lacrimogeni e proiettili rivestiti di gomma”.

Secondo Abu Shbak, entra in gioco un altro fattore: “L’occupazione prende di mira questa università perché è l’unica palestinese nella regione di Gerusalemme. Non vogliono attività studentesche palestinesi in giro per Gerusalemme “.

Abu Shbak ricorda la prima incursione a cui ha assistito:

“Ero nell’ufficio del consiglio studentesco quando ho sentito l’odore di gas lacrimogeni e gente correre presa dal panico. Ci siamo divisi in gruppi; alcuni sono andati a bloccare gli ingressi, altri a evacuare studenti e insegnanti, altri hanno cercato di proteggere auto e autobus per aiutare le persone a tornare a casa,” ha detto. “È durato quasi un’ora prima che i soldati se ne andassero, lasciandosi dietro il caos.”

Ma solo dopo che i soldati israeliani se ne sono andati Abu Shbak ha scoperto che uno dei suoi amici, lo studente del secondo anno Bahjat Radaidah, era stato arrestato.

Di conseguenza, “molte famiglie esitano a mandare i propri figli all’Università Al Quds a causa della sua vicinanza al muro e delle incursioni nel campus da parte degli occupanti”, ha detto Abu Shbak.

Futuro distrutto

Fortunatamente l’amico di Abu Shbak, Radaidah, ha trascorso solo una settimana in prigione. Ma non tutti gli studenti palestinesi che vengono arrestati sono così fortunati.

Azmi Nafaa era uno studente di giurisprudenza di 25 anni presso l’Università Al-Najah, nella città di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale, e gli restava un semestre prima della laurea quando nel novembre del 2015 fu colpito, ferito e arrestato dalle forze israeliane a un posto di blocco nelle vicinanze.

Il tribunale militare israeliano ha prolungato cinque volte senza accusa la sua detenzione – usando la pratica largamente denunciata detta detenzione amministrativa – prima di accusarlo di un presunto attacco ai soldati e condannarlo a 28 anni di prigione.

Azmi ha deciso che avrebbe finito i suoi studi in prigione. Sua madre ha esitato, ma io ho insistito sul fatto che l’occupazione non può fermare la nostra vita “, ha detto a MEE suo padre, Sahel Nafaa.

Per mesi, Sahel ha lottato con le autorità israeliane per mettere suo figlio in condizione di studiare.

“Ho cercato su Facebook notizie di un qualche prigioniero che avesse una laurea in giurisprudenza e che potesse aiutare Azmi a studiare”, ha spiegato.

Quando finalmente ne ho trovato uno nella stessa prigione in cui era trattenuto mio figlio, è iniziata la lotta per inviargli i libri di cui aveva bisogno. L’amministrazione penitenziaria non permetteva l’ingresso di libri e poi si sono rifiutati di farmi visitare Azmi in prigione. Volevano costringermi a smettere di provarci, ma io non l’ho fatto.”

Alla fine dopo tre anni Azmi si è laureato durante la detenzione in Israele.

“Noi, i giovani politicamente impegnati delle università, siamo più avanti e guidiamo la piazza “, ha detto. “Ecco perché l’occupazione ci prende di mira.”

Per Sahel, Israele “mira a distruggere il futuro del popolo palestinese, per questo prende di mira i giovani istruiti, intimidisce le loro famiglie, ci allontana dallo studio.”

Anche Kayed ritiene che la repressione israeliana degli studenti abbia un motivo politico:

“L’occupazione sa che gli studenti sono il settore più attivo e dinamico della società, soprattutto in un momento in cui i partiti politici sono sempre meno efficaci”.

Dal momento che l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – guidata dal partito Fatah del Presidente Mahmoud Abbas – non ha indetto elezioni presidenziali dal 2005, le elezioni del Consiglio studentesco sono state a lungo un barometro complessivo della politica palestinese, specialmente tra la popolazione più giovane.

Sebbene le fazioni politiche studentesche in Palestina siano state storicamente estensioni dei partiti politici, Aweidat pensa che i tempi siano cambiati:

Oggi, in realtà sono i partiti politici ad essere un’estensione del movimento studentesco. Noi giovani universitari politicamente impegnati siamo più avanti e guidiamo la piazza”, ha detto. “Ecco perché l’occupazione ci prende di mira.”

Gli altri studenti che ascoltano Aweidat sono d’accordo e annuiscono, come Kayed, che infine conclude: “Fa tutto parte dell’essere uno studente in Palestina”.

(traduzione di Luciana Galliano)