Palestina. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi (2a parte)

Francesca Merz

20 novembre 2019 Nena News

Dal 1967 al 1993 Israele ha operato per trasformare i contadini e gli artigiani palestinesi in manodopera a basso costo. Dopo gli Accordi di Oslo la finta unione doganale tra Tel Aviv e Ramallah ha prodotto un annichilimento della capacità produttiva e di esportazione palestinese, separando ulteriormente Gaza e Cisgiordania

Israele ha ostacolato lo sviluppo di un’economia palestinese anche in diversi modi: la costruzione delle infrastrutture e il grande progresso magnificato dello Stato israeliano è avvenuta in gran parte su strutture ben precedenti alla stessa creazione dello Stato di Israele. Ma non solo.

In netto contrasto con il potere mandatario britannico – che aveva eseguito o permesso a soggetti privati di realizzare una serie di progetti di sviluppo, il porto marittimo di Haifa, l’aeroporto di Lydda (oggi Ben Gurion) e diverse linee ferroviarie, che svolsero un ruolo cruciale nella successiva crescita economica della Palestina, e poi di Israele – il regime militare instaurato da Israele come potenza colonizzatrice e occupante, non solo si astenne dall’investire i propri fondi nelle infrastrutture civili necessarie allo sviluppo economico nei Territori Occupati, ma impedì anche ad altri di farlo.

La decisione iniziale israeliana di consentire il libero passaggio delle frontiere a lavoratori non sindacalizzati, forza lavoro a basso costo e senza alcun diritto ma necessaria per la creazione dello Stato di Israele, e la costruzione delle sue case e infrastrutture, svolse una funzione di cui Israele era ben consapevole e che agevolò sotto le mentite spoglie di “aiuto alla popolazione palestinese e tentativo di convivenza” la totale erosione della capacità produttiva della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

La domanda israeliana di manodopera non qualificata non solo condizionò i singoli lavoratori, ma ebbe anche effetti nocivi a lungo termine sull’economia palestinese, poiché la diffusione di lavoro non qualificato contribuì a far stagnare le condizioni economiche di sottosviluppo nei Territori Occupati e ostacolò il processo di professionalizzazione.

Il numero crescente di palestinesi che entravano in Israele per trovare lavoro portò anche a un calo notevole del numero di lavoratori che restarono nei territori a coltivare la terra palestinese. Il fatto di non coltivare più terra fu aggravato dalle quote fisse di acqua, stabilite nei primi anni Settanta e non cambiate per più di dieci anni, e dal fatto che gli agricoltori palestinesi pagavano per l’acqua quattro volte di più degli agricoltori israeliani.

Neve Gordon nel suo testo L’occupazione israeliana sottolinea quelli che vengono definiti errori di Israele nel tentativo di normalizzazione dell’occupazione: nel corso degli anni Settanta Israele permise ai palestinesi di aprire diverse Università nel tentativo di normalizzare l’occupazione. In un periodo relativamente breve queste università produssero una classe professionale piuttosto numerosa composta da laureati.

Tuttavia, a causa di una serie di restrizioni e di vincoli imposti all’economia palestinese, l’industria e il settore dei servizi non potevano svilupparsi e le opportunità di lavoro aperte ai professionisti palestinesi all’interno dei Territori Occupati erano molto limitate. Di conseguenza, molti dei laureati non riuscivano a trovare lavori che riflettevano o impiegavano le loro competenze. Questa frustrazione rappresentò una importante forza di opposizione allo scoppio della prima intifada.

“L’esperienza lavorativa in Israele unita alla realtà della loro vita quotidiana nei Territori Occupati, produsse tra i lavoratori la comune consapevolezza di essere sfruttati e di essere destinati a restare, secondo il sistema economico corrente, in fondo alla scala economica israeliana”. Come nota Neve Gordon, “la mancanza di posti di lavoro nei Territori Occupati era compensata dalle opportunità di occupazione in Israele e si può supporre che Israele abbia ostacolato intenzionalmente lo sviluppo di un’industria indipendente palestinese al fine di mantenere un’offerta costante di manodopera a basso costo”.

Alla vigilia degli Accordi di Oslo (1993), subito prima che la responsabilità delle infrastrutture passasse dalle mani di Israele all’Autorità Palestinese, il 5% dei residenti di Gaza e circa il 26% degli abitanti delle aree rurali in Cisgiordania non avevano accesso all’acqua corrente, a Gaza il 38% della popolazione non aveva accesso al sistema fognario e solo il 69% della popolazione rurale della Cisgiordania aveva accesso all’elettricità per ventiquattrore al giorno.

Dopo più di due decenni e mezzo di occupazione israeliana, dei territori palestinesi solo il 9% della popolazione rurale della Cisgiordania aveva accesso per ventiquattro ore al giorno all’elettricità, alla rete idrica, ai servizi di smaltimento dei rifiuti e alla rete di scarico fognario, considerati primari in Israele anche prima del 1967.

La mancanza di investimenti in infrastrutture serviva a sottolineare il loro stato di popolazione oppressa; invece di costruire nuove aule per affrontare i bisogni crescenti della popolazione, Israele impose un orario di lezione a doppio turno. Il 50% degli studenti di Gaza e della Cisgiordania abbandonava la scuola prima di aver raggiunto la nona classe e non è un caso che, di fatto, nel 1986 gli studenti che avevano abbandonato la scuola costituivano il 40% del totale degli operai palestinesi in Israele.

L’induzione sistematica a lasciare la scuola e la creazione di condizioni insostenibili per studenti ed insegnanti rientrò perfettamente nella strategia per garantire forza lavoro sempre giovane e disponibile e per impoverire culturalmente un popolo che, in assenza di possibilità di accedere all’istruzione, sarebbe certamente diventato più facilmente soggiogabile sia dal punto di vista politico che economico.

L’economia palestinese subì una drastica contrazione dopo il passaggio dell’autorità all’Anp. Negli anni di Oslo Israele impose una politica della chiusura, lo Stato israeliano era ormai forte e costruito, non aveva più così tanto bisogno della manodopera palestinese a basso costo, altra manodopera fu richiamata da paesi come l’Eritrea e le Filippine. Oltre agli effetti diretti sulla forza lavoro, la politica della chiusura ostacolò anche le esportazioni palestinesi in Israele e in altri paesi, infliggendo un colpo mortale alle esportazioni agricole più redditizie, come per esempio i fiori (presenti in abbondanza sul mercato palestinese ben prima della nascita della narrazione israeliana sui fiori nel deserto – vedi articolo I fiori del deserto), e alle nuove fabbriche create dopo il primo fatuo buon umore economico scaturito da Oslo, che producevano beni destinati ai mercati europei.

I nuovi industriali palestinesi non poterono impegnarsi a fornire le merci con puntualità e i contratti che avevano firmato con le aziende e i mercati esteri furono presto annullati. La politica della chiusura creò anche una separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, riducendo in misura notevole il commercio tra le due regioni e danneggiando l’agricoltura e l’industria impedendo ai palestinesi di sfruttare i rispettivi vantaggi di ogni area. Mentre prima dell’imposizione delle chiusure circa il 50% delle merci prodotte a Gaza era commercializzato in Cisgiordania, nel 1995 questa cifra ammontava al solo 8%. Israele inoltre continuò a controllare il flusso di cassa dell’Anp in modo diretto, bloccandone di fatto gli introiti doganali.

La coercizione e l’imbrigliamento di ogni possibilità di sviluppo economico per la Palestina furono spesso attuate a colpi di ordinanze militari: l’ordinanza militare 363 (dicembre 1969) impose rigide limitazioni all’uso agricolo e pascolativo della terra nelle zone qualificate come riserve naturali. Anche se dichiarare la terra riserva naturale era una misura apparentemente concepita per proteggere l’ambiente, fu ritenuta dalle autorità parte integrante del programma di confisca della terra ed è attualmente una delle principali strategie utilizzate dallo Stato israeliano, nel 1985 erano già stati dichiarati appartenenti a riserve naturali 250mila dunam, circa il 5% del territorio.

La scusa delle riserve naturali e di parchi pubblici, del verde cittadino, è tristemente usata anche attualmente per coprire ben altri intenti, e come sempre salutato dalla comunità internazionale come un segnale di riqualificazione degli spazi e delle periferie degradate.

Dall’occupazione del 1967 e fino alla firma degli Accordi di Oslo, il regime commerciale de facto tra palestinesi e israeliani era paragonabile all’unione doganale. In teoria, l’unione doganale è un accordo commerciale in cui i Paesi coinvolti permettono la libera circolazione delle merci tra loro e concordano una comune tariffa doganale per le importazioni da altri Paesi. Tuttavia, nella relazione di “unità doganale” tra Israele e l’Autorità Palestinese, entrambi applicano la politica commerciale di Israele, cioè le tariffe doganali e altri regolamenti di Israele tranne che per pochi, specifici beni. In altre parole, il Protocollo di Parigi ha formalizzato un’unione doganale in cui la politica commerciale di Israele viene imposta a Cisgiordania e Gaza.

Il prodotto interno lordo dei Territori Occupati (in dollari) ammontava, nel 2016, a 13.397 miliardi, una percentuale minima, circa il 4,2%, di quello di Israele. Il fatto che il protocollo di Parigi non abbia tenuto conto del divario tra le due economie è un grosso problema, visto che la struttura tariffaria che sarebbe stata necessaria per tentare di ricostruire un’economia palestinese indebolita era molto diversa da quella adatta a un’economia industrializzata come quella di Israele. Quindi, anche se l’unione doganale fosse stata applicata alla perfezione, come stabilito dal protocollo, avrebbe avuto un impatto negativo sull’economia palestinese, dato che non risponde ai suoi bisogni.

L’applicazione contraddittoria e a senso unico dell’unione doganale da parte di Israele ha solo peggiorato le cose. Sulla carta, il Protocollo di Parigi ha consentito la circolazione di beni agricoli e industriali tra le due parti e ha permesso ai palestinesi di avere legami commerciali diretti con altri Paesi. Tuttavia, in violazione del Protocollo di Parigi, a partire dagli anni ‘90 Israele ha imposto restrizioni alla circolazione dei beni tra Israele e i Territori: i beni, cioè, potevano circolare liberamente da Israele verso i Territori, ma non viceversa.

Israele ha anche imposto restrizioni alla circolazione di beni all’interno dei Territori Occupati. Dal 1997 ha tentato di isolare la Striscia di Gaza dalla Cisgiordania e l’assedio israeliano decennale su Gaza ha ulteriormente ostacolato le relazioni commerciali tra le due aree. Le politiche israeliane di chiusura hanno distrutto anche le relazioni commerciali all’interno della Cisgiordania. La conseguente frammentazione del sistema economico dei Territori in piccoli mercati disconnessi tra loro ha incrementato i tempi e i costi di trasporto dei beni da una zona all’altra della Cisgiordania.

Inoltre, le politiche di chiusura imposte da Israele e alcuni ostacoli tariffari hanno pesantemente ridotto il commercio con l’estero. Alcuni esempi di tali misure: non riconoscimento da parte di Israele delle certificazioni palestinesi, tempi lunghi per le verifiche di conformità e lista dei “beni a duplice uso”, beni cioè che, secondo Israele, possono essere utilizzati sia per scopi militari che per scopi civili, e che sono quindi vietati o soggetti a interminabili procedure di sicurezza. Questi provvedimenti israeliani violano il Protocollo, che riconosce all’import/export palestinese un trattamento pari a quello dell’import/export israeliano.

Di conseguenza, i Territori Occupati sono diventati un mercato vincolato per le esportazioni da Israele. Secondo un report del 2016 della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad), Israele ha recentemente beneficiato dell’85% dell’export palestinese e “rappresenta oltre il 70%” dell’import palestinese. I Territori Occupati rappresentano, invece, solo il 3% degli scambi commerciali israeliani”.




PALESTINA.Economia e occupazione:dal Protocollo diParigi ad oggi(Iparte)

Francesca Merz

18 novembre 2019 Nena News

Nel 1994 l’Olp e Israele firmarono il “Protocollo di Parigi” che formalizzava le relazioni economiche per cinque anni tra Tel Aviv e la nascente Autorità Palestinese. L’intesa è però ancora operativa e sancisce di fatto il controllo totale israeliano dell’economia palestinese

Che ogni forma di controllo e repressione, e che ogni forma di colonialismo, aldilà della forza e della violenza, veda la sua espressione più fondamentale negli strumenti di controllo economico, è cosa quanto mai risaputa nonché banale. Questo principio vale ovviamente anche per l’occupazione israeliana della Palestina. Per capire con maggiore consapevolezza quelle che sono le strategie economiche sulla quale si basa questo rapporto tra colonizzati e colonizzatori, e soprattutto per non ricadere nel solito luogo comune secondo il quale gli israeliani sono riusciti a fare miracoli in una terra in cui invece i palestinesi non avevano fatto nulla, bisogna partire dalla morsa mortale del Protocollo di Parigi.

Nel 1994, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il governo di Israele firmarono il Protocollo di Parigi, che era collegato agli Accordi del Cairo e Oslo II. Tale protocollo stabiliva un “accordo contrattuale” volto a formalizzare le relazioni economiche, prima stabilite unilateralmente da Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per un periodo transitorio di 5 anni. Nonostante tale termine sia scaduto da molti anni, il protocollo continua tutt’ora a costituire la base delle relazioni economiche tra le due parti, ed è il quadro di riferimento principale per la condotta economica, monetaria e fiscale dell’Autorità Palestinese.

Il protocollo contiene 11 articoli: due fanno riferimento all’ambito di applicazione, al quadro generale e a un comitato economico congiunto; gli altri nove si riferiscono a commercio, tassazione, importazioni, attività bancarie, organizzazione del lavoro, nonché alle politiche relative ai settori agricolo, industriale e turistico. La scelta dell’unione doganale invece di una zona di libero scambio, come inizialmente chiesto dai palestinesi, non era dettata sostanzialmente dagli interessi economici di Israele, ma piuttosto dall’interesse politico a mantenere una “no-state solution”. Come fa notare Amal Ahmad, l’unione doganale non prevede la delimitazione delle frontiere, né la loro eliminazione, o integrazione. Ciò ha permesso a Israele di rimandare del tutto la questione dei confini, mantenendoli provvisoriamente mentre procede con la colonizzazione e l’isolamento dei Territori Occupati.

Un’analisi di fondamentale importanza sul valore economico dell’occupazione, è stata fatta da Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, Gordon ci aiuta a capire come questa situazione sia stata costruita a tavolino negli anni dagli occupanti israeliani. “Quando si confronta il primo decennio di occupazione con quelli successivi, la caratteristica che emerge come quasi del tutto unica è il tentativo israeliano di gestire la popolazione palestinese mediante la promozione della prosperità. Furono introdotte una serie di pratiche per incrementare l’utilità economica degli abitanti palestinesi, sia per imbrigliare le energie della società palestinese a vantaggio degli interessi economici di Israele, sia anche per elevare il tenore di vita nei Territori Occupati, per agevolare la normalizzazione dell’occupazione. Date tali premesse non sorprende affatto che già durante la guerra Israele fornisse dei servizi agli agricoltori palestinesi per salvare le colture e per impedire la morte del bestiame, anche al fine di monitorare e prevenire la diffusione di epidemie tra il bestiame, suo interesse diretto. Aumentò dunque la produttività degli allevatori palestinesi” .

“Israele – aggiunge Gordon – usò il Dipartimento di ricerca della Banca d’Israele e l’Ufficio centrale di statistica per tenere sotto costante osservazione la forza lavoro palestinese. Si trovano tabelle che descrivono l’età e il sesso degli operai, il numero dei lavoratori in base alla loro occupazione e al settore in cui lavoravano, il numero delle imprese locali, nonché la loro dimensione e ubicazione, il tutto per ridurre il tasso di disoccupazione che il governo militare considerava come causa potenziale di disordini sociali. Nel 1974 in Israele lavoravano 64.900 palestinesi, che costituivano un terzo della forza lavoro. I palestinesi che lavoravano in Israele guadagnavano dal 10 al 100% in più di quanto avrebbero guadagnato lavorando nei territori. Israele aveva già iniziato la sua operazione perfetta di demolizione di ogni possibilità di economia autonoma per la Palestina. Il paniere palestinese aumentava, così come la capacità di acquisto dei palestinesi che vivevano nei territori, facendo aumentare esponenzialmente la produttività in Israele, e lasciando, gioco forza, le terre incolte e tutte le attività nei Territori al totale abbandono, per ostacolare lo sviluppo di un’economia indipendente palestinese.”

Ben prima della firma del Protocollo di Parigi, la chiarezza del rapporto di colonialismo spinto che sottendeva alle relazioni tra israeliani e palestinesi è verificabile dall’infinita serie di ordinanze militari che venivano emanate dallo Stato occupante per regimentare l’economia palestinese eliminando ogni possibilità di autonomia, e trasformando anzi l’economia palestinese in un mercato totalmente vincolato dai produttori israeliani, togliendo ogni possibilità di produzione ai palestinesi. La strategia era quella della creazione invece dei consumatori necessariamente dipendenti dalla produzione israeliana, che gli stessi palestinesi erano costretti a produrre ma in territorio occupato, un vero e proprio sistema di schiavitù economica. Israele inoltre spingeva gli abitanti palestinesi a diventare operai non specializzati così da indirizzare l’utilità economica dei palestinesi in modo ben precisoL’esercito introdusse molteplici norme e restrizioni espressamente mirate a modellare l’economia sotto occupazione secondo gli interessi israeliani.

Una delle prime azioni intraprese dopo la guerra del ‘67 fu la chiusura degli istituti finanziari e monetari arabi, tra i quali tutte le banche, e il conferimento dell’autorità su tutte le questioni monetarie alla Banca d’Israele. La valuta israeliana divenne la moneta legale e nelle due regioni furono applicati i controlli dei cambi israeliani. Come abbiamo già avuto modo di dire, Israele, nello stesso periodo in cui assumeva il controllo di tutte le istituzioni finanziarie e imponeva norme monetarie, aiutava i palestinesi a piantare migliaia di alberi da frutto, offriva ai coltivatori semi migliorati per gli ortaggi e addestrava gli agricoltori alle tecnologie moderne con corsi specifici, non abbiamo però accennato al fatto che cominciava anche a controllare i tipi di frutta e di ortaggi che si potevano piantare e diffondere e introduceva una serie di norme di pianificazione che stabilivano dove si potessero e soprattutto non si potessero piantare. Anche se le restrizioni alla semina sono comuni anche in altri paesi, gli obiettivi di quelle imposte nei Territori Occupati erano quelle di creare dipendenza dall’economia israeliana, minare lo sviluppo e l’indipendenza, e, come vedremo, agevolare la confisca di terre, grazie alla resurrezione di vecchie leggi addirittura dell’impero Ottomano.

Israele limitò la bonifica dei terreni finalizzata a renderli coltivabili, restrinse anche l’accesso della popolazione alla terra e all’acqua, espropriando, fino al 1987, non meno del 40% delle terre e impossessandosi delle principali risorse idriche. Nello stesso tempo rese illegale piantare nuovi alberi di agrumi, sostituire quelli vecchi improduttivi o piantare altri alberi da frutto senza permesso, per la cui approvazione occorrevano dai cinque ai sei anni. Molti generi di frutta e di ortaggi che gli agricoltori palestinesi erano autorizzati a coltivare non potevano essere venduti in Israele, misura tesa a proteggere i produttori israeliani. Per contro, gli agricoltori israeliani avevano accesso illimitato ai mercati dei Territori Occupati e riuscivano a fornire alcuni prodotti a prezzi con cui le controparti palestinesi non potevano competere, portando a una riduzione nella varietà dei prodotti agricoli coltivati nei Territori, e l’assurda situazione per cui i prezzi di alcuni generi erano più alti nei Territori Occupati che in Israele. La strategia nel settore industriale fu analoga a quella usata in agricoltura. Inizialmente Israele fornì un certo sostegno all’industria perché le autorità militari ritenevano che la disoccupazione potesse destabilizzare i Territori Occupati, furono dunque concessi inizialmente piccoli crediti alle fabbriche esistenti così che potessero svilupparsi e dotarsi di nuove attrezzature. L’assenza di istituti finanziari intermediari, di banche per lo sviluppo e di fonti di credito di vario tipo ostacolò lo sviluppo industriale, nello stesso tempo Israele introdusse una serie di restrizioni tese a contrastare lo sviluppo di un’industria ad alta densità di capitale. Gli aiuti governativi sotto forma di agevolazioni fiscali, sovvenzioni all’esportazione, credito agevolato e obbligazioni di sicurezza non furono estesi ai palestinesi.

Le ordinanze militari poi controllavano anche tutto il commercio estero, Israele inserì un complesso sistema di procedure di certificazione sulle merci che ebbero l’ulteriore risultato di separare commercialmente la Palestina anche dai paesi arabi confinanti. “Israele – osserva Gordon – impose inoltre delle limitazioni al tipo e alla quantità di materie prime che si potevano importare nei Territori Occupati. I palestinesi divennero ben presto dipendenti da Israele per l’elettricità, i carburanti, il gas e le comunicazioni. Lo stesso fu per i generi di prima necessità come la farina, il riso, lo zucchero. Israele richiedeva delle licenze per tutte le attività industriali e, eliminando nel frattempo ogni concorrenza palestinese, usò tali licenze per ristrutturare le industrie in base alle sue necessità. Così, mentre si concedevano licenze alle aziende tessili che fornivano dei servizi ai produttori israeliani le si negavano quelle per la produzione della frutta, poiché potevano essere potenziali concorrenti ai produttori israeliani. In altre parole, la creazione di imprese sussidiarie a forte tasso di manodopera e l’esternalizzazione del lavoro a forte tasso di manodopera nelle fabbriche palestinesi fu la fonte principale di investimento industriale israeliano all’interno dell’economia palestinese.”

“Israele inoltre – continua Gordon – emanò numerose ordinanze riguardanti la registrazione delle società, i marchi d’impresa e i nomi commerciali; stabilì le condizioni di commercio, la tipologia e l’importo di tasse, dazi e imposte doganali da pagare; e impose una serie di tributi ai produttori palestinesi, i quali finirono col pagare fra il 35 e il 40 per cento in più di tasse rispetto ai produttori israeliani, va ricordato che un’ampia percentuale di quelle tasse non venne reinvestita nei Territori, ma trasferita direttamente nelle casse israeliane. Secondo alcune stime, queste politiche privarono i Territori Occupati di entrate doganali rilevanti, valutate tra circa 118 e 176 milioni di dollari nel solo 1986. Il mancato gettito complessivo nel periodo 1970-1987 oscillerebbe tra una stima minima di 6 miliardi di dollari e una massima di 11 miliardi di dollari, in teoria questi soldi avrebbero potuto essere investiti nella creazione di un’industria indipendente.




Come le tecnologie dello spionaggio israeliano penetrano in modo molto intrusivo nelle nostre vite

Jonathan Cook

 

Martedì 26 novembre 2019 – Middle East Eye

Israele normalizza nei Paesi occidentali l’uso di tecnologie invasive e oppressive di cui i palestinesi sono vittime da decine di anni

Le armi dell’era digitale sviluppate da Israele per opprimere i palestinesi sono rapidamente riutilizzate in un campo di applicazione molto più ampio, e ciò contro le popolazioni occidentali che considerano tuttavia le loro libertà come acquisite.

Se a Israele già da parecchi anni è stato concesso lo status di “Nazione delle start up”, la sua reputazione nel campo delle innovazioni di tecnologia avanzata si è sempre basata su un aspetto oscuro che è vieppiù difficile nascondere.

Qualche anno fa l’analista israeliano Jeff Halper avvertì che Israele aveva giocato un ruolo centrale sulla scena internazionale nella fusione tra le nuove tecnologie digitali e dell’industria della sicurezza interna. Secondo lui il pericolo era che saremmo tutti quanti diventati progressivamente dei palestinesi.

Egli notava che Israele ha effettivamente trattato milioni di palestinesi sottoposti al suo regime militare come delle cavie in laboratori a cielo aperto – e ciò senza doverne rendere conto. I territori palestinesi occupati sono serviti come banco di prova per la messa a punto non solo dei nuovi sistemi d’arma convenzionali, ma anche di nuovi strumenti per la sorveglianza ed il controllo di massa.

Come ha recentemente osservato un giornalista di Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], l’operazione di sorveglianza condotta da Israele contro i palestinesi figura “tra le più vaste di questo tipo al mondo. Include la sorveglianza dei media, delle reti sociali e della popolazione nel suo insieme.”

 

Il Grande Fratello fa affari

Tuttavia quello che è iniziato nei territori occupati non doveva affatto essere limitato alla Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza. C’erano semplicemente troppo denaro e influenza da guadagnare commercializzando queste nuove forme ibride di tecnologia digitale offensiva.

Per quanto piccolo sia, Israele è da molto tempo uno dei leader mondiali sul mercato estremamente lucrativo degli armamenti e vende a regimi autoritari i suoi sistemi d’arma “testati sul campo di battaglia”, cioè sui palestinesi.

Ora, questo commercio di materiale militare è sempre più eclissato dal mercato dei programmi digitali bellici, cioè gli strumenti che servono a condurre guerre informatiche.

Queste armi di nuova generazione sono molto richieste dagli Stati, che possono utilizzarle non solo contro nemici esterni, ma anche contro dissidenti interni, che siano difensori dei diritti umani o semplici cittadini. Israele può presentarsi a giusto titolo come un’autorità mondiale in questa materia, nella misura in cui controlla ed opprime le popolazioni che vivono sotto il suo dominio. Ma il Paese ha fatto attenzione a non lasciare le sue impronte digitali su gran parte di questa nuova tecnologia degna del Grande Fratello, scegliendo di esternalizzare lo sviluppo di questi strumenti informatici affidandoli agli ufficiali di alto rango delle sue tristemente celebri unità per la sicurezza e l’intelligence militare.

Tuttavia Israele approva implicitamente queste attività fornendo licenze d’esportazione alle imprese che le gestiscono. D’altro canto i maggiori responsabili della sicurezza del Paese sono spesso strettamente legati al lavoro di queste aziende.

 

Tensioni con la Silicon Valley

Una volta smessa l’uniforme, questi israeliani possono trarre profitto dai loro anni d’esperienza nel campo dello spionaggio a danno dei palestinesi, creando società il cui obiettivo è sviluppare dei programmi informatici per delle applicazioni più generali.

Queste app, che utilizzano una tecnologia di sorveglianza sofisticata di origine israeliana, sono sempre più frequenti nelle nostre vite digitali. Alcune sono state utilizzate in modo relativamente innocuo. “Waze”, che sorveglia gli ingorghi del traffico, permette ai conducenti di raggiungere la propria destinazione più rapidamente, mentre “Gett” attraverso il loro telefono mette i clienti in contatto con i taxi che si trovano nei dintorni.

Ma alcune delle tecnologie più segrete prodotte dagli sviluppatori israeliani rimangono molto più vicine al loro format militare originario.

Questi programmi offensivi sono venduti ai Paesi che desiderano spiare i loro stessi cittadini o Stati nemici, come anche a società private che sperano così di conquistarsi un notevole vantaggio sui concorrenti o di manipolare e sfruttare meglio dal punto di vista commerciale i loro clienti.

Una volta integrati nelle piattaforme delle reti sociali, che contano miliardi di utenti, questi programmi spionistici offrono ai servizi statali della sicurezza un raggio d’azione potenziale quasi universale. Ciò implica una relazione a volte tesa tra le società israeliane e la Silicon Valley [centro di ideazione e produzione delle innovazioni digitali negli USA, ndtr.], con quest’ultima che lotta per prendere il controllo di questi programmi “malintenzionati” – come dimostrano due esempi diversi dell’attualità recente.

 

“Sistema di spionaggio” per telefonini

Indice di queste tensioni, WhatsApp, una piattaforma di reti sociali appartenente a Facebook, molto di recente ha intentato il primo processo di questo tipo davanti a un tribunale californiano contro NSO, la più grande impresa di sorveglianza israeliana.

WhatsApp accusa NSO di attacchi informatici. Nel lasso di tempo di sole due settimane fino all’inizio di maggio esaminato da WhatsApp, NSO avrebbe preso di mira i telefonini di più di 1.400 utenti in 20 Paesi.

Il programma di spionaggio digitale di NSO, chiamato “Pegasus”, è stato utilizzato contro difensori dei diritti umani, avvocati, responsabili religiosi, giornalisti e operatori umanitari. La Reuter [agenzia di stampa inglese, ndtr.] ha rivelato alla fine di ottobre che alti responsabili di Paesi alleati degli Stati Uniti sarebbero stati anche loro presi di mira da NSO.

Dopo aver preso il controllo del telefono di un utente a sua insaputa, “Pegasus” ne copia i dati e attiva il microfono dell’apparecchio al fine di controllarlo. La rivista “Forbes” [rivista USA di economia, ndtr.] lo ha descritto come “il sistema di spionaggio mobile più invasivo al mondo”.

NSO ha concesso la licenza di utilizzazione del programma a decine di governi, in particolare a regimi noti per le violazioni dei diritti umani come l’Arabia Saudita, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Kazakistan, il Messico e il Marocco. Amnesty International si è lamentata che i suoi funzionari figurano tra le persone prese di mira dal programma spia di NSO. L’Ong per la difesa dei diritti dell’uomo attualmente sostiene un’azione legale contro il governo israeliano perché ha concesso alla società una licenza d’esportazione.

 

Rapporti con i servizi di sicurezza israeliani

NSO è stata fondata nel 2010 da Omri Lavie e Shalev Hulio, entrambi ufficiali della famosa Unità 8200 di intelligence militare israeliana. Nel 2014 degli informatori che hanno lanciato l’allarme hanno rivelato che l’unità spiava regolarmente i palestinesi, cercando nei loro telefoni e computer delle prove di comportamenti sessuali devianti, di problemi di salute o di difficoltà finanziarie che potevano essere utilizzate per spingerli a collaborare con le autorità militari israeliane.

I soldati hanno scritto che i palestinesi erano “totalmente esposti allo spionaggio e alla sorveglianza dei servizi di intelligence israeliani. Questi sono utilizzati per perseguitare gli avversari politici e per creare divisioni all’interno della società palestinese reclutando collaboratori e spingendo le diverse componenti della società palestinese le une contro le altre.”

Benché le autorità abbiano concesso a NSO delle licenze d’esportazione, Ze’ev Elkin [del partito di destra Likud, ndtr.], ministro israeliano per la Protezione dell’Ambiente, per Gerusalemme e per l’Integrazione, ha negato “il coinvolgimento del governo israeliano” nello spionaggio di WhatsApp. “Tutti capiscono che non si tratta dello Stato d’Israele,” ha dichiarato a una radio israeliana all’inizio di novembre.

 

Inseguiti dalle telecamere

La settimana in cui WhatsApp ha lanciato la sua azione legale, la catena televisiva americana NBC ha rivelato che la Silicon Valley intende comunque lavorare con delle start-up israeliane profondamente coinvolte negli abusi legati all’occupazione.

Microsoft ha investito parecchio in AnyVision, una società che sviluppa una sofisticata tecnologia di riconoscimento facciale usata dall’esercito israeliano per opprimere i palestinesi.

I rapporti tra AnyVision e i servizi di sicurezza israeliani sono a malapena nascosti. Il consiglio consultivo della società conta tra i suoi membri Tamir Pardo, ex-capo del Mossad, l’agenzia di spionaggio israeliana. Il suo presidente, Amir Kain, era in precedenza alla testa del “Malmab”, il dipartimento del ministero della Difesa israeliano incaricato della sicurezza.

Il principale programma di AnyVision, “Better Tomorrow” [Futuro Migliore], è stato soprannominato “Google dell’Occupazione”, perché la società sostiene che può identificare e seguire qualunque palestinese grazie alle immagini prodotte dalla vasta rete di telecamere di sorveglianza sistemate dall’esercito israeliano nei territori occupati.

A dispetto degli evidenti problemi etici, l’investimento di Microsoft suggerisce che il suo obiettivo potrebbe essere integrare questo programma all’interno dei suoi. Ciò ha provocato viva preoccupazione tra i gruppi di difesa dei diritti umani.

Shankar Narayan, dell’American Civil Liberties Union [ACLU, ong Usa per la difesa dei diritti e delle libertà individuali, ndtr.], ha messo in guardia in particolare contro un avvenire fin troppo familiare ai palestinesi che vivono sotto il controllo di Israele: “L’uso generalizzato della sorveglianza facciale sovverte il principio di libertà e genera una società in cui tutti sono seguiti in continuazione, indipendentemente da quello che fanno,” ha dichiarato alla NBC.

“Il riconoscimento facciale è forse lo strumento più perfetto per il controllo totale del governo nei luoghi pubblici.”

Secondo Yael Berda, ricercatore dell’università di Harvard, Israele dispone di una lista di circa 200.000 palestinesi in Cisgiordania che desidera sorvegliare 24 ore al giorno. Le tecnologie come AvyVision sono considerate essenziali per mantenere questo vasto gruppo sotto una sorveglianza continua.

Un ex dipendente di AvyVision ha dichiarato alla NBC che i palestinesi sono stati trattati come cavie. “La tecnologia è stata testata sul terreno in uno dei contesti della sicurezza più esigenti al mondo, e ora noi la utilizziamo sul resto del mercato,” ha dichiarato.

Il 15 novembre Microsoft ha annunciato il lancio di un’indagine sulle accuse secondo cui la tecnologia di riconoscimento facciale messa a punto da AnyVision violerebbe il suo codice etico a causa del suo utilizzo in operazioni di sorveglianza nella Cisgiordania occupata.

 

Interferenza nelle elezioni

Utilizzare queste tecnologie di spionaggio negli Stati Uniti e in Europa interessa sempre di più il governo israeliano stesso, nella misura in cui l’occupazione dei territori palestinesi è ormai oggetto di una polemica e di un controllo minuzioso nel discorso politico prevalente.

In gran Bretagna i cambiamenti di clima politico sono stati messi in evidenza dall’elezione alla testa del partito Laburista di Jeremy Corbyn, militante di lunga data per i diritti dei palestinesi. Negli Stati Uniti un piccolo gruppo di parlamentari che appoggiano in modo palese la causa palestinese ha di recente fatto il suo ingresso al Congresso, in particolare Rashida Tlaib, la prima donna americana-palestinese a occupare tale ruolo.

Più in generale Israele teme il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), movimento di solidarietà internazionale che chiede un boicottaggio di Israele, sul modello del boicottaggio contro il Sud Africa durante l’apartheid, finché non cesserà la repressione del popolo palestinese. Il BDS è in piena espansione, soprattutto negli Stati Uniti, dove si è notevolmente sviluppato in molti campus universitari.

Di conseguenza le imprese informatiche israeliane sono state coinvolte sempre di più nei tentativi intesi a manipolare il discorso pubblico su Israele, in particolare interferendo nelle elezioni all’estero.

Due esempi noti sono per breve tempo finiti sulle prime pagine. Psy-Group, che si presentava come un “Mossad privato in affitto”, è stato chiuso l’anno scorso dopo che l’FBI ha aperto un’inchiesta su di esso per aver interferito nelle elezioni presidenziali americane del 2016. Secondo il New Yorker [prestigiosa rivista USA, ndtr.], il suo “Project Butterfly” [Progetto Farfalla] intendeva “destabilizzare e sconvolgere i movimenti antisraeliani dall’interno.”

E l’anno scorso la società “Black Cube” [Cubo Nero] è stata accusata di controllo ostile su importanti membri della precedente amministrazione americana guidata da Barack Obama. “Black Cube” sembra essere strettamente legata alle aziende della sicurezza e per un certo periodo i suoi uffici sono stati dislocati in una base militare israeliana.

 

Vietato da Apple

Un certo numero di altre aziende israeliane cerca di attenuare la distinzione tra spazio privato e spazio pubblico.

“Onavo”, una società israeliana di raccolta dati creata da due veterani dell’Unità 8200, è stata acquistata da Facebook nel 2013. L’anno dopo Apple ha vietato la sua applicazione VPN dopo che è stato rivelato che offriva un accesso illimitato ai dati degli utenti.

Secondo un articolo di Haaretz, l’anno scorso il ministro israeliano degli Affari Strategici, Gilad Erdan, che dirige una campagna segreta intesa a demonizzare i militanti del BDS all’estero, ha tenuto regolarmente riunioni con un’altra società, “Concert”. Questo gruppo segreto, esentato dalle leggi israeliane sulla libertà d’informazione, ha ricevuto circa 36 milioni di dollari di finanziamenti da parte del governo israeliano. I suoi dirigenti e i suoi azionisti sono “la crema” dell’élite israeliana per la sicurezza e l’intelligence.

Un’altra società israeliana di primo piano, “Candiru” – che deve il suo nome a un piccolo pesce amazzonico famoso per infiltrarsi segretamente nel corpo umano, dove diventa un parassita – vende principalmente i propri strumenti di pirateria informatica ai governi occidentali, anche se le sue operazioni sono circondate dal segreto.

Il suo personale proviene quasi esclusivamente dall’Unità 8200. A prova dello stretto rapporto tra le tecnologie pubbliche e segrete sviluppate dalle aziende israeliane, il direttore generale di “Candiru”, Eitan Achlow, dirigeva in precedenza “Gett”, l’applicazione dei servizi per i taxi.

L’élite della sicurezza israeliana trae profitto da questo nuovo mercato della guerra informatica, sfruttando – come ha fatto per il commercio di armamenti convenzionali – una popolazione palestinese a sua disposizione e prigioniera su cui può testare la sua tecnologia.

Non è sorprendente che Israele renda progressivamente normale nei Paesi occidentali l’uso di tecnologie invasive e oppressive, di cui i palestinesi sono le vittime da decine di anni.

I programmi di riconoscimento facciale permettono una profilazione razziale e politica sempre più sofisticata. Le operazioni segrete e la raccolta dati e di sorveglianza cancellano le tradizionali frontiere tra gli spazi privati e quelli pubblici. E le campagne di raccolta di informazioni che ne sono il risultato permettono d’intimidire, minacciare e screditare gli oppositori o chi, come la comunità dei difensori dei diritti umani, cerca di mettere i potenti di fronte alle loro responsabilità.

Se questo avvenire distopico continua a svilupparsi, New York, Londra, Berlino e Parigi assomiglieranno sempre di più a Nablus, Hebron, Gerusalemme est e Gaza. E noi finiremo tutti col capire cosa significhi vivere in uno Stato di polizia impegnato in una guerra informatica contro quelli che domina.

 

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

 

 (traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Quest’anno Israele ha ucciso quasi 3 palestinesi alla settimana

Maureen Clare Murphy

29 novembre 2019 – Electronic Intifada

Venerdì 29 novembre il sedicenne Fahd al-Astal è morto dopo essere stato colpito all’addome dalle forze di occupazione israeliane durante le proteste lungo il confine tra Gaza e Israele.

Lo stesso giorno, Raed Rafiq Ahmad al-Sirsawi, 30 anni, è morto per le ferite riportate il 13 novembre nel corso della spirale di violenza israeliana contro Gaza.

Le loro morti portano a 132 il numero totale di palestinesi deceduti finora nel corso dell’anno a causa del fuoco israeliano. Ciò equivale a una media di quasi tre morti alla settimana.

Nel contempo un totale di 10 israeliani sono morti nello stesso periodo a causa della violenza palestinese.

Tredici volte più palestinesi che israeliani sono morti quest’anno per la violenza legata all’occupazione.

 

Prigioniero muore sotto custodia israeliana

Ma questa cifra non include i palestinesi che sono morti nelle carceri israeliane, tra cui Sami Abu Diyak, che martedì 26 novembre si è arreso al cancro [mentre era sotto la] custodia di Israele, fra le accuse di anni di mancanza di cure mediche.

Abu Diyak quest’anno è il quinto palestinese a morire nelle prigioni israeliane.

Contribuiscono alle morti palestinesi non comprese nelle statistiche della mortalità legata al conflitto anche le restrizioni agli spostamenti [inflitte] da Israele.

Tra questi casi vi sono [quelli dei] palestinesi morti in attesa del permesso di viaggio per [essere sottoposti] a cure mediche non disponibili nella Striscia di Gaza assediata.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che in ottobre Israele ha accolto solo il 58% delle oltre 1.750 domande presentate dai palestinesi di Gaza bisognosi di cure mediche in Israele e in Cisgiordania.

L’ organizzazione sanitaria internazionale ha anche affermato che il tasso di permessi concessi da Israele per i palestinesi feriti durante le proteste lungo il confine Gaza-Israele è molto più basso del tasso complessivo di concessioni. Da quando la Grande Marcia del Ritorno di Gaza è iniziata il 30 marzo 2018, è stato autorizzato solo il 18% delle domande di cure mediche in Israele e in Cisgiordania per i feriti nel corso delle proteste.

 

Trattamenti crudeli verso i pazienti

[Il caso di] una paziente preso in esame dall’Organizzazione Mondiale della Sanità illustra il trattamento crudele da parte di Israele nei confronti dei palestinesi a Gaza che richiedono cure mediche specialistiche.

Identificata dall’organizzazione sanitaria mondiale come Sherehan, una donna di 33 anni madre di quattro figli, la paziente è stata indirizzata dai medici di Gaza ad un ospedale nella città di Ramallah, in Cisgiordania, per cure mediche specialistiche dopo averle riscontrato un tumore addominale in crescita.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “per Sherehan questo significava [dover] richiedere che Israele le rilasciasse un permesso per uscire da Gaza. Dal suo primo rinvio, al momento [Sherehan] ha fatto per 12 volte richiesta per [poter] uscire da Gaza per l’assistenza sanitaria e ogni volta senza successo.”

Le è stato negato un permesso otto volte, mentre in tre occasioni alla data del suo appuntamento la sua domanda è risultata “in fase di studio”, e una volta le è stato detto che il trattamento di cui aveva bisogno era disponibile a Gaza.

“Secondo il Ministero della Salute di Gaza, la complessa assistenza multidisciplinare richiesta per Sherehan non è disponibile localmente”, afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Sherehan ha dichiarato all’organizzazione: “Ho sofferto un anno di malattia, ma negli ultimi tre mesi mi sono sentita così abbattuta e depressa. Il tumore sta diventando più grande e i miei sintomi stanno peggiorando. Non dispongo di cure, solo di antidolorifici.”

Pur negando ai palestinesi come Sherehan l’accesso alle cure mediche necessarie, l’esercito israeliano si vanta dei suoi soldati che donano i capelli ai malati di cancro.

Il COGAT [coordinamento delle attività governative nei territori, ndtr.], il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana che si occupa delle autorizzazioni per le domande di viaggio presentate da pazienti come Sherehan, si è lamentato del rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Secondo il COGAT, in ottobre è stato accolto solo il 51% di tutte le domande di pazienti, il che è inferiore alla cifra del 58% fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Diamo a Cesare quel che è di Cesare – almeno il COGAT desidera essere riconosciuto come più crudele di quanto suggeriscono i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

 

Maureen Clare Murphy è redattrice associata di The Electronic Intifada e vive a Chicago.

 

(traduzione dall’Inglese di Aldo Lotta)




I bambini della famiglia al-Sawarka di Gaza sopravvissuti lottano dopo il raid israeliano

Ali Younes

2 dicembre 2019Al Jazeera

Lo scorso mese nove membri della famiglia palestinese sono stati uccisi dopo un attacco israeliano contro la loro casa nella zona centrale di Gaza

Striscia di Gaza – La vita di Noor al-Sawarka è cambiata per sempre la notte in cui l’esercito israeliano ha colpito la casa della sua famiglia nella città di Deir al-Balah, nel centro di Gaza.

Il 14 novembre la dodicenne ha perso i suoi genitori e tre fratelli, dopo che missili israeliani hanno colpito l’abitazione della famiglia a circa 15 km a sud di Gaza City. La dimora, che consisteva in baracche coperte di lamiera ondulata, è saltata in aria in mille pezzi.

L’esercito israeliano ha sostenuto di aver preso di mira la casa di un comandante militare del gruppo armato palestinese Jihad Islamica, un’affermazione immediatamente respinta dalla famiglia delle vittime. Noor dice che, quando ha sentito la prima esplosione, si è ritrovata a correre fuori in campo aperto. “Ho corso più veloce che potevo verso il terreno libero vicino a noi,” racconta ad Al Jazeera. “Non sapevo cosa stesse succedendo e non ho visto altro che un denso fumo nero.”

I suoi occhi si annebbiano quando rifiuta di dire come si sente due settimane dopo il bombardamento che ha reso orfani lei e due fratelli minori.

Anche sua sorella Reem e un fratello, Dia, di 7 e 6 anni, sono sopravvissuti a quella notte. Sul labbro inferiore, il naso e la fronte di Reem sono ancora visibili escoriazioni.

Dopo che sono andata a letto quella notte, ricordo solo di essermi svegliata in ospedale,” racconta. Da allora di notte Reem ha avuto problemi di sonno per il timore che cadano di nuovo bombe su di lei. Afferma di sentire spesso la “zannana”, parola araba per il ronzio che fanno i droni israeliani che sorvolano [la Striscia].

Il bombardamento ha ucciso nove membri della famiglia al-Sawarka: Rasmi Abu Malhous al-Sawarka, 46 anni, la sua seconda moglie Maryam, 45 anni, e tre dei loro 11 figli – Mohannad, 12 anni, Salim, 3 anni, e Firas di tre mesi. 

Anche il fratello minore di Rasmi, il quarantenne Mohamed, e sua moglie Yousra, di 39 anni, sono stati uccisi nell’attacco, oltre a due dei loro figli: Waseem e Moaaz, di 13 e 7 anni. Le vittime della famiglia al-Sawarka sono state tra i 34 palestinesi uccisi dagli attacchi aerei israeliani sulla Striscia di Gaza durante due giorni, nel corso di un’escalation di violenze tra Israele e la Jihad Islamica il mese scorso.

False affermazioni israeliane

Le due parti hanno iniziato a scambiarsi attacchi in seguito all’uccisione da parte di Israele del comandante in capo della Jihad Islamica Bahaa Abu al-Ata a Gaza. Come risposta la Jihad Islamica ha lanciato razzi nel sud di Israele, e l’esercito israeliano ha affermato di aver contato più di 350 proiettili.

Un cessate il fuoco, che sarebbe stato mediato dall’Egitto, è stato dichiarato la mattina dopo che è stata colpita la famiglia al-Sawarka.

Mohamad Awad, membro della tribù beduina al-Sawarka e vicino di casa della famiglia, ha detto ad Al Jazeera che il bombardamento israeliano è stato un “crimine di guerra” perché Rasmi e suo fratello Mohammed erano civili e non avevano niente a che vedere con alcun gruppo armato.

Allevavano pecore e sbarcavano a fatica il lunario prima di essere uccisi,” ha affermato.

Awad nega le affermazioni dell’esercito israeliano secondo cui Rasmi sarebbe stato un membro della Jihad Islamica, e sostiene che era un impiegato del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) con sede a Ramallah.

Awad ha chiesto alle organizzazioni internazionali per i diritti umani di fare un’inchiesta sui “crimini israeliani” contro palestinesi innocenti.

Il mondo non può rimanere in silenzio riguardo ai crimini israeliani contro di noi,” afferma.

L’esercito israeliano ha detto di stare svolgendo un’indagine sull’incidente e su “danni causati a civili.”

Subito dopo l’attacco il portavoce dell’esercito israeliano Avichay Adraee ha sostenuto su Twitter che l’attacco aveva preso di mira il capo di un’unità per il lancio di razzi della Jihad Islamica, che ha identificato come Rasmi Abu Malhous.

“Rasmi Abu Malhous, dirigente della Jihad Islamica e comandante dell’unità lanciarazzi nella brigata della parte centrale di Gaza è stato il bersaglio della scorsa notte nell’attacco contro Deir al_Balah,” ha detto Adraee.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha citato un ufficiale dell’esercito israeliano che avrebbe detto che le affermazioni di Adraee sarebbero state basate su false notizie diffuse in rete.

Awad afferma che ora sta aiutando l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem a raccogliere prove e a documentare testimonianze dirette per fare un’indagine sul bombardamento.

Un dirigente di B’Tselem ha detto a Al Jazeera che l’incidente è sottoposto ad indagine.

Miracolo

Awad dice che è stato un “miracolo” che molti dei bambini siano sopravvissuti: “Dio ha visto sulla terra quei bambini e li ha salvati,” sostiene.

Dopo il bombardamento è andato a cercare suo cugino e i bambini, e in mezzo a un fumo denso ha sentito il rumore sordo del pianto di un bambino sotto le lamiere contorte.

Dice di aver tolto di mezzo i detriti e di aver trovato Farah, la bimba di un mese e mezzo di Rasmi, stesa sulla sabbia e coperta da una lastra di lamiera.

Farah stava piangendo quando l’ho presa in braccio, ed era incolume,” afferma. “Dio ha salvato quella bimba.”

Tutti i bambini della famiglia al-Sawarka sopravvissuti ora si trovano presso parenti e sopravvivono grazie agli aiuti di organizzazioni umanitarie.

La Striscia di Gaza è sottoposta da più di un decennio a un blocco congiunto di Israele ed Egitto che ha seriamente limitato la libertà di movimento dei suoi due milioni di abitanti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le proteste della Grande marcia del Ritorno sono state controproducenti?

Motasem Dalloul

2 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Le proteste della Grande marcia del Ritorno sono state controproducenti?

Motasem Dalloul

2 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Lo scorso è stato il terzo venerdì consecutivo in cui nella Striscia di Gaza non ci si sono state le proteste della Grande Marcia del Ritorno e la Rottura dell’Assedio che, fino a questa interruzione, si erano svolte ogni settimana dal 30 marzo 2018.

Il Comitato per la Grande Marcia del Ritorno ha detto che lo scorso venerdì le proteste sono state annullate per motivi di sicurezza per non dare alle forze di occupazione israeliane l’opportunità di uccidere altri manifestanti. Questa è praticamente la stessa dichiarazione, parola per parola, che era stata rilasciata il venerdì precedente. Tutte le fazioni palestinesi che fanno parte del Comitato sostengono che le proteste avrebbero potuto ricominciare in qualsiasi momento se necessario.

Secondo un membro di Hamas, il movimento palestinese di resistenza islamica, che è la fazione più presente nelle proteste, il loro obiettivo principale è stato quasi raggiunto. “Guardate all’assedio imposto a Gaza” ha spiegato Khalil Al-Hayya “Israele ha aperto i varchi, ha annullato molte restrizioni commerciali, aumentato l’approvvigionamento elettrico, permesso gli scambi con l’Egitto, ha consentito che arrivassero i finanziamenti del Qatar, esteso la zona di pesca e molte altre cose.”

Ha aggiunto che, come conseguenza delle proteste che hanno dimostrato che Israele osteggia quella legittima rivendicazione, la questione del diritto al ritorno dei palestinesi è di nuovo all’ordine del giorno a livello internazionale. “Abbiamo anche raggiunto altri risultati, come il rafforzamento dell’unità nazionale che si è concretizzata con il Centro di coordinamento militare che include l’ala militare di tutte le fazioni palestinesi.”

Il periodo di calma relativa delle passate tre settimane fa pensare che le fazioni di Gaza vogliano un accordo con Israele grazie al quale i palestinesi possano godere di una certa stabilità economica e sociale. Si dice che i funzionari israeliani a ogni livello condividano questa idea.

La dirigenza di Hamas a Gaza, guidata da Yahya Sinwar, sta mostrando grande interesse nel raggiungere un accordo a lungo termine con Israele” ha scritto Amos Harel su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] l’altra settimana. “Lo Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] appoggia ampie misure di aiuto a Gaza in cambio di garanzie di pace … [ma] la decisione finale spetta ai politici.”

Harel sembrava temere che Israele possa perdere questa opportunità quando ha spiegato che i politici israeliani sono al momento “impelagati in una crisi legale e politica incentrata sui tre atti di accusa contro il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, e anche sulle gravi difficoltà nel formare un nuovo governo.“La rapida conclusione delle ultime consultazioni durate due giorni (e durante le quali 36 palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani), ha offerto a Israele la rara opportunità di fare dei progressi e forse di sfruttare la possibilità che era stata persa cinque anni fa dopo il conflitto del 2014.”

Sabato l’emittente israeliana Channel 12 ha dichiarato che il Ministro della Difesa Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] ha ordinato all’esercito israeliano di condurre uno studio di fattibilità per un porto su un’isola artificiale sulla costa di Gaza per facilitare i commerci dentro e fuori l’enclave. Secondo il Times of Israel [giornale israeliano indipendente in lingua inglese, ndtr.] Bennett ha anche dato ordine al Capo di stato maggiore di effettuare uno studio di sicurezza per esaminare la possibilità di avere, sulla stessa isola, anche un aeroporto.

Questa idea è partita da Yisrael Katz [del partito di destra Likud, ndtr.] nel 2017, quando era Ministro dei Trasporti e dei Servizi Segreti, ma è stata osteggiata da altri ministri e non ha raggiunto il livello di discussioni governative. Oggi Katz è il Ministro degli Esteri israeliano e il Times of Israel ha riferito che ha detto di aver avuto il via libera per stabilire dei gruppi di lavoro congiunti fra il suo ministero, quello della Difesa e il Consiglio di Sicurezza Nazionale. “Per anni ho promosso l’iniziativa dell’isola galleggiante” ha twittato sabato. Ha sostenuto che questa è l’unica soluzione per Gaza.

Questa settimana ho incontrato il Ministro della Difesa Bennett che, a differenza del suo predecessore (Avigdor Lieberman [di un partito di estrema destra nazionalista, ndtr.] che era fra i ministri che si erano opposti all’idea nel 2017), ha dato il suo sostegno per promuovere l’iniziativa. Ho aggiornato il Primo Ministro Netanyahu e spero si possa iniziare presto.”

Il capogruppo di Fatah nel parlamento palestinese, Azzam Al-Ahmad, ha criticato l’idea del porto e dell’aeroporto e si è anche opposto a tutte le altre misure per alleggerire l’assedio imposto a Gaza da Israele, a meno che non siano coordinate dall’Autorità Nazionale Palestinese dominata dal suo partito. Se non ci fosse tale coordinamento, ha detto sabato ai media palestinesi, “si rafforzerebbe la divisione fra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, che sono le due parti del futuro Stato indipendente di Palestina.”

Rifqaa Abdul-Kader, una ricercatrice che vive a Gaza, ha criticato le affermazioni del funzionario di Fatah. “Ogni misura per migliorare la vita dei palestinesi a Gaza è ben accolta, inclusi un eventuale porto e aeroporto. L’ANP deve tacere quando ci sono informazioni su tali soluzioni.”

Parlando a MEMO, ha detto che la gente a Gaza è stata sottoposta a un duro assedio israeliano e ha subito molti attacchi dell’esercito israeliano con migliaia di morti e feriti. “Nessuno Stato o ente ufficiale al mondo, inclusa l’ANP, ha fatto qualcosa per aiutarli o per fermare le misure israeliane contro di loro” ha spiegato. “Invece di respingere le soluzioni per Gaza, l’ANP dovrebbe togliere le sanzioni imposte all’enclave assediata e pagare i salari a migliaia di dipendenti pubblici, pagare i costi amministrativi e operativi dei ministeri, inclusi i ministeri dell’Istruzione e della Salute, sbloccare i pagamenti annuali delle istituzioni educative a Gaza e accordarsi per indire le elezioni.”

Tuttavia Fawzi Mansour, un analista politico, insinua che Israele non ha delle “intenzioni innocenti” a proposito delle “possibili” misure relative ad alleggerire il blocco imposto a Gaza. “Tramite il porto e l’aeroporto Israele potrebbe progettare di rinforzare la completa separazione fra Gaza e la Cisgiordania” afferma.

Un risultato delle proteste della Grande Marcia del Ritorno che le fazioni palestinesi descrivono come una conquista è il futuro insediamento dell’ospedale americano nel nord della Striscia di Gaza. L’ospedale avrà due ingressi: uno per dare accesso dal lato israeliano del confine nominale, controllato dai servizi di sicurezza israeliani, e l’altro sul lato di Gaza, controllato dai servizi di sicurezza palestinesi del territorio.

Secondo Hussein Al-Sheikh, il Ministro degli Affari Civili dell’ANP, questo ospedale è “una base americana che verrà costruita a Gaza e Hamas non ha il diritto di raggiungere un accordo con nessuna delle parti in relazione all’insediamento di tale struttura.” Ha sostenuto che questa è una delle conseguenze negative delle proteste a Gaza. Invece Mai Kila, il Ministro della Salute dell’ANP, ha accettato che ci sia un ospedale ma ha detto che dovrebbe essere gestito dal suo ministero.

Hazim Qasim, il portavoce di Hamas, ha detto a MEMO che le affermazioni dell’ANP sono completamente false. L’ospedale non è stato accettato solo da Hamas, ha spiegato, ma da tutte le fazioni palestinesi. Ha aggiunto che le fazioni, e non solo Hamas, dirigeranno insieme l’attività di questo ospedale e ciò garantirà che “non ci sia un costo politico.” Il rappresentante di Hamas ha anche chiesto all’ANP di togliere le sanzioni da essa imposte a Gaza invece di “demonizzare ogni conquista che la resistenza ha ottenuto per i palestinesi assediati a Gaza.”

Pur facendo notare che le affermazioni critiche sulle caratteristiche dell’ospedale americano potrebbero non essere completamente false, Hossam Al-Dajani, accademico palestinese e analista politico, ha confutato l’affermazione che sarà altro che una base delle forze di sicurezza USA per aiutare Israele. “Sono sicuro che è solo un ospedale,” ha detto sabato sera a Al Jazeera in arabo, “ma se ha altri scopi, la resistenza palestinese di Gaza terrà d’occhio i lavori per garantire che non svolga altro che attività umanitarie.”

E quindi, se uno dei risultati della Grande Marcia del Ritorno sarà la presenza americana a Gaza, significa che le proteste si sono ritorte contro i palestinesi? Hamas crede di no.

Le proteste hanno dimostrato che la resistenza popolare controllata da fazioni palestinesi forti e unite, a questo stadio, è più efficace e meno costosa di altre forme di resistenza” ha detto il portavoce del movimento. “Resteranno uno strumento nelle mani della resistenza palestinese da usare quando necessario.”

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Mirella Alessio)




Salute e diritti umani a Gaza: vergogna del mondo

 Richard Falk,

27 novembre 2019 R.Falk Blog

Nota preliminare:

Questo post è dedicato alla salute e ai diritti umani a Gaza. Si basa su una presentazione video di alcune settimane fa a una conferenza su questo tema tenutasi a Gaza. Non fa alcuno sforzo di aggiornamento in riferimento all’ultimo ciclo di violenza scatenato dall’assassinio mirato di Baha Abu-Ata, un comandante militare della Jihad islamica, il 12 novembre. Sono profondamente convinto delle questioni sollevate da questo post non solo perché sono stato testimone delle condizioni di vita a Gaza e ho amici a Gaza che hanno sopportato difficoltà e ingiustizie per così tanto tempo senza perdere il loro calore umano o persino la loro speranza. I miei contatti con Gaza e i Gazawi nel corso di molti anni sono stati allo stesso tempo stimolanti e profondamente scoraggianti, da una profonda comprensione delle carenze della condizione umana unita a uno sguardo edificante, al coraggio spirituale di persone che sono così pesantemente perseguitate.
Riflettendo sul terrificante destino imposto al popolo di Gaza, ho provato vergogna dei silenzi assurdi, in particolare di quei governi e dei loro leader nella regione e in quei paesi con una responsabilità storica (il Regno Unito) e influenza geopolitica (gli Stati Uniti). Prendo inoltre nota con allarme del rifiuto dei media mainstream di prestare attenzione allo squallore sopportato da così tanto tempo dal popolo di Gaza. Se mai la norma della “responsabilità di proteggere” venisse applicata in base alle necessità umanitarie, Gaza sarebbe in cima alla lista, ma ovviamente non c’è nessuna lista, e se mai ce ne fosse una, data l’attuale atmosfera internazionale, Gaza rimarrebbe tra quelli non elencati! Questa inattenzione verso il popolo di Gaza è così acuta da estendere la rete della complicità criminale ben oltre i confini di Israele.]
 
 

Salute e diritti umani a Gaza: vergogna del mondo

Voglio iniziare porgendo i miei saluti a tutti coloro che sono qui oggi. Vorrei che le condizioni a Gaza fossero diverse, permettendomi di condividere l’esperienza della conferenza direttamente con voi prendendovi parte personalmente e attivamente. Il tema della conferenza tocca le politiche e la pratica degli abusi israeliani che stanno perseguitando la popolazione di Gaza da così tanto tempo. La popolazione di Gaza sta affrontando una situazione deplorevole da quando l’occupazione è iniziata nel 1967, ma tale situazione è molto peggiorata dopo le elezioni di Gaza del 2006, rafforzata dai cambiamenti nell’amministrazione politica avvenuti l’anno successivo. Le politiche di Israele sono state sistematicamente crudeli e aggressive, ignorando gli standard legali e i valori morali applicabili al comportamento di una Potenza Occupante. Tali standard e valori sono incorporati nel diritto internazionale umanitario (IHL) e nel diritto internazionale dei diritti umani (IHRL).

Promuovere il diritto alla salute è tra i più fondamentali dei diritti umani, articolati per la prima volta nella Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità del 1946: “Il diritto di ciascuno al godimento del più alto livello raggiungibile di salute fisica e mentale”. Questo diritto è ulteriormente articolato nella Dichiarazione universale dei diritti umani, in particolare nell’articolo 25, e poi messo in forma di trattato dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali nel 1966. L’interferenza deliberata con il diritto alla salute è tra i peggiori abusi collettivi immaginabili di un popolo soggetto a un’occupazione militare. Israele, che fa affidamento su un regime di apartheid per mantenere il controllo sul popolo palestinese a fronte del suo diritto di resistenza protetto a livello internazionale, è stato particolarmente colpevole di un comportamento che ha palesemente, costantemente e intenzionalmente ostacolato e violato il diritto alla salute dell’intera popolazione civile di Gaza in vari modi.

La Grande Marcia del Ritorno incarna le brutalità della politica di occupazione israeliana, che include uno scioccante disprezzo per la salute fisica e mentale della popolazione civile palestinese che prende parte alle manifestazioni. Ci offre anche una metafora degli abusi del diritto alla salute e di altri diritti della popolazione di Gaza considerata come entità collettiva. Questo modello di abuso avviene nel contesto di persistenti e coraggiosi atti di resistenza palestinese a sostegno del loro diritto al ritorno in patria, un diritto affermato alle Nazioni Unite e chiaramente stabilito nella legislazione internazionale, che Israele ha rifiutato di sostenere per sette decenni, cioè fin dalla Nakba. Di fronte a un tale fallimento dei procedimenti internazionali per difendere i diritti dei palestinesi, il ricorso a una politica autonoma sembra ragionevole e, di fatto, l’unico percorso attualmente in grado di produrre risultati positivi. Il popolo di Gaza ha atteso abbastanza a lungo, anzi troppo a lungo, senza che i suoi diritti internazionali più elementari fossero protetti dalla comunità mondiale organizzata.

Una questione preliminare è se, come sostiene Israele, esso possa essere sollevato da tutti gli obblighi legali internazionali nei confronti del popolo di Gaza a causa del suo presunto “disimpegno” da Gaza nel 2005. Da una prospettiva di diritto internazionale, la rimozione fisica delle truppe occupanti dell’IDF dal territorio di Gaza e lo smantellamento degli insediamenti israeliani illegali non ha influito sullo status giuridico di Gaza come “territorio palestinese occupato”. Israele ha mantenuto uno stretto controllo su Gaza, che ha incluso massicci attacchi militari nel 2008-09, 2012 e 2014, nonché l’uso frequente di forza eccessiva, armi e tattiche illegali e il mancato rispetto dei vincoli della legge. Nonostante il “disimpegno”, Israele mantiene un effettivo e completo controllo sui confini, sullo spazio aereo e sulle acque marittime offshore di Gaza. In realtà, a seguito del blocco in atto dal 2007, l’occupazione è più intensa e violenta della forma di occupazione oppressiva che esisteva a Gaza prima del disimpegno. Dal punto di vista del IHL e IHRL, Israele è pienamente obbligato dal diritto internazionale a esercitare il suo ruolo di potere occupante e le sue affermazioni contrarie sono giuridicamente irrilevanti. Sfortunatamente, a causa delle realtà geopolitiche e della debolezza delle Nazioni Unite, queste affermazioni israeliane continuano ad avere una rilevanza politica poiché gli obblighi di Israele rimangono non rispettati e per lo più ignorati, creando una situazione inaccettabile in cui Israele gode di fatto dell’impunità e sfugge a tutte le procedure per rendere conto del proprio operato a disposizione mediante il ricorso al diritto internazionale e alle istituzioni giudiziarie internazionali.

È anche importante, a nostro avviso, comprendere il significato dei risultati del rapporto ESCWA (UN Economic and Social Commission for Western Asia) 2017 preparato da Virginia Tilley e da me stesso. Dopo aver esaminato le prove abbiamo concluso che Israele mantiene una struttura di controllo di apartheid sul popolo palestinese nel suo insieme, che ovviamente include la popolazione di Gaza. Il nostro punto principale è che Israele usa una varietà di mezzi per soggiogare e opprimere i palestinesi in modo da stabilire e sostenere uno Stato ebraico esclusivista in cui, secondo la Legge fondamentale israeliana del 2018, solo gli ebrei hanno l’autorità di rivendicare il diritto all’autodeterminazione. Circoscrivere il diritto all’autodeterminazione secondo esclusivi criteri razziali è un riconoscimento virtuale di un’ideologia di apartheid.

Occorre prendere atto più ampiamente che l’apartheid è un crimine contro l’umanità, secondo l’articolo 7 (j) dello Statuto di Roma che regola i lavori del Tribunale penale internazionale. Il carattere criminale dell’apartheid era stato in precedenza confermato dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid. Se l’apartheid è effettivamente presente, tutti i governi hanno essi stessi degli obblighi legali e morali di unirsi allo sforzo di reprimere e punire. Come per le IHL e IHRL, la criminalizzazione dell’apartheid non è perseguita con meccanismi intergovernativi formali a causa di barriere erette dalla geopolitica e dalla relativa debolezza delle Nazioni Unite, ma ciò non significa che la designazione sia politicamente e moralmente insignificante. Poiché i governi si rifiutano di agire, la responsabilità e l’opportunità per l’applicazione della legge spetta ai popoli del mondo per fare ciò che il contesto formale dell’ordine mondiale non è in grado di fare.

Una tale ondata anti-apartheid di base si è verificata rispetto al regime sudafricano dell’apartheid, producendo un’inversione del tutto inaspettata dell’approccio da parte della leadership afrikaner del paese con conseguente rilascio di Nelson Mandela dal carcere dopo 27 anni di prigionia seguito dalla transizione pacifica verso una democrazia costituzionale multirazziale con i diritti umani promessi a tutti indipendentemente dalla razza. Un simile risultato era considerato impossibile in tutto lo spettro politico in Sudafrica fino al 1994, quando è effettivamente accaduto.

Non possiamo garantire, naturalmente, che la storia si ripeterà e libererà il popolo palestinese dal suo calvario secolare, ma nemmeno possiamo escludere la possibilità che la combinazione di resistenza palestinese e solidarietà globale avrà un effetto di empowerment e liberatorio. In parte, il movimento nazionale palestinese è l’ultima grande lotta incompiuta contro il colonialismo di insediamento europeo. Considerato in questo modo, il Progetto Sionista attraverso l’istituzione di Israele ha temporaneamente invertito il flusso della storia in Palestina per una serie di ragioni complicate, ma il destino finale della Palestina rimane in dubbio fino a quando la resistenza palestinese viene sostenuta e la solidarietà rimane solida. A questo proposito, la Grande Marcia del Ritorno è un potente segnale che la resistenza palestinese qui a Gaza continua a offrire energia ispiratrice a quelli di noi in tutto il mondo che credono che questa particolare lotta per la giustizia individuale e collettiva da parte di un popolo oppresso sia ciò che i diritti umani significano alle loro fondamenta.

La Grande Marcia è una metafora perfetta sia per il tema di questa conferenza che per la lotta che ha motivato i residenti indifesi di Gaza a chiedere questo diritto fondamentale di tornare in patria da cui sono stati ingiustamente e forzatamente espulsi. Questa richiesta è stata riaffermata in modo impressionante ogni venerdì per più di un anno di fronte al feroce accanimento di Israele sulla forza eccessiva sin dal suo inizio nel marzo 2018. Israele fin dall’esordio delle proteste ha adottato un approccio di forza eccessiva mirato a terrorizzare i manifestanti ricorrendo alla violenza letale nel duro tentativo di punire e distruggere questa formidabile sfida creativa al controllo israeliano di apartheid / coloniale. L’obiettivo di Israele sembra essere uno sforzo vano e illegale di minare la volontà palestinese di resistere dopo decenni di segregazione, scoraggiamento e abusi indicibili.

Allo stesso tempo, una tale risposta criminale da parte di Israele a questa angosciante rivendicazione del diritto da parte del popolo di Gaza è stata anche l’espressione culminante dell’assalto israeliano alla salute fisica e mentale della popolazione civile di Gaza. Non sorprende che gli oneri creati da 20.000 feriti Gaza abbiano travolto le già sopraffatte capacità mediche di Gaza. Molti dei feriti hanno sofferto ferite da arma da fuoco che hanno messo a repentaglio la vita e gli arti, con gravi infezioni e con bisogno di amputazione. Questa situazione di crisi nell’assistenza sanitaria è stata aggravata dalla carenza di medicinali antibiotici necessari e dalle tristi esperienze dei feriti abitanti di Gaza che richiedono un’attenzione specializzata che può essere ottenuta solo al di fuori di Gaza. Quelli così disperatamente bisognosi di cure mediche al di fuori di Gaza hanno incontrato difficoltà quasi insuperabili per ottenere i necessari permessi di uscita e di ingresso che Israele spesso ha rifiutato persino in circostanze normali. In relazione ai feriti negli eventi della Grande Marcia, la situazione era molto peggiore. Israele non era più disposto a concedere permessi di uscita ai feriti nella Grande Marcia, discriminando qualsiasi palestinese che avesse osato protestare pacificamente contro la negazione dei diritti a cui ogni essere umano sulla terra ha diritto. Un simile abuso viene intensificato penalmente in relazione agli abitanti di Gaza che dovrebbero essere particolarmente protetti in virtù della Quarta Convenzione di Ginevra e dell’IHL più in generale. Invece della protezione, l’approccio israeliano è stato quello di imporre una prolungata punizione collettiva non solo ai resistenti palestinesi, ma all’intera popolazione di Gaza in violazione diretta dell’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, e non per un breve intervallo associato a circostanze speciali, ma nel corso di decenni.

Al di là di queste eccezionali condizioni associate alle conseguenze mediche della Grande Marcia, Israele, non riuscendo a proteggere la popolazione civile di Gaza in condizioni di occupazione prolungata ingiustificata, è colpevole di diverse forme aggiuntive di punizione collettiva, ognuna delle quali ha un impatto negativo sulla salute di Gaza. Queste conseguenze con effetti negativi derivano dal mantenimento di un blocco spietato, dall’applicazione periodica di forza eccessiva ben oltre ogni ragionevole giustificazione della sicurezza e dall’applicazione di politiche e pratiche che riflettono il carattere apartheid / coloniale del suo approccio al popolo palestinese, che ha a lungo assunto una forma sinistra a Gaza. I risultati sulla salute sono disastrosi, come confermato da affidabili misure statistiche delle condizioni fisiche e mentali della popolazione, come dimostrato dall’indisponibilità di acqua potabile sicura, dall’esistenza di fognature aperte non trattate, dalla frequenza di lunghe interruzioni di corrente che interferiscono con gli ospedali e attrezzature mediche e studi che documentano l’elevata incidenza di gravi traumi vissuti da molti residenti di Gaza, compresi i bambini piccoli e particolarmente vulnerabili. Per quelli di noi che hanno visitato Gaza anche in quelle che potrebbero essere descritte come condizioni “normali”, siamo arrivati a chiederci come chiunque potesse sopportare tale stress senza soffrire una reazione traumatica.

Questa grave violazione del diritto alla salute della popolazione di Gaza dovrebbe essere motivo di oltraggio nella comunità internazionale e ricevere adeguata attenzione da parte dei media, ma le violazioni deliberate e massicce di Israele nei confronti di IHL e IHRL sono protette dalla geopolitica dalla censura e dalle sanzioni contro parte dei governi e delle Nazioni Unite, una realtà ulteriormente oscurata da media occidentali mainstream compiacenti che vengono fuorviati e manipolati da una campagna di propaganda israeliana attentamente orchestrata che presenta la sua condotta criminosamente illegale come un comportamento ragionevole intrapreso per proteggere la sicurezza nazionale di uno stato sovrano, un aspetto del suo diritto legale di difendersi da ciò che definisce un nemico terroristico. Tale propaganda israeliana falsifica le realtà della situazione in molti modi, ma crea alquanta confusione al di fuori di Gaza per distogliere l’attenzione dalla sofferenza imposta al popolo palestinese nel suo complesso, e in particolare alla popolazione civile di Gaza.

In questo contesto, diventa chiaro che gli sforzi di solidarietà di base per svelare queste verità ed esercitare pressioni nonviolente su Israele mediante la campagna BDS [Boicottaggio, Disinvestimento , Sanzioni, ndt] e altre iniziative sono contributi essenziali alle continue lotte di resistenza del popolo palestinese. E a differenza della risposta sudafricana, Israele con la sua sofisticata capacità di penetrazione globale ha tentato in ogni modo di screditare tale lavoro di solidarietà globale, arrivando persino a sfruttare la sua influenza all’estero per criminalizzare la partecipazione all’attività BDS incoraggiando l’uscita di leggi punitive e l’adozione di politiche amministrative restrittive in Europa e Nord America.

Consentitemi di porre fine a queste osservazioni affermando che, nonostante l’apparente squilibrio delle forze sul campo, la storia rimane fortemente dalla parte della lotta palestinese contro questo regime di apartheid israeliano. Gran parte del mondo si rende conto che il coraggioso popolo di Gaza è stato a lungo nell’occhio di una terribile e apparentemente infinita tempesta. È mio onore sostenere al mio meglio possibile la realizzazione del diritto all’autodeterminazione. Nonostante le apparenze contrarie, sono fiducioso che prevarrà la giustizia, che i palestinesi raggiungeranno i loro diritti e sorprenderanno il mondo come hanno fatto gli avversari dell’apartheid sudafricano una generazione fa. Spero di vivere abbastanza a lungo da visitare Gaza in futuro in un momento di libertà e celebrazione. Nel frattempo, auguro alla conferenza un grande successo.

Richard Falk è Professore emerito di diritto internazionale alla Princeton University e Presidente del Board of Trustees dell’ Euro-Mediterranean Human Rights Monitor

Traduzione di Angelo Stefanini




Dirigente di un gruppo suprematista ebraico imputato di incitamento all’odio contro i palestinesi

Natasha Roth-Rowland

27 Novembre 2019 – +972

Come Benjamin Netanyahu, Benzi Gopstein deve affrontare un procedimento penale atteso da tempo. Ma l’incriminazione di entrambi non cambia niente riguardo al sistema razzista ed espansionista che li ha prodotti

Martedì [26 novembre] un tribunale di Gerusalemme ha incriminato Benzi Gopstein, capo del gruppo razzista anti-assimilazionista “Lehava”, ed ha bandito il candidato alla Knesset del partito Otzma Yehudit [Potere Ebraico] per incitamento alla violenza, al razzismo e al terrorismo e per essersi pronunciato in favore del massacro alla Grotta dei Patriarchi di Hebron da parte di Baruch Goldstein nel 1994. Il suo rinvio a giudizio rappresenta il culmine di una campagna durata otto anni da parte dell’“Israel Reform Action Center” [Centro di Azione Israeliano per la Riforma, ndtr.] (IRAC), braccio giuridico dell’ebraismo riformato, per far sì che Gopstein e Lehava rendano conto [della loro posizione politica].

L’incriminazione di Gopstein cita, tra le altre cose, video in cui egli ha giustificato l’uso della violenza contro i palestinesi che sono in rapporto con donne ebree; ha definito i “nemici tra noi” (cioè i palestinesi) un “cancro”, ha proposto che la soluzione sia togliere di mezzo la Cupola della Roccia e la moschea di al-Aqsa ed ha affermato che ogni palestinese che egli dovesse vedere ad un matrimonio ebraico finirebbe nel “più vicino ospedale”.

Gopstein, allievo del fondatore della “Lega per la Difesa Ebraica” e demagogo razzista Meir Kahane ed ex-attivista del Kach, movimento politico israeliano di quest’ultimo, ha una lunga e storica carriera di razzismo violento. Da giovane ha avuto a che fare con la giustizia, in particolare quando è stato arrestato (e in seguito rilasciato per mancanza di prove) nel novembre 1990 in quanto sospettato di essere coinvolto nell’uccisione di due palestinesi, a quanto pare come rappresaglia per l’assassinio di Kahane a New York all’inizio di quel mese.

Di tutti i discepoli di Kahane che occupano ancora un posto sulla ribalta, Gopstein si è forse impegnato in modo più assiduo per portare avanti la principale ossessione del suo mentore: evitare rapporti tra ebrei e palestinesi, soprattutto tra donne ebree e uomini palestinesi. Come fondatore e capo di “Lehava” (il cui nome in ebraico è un acronimo per “Evitare l’Assimilazione nella Terra Santa”), Gopstein ha progettato di persona accaniti e spesso violenti tentativi di distruggere rapporti misti [tra israeliani e palestinesi, ndtr.] – sia tramite l’istituzione di un “telefono rosso” in stile Stasi [polizia segreta della Repubblica Democratica Tedesca, ndtr.], in cui israeliani preoccupati possono dare informazioni su cittadini che sospettano avere rapporti misti, fino a violente proteste durante matrimoni musulmani in cui la moglie si sia convertita dall’ebraismo.

Questi incidenti hanno fatto di “Lehava” un parafulmine per le critiche all’estrema destra nel discorso pubblico israeliano. Ed è facile capire perché: l’organizzazione e le sue azioni sono emblematiche dei fenomeni che israeliani progressisti (e non tanto progressisti) evidenziano come i mali della loro società, in un modo che consente loro di evitare di approfondire i più profondi problemi strutturali in cui essi stessi sono coinvolti.

Come Kahane prima di lui, Gopstein ha cercato di reclutare intorno alla sua causa giovani disadattati e svantaggiati dal punto di vista socio-economico, portando nell’organizzazione mizrahim (ebrei originari dei Paesi arabi o musulmani) della periferia sociale e geografica di Israele. La sua orchestrazione di proteste molto visibili – sia durante i matrimoni summenzionati o quelle del sabato notte in piazza Zion a Gerusalemme – garantisce che i media e i politici israeliani abbiano un archivio di immagini da condannare quando insistono che nel Paese la violenza della destra è esclusivamente un problema “mizrahi” (cioè: marginale e non istituzionale), invece che sistematico o “ampiamente diffuso” (cioè: ashkenazita [ebrei di origine europea, che dominano nella vita economica, politica e sociale di Israele, ndtr.]).

Analogamente lo stesso Gopstein – insieme al resto della sua coorte di “Otzma Yehudit”: Itamar Ben-Gvir, Baruch Marzel e Michael Ben-Ari — è liquidato come un fanatico religioso marginale, la cui ortodossia gli israeliani stentano ad evidenziare quando si scagliano contro la sua ideologia. Quindi, per esempio, durante un dibattito alla Knesset sulla messa fuori legge di “Lehava” nel 2015, il parlamentare laburista Itzik Shmuli denunciò trionfalmente Gopstein come “Isis con la kippah [il tradizionale copricapo ebraico, soprattutto degli ebrei praticanti, ndtr.]”.

Tali tentativi di definire come “diversi” i terroristi ebrei – siano Kahane, Yigal Amir [l’assassino di Rabin, ndtr.], Baruch Goldstein [autore della strage di 29 fedeli palestinesi nella tomba dei Patriarchi a Hebron, ndtr.], gli assassini di Muhammad Abu Khdeir [ragazzino palestinese bruciato vivo per vendicare la morte di tre giovani coloni uccisi da palestinesi nel 2014, ndtr.] o la “gioventù della cima delle colline” [gruppo informale di coloni estemisti, ndtr.] che incendia chiese, case e scuole [palestinesi] – è molto utile all’establishment israeliano. La condanna e l’occasionale incriminazione di questi personaggi consente al governo e ai suoi sostenitori interni ed internazionali di evidenziare un sistema giudiziario che funziona e un codice morale che rifiuta questa ideologia e queste azioni razziste. È lo stesso meccanismo che seleziona sporadicamente e in apparenza (anche se non realmente) in modo arbitrario soldati e poliziotti israeliani da punire per la continua serie di uccisioni extragiudiziarie di palestinesi, tra gli altri violenti misfatti.

In entrambi i processi, il sistema che produce violenza politica e abusi dell’esercito e li ricompensa con un’impunità quasi totale sfugge a una verifica.

Vale la pena di notare il tempismo dell’incriminazione di Gopstein: cinque giorni dopo l’incriminazione di Benjamin Netanyahu e nel bel mezzo dell’ultimo picco di violenza dei coloni in Cisgiordania durato sette giorni, compresa l’ultima fiammata dello scorso fine settimana a Hebron in cui circa una decina di palestinesi sono rimasti feriti, tra cui un bimbo di 18 mesi.

L’incriminazione di Netanyahu è stata sbandierata come la prova decisiva di una democrazia israeliana in ottima salute – un sistema talmente sicuro da mettere sotto processo il suo stesso primo ministro. Tali analisi hanno misteriosamente ignorato il fatto che Netanyahu finora non ha dovuto affrontare alcuna conseguenza per il fatto di aver infranto ripetutamente la legge relativa alla campagna elettorale e alle elezioni, né per i suoi tentativi razzisti di sopprimere il diritto di voto [dei palestinesi] – azioni che, si potrebbe pensare, rivelano molto più dello stato della democrazia israeliana di quanto questi osservatori evidenzino. Non dimentichiamoci neppure che Netanyahu ha conferito una legittimazione senza precedenti a Gopstein e ai suoi colleghi di “Otzma Yehudit” intervenendo personalmente in loro favore prima delle elezioni dell’aprile 2019.

Né la squadra di quelli che dicono che “la corruzione rafforza la democrazia” segnala l’altro, più fondamentale ostacolo per le loro analisi, cioè che il sistema giudiziario che ha indagato e incriminato Netanyahu è lo stesso che appoggia l’occupazione della Cisgiordania e l’assedio contro Gaza; che consente l’espulsione di palestinesi dalle loro case e la loro demolizione; che gestisce un apparato giudiziario separato su base etnica nei territori occupati, uno per i palestinesi e l’altro per gli ebrei. Ed è lo stesso sistema giudiziario che costantemente omette di considerare responsabili i propri soldati e civili per aver commesso soprusi, per aver aggredito e ucciso palestinesi ed ebrei etiopi, perché fa parte di uno Stato che, lasciando mano libera ai coloni violenti che agiscono in qualità di civili, ha rinunciato al proprio monopolio sull’uso legittimo della violenza.

In altre parole il sistema giudiziario che ha messo sotto processo Netanyahu e Gopstein in questo stesso momento sta anche consentendo ai coloni di aggirarsi per la Cisgiordania vandalizzando e incendiando proprietà palestinesi e aggredendo i proprietari. Queste due incriminazioni di alto livello non intaccano minimamente i progetti di espansione delle colonie, di esclusione su base etnica e di occupazione militare, azioni promosse dagli individui incriminati: la violenza nella relazione con i palestinesi continuerà anche se Gopstein verrà condannato, e la formalizzazione dell’annessione della Cisgiordania, insieme alla devastazione di Gaza che dura da molto tempo, sopravvivrà alla destituzione di Netanyahu.

Il sistema giudiziario che li ha messi sotto processo, per quanto possa essere disturbato dai loro quasi indistinguibili attacchi contro di esso come quinta colonna all’interno della società israeliana, continuerà ad approvare questi progetti.

È positivo che questi due uomini stiano affrontando le conseguenze attese da tempo per (alcune delle) loro azioni. L’ Israeli Religious Action Center, in particolare, deve essere elogiato per una battaglia quasi decennale per chiamare Gopstein a rispondere delle sue azioni. Ma non dobbiamo neppure fare di questa serie di avvenimenti altro che quello che sono: una foglia di fico che, puntando il dito contro due facili bersagli, rafforza piuttosto che indebolire il sistema che li ha prodotti.

Natasha Roth-Rowland è una dottoranda in storia all’università della Virginia, dove fa ricerca e scrive sull’estrema destra ebraica israeliana in Israele-Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come scrittrice, redattrice e traduttrice in Israele-Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast, the London Review of Books Blog, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive sotto lo pseudonimo del suo vero cognome in memoria di suo nonno, Kurt, che venne obbligato a cambiare il proprio cognome in ‘Rowland’ quando cercò di rifugiarsi in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La tortura sistematica dei palestinesi nelle carceri israeliane

Yara Hawari

28 novembre 2019 – al Shabaka

Sintesi

Il recente caso di Samer Arbeed ha evidenziato ancora una volta l’uso sistematico della tortura nei confronti dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. I soldati israeliani hanno arrestato Arbeed nella sua casa di Ramallah il 25 settembre 2019. Lo hanno picchiato duramente prima di portarlo per un interrogatorio al centro di detenzione di Al Moscobiyye a Gerusalemme. Due giorni dopo, secondo il suo avvocato, è stato ricoverato in ospedale a causa delle pesanti torture ed è rimasto in condizioni critiche per diverse settimane. L’autorità giudiziaria aveva autorizzato in questo caso il servizio segreto israeliano, lo Shin Bet, a utilizzare “metodi fuori dall’ordinario” per ottenere informazioni senza passare per un procedimento giudiziario. Ciò ha indotto Amnesty International a condannare ciò che è accaduto ad Arbeed in quanto “tortura autorizzata con strumenti legali”. (1)

Nell’agosto del 2019, poco prima dell’arresto di Arbeed, le forze di occupazione israeliane hanno iniziato una campagna mirata contro i giovani palestinesi e hanno arrestato oltre 40 studenti dell’Università di Birzeit. Gli arresti sono aumentati dopo la carcerazione di Arbeed e, poiché a molti studenti è stato negato il diritto di incontrare i loro avvocati, si suppone anche che molti siano stati sottoposti a tortura.

I fatti sopra riportati non rappresentano una novità. Dall’istituzione dello Stato di Israele nel 1948, la Israeli Security Agency (ISA) ha sistematicamente torturato i palestinesi usando una varietà di tecniche. E sebbene molti Paesi abbiano inserito il divieto di tortura nella loro legislazione nazionale (nonostante rimanga una pratica diffusa con il pretesto della sicurezza dello Stato), Israele ha intrapreso una strada diversa: non ha adottato una normativa nazionale che vieti l’uso della tortura e i suoi tribunali hanno permesso di utilizzare la tortura nei casi di “necessità”. Ciò ha dato all’ISA via libera nel fare ampio uso della tortura contro i prigionieri politici palestinesi.

Questo breve resoconto si concentra sull’uso della tortura nel processo detentivo israeliano (sia al momento dell’arresto che nelle carceri), tracciandone i momenti storici e i più recenti sviluppi. Basandosi sul lavoro di varie organizzazioni palestinesi, il documento sostiene che la pratica della tortura, incorporata nel sistema carcerario israeliano, è sistematica e legittimata attraverso l’ordinamento giuridico interno. [Il documento] indica chiaramente alla comunità internazionale la strada per inchiodare Israele alle sue responsabilità e porre fine a queste violazioni.

La tortura e la legge

La questione della tortura occupa un posto importante nelle discussioni su etica e moralità. Molti hanno sostenuto che la pratica della tortura riflette una società malata e corrotta. In effetti, la tortura prevede la totale disumanizzazione di una persona e, una volta che ciò si verifica, i confini dell’abbruttimento sono senza limite. Inoltre, mentre il pretesto comune degli apparati di sicurezza per l’utilizzo della tortura è che possa fornire informazioni vitali, ciò si è dimostrato del tutto infondato. Molti esperti prestigiosi, e persino funzionari della CIA, sostengono che le informazioni ottenute sotto tortura sono generalmente false. I prigionieri possono essere costretti a confessare qualsiasi cosa per fermare la sofferenza a cui vengono sottoposti.

Il sistema giuridico internazionale proibisce la tortura sulla base del diritto internazionale consuetudinario nonché di una serie di trattati internazionali e regionali. L’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo afferma: “Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti”. Il diritto internazionale umanitario, che regola il comportamento delle parti durante il conflitto, include anche il divieto di tortura. Ad esempio, la terza Convenzione di Ginevra vieta la “violenza sulla vita e sulla persona, in particolare omicidi di ogni tipo, mutilazioni, trattamenti crudeli e torture”, nonché “oltraggi alla dignità personale, in particolare trattamenti umilianti e degradanti”. Inoltre, la Quarta Convenzione afferma: “Nessuna coercizione fisica o morale deve essere esercitata contro le persone sotto tutela, in particolare per ottenere informazioni da loro o da terzi”.

Il divieto di tortura è così assoluto che è considerato jus cogens [norme di carattere imperativo, ndtr.] nel diritto internazionale, il che significa che non è derogabile e che nessun’altra legge può soppiantarlo. Eppure la tortura continua ad essere utilizzata da molti Paesi in tutto il mondo. Amnesty International la definisce una crisi globale, affermando di aver denunciato negli ultimi cinque anni violazioni del divieto di tortura da parte della grande maggioranza degli Stati membri delle Nazioni Unite.

La “guerra al terrore”, guidata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, ha portato in particolare a terribili casi di torture sistematiche, inflitte soprattutto a prigionieri arabi e musulmani. Il campo di detenzione di Guantanamo Bay, istituito dagli Stati Uniti nel 2002 per detenere “terroristi”, è stato e continua ad essere un luogo di tortura. Immagini di prigionieri bendati, incatenati e inginocchiati a terra con tute arancione sono state diffuse in tutto il mondo. 

Tuttavia forse le immagini più esplicite di questa condizione storica sono giunte dal carcere militare americano di Abu Ghraib in Iraq. Foto trapelate e testimonianze di militari hanno rivelato che la prigione era un luogo di torture su larga scala, incluso lo stupro di uomini, donne e bambini. All’epoca, l’amministrazione americana condannò questi atti e cercò di far credere che si trattasse di incidenti isolati. Le organizzazioni per i diritti umani, inclusa Human Rights Watch [ong statunitense per i diritti umani, ndtr.], hanno riferito il contrario.

Inoltre, recenti testimonianze da Abu Ghraib rivelano legami sinistri tra gli interrogatori statunitensi e quelli israeliani. In un libro di memorie, un ex addetto americano agli interrogatori in Iraq ha affermato che l’esercito israeliano ha addestrato il personale americano in varie tecniche di interrogatori e torture, inclusa quella che è diventata nota come “seggiola palestinese”, in cui il prigioniero è costretto a sporgersi su una sedia in posizione accovacciata e con le mani legate ai piedi. La pratica, che provoca un dolore lancinante, è stata perfezionata sui palestinesi – da qui il suo nome – e adottata dagli americani in Iraq.

Nonostante questi scandali, sono state intraprese pochissime azioni per proteggere i prigionieri di guerra e la tortura continua ad essere giustificata in nome della sicurezza. Nella prima intervista di Donald Trump dopo che aveva prestato giuramento come presidente degli Stati Uniti, egli ha dichiarato che, nel contesto della “guerra al terrore”, “la tortura funziona”. Anche prodotti di cultura di massa, quali programmi televisivi come “24” e “Homeland” [Patria, in italiano “Caccia alla spia”, serie televisiva statunitense, ndtr.] ” normalizzano l’utilizzo della tortura, in particolare contro arabi e musulmani, e promuovono l’idea che essa sia giustificata in funzione del bene superiore. Vi è stato anche un recente incremento di serie televisive e film che mettono in scena le attività del Mossad e dello Shin Bet, come “Fauda”, “The Spy” [La Spia, ndtr.] e “Dead Sea Diving Resort” [Paradiso delle immersioni nel Mar Morto, ndtr.], ognuno dei quali rende eroiche le attività dell’ISA mentre demonizza i palestinesi come terroristi. Queste serie e film presentano al mondo un’immagine di Israele che gli consente di giustificare le sue violazioni del diritto internazionale, compresa la tortura.

Mentre Israele ha ratificato la Convenzione contro la tortura (CAT) nel 1991, non l’ha integrata nella sua legislazione nazionale. Inoltre, nonostante la commissione delle Nazioni Unite sostenga il contrario, Israele sostiene che la CAT non si applica al territorio palestinese occupato. (2) Ciò consente a Israele di affermare che non esiste alcun crimine di tortura in Israele, tortura che è effettivamente consentita in caso di “necessità”, come è stato affermato a proposito del caso Arbeed. Questa “necessità” è anche conosciuta come la “bomba pronta ad esplodere”, una dottrina sulla sicurezza utilizzata da molti governi per giustificare la tortura e la violenza in situazioni considerate come strettamente dipendenti da contingenze temporali.

Israele ha anche approvato diverse sentenze sulla questione della tortura che hanno rafforzato e giustificato le attività dei suoi servizi di sicurezza. Ad esempio, nel 1987 due palestinesi dirottarono un autobus israeliano e vennero in seguito catturati, picchiati e giustiziati dallo Shin Bet. Sebbene ci fosse un divieto di pubblicazione sui media israeliani, i dettagli della tortura e dell’esecuzione trapelarono e portarono all’istituzione di una commissione governativa. Mentre la commissione concluse che “la pressione [sui detenuti] non deve mai raggiungere il livello di tortura fisica … un grado moderato di pressione fisica non può essere evitato”. Le raccomandazioni della commissione erano incompatibili con il diritto internazionale a causa della loro vaga definizione di “un grado moderato di pressione fisica “, e in sostanza diedero allo Shin Bet carta bianca al fine di torturare i palestinesi.

Oltre un decennio più tardi, e in seguito alla richiesta da parte delle organizzazioni per i diritti umani, nel 1999 la Corte di Giustizia israeliana ha emesso una sentenza secondo cui durante gli interrogatori dell’ISA non sarebbe stato più permesso usare mezzi fisici nel corso degli interrogatori, mettendo così al bando l’uso della tortura. La corte ha stabilito che quattro metodi comuni di “pressione fisica” (scuotimento violento, incatenamento a una sedia in una posizione di tensione, essere costretto a lungo in una posizione accovacciata e la privazione del sonno) erano illegali. Eppure la corte ha aggiunto una clausola che ha fornito una scappatoia per chi conduce gli interrogatori, vale a dire che coloro che utilizzino la pressione fisica non dovranno affrontare una responsabilità penale se si evince che lo abbiano fatto in una situazione di pericolo imminente o per la necessità di difendere lo Stato – in altre parole, se il detenuto risulti essere una minaccia immediata per la sicurezza pubblica.

La necessità della tortura in nome della sicurezza è stata riaffermata nel 2017, quando l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha emanato una sentenza a favore dello Shin Bet, con cui ha ammesso quelle che ha denominato “forme estreme di pressione” sul detenuto palestinese Assad Abu Ghosh. La giustificazione è stata che Abu Ghosh fosse in possesso di informazioni su un imminente attacco terroristico. La corte lo ha ritenuto “un interrogatorio con tecniche avanzate” piuttosto che una tortura e ha dichiarato che fosse giustificato dalla dottrina della “bomba pronta ad esplodere”. Analoghe sentenze sono state costantemente ripetute.

Sebbene le organizzazioni palestinesi per i diritti umani presentino regolarmente denunce alle autorità israeliane, raramente ricevono una risposta e, quando succede, è spesso per informare che il caso è stato chiuso a causa della mancanza di prove. In effetti, dal 2001 sono stati presentati 1.200 reclami contro i servizi di sicurezza per tortura, ma nessun agente è mai stato perseguito.

Il sistema carcerario israeliano: luoghi di tortura sistematica

Ogni anno il sistema carcerario militare israeliano detiene e incarcera migliaia di prigionieri politici palestinesi, principalmente dai territori del 1967 [territori occupati da Israele dopo la “Guerra dei Sei Giorni” del 1967, conquiste mai riconosciute dall’ONU, ndtr.]. Dall’inizio dell’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e dell’istituzione della legge marziale in quelle aree Israele ha arrestato oltre 800.000 palestinesi, pari al 40% della popolazione maschile e un quinto della popolazione totale.

La legge israeliana consente inoltre ai militari di trattenere un prigioniero per un massimo di sei mesi senza accusa, secondo una procedura nota come detenzione amministrativa. Questo periodo può essere prolungato indefinitamente, mediante “imputazioni” tenute segrete. I prigionieri e i loro avvocati, quindi, non sanno di cosa sono accusati o quali prove vengono usate contro di loro. L’ultimo giorno del periodo di sei mesi chi è detenuto con tale modalità viene informato se sarà rilasciato o se la sua detenzione sarà ulteriormente prolungata. Addameer-the Prisoner Support and Human Rights Association [Sostegno ai prigionieri e associazione per i diritti umani, Ong palestinese costituita nel 1992, ndtr.] ha definito questa pratica come una forma di tortura psicologica.

È durante il periodo iniziale della detenzione, sia amministrativa che di altro tipo, quando i detenuti sono spesso privati del contatto con avvocati o familiari, che sono sottoposti alle forme più severe di interrogatori e torture. Se vengono sottoposti a processo, affrontano un giudizio da parte del personale militare israeliano e spesso si vedono negata un’ adeguata assistenza legale. Questo sistema è illegale ai sensi delle leggi internazionali e organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno documentato una vasta gamma di violazioni dei diritti umani.

Ai bambini non viene risparmiata l’esperienza della prigionia e della tortura all’interno del sistema militare israeliano e quasi sempre viene loro negata la presenza della tutela dei genitori durante gli interrogatori. Uno di questi esempi è del 2010, quando la polizia di frontiera israeliana ha arrestato il sedicenne Mohammed Halabiyeh nella sua città natale di Abu Dis. Al momento dell’arresto la polizia gli ha rotto una gamba e lo ha picchiato, prendendo intenzionalmente a calci la gamba ferita. È stato interrogato per cinque giorni consecutivi e ha dovuto affrontare minacce di morte e violenza sessuale. È stato quindi ricoverato in ospedale, dove gli agenti israeliani hanno continuato ad abusare di lui facendo penetrare siringhe all’interno del suo corpo e dandogli pugni in faccia. Halabiyeh è stato denunciato e sottoposto a processo come un adulto, come nel caso di tutti i minori palestinesi detenuti di età superiore ai 16 anni, in diretta violazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia. (3) Israele arresta, detiene e processa ogni anno da 500 a 700 minori palestinesi.

Attualmente ci sono 5.000 prigionieri politici palestinesi; tra questi 190 minorenni, 43 donne e 425 prigioniere in stato di detenzione amministrativa, di cui la maggior parte è stata sottoposta a qualche forma di tortura. Secondo Addameer, i metodi più comuni utilizzati dallo Shin Bet e dagli agenti addetti all’interrogatorio includono:

  • Tortura di posizione: i detenuti vengono obbligati a stare in posizioni forzate, spesso con le mani legate dietro la schiena e i piedi incatenati mentre sono costretti a sporgersi in avanti. Vengono lasciati in tali posizioni per periodi di tempo prolungati durante l’interrogatorio.
  • Pestaggi: i detenuti spesso subiscono pestaggi, sia a mani nude che con oggetti, e talvolta vengono tramortiti.
  • Isolamento: i detenuti vengono posti in isolamento o in confino solitario per lunghi periodi.
  • Privazione del sonno: ai detenuti viene impedito di riposare o dormire e sono sottoposti a lunghe sessioni di interrogatorio.
  • Tortura sessuale: uomini, donne e bambini palestinesi sono soggetti a stupri, molestie fisiche e minacce di violenza sessuale. Le molestie sessuali verbali sono una pratica particolarmente comune in cui i detenuti sono esposti a commenti su loro stessi o sui loro familiari. Questo tipo di tortura è spesso considerato efficace perché la vergogna per l’oltraggio sessuale impedisce ai detenuti di rivelarla.
  • Minacce per i familiari: i detenuti [devono] ascoltare minacce di violenza contro i familiari per essere spinti a fornire delle informazioni. Ci sono stati casi in cui membri della famiglia sono stati arrestati e interrogati in una stanza vicina in modo che il detenuto potesse sentire mentre erano sottoposti a tortura.  

I suddetti metodi di tortura lasciano danni permanenti. Mentre la tortura fisica può lasciare gravi danni fisici, tra cui ossa rotte e dolori muscolari e articolari cronici, soprattutto a causa di posizioni forzate o dell’essere costretti in un piccolo spazio, il danno psicologico può essere ancora peggiore, con condizioni come depressione profonda e duratura , allucinazioni, ansia, insonnia e pensieri suicidi.

Molti meccanismi di tortura richiedono la complicità degli attori all’interno del sistema giudiziario militare israeliano, incluso il personale medico. Ciò si verifica nonostante il codice deontologico, come definito dalla Dichiarazione di Tokyo e dal Protocollo di Istanbul, includa la clausola secondo cui i medici non devono collaborare con gli agenti che conducano interrogatori che comportino torture, non devono condividere informazioni mediche con i torturatori e devono opporsi attivamente alla tortura. In realtà i medici israeliani sono stati a lungo complici della tortura di detenuti e prigionieri palestinesi. Nel corso degli anni i giornalisti hanno scoperto documenti che rivelano che i medici approvano la tortura e riportano il falso per giustificare le lesioni inflitte durante gli interrogatori.

I medici sono anche complici dell’alimentazione forzata, un altro meccanismo di tortura, sebbene meno comune, usato dal regime israeliano. L’alimentazione forzata richiede che un detenuto sia legato mentre un tubo sottile viene inserito attraverso una narice e spinto fino allo stomaco. Il liquido viene quindi iniettato attraverso il tubo nel tentativo di alimentare il corpo. Il personale medico deve posizionare il tubo, che può finire per passare attraverso la bocca o la trachea invece che per l’esofago, nel qual caso deve essere retratto e sostituito. Questo non solo provoca grande dolore, ma può anche portare a gravi complicazioni mediche e persino alla morte.

Negli anni ’70 e ’80 diversi prigionieri palestinesi morirono per essere stati nutriti con la forza, provocando un ordine di cessazione da parte della Corte Suprema israeliana. Tuttavia, una legge della Knesset del 2012 ha ripristinato la legalità dell’alimentazione forzata nel tentativo di interrompere gli scioperi della fame dei palestinesi. In un documento inviato al primo ministro israeliano nel giugno 2015, l’Associazione Medica Mondiale [organizzazione internazionale che rappresenta i medici di tutto il mondo, ndtr.] ha affermato che “l’alimentazione forzata è violenta, spesso dolorosa e contraria al principio di autonomia individuale. È un trattamento degradante, disumano e può equivalere a tortura.”

Fermare la tortura israeliana

Per i palestinesi, la tortura è solo uno degli aspetti della violenza strutturale che affrontano nelle mani del regime israeliano, che li rinchiude in una prigione a cielo aperto e li priva dei loro diritti fondamentali. Ed è anche un aspetto che riceve scarsa attenzione dalla comunità internazionale, di solito perché le autorità israeliane usano argomenti relativi alla sicurezza dello Stato, rafforzati dalla narrativa della “guerra al terrore”. Questo è stato il caso di Samer Arbeed, che i media israeliani hanno definito un terrorista, facendo sì che la maggior parte degli Stati mantenga il silenzio sul suo trattamento nonostante sia stato presentata una petizione e siano state fatte pressioni da molte organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani. Come per tutte le violazioni contro il popolo palestinese, la tortura israeliana sollecita una messa in discussione sull’utilità dell’ordinamento giuridico internazionale.

Il 13 maggio 2016, il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha raccomandato a Israele più di 50 misure a seguito di una revisione della sua conformità alla Convenzione contro la tortura, tra cui il fatto che tutti gli interrogatori dovrebbero avere una documentazione audio e visiva, che ai detenuti dovrebbero essere concessi esami medici indipendenti e che la detenzione amministrativa dovrebbe essere eliminata. Queste sono, naturalmente, raccomandazioni importanti e si dovrebbe fare in modo che Israele le rispetti. Tuttavia, in un momento in cui gli attori di Paesi terzi non sono generalmente disposti a ritenere Israele responsabile della violazione del diritto internazionale e dei diritti dei palestinesi, non sono sufficienti.

Di seguito vengono riportati alcuni passaggi che coloro che si impegnano per i diritti dei palestinesi nei contesti internazionali e nazionali possono adottare allo scopo di interrompere il carattere sistematico della tortura israeliana:

  • Le organizzazioni e i gruppi dovrebbero raccogliere prove sulla responsabilità penale individuale, al di fuori di Israele e Palestina, di coloro che sono coinvolti nella tortura dei palestinesi. La responsabilità può essere estesa non solo a coloro che commettono la tortura, ma anche a coloro che aiutano, favoriscono e omettono informazioni al riguardo. Ciò include il personale che interroga, i giudici militari, le guardie carcerarie e i medici. Poiché la tortura è un crimine di guerra dello jus cogens, è soggetta alla giurisdizione universale, il che significa che terze parti possono presentare denunce penali contro singoli individui. 4) Sebbene la responsabilità penale individuale non affronti necessariamente la struttura sistematica della tortura contro i palestinesi, essa mette sotto pressione le persone israeliane coinvolte limitando i loro movimenti e i viaggi all’estero.
  • In quanto unico organo giudiziario indipendente a cui è possibile accedere in grado di porre fine all’impunità per le violazioni dei diritti dei palestinesi, la Corte Penale Internazionale ha il compito di ritenere Israele responsabile. L’ufficio del procuratore, con tutte le informazioni e le relazioni dettagliate che gli sono state presentate, dovrebbe avviare un’indagine formale sulle violazioni all’interno del sistema carcerario israeliano.
  • Gli Stati firmatari delle Convenzioni di Ginevra e le organizzazioni internazionali per i diritti umani devono fare pressione sul Comitato Internazionale della Croce Rossa affinché ottemperi al proprio mandato al fine di proteggere i detenuti palestinesi e aprire un’indagine su tutte le accuse di tortura. (5)
  • La società civile e le istituzioni palestinesi dovrebbero continuare a sostenere coloro che lavorano per aiutare le vittime della tortura. Tale sostegno può essere potenziato da uno sforzo mirato e specifico per espandere tali risorse e renderle accessibili in tutte le aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Ciò dovrebbe includere anche l’impegno rivolto a rompere il tabù della ricerca di interventi terapeutici e l’eliminazione dello stigma riguardante la violenza sessuale. Le aggressioni sessuali di solito non vengono trattate interamente perché le vittime si vergognano troppo di raccontare il loro calvario e il fatto di non parlarne rende la guarigione più difficile. Creare spazi più sicuri per le testimonianze individuali e collettive è la chiave per aiutare i sopravvissuti a riprendersi.

Con tali azioni concertate, i palestinesi e i loro alleati possono lavorare per limitare la pratica della tortura così profondamente radicata nel sistema carcerario israeliano e coperta dalla legge israeliana, impegnandosi anche per aiutare a guarire coloro che ne hanno subito le conseguenze dolorose.

L’autrice desidera ringraziare Basil Farraj, Suhail Taha e Randa Wahbe per il loro supporto e competenza nella stesura di questo articolo.

Note:

  1. Questo documento è stato prodotto con il supporto di Heinrich-Böll-Stiftung [fondazione politica, con sede a Berlino, nata nel 1997 col nome del noto scrittore, e facente parte del partito dei Verdi tedeschi, ndtr.]. Le opinioni espresse nel presente documento sono quelle dell’autrice e pertanto non riflettono necessariamente l’opinione dell’Heinrich-Böll-Stiftung.
  2. Secondo B’tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr-], “Israele sostiene di non essere vincolato dalle leggi internazionali sui diritti umani nei territori occupati, poiché essi non costituiscono un territorio israeliano ufficialmente sovrano. Mentre è vero che Israele non ha sovranità sui territori occupati, questo fatto non basta a sminuire il suo dovere di ottemperare alle disposizioni internazionali in materia di diritti umani. I giuristi internazionali non sono d’accordo con la posizione di Israele sulla questione, e questa è stata ripetutamente respinta dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e da tutte le commissioni delle Nazioni Unite che sovrintendono all’attuazione delle varie convenzioni sui diritti umani. Questi organismi internazionali hanno ripetutamente affermato che gli Stati devono rispettare le disposizioni sui diritti umani ovunque esercitino un controllo effettivo.”
  3. Nel 2009 Israele ha istituito un tribunale militare minorile per perseguire i minori di 16 anni – l’unico Paese al mondo a farlo. Secondo l’UNICEF, esso utilizza le stesse strutture e lo stesso personale giudiziario del tribunale militare per adulti.
  4. Lo dimostra il caso di Tzipi Livni; Livni è stata il ministro degli Esteri israeliano durante l’attacco a Gaza del 2009 che ha visto l’uccisione di oltre 1.400 palestinesi. Nello stesso anno, un gruppo di avvocati con sede nel Regno Unito è riuscito a ottenere che un tribunale britannico emettesse un mandato di arresto nei suoi confronti. Di conseguenza [Livni] ha dovuto annullare il suo viaggio nel Regno Unito ed è stata costretta ugualmente ad annullare il viaggio in Belgio nel 2017, quando la procura belga ha annunciato l’intenzione di arrestarla e di interrogarla sul suo ruolo nell’attacco.
  5. Di recente, in seguito all’arresto e alla tortura di Samer Arbeed, il Comitato internazionale della Croce Rossa ha rilasciato una dichiarazione, ma invece di condannare le violazioni israeliane ha condannato gli attivisti che hanno manifestato e occupato l’ufficio della CICR a Ramallah per protestare contro il silenzio dell’organizzazione su Arbeed.

Yara Hawari

Yara Hawari è il Membro Anziano per la politica palestinese di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network [Al Shabaka significa “La Rete”, è un’agenzia indipendente palestinese di informazioni politiche, ndtr.]. Ha completato il suo dottorato di ricerca in politica mediorientale presso l’Università di Exeter. La sua ricerca si è concentrata su progetti di storia orale e politiche della memoria, inquadrati più ampiamente all’interno degli studi autoctoni. Yara ha tenuto vari corsi universitari presso l’Università di Exeter e continua a lavorare come giornalista indipendente, pubblicando per vari media, tra cui Al Jazeera in inglese, Middle East Eye e The Indipendent.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cosa c’è dietro il riavvicinamento tra Russia e Hamas?

Adnan Abu Amer

27 novembre 2019 – Al Jazeera

Hamas spera che la Russia possa essere d’aiuto per uscire dall’isolamento internazionale. Ma funzionerà?

Nelle ultime settimane c’è stato un considerevole aumento del numero di scambi ufficiali ad alto livello tra il governo russo e Hamas. Ma quest’intensificazione delle relazioni potrebbe aiutare a spezzare il recente isolamento imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati?

A luglio Mousa Abu Marzouk, vice-presidente dell’ufficio politico di Hamas, ha guidato una delegazione in visita a Mosca e ha incontrato Mikhail Bogdanov, vice-ministro degli esteri russo e inviato speciale per il Medio Oriente e l’Africa.

A metà ottobre si sono nuovamente incontrati a Doha, in Qatar, e poi alcune settimane più tardi l’inviato russo ha avuto una conversazione telefonica con Ismail Haniya, il leader di Hamas.

Secondo le due parti in queste conversazioni si è discusso del cosiddetto “accordo del secolo” del presidente USA Donald Trump e dei motivi del rifiuto di Hamas. 

Le dichiarazioni di vari funzionari russi che sembrano criticare “l’accordo del secolo ” sono state ben accolte sia a Gaza che a Ramallah. A metà ottobre, il presidente russo Vladimir Putin ha detto che avrebbe appoggiato ogni patto che avesse portato la pace, ma ha definito la proposta di Washington “piuttosto vaga”.

La Russia sembra voler rivaleggiare con gli USA nella mediazione fra Israele e la Palestina. Per questo motivo è ansiosa di coinvolgere non solo l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ma anche Hamas.

L’impegno russo con il movimento non è sorto dal nulla, dato che negli ultimi dieci anni si sono mantenute delle relazioni con i suoi dirigenti. Mentre gli USA e l’Unione Europea hanno etichettato fin da subito Hamas come ” gruppo terroristico “, la Russia ha mantenuto contatti di alto livello fin dal 2006 quando, dopo la sua vittoria nelle elezioni parlamentari, assunse il controllo a Gaza.

 

La Russia ha giustificato questa scelta dicendo che Hamas è il rappresentante eletto di un settore significativo della società palestinese ed è rappresentato nel Consiglio Legislativo Palestinese e nei governi palestinesi.

 Negli anni Mosca ha anche ospitato parecchie sessioni di negoziati volte a forgiare una riconciliazione fra il gruppo di Gaza e il partito “Fatah” del presidente palestinese Mahmoud Abbas. 

Anche se Hamas ha goduto da lungo tempo di cordiali relazioni con la Russia, ha ancora molto da guadagnare rafforzando ulteriormente questo legame.

La Russia è una grande potenza con un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Fa anche parte del Quartetto per il Medio Oriente [composto anche da ONU, USA e UE, ndtr.] che lavora per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Inoltre la Russia mantiene strette relazioni con i tre interlocutori che più interessano ad Hamas: Israele, l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Egitto. La Russia quindi potrebbe aiutare Hamas non solo a tener testa nell’arena internazionale a Trump e al suo “accordo del secolo “, ma anche a risolvere i suoi problemi con l’ANP e l’Egitto.

I leader a Gaza sanno che le relazioni russo-israeliane si sono ulteriormente rafforzate in seguito all’intervento russo in Siria nel 2015 e dopo l’apertura di un centro di coordinamento delle operazioni degli eserciti russo e israeliano per prevenire incidenti sul campo.

Nonostante ciò, Hamas non considera le relazioni tra la Russia e Israele un ostacolo nello stabilire delle relazioni più strette con Mosca. Al contrario, Hamas crede che Mosca possa usare i suoi legami con Israele per aiutare il movimento a prevenire attacchi politici e militari di Israele a Gaza.

Inoltre Hamas vuole che la Russia aiuti a ristabilire le relazioni con il regime siriano che si sono interrotte nel 2012, quando [Hamas] ha dato il suo appoggio alle proteste contro il regime siriano.

In questo contesto, l’intensificarsi delle attività fra Mosca e Gaza sembra essere una grande vittoria per Hamas, che crede possa porre fine al suo isolamento politico permettendole di unirsi al gruppo dei rappresentanti legittimi del popolo palestinese agli occhi della comunità internazionale.

Ci sono comunque dei motivi per andar cauti nella valutazione sul significato e sulla durata di questo riavvicinamento.

La Russia è interessata a esercitare un influsso maggiore in Medio Oriente in generale, e in Palestina in particolare. Essa crede che spezzare il monopolio americano nel processo di pace sia la chiave per ripristinare il suo controllo dell’intera regione. Vuole avere delle relazioni più strette con Hamas perché considera il movimento un attore chiave in Palestina estraneo all’influsso USA.
Inoltre, Mosca vuole usare Hamas per sviluppare delle relazioni più strette con altri movimenti politici islamici della regione, come la Fratellanza Musulmana.

Non si può valutare l’avvicinamento della Russia a Hamas indipendentemente dalla sua alleanza nella regione con l’Iran. Mosca vuole avere dalla propria parte quante più potenze possibili nella regione per fronteggiare gli USA e pensa che Hamas possa prendere posto nell’asse guidato dall’Iran contro gli alleati degli USA.

Tutto ciò comunque non significa che Mosca sia sulla stessa lunghezza d’onda quando si parla della sua visione del futuro della Palestina. A differenza di Hamas, Mosca sostiene la soluzione dei due Stati e si oppone alla resistenza armata. E inoltre, come membro del Quartetto del Medio Oriente, vuole il riconoscimento di Israele da parte di tutte le fazioni palestinesi.

Tutto ciò fa sorgere serie domande circa le prospettive di una collaborazione a lungo termine fra la Russia e Hamas che possa offrire dei reali benefici politici a quest’ultimo.

Infatti la Russia ha già deluso il movimento su parecchi fronti. Per esempio, l’ufficio di Hamas nella capitale russa non è ancora “ufficiale”, nonostante le ripetute richieste dei suoi funzionari. Ha inoltre fino ad ora fatto poco per alleviare il suo isolamento internazionale.

Anche se senza dubbio Hamas ci guadagnerà ad avere relazioni più strette con una superpotenza, è difficile che Mosca possa offrire tutto quello di cui il movimento ha bisogno, a meno che il movimento stesso non sia d’accordo ad arrivare a dei compromessi, incluso l’accordo a favore di uno Stato palestinese entro la Linea Verde [cioè i confini tra Israele e Cisgiordania del 1967, ndtr.]. Questo potrebbe avere un notevole costo politico sul campo e danneggiare la sua popolarità fra i palestinesi, ma aiuterebbe a farlo uscire dall’isolamento internazionale e a mettere in discussione l’etichetta di “terrorista”.

I segnali del miglioramento delle relazioni con la Russia costituiscono già una svolta importante per il movimento. Ma per essere in grado di massimizzare i vantaggi di questa relazione e rafforzare ancora di più i suoi legami con la Russia, Hamas dovrebbe adottare un approccio pragmatico alla politica internazionale. 

Le opinioni contenute in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle della redazione di Al Jazeera.

 

Il dottor Adnan Abu Amer è il direttore del Dipartmento di Scienze Politiche dell’Università della Ummah [la comunità dei fedeli musulmani, ndtr.] a Gaza.

(Traduzione di Mirella Alessio)