Israele sta falsificando la storia palestinese e rubando la sua eredità

Nabil Al Sahli

6 novembre 2019 Middle East Monitor

La Palestina è uno dei paesi più ricchi del mondo in termini di antichità, in competizione con l’Egitto nel mondo arabo. Almeno 22 civiltà hanno lasciato il segno in Palestina, la prima delle quali fu quella dei Cananei; presenza che è ancora visibile fino a oggi.

Dal 1948, i governi israeliani che si sono succeduti hanno prestato una particolare attenzione alle antichità che hanno una spiccata identità araba e palestinese. Hanno formato comitati di archeologi israeliani per indagare in ogni parte della Palestina su cui è stato fondato Israele.

L’obiettivo è ancora quello di creare una falsa narrativa storica giudaizzando le antichità palestinesi.

Monumenti storici nelle principali città palestinesi, come Acri, Giaffa, Gerusalemme e Tiberiade, non sono stati risparmiati da questo processo.

Inoltre, Israele ha usato varie istituzioni per giudaizzare la moda palestinese attraverso il furto culturale e la falsificazione del suo patrimonio.

Nemmeno le ricette locali si salvano. Israele ha partecipato a mostre internazionali per mostrare moda e cucina palestinesi etichettate come “israeliane”. È così che l’occupazione israeliana e le “mafie” che vendono oggetti d’antiquariato di valore inestimabili stanno rubando l’eredità e la storia della Palestina risalenti a migliaia di anni fa.

Questo accade in un momento in cui i partiti palestinesi stanno prendendo provvedimenti e chiedono la protezione del loro retaggio, della loro storia e della loro civiltà.

In questo contesto, studi hanno indicato che ci sono più di 3.300 siti archeologici nella sola Cisgiordania occupata. Diversi ricercatori confermano che, in media in Palestina, ogni mezzo chilometro esiste un sito archeologico che indica la vera identità e la storia della terra.

Qui è importante menzionare gli effetti devastanti del muro di separazione israeliano nel futuro delle antichità e dei monumenti palestinesi.

La costruzione in corso del muro sulle terre palestinesi in Cisgiordania porterà infine all’annessione di oltre il 50% del territorio occupato. Comprenderà inoltre oltre 270 importanti siti archeologici, oltre a 2.000 postazioni archeologiche e storiche. Decine di siti e monumenti storicamente importanti sono stati distrutti durante la costruzione del muro.

Studi specializzati sulle antichità palestinesi indicano che, da quando ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza nel giugno 1967, Israele ha potuto rubare e vendere ancora più manufatti palestinesi dalla Cisgiordania. Questo fenomeno è stato esacerbato dallo scoppio dell’Intifada di Al Aqsa alla fine di settembre 2000.

Studi palestinesi indicano che la ragione di questa Nakba (catastrofe) in corso è il crollo di qualsiasi sistema per proteggere le aree palestinesi a causa del controllo israeliano. Tale protezione rientra nella gestione diretta dell’occupazione, il che significa sostanzialmente che l’esercito israeliano è libero di distruggere il patrimonio culturale, come è accaduto a Gerusalemme, Nablus, Hebron, Betlemme e altre città e villaggi palestinesi.

Il furto archeologico e la violazione dei siti del patrimonio palestinese sono una delle maggiori sfide che i palestinesi devono affrontare mentre cercano di preservare la loro cultura e presenza fisica nella loro patria, minacciati dalla giudeizzazione e guidati dalle sistematiche politiche israeliane. Dobbiamo sensibilizzare la società palestinese perché affronti questa nuova e vecchia sfida imposta da Israele.

Dobbiamo anche aumentare la nostra capacità di combattere il furto della nostra storia da parte di Israele a livello locale, regionale e internazionale. Ciò può essere rafforzato dalla piena adesione della Palestina alle pertinenti organizzazioni internazionali, compreso l’UNESCO.

La diversità culturale in Palestina risale a migliaia di anni fa. È vergognoso che permettiamo che questo venga cancellato dalla storia, perché Israele cerca “prove” per la sua falsa narrazione dello “stato ebraico”, escludendo le popolazioni indigene.

(Traduzione dallo spagnolo di Carmela Ieroianni – Invictapalestina.org)




P sta per Palestina: paura e disgusto nella biblioteca dei bambini

Nada Elia

4 novembre 2019-11-11  MIDDLE EAST EYE

L’autrice Golbarg Bashi dice di aver ricevuto attacchi e intimidazioni da parte di gruppi sionisti relativamente a un libro per bambini che insegna l’alfabeto

Quando le forze di sicurezza hanno circondato l’edificio a Highland Park nel New Jersey, l’autrice –  che ha avuto bisogno di una scorta armata della polizia – ha dovuto entrare da una porta sul retro. Un suo amico, membro di ‘Jews for Palestinian Right of Return’ [Ebrei per il diritto al ritorno dei palestinesi] era al suo fianco durante l’evento.

Fuori, la polizia era pronta ad agire. Il timore era che membri della‘Jewish Defense League’ [Lega per la difesa ebraica], considerata dall’FBI un gruppo terrorista di destra, sarebbero intervenuti ad attaccare i clienti della biblioteca, come avevano fatto due an ni prima per un’altra presentazione dello stesso libro.

Infatti, posizionati su entrambi i lati dell’entrata della biblioteca, sotto una pioggia battente, vi erano due gruppi. Da una parte c’erano i sostenitori, con uno striscione colorato con la scritta: “Sosteniamo le nostre biblioteche, la libertà di parola e i diritti dei palestinesi.”

Sull’altro lato, imitando i raduni di nazionalisti bianchi che sono oggi una triste presenza in alcune parti degli USA, gli avversari intonavano slogan pro Trump e gridavano insulti all’autrice.

Calunniata come terrorista

 “Mi sono sentita come un bambino afro-americano scortato dentro una scuola di bianchi a lui ostile negli anni ‘60”, ha detto a MEE l’autrice, Golbarg Bashi.

 “La comunità, gli utenti della biblioteca, non mi volevano, mi consideravano una minaccia. Nel periodo della desegregazione, i bianchi sostenevano che i neri fossero pericolosi, che i ragazzi neri avrebbero violentato le ragazze bianche. Oggi, la paura riguarda i palestinesi – nessuno dovrebbe nemmeno sapere che esistono ed il mio piccolo libriccino autofinanziato è considerato una minaccia.”

Infatti, dalla pubblicazione del suo libro per bambini nel 2017, Bashi è stata calunniata come terrorista e antisemita ed ha ricevuto minacce di morte. I sionisti hanno anche costretto una libreria indipendente di New York a smettere di tenere il libro e a formulare scuse per averlo tenuto in magazzino.

Secondo il titolare di quella libreria, l’ultima volta che aveva ricevuto simili minacce è stata decenni fa, dopo che l’Iran ha emesso una fatwa contro Salman Rushdie per il suo libro ‘I versetti satanici’.

Per garantire che non ci fosse una folla ostile accalcata nel locale della biblioteca, era necessaria una registrazione preventiva, riservata ai bambini in possesso della tessera della biblioteca, accompagnati da un genitore.

Il libro in questione, percepito come “minaccia” dai membri della comunità sionista di Highland Park, era ‘P is for Palestine’ [P sta per Palestina], un libro di alfabeto che fornisce insegnamenti sul Paese con semplici illustrazioni colorate. “A” sta per Arabo, “B” sta per Betlemme, “D” sta per Dabke [popolare danza mediorientale, ndtr.], e, il più contestato, “I” sta per Intifada.

Implicazioni legali

La presentazione, che alla fine si è svolta il 20 ottobre, era stata programmata come data alternativa ad una precedente presentazione in maggio, che aveva dovuto essere rinviata quando è scoppiato il finimondo nella comunità di Highland Park riguardo al libro, che alcuni ritenevano contenesse materiale offensivo.

Secondo il ‘New Jersey Jewish News’, “dopo che è stata annunciata per la prima volta la presentazione di Bashi, il conseguente finimondo ha attirato l’attenzione dell’Organizzazione Sionista Americana e dell’ Office for Intellectual Freedom of the American Library Association [Ufficio per la Libertà Intellettuale dell’Associazione Bibliotecaria Americana] (AMA). L’AMA ha contattato i funzionari della biblioteca dicendo che non era giusto cancellare un evento a causa di ipotetiche implicazioni legali o finanziarie.

La biblioteca ha ricevuto anche una lettera fermata da ACLU [American Civil Liberties Union, Unione per le Libertà Civili negli USA, organizzazione non governativa orientata a difendere i diritti civili e le libertà individuali negli Stati Uniti] del New Jersey, dal ‘Centro per i diritti costituzionali’, con sede a New York, e da  Palestine Legal [organizzazione per la difesa dei diritti civili e costituzionali delle persone che si esprimono a favore del popolo palestinese negli USA, ndtr.], che informava la biblioteca che essi ritenevano incostituzionale una cancellazione, segnalando che annullare la presentazione avrebbe potuto provocare un ricorso legale.”

Sicuramente è stato solo dopo l’invio delle lettere da parte di queste associazioni per i diritti civili che la biblioteca ha accettato di riprogrammare la presentazione.

Ma la vicenda potrebbe non finire qui : la presentazione del libro potrebbe ancora essere contestata come una violazione delle leggi federali anti-discriminazione (Titolo VI).

La biblioteca è stata minacciata di azione legale in quanto il libro è promosso da ‘Jewish Voice for Peace’ [Voci ebraiche per la pace, gruppo di ebrei antisionisti, ndtr.] di New York, un’organizzazione progressista che sostiene i diritti dei palestinesi, e da ‘Samidoun’, la rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi.

Una lettera del 4 ottobre di Marc Greendorfer, un avvocato di Zachor [organizzazione per la memoria dell’olocausto, ndtr.], aveva avvertito la biblioteca che il centro legale anti-BDS [Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndtr.] avrebbe intrapreso un’azione contro di essa e il distretto di Highland Park per aver ospitato l’evento.

 “Sulla base di informazioni da noi ricevute, due dei principali promotori della presentazione, ‘Samidoun’ e ‘Jewish Voice for Peace’, hanno legami con organizzazioni che praticano la discriminazione e forniscono appoggio ad organizzazioni terroristiche”, affermava la lettera, suggerendo che la presentazione avrebbe violato le disposizioni anti-discriminazione del Titolo VI e potenzialmente anche le leggi anti-terrorismo, e che “se la biblioteca procedesse a tenere  questa presentazione noi sporgeremo denuncia presso il Dipartimento dell’Educazione.”

 ‘Praticamente vietato’

A quanto pare, secondo Bashi, il direttore della biblioteca l’ha successivamente informata che tutti i posti erano stati immediatamente prenotati nel giorno stesso dell’apertura delle registrazioni da noti sionisti in possesso della tessera della biblioteca, che prima si erano opposti alla presentazione. Alla fine, solo un piccolo gruppo di bambini si è presentato alla presentazione del 20 ottobre, e Bashi ha detto di aver avuto la netta sensazione che gli adulti che li accompagnavano fossero ostili.

Bashi ha detto a MEE che, quando lei ha rotto il ghiaccio con i bambini, scherzando con loro e domandandogli quali fossero le loro materie preferite a scuola, i genitori si sono irritati e alla fine “hanno strattonato i bambini fuori” dal locale.

Eppure, alla fine della sua presentazione, Bashi ha gentilmente offerto alla biblioteca una copia del libro, che la biblioteca non ha accettato.

 “Il mio libro è praticamente vietato”, ha detto Bashi, dato che le biblioteche pubbliche non lo accettano, mentre le librerie tradizionali stanno cedendo agli attacchi sionisti  contro i loro dipendenti e dirigenti e anch’esse rifiutano di accettarlo.

Bashi ha anche avuto la sua serie di problemi con i grandi distributori di libri online, dove ‘P is for Palestine’ è segnalato come esaurito, mentre il suo secondo libro, ‘Counting up the olive tree’ [Contare gli  alberi di ulivo] non viene neanche menzionato.

Fortunatamente, per coloro che desiderano una copia di uno dei libri o di entrambi, essi sono disponibili tramite il ‘Palestine Online Store’ – attualmente l’unico sito che contiene questi magnifici doni.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica palestinese della diaspora, che attualmente sta lavorando al suo secondo libro, “Chi chiamate ‘minaccia demografica’?: Note dall’Intifada globale.” E’ docente (in pensione) di Studi di genere e globali ed è membro del gruppo dirigente della campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Come Israele ridefinisce il diritto internazionale per coprire i suoi crimini a Gaza

Ben White

5 Novembre 2019 – Middle East Eye

L’approccio di Israele al diritto internazionale può essere sintetizzato così: ‘Se fai qualcosa per un tempo abbastanza lungo, il mondo lo accetterà’.

Da quando Israele, nel 2005, ha evacuato coloni e ha riposizionato le sue forze armate lungo la barriera perimetrale, ha sottoposto i palestinesi di Gaza a numerose aggressioni devastanti, un blocco e costanti attacchi contro persone come agricoltori e pescatori.

Molte di queste politiche hanno ricevuto pesanti condanne – da parte palestinese ovviamente, ma anche da parte di associazioni per i diritti umani israeliane e internazionali e addirittura da parte di leader e politici mondiali – seppure, purtroppo, raramente accompagnate da azioni concrete a livello di Stati. Israele tuttavia ha cercato di evitare anche solo la possibilità di una significativa assunzione di responsabilità. Il suo approccio è stato molto semplice: di fronte alle critiche per aver violato le leggi, cambia le leggi.

Fornire copertura

Più precisamente, Israele si è impegnato molto a sviluppare e promuovere interpretazioni del diritto internazionale che forniscano una copertura alle sue politiche e tattiche nella Striscia di Gaza.

Nel gennaio 2009, all’indomani di un’offensiva israeliana [operazione Piombo Fuso, ndtr.] che ha portato al rapporto Goldstone commissionato dall’ONU, è stato pubblicato su Haaretz un dettagliato articolo sul lavoro della sezione sul diritto internazionale all’interno dell’ufficio dell’Avvocatura Generale militare. Si tratta dei dirigenti responsabili di controllare (o forse autorizzare) le azioni e le tattiche militari e di fornire la giustificazione legale a tali azioni.

Una delle persone intervistate in quell’articolo era Daniel Reisner, che era stato in precedenza a capo della sezione sul diritto internazionale. “Se fai qualcosa abbastanza a lungo il mondo la accetterà”, ha detto. “Il complesso del diritto internazionale è ora basato sul concetto che un atto vietato oggi diventa accettabile se attuato da un sufficiente numero di Paesi…Il diritto internazionale progredisce attraverso le violazioni ad esso.”

È stata la Striscia di Gaza ad essere usata da Israele come laboratorio per simili violazioni “progressive”. Un esempio è dato dallo stesso status di Gaza. Fin dal 2005 la posizione di Israele è stata che Gaza non è né occupata né sovrana, bensì costituisce un’“entità ostile”.

Nel suo recente libro ‘Justice for some’ [Giustizia per alcuni], la studiosa Noura Erakat analizza in dettaglio le implicazioni di una simile definizione, che fa di Gaza “né uno Stato in cui i palestinesi hanno il diritto di governarsi e proteggersi, né un territorio occupato la cui popolazione civile Israele ha il dovere di proteggere.”

Di fatto, Israele ha usurpato il diritto dei palestinesi a difendersi, in quanto non appartengono ad alcuna sovranità embrionale, si è sottratto ai suoi obblighi in quanto potenza occupante ed ha ampliato il proprio diritto a dispiegare la forza militare, rendendo così i palestinesi della Striscia di Gaza tre volte vulnerabili”, ha sottolineato Erakat.

Intento deliberato

La pretesa che la Striscia di Gaza non sia più occupata è ovviamente errata, non ultimo perché Israele ha mantenuto il controllo effettivo sul territorio. Le sue forze armate entrano quando vogliono per terra e per mare e Israele ha il controllo sullo spazio aereo di Gaza, sullo spettro elettromagnetico [cioè sulle frequenze per le telecomunicazioni, ndtr.], sulla maggior parte dei movimenti in entrata e uscita e sull’anagrafe – oltre al blocco tuttora in corso.

La Striscia di Gaza è soltanto una parte del territorio palestinese occupato, che, insieme alla Cisgiordania (compresa Gerusalemme est), costituisce un’unica entità territoriale. Lo status di Gaza come occupata dal 2005 è stato quindi sancito da molte istituzioni importanti, compreso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La “creatività” giuridica dei dirigenti israeliani è dimostrata molto spesso da alcune delle tattiche adottate dall’esercito israeliano durante gli attacchi.

Nell’offensiva israeliana su Gaza del 2014 [operazione Margine Protettivo, ndtr.], 142 famiglie palestinesi hanno subito l’uccisione di tre o più membri nel corso dello stesso incidente. Questi numeri impressionanti sono stati in parte il risultato della scelta di Israele di prendere di mira decine di case di famiglie palestinesi, oltre a quelle colpite in seguito a bombardamenti indiscriminati.

La chiave di lettura è la decisione da parte di Israele che qualunque (presunto) membro di una fazione armata palestinese fosse un obbiettivo legittimo, anche quando non partecipava alla lotta – cioè era a casa con la famiglia – e che i membri della famiglia diventassero legittimi “danni collaterali” sulla base della presenza di un sospetto nella casa (tra l’altro, anche se quella persona non era in realtà in casa in quel momento). Come ha detto un ufficiale israeliano: “Voi la chiamate casa, noi la chiamiamo centrale operativa.”

Vittime civili

Nonostante il fatto che in base al diritto internazionale Israele dovesse dimostrare che ogni struttura presa di mira svolgeva una funzione militare, come ha specificato l’associazione per i diritti B’Tselem, “nessun comandante ha sostenuto che ci fosse alcuna connessione tra una casa presa di mira e una specifica attività militare in quel luogo.”

Perciò le spiegazioni dell’esercito israeliano per la distruzione delle case è apparsa “nient’altro che una mistificazione della reale ragione della distruzione, cioè l’identità degli abitanti” – il che significa che queste sono state “demolizioni punitive di case…condotte da aerei, mentre gli abitanti erano ancora all’interno”.

Un’altra tattica utilizzata dall’esercito israeliano è la diffusione di “avvisi” ai civili, sia attraverso il telefono che con messaggi a specifici edifici, o con volantini lanciati su interi quartieri. Israele presenta questa tattica come una prova del fatto che fa il possibile per evitare vittime civili, anche se questi avvertimenti sono di fatto un obbligo piuttosto che “buone azioni”.

È ovvio che fondamentalmente questi avvisi non privano gli abitanti civili dello status di persone sotto protezione. Tuttavia ci sono sufficienti prove che indicano che questa non è una posizione condivisa all’interno dell’esercito israeliano.

Nel citato articolo di Haaretz del 2009 un comandante ha detto: “Le persone che entrano in una casa nonostante un avviso non devono essere annoverate nel conto dei danni a civili, poiché sono scudi umani volontari. Dal punto di vista legale non devo preoccuparmi per loro.”

Quindi, con una deformazione sconcertante, mentre gli avvisi sono presentati come modo per minimizzare le vittime civili, in realtà servono ad agevolare gli attacchi e possono anche aumentare il numero di morti.

Normalizzare l’illegalità

Questi sono solo alcuni esempi di come Israele cerca di normalizzare ciò che è illegale, con due obbiettivi. Si noti che è stato dopo la pubblicazione del rapporto Goldstone che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu “ha dato ordine ai dirigenti del governo di elaborare proposte per modificare il diritto internazionale di guerra.”

Le “innovazioni” di Israele nel diritto internazionale sono quindi tese a facilitare la sempre più brutale soppressione di palestinesi sul terreno, mentre a livello internazionale queste interpretazioni sono avanzate sia per confondere le acque nei consessi giuridici sia, in ultima analisi, per ottenere l’appoggio da di altri Stati terzi.

È importante ricordare che il problema della responsabilità è precedente agli sviluppi più recenti. Israele ha a lungo violato il diritto internazionale e giustificato in termini giuridici certe politiche – dalla confisca della terra nei territori occupati all’insediamento di colonie.

Questo ci aiuta a capire che il problema centrale è politico – e che la risposta a come contestare l’impunità e resistere alle interpretazioni “innovative” delle leggi da parte di Israele è la stessa: la pressione politica.

Un fallimento su questo fronte verrà percepito molto pesantemente dai più vulnerabili: i palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White

Ben White è autore di ‘Apartheid israeliano: una guida per i neofiti’ e di ‘Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia’. Scrive per Middle East Monitor ed i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché l’uomo che ha stilato la definizione dell’IHRA ne condanna l’uso

Nonostante si tratti di un articolo che risale all’anno scorso, riteniamo importante proporre questo articolo relativo alla definizione di antisemitismo dell’IHRA, che viene costantemente utilizzata per tacitare e criminalizzare la solidarietà con il popolo palestinese. Questo articolo evidenzia che lo stesso autore del testo dell’IHRA denuncia che il suo uso a questo fine è scorretto.

George Wilmers

1 agosto 2018 – Jewish Voice for Peace

La persona che ha stilato la definizione di antisemitismo dell’IHRA ne condanna l’uso rivolto a limitare la libertà di parola.

Secondo gli ultimi criteri isterici della lobby israeliana* e dei suoi seguaci, l’estensore originario della cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa composta da 31 Paesi, ndtr.], un sionista dichiarato, dovrebbe egli stesso essere definito antisemita, o forse un “kapo” [gli ebrei che nei campi di sterminio collaboravano con i nazisti, ndtr.]. Perché questa è la conclusione che si dovrebbe trarre se si accettasse l’affermazione secondo cui chiunque metta in discussione un qualunque aspetto del sacro testo che la definizione dell’IHRA è diventato sia un antisemita. L’estensore di quella che in seguito è diventata comunemente nota come EUMC o definizione di antisemitismo dell’IRHA, compresi gli esempi ad esso associati, è stato l’avvocato statunitense Kenneth S. Stern.

Tuttavia, in una testimonianza scritta presentata lo scorso anno al Congresso USA, Stern ha denunciato che la sua originaria definizione è stata utilizzata per uno scopo totalmente diverso da quello per il quale era stata pensata. Secondo Stern, in principio era stata ideata come una “definizione provvisoria” con l’obiettivo di cercare di standardizzare la raccolta di dati sull’incidenza dei delitti d’odio antisemita in Paesi diversi. Non è mai stata pensata per essere utilizzata come lo si sta facendo ora. Nello stesso documento Stern condanna specificatamente come improprio l’uso della definizione per questi scopi, citando in particolare la restrizione alla libertà di parola nelle università della Gran Bretagna, e riferendosi come esempi alle università di Manchester e di Bristol. Ecco quello che scrive:

La “definizione provvisoria” dell’EUMC è stata di recente adottata nel Regno Unito e messa in pratica nelle università. Un evento della “Israel Apartheid Week” [Settimana contro l’Apartheid Israeliana, ricorrenza annuale celebrata a livello internazionale con attività di denuncia delle discriminazioni israeliane contro i palestinesi, ndtr.] è stato annullato in quanto violava la definizione. A un sopravvissuto all’Olocausto è stato chiesto di cambiare il titolo del suo discorso all’università, e l’università (di Manchester) ha ordinato che venisse registrato, dopo che un diplomatico israeliano (l’ambasciatore Regev) si è lamentato che il titolo violava la definizione. Cosa forse ancora più significativa, un gruppo esterno all’università, citando la definizione, ha chiesto a un’università di condurre un’indagine per antisemitismo su una docente (che ha ottenuto un dottorato alla Columbia University), in base a un articolo che aveva scritto l’anno precedente. L’università (Bristol) allora ha condotto l’indagine. E, benché alla fine non abbia trovato nessun fondamento per punire la professoressa, il tentativo è stato in sé agghiacciante e maccartista.

Ovviamente i gruppi che stavano dietro questa repressione della libertà di parola in stile maccartista condannati da Stern sono proprio gli stessi ora impegnati nell’attuale vendetta [in italiano nel testo, ndtr.] contro Corbyn [segretario del partito Laburista inglese, ndtr.]. Per esempio, nel caso della docente dell’università di Bristol che è stata sottoposta ad inchiesta con le false accuse di antisemitismo, si è trattato della denominata, a torto, “Campagna contro l’Antisemitismo”, in realtà un gruppo aggressivo della lobby filo-israeliana, che ha chiesto che fosse sospesa [dall’insegnamento] finché non avesse ritrattato.

Significativamente Stern riconosce chiaramente l’intrinseca assurdità logica e la minaccia alla libertà di parola che solleva dove vengono messi in atto significativi tentativi di proibire discorsi politici riguardanti Stati o governi:

Immaginate una definizione destinata ai palestinesi. Se “negare al popolo ebraico il suo diritto all’autodeterminazione, e negare ad Israele il diritto di esistere” è antisemita, allora non dovrebbe essere antipalestinese “negare al popolo palestinese il suo diritto all’autodeterminazione, e negare alla Palestina il diritto di esistere”? Allora chiederebbero ai responsabili [delle università] di sorvegliare ed eventualmente punire eventi nelle università da parte di gruppi filo-israeliani che si oppongono alla soluzione dei due Stati, o sostengono che il popolo palestinese sia un mito?

Kenneth Stern è un sionista e sicuramente non è di sinistra. Tuttavia va riconosciuto a merito dell’autore originario della definizione dell’IHRA di essere un coerente difensore della libertà di parola che condanna l’attuale uso maccartista della definizione dell’IHRA.

Quindi l’autore sionista della definizione di antisemitismo dell’IHRA è un antisemita in incognito che ora si è smascherato da solo? Era forse la vecchia talpa di una segreta cospirazione internazionale di antisemiti guidati da Jeremy Corbyn? Forse Nick Cohen [giornalista filoisraeliano del quotidiano inglese “The Guardian”, ndtr.] ci darà una risposta?

Come per ogni passo di una sacra scrittura, il processo politico attraverso il quale la definizione dell’IHRA ha acquisito sia la sua attuale interpretazione che il suo status sacro tra i suoi fanatici fedeli è ancora avvolto nel mistero, nonostante qualche interessante tentativo di indagare la sua breve storia di 14 anni. Che i dettagli della definizione e la sua evidente inadeguatezza come testo giuridico e para-giuridico siano un argomento tabù nei principali mezzi di comunicazione è un tributo all’abbandono del ragionamento razionale nel discorso pubblico ufficiale.**

Nonostante la convinzione generale del contrario e la sua “adozione” da parte del governo del Regno Unito, la definizione dell’IHRA non vi ha un valore legale, e per ottime ragioni: com’è stato evidenziato da importanti giuristi come Hugh Tomlinson [prestigioso esperto inglese in diritto dei mezzi di comunicazione e di informazione, ndtr.] e Stephen Sedley [noto giudice e docente di diritto ad Oxford, di origine ebraica, ndtr.], non solo non si tratta di una definizione corretta per scopi legali, ma la sua adozione dal punto di vista giuridico da parte di una qualunque autorità sarebbe in conflitto con il diritto esistente e protetto di libertà di parola garantito dall’articolo 10 della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Ciononostante è tale il potere della campagna di propaganda a favore del culto dell’IHRA che, lasciando da parte considerazioni razionali, la dirigenza del partito Laburista si è sentita obbligata ad obbedire allo status sacro dell’IHRA, pur cercando discretamente di modificare il testo per mitigare alcuni dei suoi effetti draconiani. Tuttavia malauguratamente non si può cavare sangue da una rapa.

Quindi, qualunque sia la vostra convinzione riguardante la funzionalità della rapa nella sua condizione originaria, dobbiamo essere grati all’uomo che l’ha forgiata per aver evidenziato con una tale chiarezza i suoi evidenti limiti.

Note

* Utilizzo il termine “lobby israeliana” come abbreviazione per indicare quanti utilizzano accuse di antisemitismo false o estremamente esagerate contro il partito Laburista per coprire i loro veri obiettivi, che sono: (a) rendere impossibile l’attivismo a favore dei palestinesi all’interno del partito Laburista, e (b), ottenere che Corbyn venga rimosso da segretario del partito Laburista. In realtà, come ha ripetutamente evidenziato Moshe Machover [matematico, filosofo e attivista israeliano antisionista, espulso e poi riammesso al partito Laburista, ndtr.], questa è una libera coalizione di gruppi politici notevolmente differenziati di centro e di estrema destra, alcuni dei quali sono legati a organizzazioni ebraiche filoisraeliane e di destra, ma alcune delle quali non hanno particolari rapporti o interessi né nei confronti dell’ebraismo né del conflitto israelo-palestinese, ma stanno semplicemente utilizzando l’isteria contro l’antisemitismo come mezzo per attaccare il progetto politico di Corbyn. Alcuni hanno suggerito che il termine “lobby antipalestinese” sarebbe una terminologia più adeguata.

** La BBC può essere presa come esempio paradigmatico di questo completo abbandono di un’argomentazione razionale, in cui i presentatori dei notiziari e i commentatori tentano quasi sempre di bloccare qualunque discussione sui dettagli, sulla storia della definizione dell’IHRA o sulla sua inadeguatezza giuridica, concentrandosi esclusivamente sulla presunta “percezione della comunità ebraica,” un concetto che in sé è segnato da uno stereotipo razzista. Un’eccezione molto rara rispetto a questo comportamento vergognoso è l’eccellente intervista recente del notiziario della BBC del 23 luglio 2018 da parte di Norma Smith a Naomi Wimborne-Idrissi, in cui a quest’ultima viene rispettosamente concesso di presentare il suo caso senza interruzioni prepotenti o faziose da parte dell’intervistatore.

L’autore ringrazia Richard Kuper e Murray Glickman per la loro significativa collaborazione e consulenza nella preparazione di questo articolo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Twitter censura le notizie dalla Palestina

Ali Abunimah

4 novembre 2019 – Electronic Intifada

Twitter ha cancellato, senza preavviso o motivazioni, gli account di Quds News Network, un’importante rete di notizie palestinesi.

Twitter non ha fornito nessun chiarimento sul perché nel fine settimana abbia cancellato gli account di Quds News Network , un importante organo di informazione palestinese.

Questo allarmante atto di censura è un’ulteriore segnale della complicità delle principali compagnie di social media nei tentativi di Israele di nascondere notizie e informazioni riguardanti i suoi abusi nei confronti dei diritti dei palestinesi.

Lunedì QNN ha rivelato che sabato mattina i suoi quattro principali account sono stati sospesi senza preavviso o motivazioni.

La QNN ha dichiarato di aver tentato di chiedere la sospensione [della procedura] attraverso il sito Web di Twitter, ma di non aver ricevuto risposta.

Twitter in genere avvisa gli utenti sulle presunte violazioni delle sue regole di servizio e offre loro l’opportunità di rimuovere i contenuti in violazione o di fare ricorso contro una decisione.

Electronic Intifada ha anche scritto sabato all’ufficio stampa di Twitter per richiedere delle spiegazioni riguardo alle iniziative della compagnia contro la QNN, ma non ha ricevuto risposta.

La QNN ha riferito che “rifiuta di rispondere alle pressioni israeliane, che attaccano le notizie palestinesi con il pretesto di combattere “violenza e terrorismo”‘

“Tali pratiche sono del tutto funzionali all’occupazione israeliana contro il popolo palestinese”, ha aggiunto la dichiarazione.

The Electronic Intifada nei suoi articoli ha frequentemente citato i tweet della QNN, in quanto la rete fornisce spesso una copertura quasi in tempo reale degli eventi sul terreno in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Tale copertura è risultata altamente affidabile.

Twitter ha precedentemente imposto la censura militare israeliana costringendo gli utenti a eliminare dei tweet specifici.

Ma eliminare integralmente delle fonti giornalistiche dalla sua piattaforma segna una nuova fase nel tentativo di bloccare le informazioni da e sulla Palestina.

L’azione di Twitter fa fatto seguito a una recente decisione dell’Autorità palestinese di bloccare l’accesso ai siti Web di decine di organi di informazione palestinesi, tra cui la QNN, nel segno di una grave repressione della libertà di espressione.

L’Autorità Nazionale Palestinese collabora a stretto contatto con le forze di occupazione israeliane all’insegna del “coordinamento per la sicurezza”.

L’azione di Twitter fa anche seguito ad una lunga campagna di censura di Facebook rivolta a giornalisti e pubblicazioni palestinesi.

Pressione del Congresso

Alcuni utenti di Twitter hanno sottolineato che la sospensione degli account della QNN è coincisa con la chiusura degli account associati alle organizzazioni che si oppongono a Israele, in particolare di Hamas e degli Hezbollah libanesi – che Israele e gli Stati Uniti considerano “terroristi”.

Twitter sembra aver disabilitato l’account di Al Manar, un canale televisivo gestito da Hezbollah [si tratta di una rete televisiva libanese già messa al bando nel 2004 dagli USA e, successivamente, da alcune Nazioni europee, n.d.tr.].

Questa censura fa seguito alle pressioni dei membri del Congresso che a settembre hanno scritto a Twitter e ad altri social media chiedendo la chiusura dell’account di Al Manar e degli account associati ad Hamas.

I parlamentari hanno chiesto alle aziende di fornire un “piano dettagliato e una sequenza temporale sulle modalità della rimozione dei contenuti e degli account della [Organizzazione terroristica straniera], nonché degli account delle fonti di propaganda che diffondano ulteriori contenuti terroristici”.

In una prima risposta ai parlamentari – il democratico Josh Gottheimer del New Jersey e i repubblicani Tom Reed di New York e Brian Fitzpatrick della Pennsylvania -, Twitter ha dichiarato che avrebbe rimosso i cosiddetti contenuti “terroristici”.

Tuttavia, la compagnia di social media ha inizialmente resistito alla richiesta perentoria di prendere severi provvedimenti anche contro i discorsi di partiti politici e media.

Twitter ha affermato di “poter fare delle eccezioni limitatamente ai gruppi che si siano ravveduti o che stiano attualmente impegnandosi in processi di soluzione pacifica, nonché ai gruppi che abbiano rappresentanti nominati a cariche pubbliche attraverso le elezioni,

Ma i parlamentari hanno continuato a fare pressione, e Gottheimer ha accusato Twitter di “opporsi alle leggi degli Stati Uniti sostenendo palesemente organizzazioni terroristiche straniere, tra cui Hamas e Hezbollah”. “Twitter sta letteralmente e arrogantemente contestando la decisione del governo degli Stati Uniti riguardo a ciò che costituisce un’organizzazione terroristica”, ha aggiunto Gottheimer.

Il deputato afferma che il governo ha il diritto di decidere con decreto esecutivo quali organizzazioni possano o meno avere la parola o essere ascoltate dagli americani semplicemente etichettandole come “terroriste” – una palese violazione del Primo Emendamento.

Ma invece di difendere i diritti di libertà di parola, questa volta sembra che Twitter abbia ceduto alle pressioni politiche e alle intimidazioni sopprimendo una vasta gamma di account che sfidano la politica israeliana e americana.

Essi includono quelli della QNN, una rete indipendente.

Il deputato Gottheimer è un importante sostenitore della censura dei media al fine di proteggere Israele.

L’anno scorso ha firmato una lettera in cui si chiedeva che il governo degli Stati Uniti indicasse Al Jazeera come un “agente straniero” perché la rete aveva realizzato un documentario che rivelava attività segrete negli Stati Uniti da parte di Israele e della sua lobby.

Al Jazeera non ha mai trasmesso il documentario, The Lobby – USA, dopo che il finanziatore della rete del Qatar è stato sottoposto a forti pressioni da parte della lobby israeliana.

Tuttavia, dopo esser entrato in possesso di una copia fatta filtrare clandestinamente, un anno fa Electronic Intifada ha divulgato pubblicamente il film completo.

Seguire le imposizioni del governo?

Twitter sembra seguire le imposizioni delle autorità statunitensi per mettere a tacere anche in altri Paesi i nemici [da loro] ufficialmente indicati.

A settembre, ad esempio, ha chiuso gli account dei media e [quelli] di importanti funzionari cubani.

L’anno scorso ha anche chiuso gli account appartenenti all’ufficio stampa del governo venezuelano.

Nel frattempo, Twitter consente alle forze di occupazione israeliane di utilizzare liberamente la sua piattaforma per esaltare i crimini di guerra contro i palestinesi.

Twitter non è inoltre riuscito a sopprimere le dilaganti minacce di morte contro Ilhan Omar e altri parlamentari statunitensi che sono stati presi di mira da istigazioni razziste e da campagne diffamatorie per aver criticato Israele e la politica estera degli Stati Uniti.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La Corte Suprema sentenzia che Israele può espellere il direttore di Human Rights Watch

Henriette Chacar

5 novembre 2019 – +972

 

Il massimo tribunale di Israele sancisce che Omar Shakir può essere espulso, ratificando gli sforzi del governo per mettere a tacere chi critica le sue politiche. Il suo caso è stato descritto come uno spartiacque per la difesa dei diritti umani e per la libertà di espressione in Israele.

Martedì, dopo una lunga battaglia legale per consentirgli di rimanere nel Paese, la Corte Suprema di Israele ha approvato l’espulsione del direttore di Human Rights Watch di Israele e Palestina, Omar Shakir.

I giudici Neal Hendel, Noam Sohlberg e Yael Willner hanno accolto l’accusa dello Stato in base alla quale Shakir, cittadino statunitense, appoggia il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), ed hanno respinto l’appello di Shakir e di Human Rights Watch contro la sua espulsione.

Shakir dice che ora ha 20 giorni di tempo per andarsene o subire l’espulsione.

Il caso di Shakir è stato descritto come uno spartiacque per la difesa della libertà di espressione e dei diritti umani in Israele. Ordinando la sua espulsione, Israele si affianca a Paesi come la Corea del Nord, l’Iran, Cuba e il Venezuela, che hanno anch’essi vietato l’ingresso ai membri dello staff dell’organizzazione.

La sentenza si basa sull’emendamento del 2017 alla Legge di divieto di ingresso in Israele, che autorizza il Ministro dell’Interno a rifiutare i visti temporanei o la residenza a qualunque cittadino non israeliano che abbia pubblicamente invitato o si sia impegnato a partecipare al boicottaggio di Israele. In agosto Israele ha fatto ricorso a questa legge per impedire alle deputate del Congresso [USA] Ilhan Omar e Rashida Tlaib di entrare nel Paese.

L’anno scorso il Ministero dell’Interno israeliano ha revocato il permesso di lavoro di Shakir ed ha ordinato la sua espulsione entro due settimane. È stata la prima volta che il governo israeliano ha utilizzato l’emendamento del 2017 alla Legge sull’ingresso per espellere qualcuno che era già presente nel Paese.

La decisione di Israele si è basata in larga parte su un dossier dell’ intelligence che il Ministero degli Affari Strategici ha elaborato riguardo all’attivismo di Shakir in favore dei diritti dei palestinesi prima di entrare a far parte di HRW. In quanto co-presidente degli ‘Studenti per equi diritti per i palestinesi’ a Stanford, Shakir aveva richiesto all’università di disinvestire dalle aziende che traggono profitti dall’occupazione.

HRW, rappresentata dagli avvocati israeliani per i diritti umani Michael Sfard, Sophia Brodsky e Emily Schaeffer Omer-Man, ha quindi presentato ricorso contro l’ordine di espulsione del governo.

Israele sostiene di avere il diritto di difendersi e di proteggere i propri cittadini da “un boicottaggio politico-diplomatico da parte di soggetti non statali che intendono minare le fondamenta dell’esistenza dello Stato in questione.” Tuttavia la legge anti-boicottaggio non fa distinzione tra gli inviti al boicottaggio della colonizzazione da parte di Israele, che viola il diritto internazionale, e le dichiarazioni e le azioni dirette contro lo Stato.

Lo Stato ha inoltre dichiarato che la questione non si pone rispetto a HRW come organizzazione, bensì rispetto a Shakir come singolo individuo. Nella sentenza di martedì il giudice Hendel ha detto che “Human Rights Watch non è classificata come organizzazione che boicotta – e può richiedere di incaricare un altro rappresentante che non sia coinvolto fino al collo nelle attività del BDS.” Tuttavia, secondo HRW, Shakir ha seguito e messo in atto le politiche dell’organizzazione.

HRW, organizzazione statunitense non profit indipendente fondata nel 1978 ed oggi presente in 90 Paesi, “non prende posizione sul boicottaggio di Israele. Non si tratta di una politica specifica riguardo a Israele, fa parte del nostro modo di lavorare dovunque nel mondo”, ha detto Shakir nel Podcast di +972 a maggio.

Oggi la cartina di tornasole politica per entrare in Israele sembra essere l’appoggio al boicottaggio. Potrebbe domani essere la richiesta alla Corte Penale Internazionale di aprire un’inchiesta, oppure l’invito a eliminare le colonie, o affermare che la Cisgiordania è occupata? Oggi queste limitazioni vengono usate per impedire a qualcuno di entrare nel Paese. Potrebbe domani essere questa la base per limitare le attività dei difensori dei diritti israeliani e palestinesi?” ha aggiunto.

Secondo Shakir, il suo caso non riguarda il BDS, come sostiene Israele, ma “costringere al silenzio la difesa dei diritti umani”. Decine di associazioni israeliane e palestinesi per i diritti umani hanno criticato l’ordine di espulsione, come anche il Segretario Generale dell’ONU, 27 Stati europei e 17 deputati del Congresso (USA), descrivendo l’impatto agghiacciante che questo avrà su coloro che sfidano le politiche di Israele.

Alla fine di ottobre Israele ha vietato all’attivista palestinese di Amnesty International Laith Abu Zeyad di recarsi in Giordania per il funerale di sua zia, a causa di ciò che le autorità israeliane hanno definito “considerazioni di sicurezza”. Amnesty, da parte sua, ha scritto che questa è stata “una sinistra iniziativa imposta come punizione per il suo lavoro in difesa dei diritti umani in Palestina”. Nel 2017 Israele ha vietato l’ingresso al direttore per la sensibilizzazione dell’organizzazione per il Medio Oriente e Nordafrica, Raed Jarrar, in occasione di una sua visita personale nei territori occupati in seguito alla morte di suo padre.

L’anno scorso Israele ha vietato l’ingresso a quattro dirigenti statunitensi di associazioni per i diritti umani che stavano visitando Israele e la Cisgiordania per comprendere meglio la situazione sul terreno. I membri che sono stati espulsi includono Vincent Warren, direttore esecutivo del Centro per i Diritti Costituzionali (CCR) e Katherine Franke, presidente del Consiglio del CCR e docente di diritto, gender e studi sulla sessualità alla Columbia University. I due sono stati interrogati relativamente alla loro affiliazione politica a gruppi critici verso Israele e Franke è stata accusata di essere membro del movimento BDS.

Henriette Chacar è redattrice della rivista +972 che si occupa delle notizie arabo-palestinesi. È cittadina palestinese di Israele, nata e cresciuta a Jaffa. Si è laureata alla Scuola di Giornalismo della Columbia ed ha lavorato per ‘Mount Desert Islander’, ‘PBS Frontline’ e ‘The Intercept’.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Indignazione dopo che un video fatto filtrare mostra un poliziotto israeliano sparare a un palestinese alla schiena

Yumna Patel

4 novembre 2019 – Mondoweiss

Le reti sociali palestinesi si sono scatenate durante il fine settimana in quanto la gente ha manifestato la propria indignazione riguardo a un video filtrato clandestinamente che mostra un poliziotto di frontiera israeliano che spara a un palestinese alla schiena mentre l’uomo si allontana dai poliziotti con le mani in alto.

Il video, girato l’anno scorso, è stato fatto filtrare durante il fine settimana e divulgato sabato al pubblico dal Canale 13 israeliano.

Le immagini mostrano poliziotti di frontiera israeliani che ordinano a un palestinese non identificato di girarsi e allontanarsi da loro, che si trovavano a un posto di controllo tra la Cisgiordania e Gerusalemme.

Corri”, dicono i poliziotti all’uomo, che allora si gira prontamente, alza le mani e si allontana in gran fretta da loro.

Pochi secondi dopo, mentre un poliziotto filma con il suo telefonino, un altro poliziotto spara una pallottola ricoperta di gomma, che può essere letale se sparata a corta distanza, colpendo l’uomo alla schiena. Allora questi cade a terra e lo si sente gridare di dolore.

Secondo Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] l’incidente è stato reso noto lo scorso anno durante un’inchiesta relativa ad un’altra vicenda che ha coinvolto poliziotti di frontiera che hanno picchiato un palestinese senza alcun motivo apparente.

La poliziotta incriminata, che avrebbe circa 20 anni, è stata arrestata insieme ad altre quattro colleghe e congedata dalla polizia di frontiera solo per essere poi arruolata come soldatessa nell’esercito per terminare il suo servizio di leva.

Il portavoce della polizia israeliana Micky Rosenfeld ha detto ai media che gli altri poliziotti di frontiera presenti alla scena sono stati “esonerati dal servizio e alcuni di loro sono stati trasferiti ad altra mansione.”

Secondo Haaretz, lo scorso ottobre, durante un’udienza in tribunale per il poliziotto, il giudice avrebbe affermato che a quanto pare egli avrebbe sparato al palestinese “come un modo discutibile per divertirsi.”

Il video mostra la gravità del cieco odio e del razzismo sionista,” ha affermato in un comunicato l’OLP, dicendo che “le vite e il sangue dei palestinesi sono diventati uno spasso per gli assassini.”

Su twitter la dottoressa Hanan Ashrawi [storica dirigente politica palestinese, ndtr.] ha manifestato la propria rabbia, scrivendo: “Volgare e crudele disumanità: l’orrore inammissibile quando un palestinese disarmato viene colpito a sangue freddo solo perché ‘prodi’ soldati israeliani possono farlo con impunità e per il proprio divertimento. Basta #IsraeliCrimes. #FreePalestine.”

Buona parte della frustrazione manifestata dai palestinesi sulle reti sociali durante il fine settimana non deriva solo dalla sparatoria, ma anche dal presunto scambio di parole tra i poliziotti che ne è seguito.

Secondo Haaretz, prove presentate durante l’udienza relative alla poliziotta hanno incluso messaggi di testo tra lei è la sua unità in cui si vantava della sparatoria.

Nel suo reportage Canale 13 ha citato l’avvocato della poliziotta sospettata mentre dice che lei non è responsabile dello sparo. Il reportage include anche uno scambio su Whatsapp che avrebbe avuto luogo tra un altro soldato maschio dell’unità e qualcuno che potrebbe essere la sua fidanzata.

Schermate circolate sulle reti sociali mostrano la presunta fidanzata del poliziotto chiedere se è arrivato, e lui risponde. “Sì, siamo al portone, ma che te ne pare dello sparo? Sono o non sono un professionista?”, e un emoticon con un braccio piegato [per mostrare i muscoli].

La sua fidanzata risponde: “Sì, amore mio, sei un professionista. Sii prudente!” insieme a un emoticon con un cuoricino.

Mondoweiss non ha potuto verificare l’autenticità di questi messaggi.

In seguito alle reazioni durante il fine settimana, domenica il ministero della Giustizia israeliano ha affermato che deciderà nelle prossime settimane se presentare una denuncia contro la soldatessa o no.

La sparatoria ha suscitato un’accesa reazione da parte di gruppi per i diritti e di palestinesi in Cisgiordania, dove tali incidenti sono diventati normali ai posti di controllo e in altre zone in cui ai soldati israeliani viene data la possibilità di esercitare il proprio controllo sui palestinesi.

Questa documentazione eccezionale mostra quello che purtroppo è un avvenimento frequente: le forze di sicurezza israeliane che colpiscono un palestinese senza alcuna ragione,” ha detto su twitter il portavoce di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] Amit Gilutz. “Questi esempi sono il diretto risultato della cultura di impunità promossa da Israele, che è fondamentale per la continuazione del suo controllo militare sui palestinesi.”

B’Tselem ha continuamente criticato l’esercito israeliano per la sua mancanza di responsabilizzazione dei soldati che quotidianamente violano i diritti umani dei palestinesi, affermando:

Questo è il comportamento standard del sistema di applicazione delle leggi militari, basato sulla consapevolezza che avallare – anche implicitamente – le evidenti infrazioni dei soldati agli ordini senza rendere nessuno responsabile è ciò che consente il continuo uso di forza letale. Questa forza è fondamentale per la possibilità di Israele di conservare il suo controllo violento su milioni di palestinesi.”

Yumna Patel è l’inviata di Mondoweiss in Palestina.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’Autorità Palestinese fa il lavoro sporco per Israele: è per questo che fu creata

Asa Winstanley

30 Ottobre 2019 Middle East Monitor

Nonostante ciò che ne avrete sentito dire, l’Autorità Nazionale Palestinese non è un “governo palestinese”. Infatti, “Autorità Nazionale Palestinese” è una denominazione impropria, perché l’organismo non è dotato di autorità vera e propria e non agisce nell’ interesse della maggioranza dei palestinesi.

Innanzitutto, non è sicuramente un’istituzione democratica. Sono almeno 14 anni che non si tengono elezioni per l’Autorità Nazionale Palestinese, se escludiamo le votazioni interne.

L’ultima volta che il parlamento fittizio dell’ANP ha indetto elezioni effettivamente democratiche è stato nel 2006. Dal punto di vista dell’imperialismo USA e dei suoi alleati, però, vinse il partito sbagliato. Il Movimento Islamico di Resistenza, Hamas, vinse grazie a un programma di welfare e lotta alla corruzione, con una lista di candidati chiamata Change and Reform [Cambiamento e Riforma, ndt]. Gli elettori palestinesi votarono per Hamas vedendo in esso un cambiamento rispetto alla corruzione, ritenuta dilagante nel partito di maggioranza Fatah di Mahmoud Abbas.

Anche il fallimento della strategia del “processo di pace” del presidente dell’ANP, cioè la resa ad Israele attraverso i negoziati, ebbe un certo peso nella sorprendente sconfitta del suo partito. Eppure, invece di riflettere sul messaggio forte e chiaro inviato dagli elettori, e prepararsi a vivere all’opposizione, Fatah rifiutò di accettare il risultato delle elezioni “libere e democratiche” e di trasferire il potere ad Hamas, il nuovo governo eletto. La leadership di Fatah venne incoraggiata a questa pericolosa reazione dagli americani, dagli europei, dalla Giordania e dall’Arabia Saudita. Il risultato fu la spietata guerra civile palestinese del 2007.

Le forze armate a Gaza, guidate da Mohammed Dahlan, all’epoca influente personaggio di Fatah, erano pronte a realizzare un colpo di stato contro Hamas e i suoi combattenti. Hamas scoprì il piano ed espulse da Gaza Dahlan e i suoi uomini. Venne quindi organizzato da Abbas un colpo di stato in Cisgiordania contro il governo eletto di Hamas.

Nonostante anni di interminabili e intermittenti negoziati tra Hamas e Fatah per un “governo di unità nazionale”, da allora non ci sono state elezioni, né legislative né presidenziali. L’“Autorità Nazionale Palestinese”, quindi, non ha alcun mandato democratico. E, di fatto, non lo ha nemmeno Abbas; il suo incarico avrebbe dovuto concludersi nel 2009.

Ancor più importante, l’ANP non ha il mandato della totalità dei palestinesi, la maggior parte dei quali vivono in esilio, come rifugiati. I loro diritti non sono tutelati dall’Autorità Nazionale Palestinese. Secondo il fallimentare processo degli Accordi di Oslo, iniziato negli primi anni ‘90, il loro legittimo diritto al ritorno non è stato rispettato né tutelato.

Inoltre, anche relativamente alla limitata sfera d’influenza e alla parte di popolazione palestinese che sostiene di rappresentare nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza – che insieme costituiscono appena il 22% della Palestina storica – l’Autorità Nazionale Palestinese agisce per far rispettare la volontà di Israele. Il settore più attivo e meglio finanziato dell’autorità è quello della sicurezza, con circa 70.000 funzionari che operano in una mezza dozzina di servizi di sicurezza.

Gli addetti alla sicurezza dell’ANP vengono addestrati da USA ed Europa, ed esistono unicamente per controllare il popolo palestinese. Il loro unico compito è prevenire la resistenza, armata o pacifica che sia, contro Israele, proteggere Israele e tutelare i leader dell’ANP. Gli ordini loro impartiti sono di farsi da parte se, sulla scena di qualsiasi evento, arriva il personale della sicurezza israeliano.

Nel 2014 Abbas definì “sacro” il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele. Con il passare degli anni, però, ha più volte minacciato di porre fine a tale collaborazione con Israele, di solito quando sono stati a rischio i finanziamenti all’ANP. Eppure è rimasto fedele al suo discorso del 2004, e il coordinamento per la sicurezza tra ANP e Israele rimane ben saldo.

L’ ANP, quindi, può essere ragionevolmente considerato una marionetta, un organismo collaborazionista che esegue gli ordini dell’occupazione israeliana. Non sorprende, quindi, scoprire che sta impedendo la libertà di parola e agendo in modo autoritario e oppressivo. In questo, l’ ANP è complementare alla politica israeliana nei confronti dei palestinesi, che è sempre stata dittatoriale.

Con la sua ultima mossa autoritaria, l’ANP ha oscurato un gran numero di siti e social network palestinesi e arabi. Su richiesta del Procuratore Generale dell’ANP, il 17 ottobre la pretura di Ramallah ha ordinato il blocco di altri 59 siti web e pagine di notizie in rete.

Secondo l’ordinanza, i siti violavano la legge sui crimini informatici, approvata dall’ANP nel 2017. I gruppi per i diritti umani hanno definito la legge uno “strumento per mettere a tacere la legittima libertà di espressione e la critica alle autorità”.

La lista dei siti oscurati include Arab48, Wattan TV, Shebab News Agency, Quds News Network, Gaza Now e Metras. È da sottolineare che nessuno dei siti oscurati è israeliano.

L’Autorità Nazionale Palestinese sta nascondendo la testa sotto la sabbia, cercando di impedire la libertà di espressione e rispedendo i media nazionali in quell’oscurità in cui aveva tentato di relegarli l’occupazione israeliana, senza riuscirci”, ha dichiarato Husam Badran, portavoce di Hamas. “Il nuovo divieto può significare solo che l’ ANP e l’occupazione stanno lottando dalla stessa parte contro l’espressione nazionale palestinese, che denuncia le violazioni da parte dell’occupazione, la corruzione e il crimine”.

L’ANP si vende come strumento utile all’occupazione israeliana; riesce a fare cose che Israele non può fare. Eppure, gli israeliani considerano l’ANP sempre più irrilevante. Perché dovrebbero impiegare un subappaltatore per l’occupazione, quando possono direttamente portarla avanti loro? Questo è il dilemma in cui si trova l’ANP, da qui le periodiche e vuote minacce di chiudere la collaborazione per la sicurezza.

Tuttavia, almeno per ora, possiamo aspettarci che l’Autorità Nazionale Palestinese continuerà a fare il lavoro sporco per Israele. Dopotutto, è esattamente il motivo per cui fu creata.

Le opinioni espresse nell’articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




Le forze israeliane assaltano una scuola palestinese in Cisgiordania e confiscano un chiosco

Shatha Hammad dalla Cisgiordania occupata

28 ottobre 2019 – Middle East Eye

I servizi di sicurezza hanno assaltato una scuola primaria nel villaggio di Dahr al-Maleh, sostenendo che quella costruzione era illegale

Il capo del consiglio del villaggio ha detto a Middle East Eye che lunedì le forze israeliane hanno fatto irruzione in una scuola nel villaggio di Dahr al-Maleh in Cisgiordania, hanno demolito i suoi muri e confiscato un container che veniva usato come caffetteria.

Le forze israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio alle 6,30 del mattino, hanno sfondato i cancelli della scuola primaria ed hanno buttato giù le porte, ha detto Omar al-Khatib.

La scuola elementare mista di Dahr al-Maleh, situata a sud di Jenin nella parte settentrionale della Cisgiordania occupata, era sotto la minaccia costante di demolizione e non le è stato concesso alcun permesso di costruzione per l’edificio.

Secondo Khatib, a causa della mancanza di spazio i genitori hanno donato alla scuola un container perché servisse da caffetteria e cucina. Le truppe israeliane hanno confiscato gli utensili, un frigorifero, una stufa a gas, strumenti per la pulizia e cancelleria, ha detto.

La scuola, nota anche come “Tahaddi (Sfida) 17”, ha aperto a gennaio con l’aiuto dell’Italia. Ha 38 studenti dai 5 ai 15 anni e otto insegnanti.

Nel novembre 2018 le forze israeliane hanno confiscato i materiali da costruzione mentre la stavano edificando. A giugno hanno portato via un trattore e altro materiale edile, mentre la scuola si stava ulteriormente allargando.

Le autorità israeliane affermano che la scuola è al di fuori del piano strutturale definito per il villaggio, benché le sue fondamenta siano solo 20 metri fuori dal perimetro, ha detto Khatib.

Israele ha emanato la decisione di demolire la scuola il 2 gennaio e l’avvocato del villaggio è riuscito a confermare la sua decisione”, ha aggiunto.

Salam Taher, direttrice scolastica a Jenin, ha detto che la costruzione della scuola “Challenge 17 ” è stata molto difficile ed è stata progettata dai genitori in segreto.

Abbiamo insistito nel costruire la scuola nella zona e fornire agli studenti un sicuro contesto di apprendimento, soprattutto perché il villaggio è molto lontano dagli altri e i ragazzi erano costretti ad attraversare ogni giorno il checkpoint per raggiungere la scuola”, ha aggiunto.

Taher ha assicurato che il Ministero dell’Educazione palestinese avrebbe continuato a fornire alla scuola la tutela legale necessaria e ad impedire ulteriori attacchi delle forze israeliane.

Non abbiamo altra scelta che sfidare e fronteggiare le aggressioni israeliane”, ha detto Taher.

In una dichiarazione il Ministero dell’Educazione palestinese ha fatto appello a tutte le organizzazioni dei diritti umani e umanitarie e ai difensori dell’educazione perché intervengano urgentemente per porre fine a queste violazioni, che colpiscono il diritto all’educazione garantito dal diritto internazionale e umanitario.

Il villaggio di Dahr al-Maleh è situato al di là del muro di separazione, esistente dal 2002. L’accesso è severamente limitato da checkpoint e le forze di occupazione israeliane consentono di entrare nel villaggio solo ai residenti e ai proprietari di terreni, causando un grave isolamento.

Secondo Khatib, il 7 ottobre 2018 le autorità israeliane hanno intensificato l’assedio al villaggio, che ha una popolazione di 550 persone, confiscando 199 ettari.

Il muro di separazione è situato nella parte meridionale del villaggio, mentre ad ovest c’è una base militare israeliana e ad est e a nord è circondato da diverse colonie.

Trenta famiglie di Dahr al-Maleh sono state costrette a spostarsi fuori dal villaggio poiché è stato loro vietato di ampliare le costruzioni esistenti o di sviluppare i terreni, ha detto Khatib.

I palestinesi di Dahr al-Maleh rimarranno e resisteranno con gli strumenti più semplici di cui dispongono”, ha detto.

Oggi chiediamo all’Autorità Nazionale Palestinese e a tutto il mondo di sostenere il villaggio e di stare al fianco del suo popolo che vive con risorse molto elementari e quotidianamente è preso di mira da Israele.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un sistema di spionaggio del gruppo NSO sarebbe stato utilizzato in attacchi informatici contro avvocati e giornalisti

Nick Hopkins e Stephanie Kirchgaessner

Martedì 29 ottobre 2019 – The Guardian

WhatsApp denuncia un’impresa israeliana accusandola di aver violato i telefoni di attivisti

WhatsApp ha iniziato un’azione legale senza precedenti contro un’impresa di armi informatiche accusata di essere dietro attacchi segreti contro più di 100 attivisti per i diritti umani, avvocati, giornalisti e docenti universitari in sole due settimane all’inizio dell’anno.

L’impresa di social media ha presentato una denuncia contro NSO Group, una compagnia israeliana della sorveglianza, affermando che essa è responsabile di una serie di attacchi informatici molto complessi che a suo parere hanno violato le leggi americane con una “inconfondibile modalità di uso illecito”.

WhatsApp afferma di ritenere che durante il periodo di due settimane tra la fine di aprile e metà maggio questa tecnologia venduta da NSO sia stata usata per prendere di mira i telefonini di oltre 1.400 suoi utenti in 20 diversi Paesi.

WhatsApp pensa che in questo breve periodo tra quanti sono stati sottoposti agli attacchi informatici ci siano importanti difensori ed avvocati per i diritti umani, illustri personalità religiose, famosi giornalisti e funzionari di organizzazioni umanitarie.

Secondo quanto ritiene la compagnia, sono state vittime di attacchi anche un certo numero di donne precedentemente prese di mira dalla violenza informatica e personalità che hanno subito tentativi di assassinio e minacce di violenza, così come i loro parenti.

La denuncia di WhatsApp, presentata martedì a un tribunale californiano, chiede un’ingiunzione permanente che vieti a NSO di tentare di accedere ai sistemi su computer WhatsApp e Facebook, ad esso legato.

Ha anche chiesto al tribunale di sentenziare che NSO ha violato le leggi federali USA e della California contro frodi informatiche, ha violato i suoi contratti con WhatsApp ed ha “indebitamente abusato” di proprietà di Facebook.

Questa è la prima volta che un fornitore di messaggistica criptata ha preso un’iniziativa legale contro un ente privato che ha perpetrato questo tipo di attacchi contro i suoi utenti,” ha affermato un portavoce di WhatsApp. “Nella nostra denuncia spieghiamo come NSO abbia messo in atto il suo attacco, compresa l’ammissione di un dipendente di NSO che le nostre iniziative per porre rimedio all’attacco sono state efficaci.”

La compagnia sta anche appoggiando richieste del relatore speciale ONU per il diritto di espressione, David Kaye, per una moratoria di questo tipo di programmi di spionaggio invasivo.

Ci deve essere un deciso controllo giudiziario su armi informatiche come quella usata in questo attacco, per garantire che non vengano usate per violare i diritti individuali e le libertà a cui le persone hanno diritto ovunque nel mondo,” ha affermato WhatsApp.

Gruppi per i diritti umani hanno documentato una preoccupante tendenza in base alla quale tali strumenti sono stati usati per attaccare giornalisti e difensori dei diritti umani.”

WhatsApp ha sostenuto di aver lavorato con “Citizen Lab”, un gruppo di ricerca universitario con sede presso la Munk School di Toronto, per identificare le vittime degli attacchi e la tecnologia utilizzata contro di loro. L’organizzazione ha iniziato a contattare membri della società civile che siano stati colpiti dai presunti hacker.

John Scott-Railton, un ricercatore esperto di “Citizen Lab”, ha detto che l’azione legale di WhatsApp è stata “un importante passo positivo per la protezione dei diritti umani in rete e rappresenterà sicuramente un precedente.” Egli ha accusato NSO di agire con spregio nei confronti delle persone prese di mira. “Mentre dice all’opinione pubblica di essere preoccupata dei diritti umani, la società privata di sistemi di spionaggio ha cercato di ritagliarsi una nicchia di impunità, per cui, in virtù della sua vicinanza ad alcuni governi, sostiene di agire in modo legale, ma quando le fa comodo preferisce disconoscere qualunque responsabilità per questo comportamento.

L’annuncio di WhatsApp giunge sei mesi dopo che ha comunicato di aver scoperto un punto debole che ha consentito ad aggressori informatici di installare programmi di spionaggio sui telefoni con il programma sia iPhone che Android, chiamando destinatari che usano la funzionalità telefonica dell’applicazione. In quel momento non era ancora chiaro come molti degli 1,5 miliardi di utenti di WhatsApp siano stati colpiti.

Da allora WhatsApp, in collaborazione con “Citizen Lab”, nei giorni prima che la vulnerabilità venisse bloccata, ha cercato di capire come siano stati lanciati molti attacchi. Si ritiene che l’azienda sia rimasta scioccata da quello che ha scoperto.

Nella sua azione legale ha accusato NSO di “accesso e uso illegali dei computer di WhatsApp, molti dei quali si trovano in California.”

Sostiene anche che NSO “ha preso una serie di iniziative, utilizzando senza autorizzazione server di WhatsApp e il suo servizio, per spedire singoli componenti del programma ostile (‘codice dannoso’) per prendere di mira dispositivi elettronici” – e che ciò è stato fatto in modo da “occultare l’identità e il coinvolgimento degli accusati.”

La denuncia di WhatsApp non è l’unica rivolta contro NSO. L’impresa è stata accusata di aver preso di mira Omar Abdulaziz, uno stretto collaboratore di Jamal Khashoggi prima che il giornalista del Washington Post venisse assassinato l’anno scorso nel consolato saudita di Istanbul.

NSO ha affermato di prendere in esame le accuse nei confronti dei propri clienti e di riservarsi il diritto di ritirare agli utenti i permessi di utilizzo.

All’inizio di quest’anno l’azienda è stata acquistata da un’impresa privata con sede a Londra denominata “Novalpina Capital”, che in giugno ha affermato che avrebbe svelato nuove regole di governo dell’azienda. Nel passato NSO ha tenacemente difeso l’utilizzo della sua tecnologia e del sistema informatico di sorveglianza, noto come “Pegasus”, in quanto strumento di messa in pratica della legge che potrebbe contribuire a prevenire attacchi criminali e terroristici. “Novalpina” ha attribuito alla tecnologia di NSO il merito di aver bloccato piani di un attacco terroristico in uno stadio affollato in Europa e, citando il governo messicano, ha affermato che nel 2011 ha contribuito all’arresto del boss della droga noto come “El Chapo”.

In novembre l’impresa israeliana ha reso nota una “nuova politica per i diritti umani”, che a suo dire è fondata su un “rispetto incondizionato per i diritti umani”. Tra le altre iniziative, si è impegnata a inserire nuove procedure corrette di controllo per identificare, prevenire e mitigare “effetti contrari ai diritti umani” a causa del possibile abuso della sua tecnologia.

Ha anche affermato che avrebbe condotto una valutazione del “potenziale di effetti contrari ai diritti umani” dovuti ad un uso scorretto dei prodotti di NSO, così come avrebbe imposto “obblighi contrattuali” che impedirebbero ai clienti di NSO di utilizzare i suoi prodotti per qualcosa di diverso da un’inchiesta su gravi delitti.

Ma la nuova politica è stata criticata da alcuni esperti dei diritti umani e della sorveglianza informatica, compreso Kaye dell’ONU.

In una lettera del 18 ottobre a Shalev Hulio, uno dei fondatori di NSO, Kaye ha sollevato dubbi sull’efficacia di queste nuove linee guida sui i diritti umani e delle procedure basate sulla necessaria attenzione, ed ha suggerito che [NSO] sembrava affidarsi totalmente ai suoi stessi clienti per l’autocertificazione sull’uso scorretto dei suoi prodotti.

NSO Group ha affermato: “Contestiamo con la massima fermezza le attuali accuse e ci opporremo fortemente ad esse. L’unico scopo di NSO è fornire una tecnologia ad agenzie di intelligence e forze dell’ordine governative per aiutarle a combattere il terrorismo e la grande criminalità. La nostra tecnologia non è destinata o autorizzata ad essere usata contro gli attivisti per i diritti umani e i giornalisti. Negli ultimi anni ha contribuito a salvare migliaia di vite.

La verità è che piattaforme fortemente criptate sono spesso utilizzate da circoli di pedofili, boss della droga e terroristi per proteggere le proprie attività criminali. Senza tecnologie sofisticate, gli organi di polizia che devono garantire la nostra sicurezza devono affrontare ostacoli insormontabili. Le tecnologie di NSO forniscono soluzioni adeguate e legali a questo problema.

Noi consideriamo ogni uso dei nostri prodotti diverso dalla prevenzione della grande criminalità e del terrorismo una misura vietata dai termini contrattuali. Se lo individuiamo, interveniamo. Questa tecnologia è radicata nella protezione dei diritti umani – compresi il diritto alla vita, alla sicurezza ed all’integrità fisica – ed è per questo che abbiamo cercato di adeguarci ai principi delle linee guida dell’ONU su attività economiche e diritti umani, per garantire che i nostri prodotti rispettino tutti i diritti umani fondamentali.”

Se siete stati colpiti da presunto hackeraggio di WhatsApp o avete informazioni su di esso contattate Nick.Hopkins@theguardian.com oppure  Stephanie.Kirchgaessner@theguardian.com

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)