Annessione della valle del Giordano

I palestinesi della valle del Giordano: “Le nostre terre sono già state annesse”

La promessa di Netanyahu di formalizzare il controllo di fatto di Israele sulla valle del Giordano provoca inquietudine tra gli abitanti palestinesi

di Arwa Ibrahim

12 settembre 2019 – Al Jazeera

 

Ras Ain al-Auja, valle del Giordano – Tra le vaste terre aride della valle del Giordano, che si estendono a nord del Mar morto e a ovest dei confini della Cisgiordania con la Giordania, sorge il piccolo villaggio palestinese di Ras Ain al-Auja.

Se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu porterà a compimento il suo piano, annunciato martedì, di annettere la valle del Giordano e le zone a nord del Mar morto, il villaggio di circa 350 residenti e i suoi fertili terreni agricoli diventeranno parte di Israele.

Alcuni osservatori hanno liquidato il piano di Netanyahu come una bravata da campagna elettorale prima delle elezioni generali della prossima settimana. Ma gli abitanti di Ras Ain al-Auja dicono che le parole di Netanyahu sono minacciose in quanto il suo piano potrebbe formalizzare il controllo israeliano sulla zona.

“Non è una novità. Le nostre terre sono già state annesse e stiamo vivendo sotto l’occupazione israeliana,” afferma ad Al Jazeera il quarantottenne Ahmed Atiyat, un contadino di Ras Ain al-Auja.

“Tutte queste terre e le palme sono degli israeliani,” dice indicando distese di terre coltivate punteggiate di cespugli verdi e palme da dattero che si estendono verso il Mar Morto.

Il progetto di Netanyahu intende annettere il villaggio e altre parti della valle del Giordano, tuttavia non includerebbe Gerico, la città palestinese più vicina a  Ras Ain al-Auja.

L’annessione di Gerico lo obbligherebbe ad occuparsi là della condizione di migliaia di cittadini palestinesi. L’attuale piano tendenzialmente taglierebbe fuori Gerico da altre città palestinesi nella Cisgiordania occupata.

 

Occupazione di fatto

La popolazione di Ras Ain al-Auja comprende soprattutto contadini che hanno lavorato su quella terra da generazioni. Dicono che risorse idriche in esaurimento e restrizioni alla costruzione e ai collegamenti da parte dell’esercito israeliano hanno reso difficili le condizioni di vita.

“Tutte le nostre sorgenti d’acqua sono sotto controllo israeliano. Abbiamo pochissima acqua potabile, per non parlare dell’acqua per i nostri orti,” afferma Atiyat, che racconta che la sua famiglia si è spostata nella zona dopo essere stata espulsa dall’esercito israeliano dalle sponde del fiume Giordano nel 1967.

Hussein Saida, un altro contadino e membro del locale Comune, è d’accordo.

“Dobbiamo affrontare continue difficoltà, soprattutto quando si tratta di aver accesso e di fare la manutenzione ai nostri pozzi per innaffiare in nostri orti. Essi sono di fatto sotto il controllo israeliano,” dice Saida. Secondo molte Ong palestinesi e israeliane, Israele nega accesso alla terra, all’acqua e all’elettricità ai palestinesi che vivono nella valle del Giordano, così come in altre aree nella Cisgiordania occupata, rendendo le condizioni di vita difficili.

“Israele ha annesso di fatto la zona della valle del Giordano. Gran parte di essa è destinata ad uso militare, per cui i palestinesi non possono viverci. Se lo fanno, vengono espulsi” dice Roi Yellim, direttore della diffusione al pubblico di B’Tselem, una Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani.

“C’è anche un continuo tentativo da parte di Israele di rendere difficili le condizioni di vita dei palestinesi nella valle del Giordano, in modo che la maggior parte di loro lasci le proprie terre,” aggiunge, sottolineando che tali condizioni vengono applicate in tutta la Zona C, che costituisce il 60% della Cisgiordania occupata.

L’area che Netanyahu progetta di annettere costituisce circa il 30% della Cisgiordania occupata. Più di 65.000 palestinesi e circa 11.000 coloni israeliani illegali vivono nella zona.

Maha Abdullah, una ricercatrice giuridica e avvocatessa di Al-Haq, un’Ong palestinese, dice che queste condizioni potranno solo peggiorare se l’area viene annessa, portando i palestinesi a pensare di lasciare le proprie case. “Queste zone rendono molto all’economia israeliana e quindi conviene sfruttarne le risorse e le terre,” afferma Abdullah. “Al contempo, creare un contesto costrittivo per i palestinesi che vi vivono attraverso la demolizione di case e la fornitura ridotta di acqua e di elettricità spingerà i palestinesi ad andarsene,” dice, facendo un confronto con l’annessione di Gerusalemme est nel 1967.

Ai palestinesi della Gerusalemme est occupata non è stata concessa la cittadinanza israeliana, dato che le annessioni e il loro status rimangono controversi e irrisolti.

Futuro Stato palestinese

Il piano minaccia anche la formazione di un futuro Stato palestinese, in quanto i palestinesi rivendicano i 2.400 km2 della valle del Giordano come confine orientale di un futuro Stato palestinese nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, denuncia il progetto di annessione, dicendo ad Al Jazeera che “seppellirebbe ogni restante prospettiva di una pace e di uno Stato palestinese fattibile e indipendente.”

La minaccia per il futuro della Palestina è avvertita anche ad un livello più locale.

 

“Anche se si trattasse solo di parole, per il momento, il progetto di Netanyahu di annettere le terre più fertili della Palestina e parti di un futuro Stato palestinese è molto pericoloso,” dice ad Al Jazeera Salah Frijat, capo dell’autorità locale di Auja, che è il Comune più esteso da cui dipende

Ras Ain al-Auja. “Ci sono continue violazioni delle nostre terre e delle nostre risorse idriche. Vogliono vederci andar via in quanto la vita diventa più dura e le colonie intorno a noi aumentano,” aggiunge.

Israele ha ripetuto le sue intenzioni di mantenere il controllo militare sulla zona, che ha conquistato nella guerra del 1967, anche se venisse raggiunto un accordo di pace con i palestinesi.

Lo scorso anno il presidente USA Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. Oltre a ciò la sovranità di Israele sulle Alture del Golan occupate, che le sue forze hanno conquistato dalla Siria nel 1967, ha fatto temere a molti osservatori che prima o poi questo piano possa effettivamente essere messo in atto.

“Anche se quello che Netanyahu ha detto fosse davvero una bravata elettorale, probabilmente procederà a una sorta di annessione perché ha l’appoggio dell’amministrazione di Trump,” sostiene Yellim.

Nonostante queste difficili condizioni e minacce, Atiyat dice che non lascerà mai la sua terra.

“Anche se la vita continua ad essere sempre più dura, moriremo qui piuttosto che andarcene o essere di nuovo cacciati dalle nostre terre,” dice ad Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Negazionismo e Nakba

Quando scoppia la bolla del negazionismo: un kibbutz israeliano di fronte alla Nakba

Salman Abu Sitta

5 settembre 2019 – Mondoweiss

 

Cosa succede quando un popolo è rinchiuso in una bolla in cui la “verità” ha un solo libro da leggere, da seguire e a cui ubbidire, e poi improvvisamente la bolla scoppia e il sole risplende su una verità completamente nuova, verificabile, chiara e corretta?

Ciò è quello che succede ai kibbutz [comunità agricole sioniste con proprietà collettiva, ndtr.] di Nirim, Nir Oz, Magen e Ein Hashloshla. Questi quattro kibbutz vennero fondati dopo la Nakba del 1948 sulla mia terra, Al Ma’in (65,000 dunum – 6.500 ettari). Al Ma’in è stato ed è da secoli il luogo d’origine della mia famiglia, Abu Sitta, ora rifugiata nella Striscia di Gaza e altrove.

Eitan Bronstein Aparicio, fondatore di “De-Colonizer” [De- Colonizzatore] (fondatore in precedenza di “Zochrot”, un gruppo israelo-palestinese che insegna la Nakba agli israeliani), ha fatto scoppiare la bolla. Eitan ha allestito una mostra piccola e semplice. Ha raccolto mappe, libri, video e una foto aerea della RAF [aviazione militare britannica, ndtr.] di Al Ma’in nel 1945, che mostra campi e l’aspetto principale del villaggio e le ha collocate in due stanze e un cortile. La mostra si è tenuta il 25 luglio 2019 nella “Casa Bianca”, l’unico edificio palestinese sopravvissuto alla demolizione del villaggio da parte degli israeliani nel 1948 e trasformata da Haim Peri, un artista di Nir Oz, in una galleria d’arte.

Eitan ha invitato i coloni di Al Ma’in e della zona circostante ad andare a vedere la mostra. Il suo messaggio era semplice. Quella era la gente che viveva qui e che ora è rifugiata a due chilometri di distanza dietro il filo spinato nella Striscia di Gaza. La presentazione lasciava intendere che Israele aveva preso la loro proprietà ed ora ci vivete voi.

Nonostante il fatto che il numero dei visitatori è stato modesto, probabilmente tra quaranta e cinquanta, le reazioni sono state indicative di gente a cui è stata negata la verità, le vittime del fatto di aver messo a tacere la Nakba.

Le considerazioni, e persino le minacce, più irate sono venute da un vecchio abitante di un kibbutz, di più di 80 anni, che aveva assistito e partecipato all’attacco contro Al Ma’in. La milizia Haganah [principale gruppo armato sionista prima della nascita di Israele, ndtr.] attaccò Al Ma’in il 14 maggio 1948 con 24 veicoli blindati, distrusse e bruciò case, demolì la scuola costruita nel 1920, fece saltare in aria il pozzo e il mulino a motore. Ad essa resistettero coraggiosamente per alcune ore 15 difensori palestinesi armati di vecchi fucili. Da bambino vidi le rovine fumanti del mio villaggio mentre ero ammassato insieme ad altri bambini e donne in una forra lì vicino. Non avevo mai visto un ebreo prima di allora e non sapevo chi fossero gli aggressori o perché fossero venuti a distruggere le nostre vite.

Il 14 maggio 1948 diventai un rifugiato.

Quel giorno sulle rovine del mio Paese, la Palestina, Ben Gurion proclamò lo Stato di Israele.

In seguito all’attacco e all’occupazione, nel periodo tra il 1949 e il 1955 sulla terra di Al Ma’in vennero costruiti i quattro kibbutz. La famiglia Abu Sitta, che era allora composta da circa 1.000 persone ed ora da circa 10.000, diventò rifugiata, per lo più nella Striscia di Gaza.

I coloni anziani, che erano presenti nel 1948, hanno accusato Eitan di eversione e gli hanno consigliato di trovare un altro Paese in cui emigrare. Hanno minacciato di dire alle autorità di negare l’ingresso a visitatori stranieri che potrebbero andare proprio per vedere la mostra. Ironicamente questi anziani sono stati i primi a visitare la mostra, probabilmente per trovare il modo di spiegare la loro storia negazionista.

Ovviamente la loro storia non merita neppure una replica. Hanno detto che lì non c’era nessuno: “Siamo arrivati dove c’era un deserto vuoto.” Come spiegare i campi coltivati nelle foto aeree? Chi li aveva seminati? La casa in cui è stata sistemata la mostra, il pozzo e il mulino a motore, le rovine che si trovano ancora lì, come li possono spiegare?

Il colono più anziano di Nirim, Solo (cioè Chaim Shilo o Solo Weicheck), 94 anni, un tedesco di origini russe, era indignato quando un giornalista britannico gli ha chiesto ripetutamente: “Perché non permettete alla famiglia Abu Sitta di tornare a casa?”

I coloni anziani hanno detto che quelle case erano state costruite dagli inglesi. Si tratta di una strana affermazione, in quanto chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa della storia palestinese sa che abbiamo combattuto contro i britannici fin dalla [dichiarazione] Balfour. In particolare, il mio fratello maggiore Abdullah era il leader della rivolta del 1936-1939 nel distretto meridionale. Lui e i suoi compagni espulsero i britannici dal distretto di Beer Sheba per un anno, dall’ottobre 1938 al novembre 1939.

I coloni anziani sostengono di aver comprato le terre. Ma nessuno potrebbe fornire una prova di essere proprietario, legalmente o in altro modo, di un solo appezzamento di terreno per miglia e miglia.

La risposta più comune di giovani e anziani è stata: “Abbiamo vinto la guerra. Quando mai il vincitore ha restituito quello che ha vinto?”

Affermare che essere forti nella vittoria contro una controparte debole sia una giustificazione per un crimine solleverebbe la Germania nazista dai suoi crimini perché avrebbe potuto commettere e commise quei crimini. In base alla stessa argomentazione, i britannici sarebbero assolti da ogni colpa per il massacro di Amritsar  del 1919 [le truppe inglesi spararono contro la folla che assisteva ad un comizio nella città indiana, uccidendo più di 300 persone, ndtr.], i russi per aver giustiziato ufficiali polacchi nella foresta di Katyn nel 1940 [truppe sovietiche sterminarono più di 20.000 tra ufficiali e prigionieri polacchi, ndtr.] e i francesi per aver gettato in mare centinaia di prigionieri algerini da voli della morte con elicotteri nel 1957 [durante la “battaglia di Algeri” combattuta dal movimento di liberazione algerino, ndtr.].

I coloni hanno ripetuto il solito vecchio ritornello: “Noi abbiamo accettato il piano di spartizione [della Palestina tra arabi ed ebrei, approvato dall’ONU nel 1947, ndtr.], voi no. Sarebbe possibile che la Francia concedesse più di metà del Paese agli immigrati africani?”

Se i coloni fossero stati informati, avrebbero saputo che il piano di spartizione era una semplice raccomandazione, senza alcun valore giuridico vincolante. L’ONU non aveva l’autorità di dividere Paesi e lo disse. Oltretutto l’ONU, e sorprendentemente gli USA, lasciarono cadere il piano di spartizione a favore dell’amministrazione fiduciaria sulla Palestina da parte dell’ONU.

Nessuna fonte israeliana lo cita. I poveri coloni sarebbero gli ultimi a saperlo.

I coloni hanno sostenuto che “se non ci aveste fatto una guerra, tra di noi ci sarebbe stata la pace.” Ciò è molto strano. Non ricordo che la mia famiglia o qualunque altro gruppo di palestinesi abbia schierato un esercito ed abbia marciato verso la Polonia e la Russia per attaccarvi gli ebrei. É vero il contrario. Allora, chi ha scatenato la guerra? Non sanno rispondere.

Ciò che sicuramente non sanno è che l’abbandono del piano di spartizione a metà del marzo 1948 innescò un fondamentale avvenimento nella storia della Nakba. Ben Gurion [leader sionista e primo capo del governo israeliano, ndtr.] decise di conquistare la Palestina e ordinò di mettere in pratica immediatamente il piano Dalet [che prevedeva l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina, ndtr.].

Di conseguenza iniziò l’invasione sionista della Palestina. In sei settimane, dal primo di aprile al 14 maggio 1948, l’Haganah conquistò località cruciali in Palestina e fondò sul terreno Israele, dopo che Herbert Samuel [politico ebreo sionista inglese nominato alto commissario del Mandato britannico sulla Palestina, ndtr.] (1920-1925) [periodo in cui Samuel fu alto commissario in Palestina, ndtr.] aveva definito le sue fondamenta giuridiche 28 anni prima.

In quelle sei settimane 220 villaggi, comprese molte cittadine, vennero attaccati e spopolati, quasi metà di tutti i rifugiati palestinesi vennero espulsi e vennero commessi 22 degli oltre 50 massacri avvenuti nel corso della Nakba. Durante quelle stesse sei settimane vennero condotte 17 operazioni militari da nove brigate. In ogni attacco ci fu una superiorità numerica di 10 a 1 contro i difensori. In totale Israele organizzò 31 operazioni militari per occupare parecchie regioni della Palestina, incrementando così il proprio controllo dal 6% della Palestina alla fine del Mandato [britannico] al 78% a metà del 1949. Vennero occupate nuove terre per formare una solida spina dorsale dalla pianura della costa centrale fino a Merj bin Amer e alle rive occidentali del fiume Giordano da Beisan a Metulla.

Quella fu la vera invasione della Palestina. Fu un’invasione sionista.

Ecco Adele Raemer, una nuova colona di Nirim. Arrivò dal Bronx [quartiere di New York, ndtr.] nel 1975 per insediarsi sulla mia terra. Scrive un blog sulla sofferenza dei kibbutz nell’‘enclave di Gaza’ e si lamenta degli aquiloni palestinesi che incendiano i ‘suoi’ campi di grano. Ho risposto dicendo che quelli sono i miei campi di grano. Le ho detto che ricordo che da bambino mi veniva permesso di sedermi sulla nostra mietitrebbia.

Ha voluto sapere: “Da quanto tempo la famiglia Abu Sitta ha vissuto ad Al Ma’in?”

Mi sono rifiutato di rispondere. Avrei potuto replicare che il nome Abu Sitta era sulle mappe di Allenby [generale britannico che sconfisse i turchi in Medio Oriente, ndtr.] quando conquistò Beer Sheba nel 1917, che il mio trisnonno fu citato per nome in un documento ottomano del 1845 riprodotto al Cairo e a Gerusalemme. Avrei potuto dirle che il nome Abu Sitta (Padre di Sei) venne coniato verso il 1720 in considerazione del fatto che il mio progenitore era un ben noto cavaliere accompagnato dalla scorta di sei compagni.

Mi sono rifiutato di rispondere perché non devo provare la mia discendenza a una colona i cui parenti sono arrivati di nascosto su una nave da uno shtetl [villaggio ebraico dell’Europa dell’est, ndtr.] sulle spiagge della Palestina nel cuore della notte.

Le sue lamentele sulla dura vita a Nirim sono state riprese da suo cugino, Gil Troy, un docente di storia all’università McGill [università canadese con sede a Montreal, ndtr.]. La formazione accademica non lo salva dai limiti della bolla della negazione. In risposta al devastante attacco israeliano contro Gaza dell’agosto 2014 [l’operazione “Margine protettivo”, ndtr.] ha scritto che Nirim venne fondato nel 1946, cioè prima della Nakba. Falso. Venne fondato sulla mia terra nella primavera del 1949, dopo che fummo attaccati ed espulsi. Egli ammira la “vera comunità di coltivatori”, ma omette di menzionare che venne fondata su una proprietà rubata e che i proprietari la vedono da dietro il filo spinato a due chilometri di distanza. Egli loda i coloni in quanto “agricoltori che persino sotto il continuo fuoco tendono la mano ai loro vicini gazawi, sconcertano il mondo con la loro straordinaria generosità ebraica, sionista e democratica.”

La bolla negazionista ha impedito al dotto professore di notare che la popolazione di 247 villaggi spopolati è stata ammassata nella stretta Striscia di Gaza con una densità di 7.000 persone per km2, mentre i coloni vagano sulla loro terra con una densità di 7 persone per km2.

Lo stesso Nirim ha 173 membri e le loro famiglie sfruttano 20.000 dunam (2.000 ettari) della mia terra, mentre la mia famiglia estesa, Abu Sitta, è composta da 10.000 rifugiati che vivono a due chilometri di distanza.

Il dotto professore parla del “confine” di Israele. Dovrebbe sapere che Israele non ha mai avuto un confine né per sua stessa ammissione né per le leggi internazionali. Probabilmente si riferiva alla linea dell’accordo di armistizio del 24 febbraio 1949. Ma il secondo articolo di questo accordo stabilisce che esso non concede diritti a Israele, né riguardo alla sua sovranità né alla proprietà di terre occupate.

Senza dubbio il dotto professore non sa che il confine di cui parla è solo una linea temporanea di ‘modus vivendi’ concordata nel febbraio 1950. La vera linea di armistizio è tre chilometri all’interno della terra occupata da Israele nel 1948, il che fa sì che Nirim, Ein Hashlosha e Nir Oz si trovino nella Palestina non occupata, nota ora come Striscia di Gaza.

Questo solo pensiero terrorizzerebbe i coloni e trasformerebbe la mostra di Eitan in una bomba di fatti che minerebbe tutte le loro rivendicazioni. Ma ciò non è stato citato.

È stranamente assente da ogni discussione l’orrendo stupro e l’uccisione di una ragazzina araba di 12 anni catturata da un plotone di Nirim nell’agosto 1949. I soldati di un plotone l’hanno violentata a turno, poi le hanno sparato e l’hanno sepolta. L’unico segno fu la sua mano che spuntava dalla fossa poco profonda. Ben Gurion citò brevemente questo fatto nel suo diario di guerra. Nessuno fa riferimento a questo crimine, neppure i coloni più anziani, come Solo, che all’epoca erano lì.

Ma c’è un raggio di speranza, un raggio così tenue da mettere in evidenza la dimensione della negazione. È una risposta di Efran Katz, un colono di Nir Oz. Vale la pena di citarlo integralmente:

Quello che oggi ho visto qui è stato molto toccante e persino doloroso. Nonostante abbia vissuto qui per più di 35 anni, sento la necessità e la speranza di tornare alla terra e riviverla con le emozioni passate, di riviverla con la cultura e i costumi vostri, degli abitanti.

Una terra non è un mattone. Una terra è un valore, è radici, è l’amore per un luogo. Non c’è posto per la deportazione. Il mio cuore è con voi.

Ai coloni può sembrare che la bolla della negazione sia un luogo sicuro in cui nascondersi. La logica è chiara. Se un crimine viene rivelato, chi lo ha commesso sarebbe un criminale meritevole di una punizione e obbligato a un risarcimento. La mostra di Eitan è un chiaro promemoria.

Ma ora non è rimasto molto spazio per nascondersi nella bolla della negazione. Quando tutto il mondo saprà del crimine, la giustizia li raggiungerà e il risarcimento sarà un prezzo molto pesante da pagare.

 

Salman Abu Sitta è fondatore e presidente della “Palestine Land Society” [Società Palestinese della Terra], di Londra, che si dedica alla documentazione sulla terra e il popolo palestinesi. É l’autore di sei libri sulla Palestina, compresi il compendio “Atlante della Palestina 1917-1966”, edizione in inglese e in arabo, l’“Atlante del viaggio di ritorno” e oltre 300 documenti e articoli sui rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno, la storia della Nakba e i diritti umani. Gli viene attribuita una vasta documentazione e cartografia della terra e del popolo palestinesi di oltre 40 anni. La sua acclamata autobiografia “Mappare il mio ritorno” descrive la sua vita in Palestina e la sua lunga lotta in quanto rifugiato per tornare in patria.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Discriminazione politica dei palestinesi di Israele

Eletti ma sotto attacco: come in Israele si sta riducendo lo spazio per i deputati palestinesi

Un nuovo rapporto di Amnesty International evidenzia la discriminazione radicata all’interno della Knesset israeliana

 

Ben White

4 settembre 2019 – Middle East Eye

 

 

Mentre Israele si prepara alle seconde elezioni in un anno, Amnesty International ha pubblicato un nuovo rapporto che evidenzia quelle che descrive come “crescenti minacce” alla “libertà di espressione” dei membri palestinesi della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.].

[Il rapporto] “Eletti ma condizionati: spazio che si sta riducendo per i parlamentari palestinesi nella Knesset israeliana” è stato reso pubblico due settimane prima che gli israeliani vadano a votare il 17 settembre, e costituisce una cruda sintesi di quello che Amnesty descrive come uno “spazio ridotto” per le critiche e una discriminazione “radicata”.

Al centro delle preoccupazioni di Amnesty c’è l’uso “discriminatorio” dei regolamenti e delle leggi che compromette la possibilità dei palestinesi eletti alla Knesset di rappresentare i propri elettori.

 

Rifiuto del dissenso politico

Un esempio degli esempi citati è una modifica legislativa del 2016 che consente alla Knesset di “espellere i deputati eletti attraverso un voto a maggioranza dei loro colleghi parlamentari,” dando facoltà “alla maggioranza politica di far dimettere un deputato eletto” per aver manifestato opinioni politiche ritenute inaccettabili, persino quando queste dichiarazioni “non sono state sottoposte ad alcun procedimento penale o di altro genere.”

Nel contempo “i regolamenti della Knesset, che si presume siano in vigore per imporre comportamenti etici ai parlamentari, sono stati utilizzati per limitare il diritto di parola, colpendo i parlamentari palestinesi in modo discriminatorio,” afferma Amnesty, evidenziando una loro modifica nel 2018 “per non concedere a un deputato della Knesset il permesso di viaggiare all’estero se il viaggio viene finanziato da ‘un ente che chiede il boicottaggio dello Stato di Israele’.”

Preso nel suo complesso, il rapporto di Amnesty mina seriamente le ricorrenti argomentazioni del governo israeliano, compresa la spesso ripetuta affermazione che la semplice presenza di parlamentari “arabi israeliani” sia la prova di quella che sarebbe una democrazia vitale.

“Importanti dirigenti del governo israeliano” hanno rivolto “dichiarazioni incendiarie” contro i deputati palestinesi, afferma Amnesty, “intese a delegittimare loro e il loro lavoro”. Per aver osato criticare le politiche del governo, questi parlamentari hanno dovuto affrontare la richiesta che venissero “messi fuori legge” o processati per “tradimento”.

 

Mancanza di democrazia

Oltre a questi discorsi, leggi presentate da parlamentari palestinesi sono state bocciate su basi politiche. Secondo Amnesty, dal 2011 “la Knesset ha bocciato quattro leggi riguardanti diritti o rivendicazioni politiche dei palestinesi.”

Tra queste una legge proposta nel 2018 da deputati palestinesi in cui si dava una definizione di Israele come “un Paese per tutti i suoi cittadini”, a cui è stato impedito di “arrivare alla discussione parlamentare” sulla base del fatto che “avrebbe negato la definizione di Israele come Stato ebraico”.

“A giudizio di Amnesty International,” sostiene il rapporto, “la decisione ha discriminato i parlamentari palestinesi, a quanto pare sulla base della loro origine nazionale o etnica.”

In vista delle elezioni di questo mese, questo nuovo documento è un importante promemoria delle difficoltà che incontrano i deputati palestinesi – limitazioni che per alcuni cittadini palestinesi sono sufficientemente pesanti da rendere di per sé inutile o controproducente la partecipazione al sistema parlamentare.

Il nuovo rapporto è anche un’opportunità per una riflessione critica più generale sulle presunte credenziali democratiche di Israele. Oltre ai condizionamenti che i cittadini palestinesi devono affrontare nella Knesset, ci sono tre fattori chiave che indicano il deficit democratico di Israele.

 

Discorso divisivo

Il primo luogo c’è la discriminazione istituzionalizzata presente dal 1948. Come nota anche Amnesty, i cittadini palestinesi di Israele rappresentano circa il 20% della popolazione totale “e, come per ogni altro cittadino israeliano, i loro diritti alla partecipazione politica e ad essere rappresentati sono riconosciuti dalle leggi israeliane.”

Tuttavia, “le leggi israeliane consentono discriminazioni dirette o indirette contro i palestinesi ed altri cittadini non ebrei in molti ambiti, comprese la cittadinanza, la terra e la pianificazione territoriale, la casa, l’educazione e la salute.” Non certo la solida democrazia liberale che rivendicano gli apologeti di Israele.

Questa discriminazione, durata decenni, si è inasprita negli ultimi anni, in quanto le autorità israeliane hanno “incrementato i discorsi divisivi contro le minoranze e le comunità emarginate,” e “minacciato e calunniato i difensori palestinesi ed israeliani dei diritti umani.”

In secondo luogo, c’è il problema di chi è escluso dal voto. Mentre Israele esalta il fatto che i suoi cittadini palestinesi possono votare, nel corso di questo mese molti più palestinesi non saranno in grado di votare benché le loro vite siano controllate dallo Stato israeliano e dalle decisioni prese dalla Knesset.

Gli esclusi dal voto includono la grande maggioranza dei più di 300.000 palestinesi con residenza permanente, senza la cittadinanza, che vivono a Gerusalemme est, occupata ed illegalmente annessa.

Tuttavia questo numero è oscurato dai quasi cinque milioni di palestinesi che vivono nei territori palestinesi occupati, sottoposti negli ultimi 50 anni a un regime militare. In Cisgiordania i coloni israeliani che vivono nelle colonie illegali voteranno; i palestinesi nelle comunità limitrofe non lo potranno fare.

 

Disumanizzazione dei palestinesi

È importante ricordare anche i milioni di palestinesi al di fuori della Palestina storica, espulsi dalle proprie case dalle autorità israeliane nel 1948, e i loro discendenti. Le leggi israeliane li hanno privati della nazionalità, impedendo loro di tornare, e quindi hanno creato la maggioranza ebraica tra i cittadini israeliani.

In terzo e ultimo luogo, la mancanza di democrazia in Israele è evidenziata anche dal diffuso appoggio alla disumanizzazione dei palestinesi e dalla negazione dei loro diritti nelle tendenze politiche principali di Israele.

Indipendentemente dai risultati delle elezioni, il prossimo governo israeliano, come tutti quelli che l’hanno preceduto, non terrà in alcun conto le leggi internazionali, compresa la perpetrazione di crimini di guerra, e continuerà a violare i diritti fondamentali dei palestinesi.

È un consenso criminale condiviso sia dal Likud che dall’alleanza di opposizione “Blu e Bianco”.

Mettendo insieme tutto questo, con la discriminazione istituzionalizzata e il fatto che milioni di palestinesi non possano votare per il governo che controlla le loro vite, viene alla mente la citazione del deputato Ahmed Tibi, secondo cui Israele è “democratico verso gli ebrei, ed ebreo verso gli arabi.”

E per quanti sono impegnati a favore del principio di uguaglianza, ovviamente non la si può affatto definire una democrazia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi media, tra cui Middle East Monitor, Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian ed altri ancora.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Netanyahu e il fattore religioso

Come Netanyahu sta utilizzando la religione per modellare le elezioni israeliane

Fomentare controversie religiose fa sì che l’opposizione faccia quello che vuole il primo ministro

Shir Hever

2 settembre 2019 – Middle East Eye

 

Benché in Israele questioni relative all’imposizione alla popolazione nel suo complesso di leggi religiose siano sempre state parte del discorso politico, le elezioni del 17 settembre saranno le prime in cui esse figureranno al primo posto.

Come mai gli altri problemi – prima di tutto l’occupazione della Palestina – sono stati messi in secondo piano?

Avigdor Lieberman, una volta alleato di estrema destra di Benjamin Netanyahu, ha sparato il colpo d’inizio dopo le elezioni del 9 aprile, quando ha rifiutato di arrivare a un compromesso con i partiti ultraortodossi ed ha impedito a Netanyahu di formare un governo di coalizione. Lieberman ha lanciato una bomba evidenziando che l’alleanza decennale tra la destra religiosa e quella laica in Israele potrebbe essere arrivata al termine.

 

Grande clamore

Non sempre i partiti ultraortodossi sono stati alleati della destra, ma gli alloggi a buon mercato nelle colonie illegali in Cisgiordania li hanno attirati sempre più in quella direzione. La loro linea invalicabile, tuttavia, rimane l’insistenza sul fatto che gli studenti delle Yeshiva [scuole religiose, ndtr.] siano esentati dal servizio militare.

Nei mesi successivi alle ultime elezioni una serie di dichiarazioni di rabbini molto noti ha provocato clamore tra l’opinione pubblica laica. La città di Afula ha organizzato un evento con il pubblico separato per genere di cui si è dibattuto dal punto di vista giudiziario in vari tribunali. L’importante personaggio di destra e ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich ha chiesto l’imposizione della legge religiosa ebraica e il ministro dell’Educazione Rafi Peretz ha manifestato il suo sostegno per la “terapia della conversione” [che pretende di far diventare eterosessuali le persone LGBT, ndtr.].

Recentemente il giornalista Meron Rapoport ha scritto un interessante articolo in cui ha esaminato la prevalenza del dibattito religioso nell’attuale ciclo di elezioni. Egli ha notato che, poiché molti israeliani sentono che la questione palestinese non è più importante a causa della ridotta resistenza armata palestinese, si stanno interessando ad altre questioni controverse, e questo spostamento potrebbe implicare la caduta di Netanyahu, che non può più trarre vantaggio dalle sue credenziali relative alla sicurezza, ma deve tentare di ricostruire l’alleanza tra la destra religiosa e quella laica se avrà l’opportunità di vincere le elezioni.

Non sono d’accordo con questa affermazione. In primo luogo penso che gli israeliani siano più minacciati da proteste non violente che da quelle violente, e che le idee dell’opinione pubblica israeliana siano tutt’altro che pacate e accondiscendenti quando si tratta della resistenza dei palestinesi all’occupazione.

Le prime pagine dei giornali bombardano l’opinione pubblica con infiniti presagi di un disastro se dovesse scoppiare un’altra guerra con Gaza, o se il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) dovesse crescere con maggiore forza, o se l’Autorità Nazionale Palestinese dovesse collassare. Gli israeliani sono fin troppo consapevoli che non c’è più una maggioranza ebraica nelle zone sotto controllo israeliano.

Estendere l’occupazione

Tuttavia, tra Lieberman a destra e l’Unione Democratica a sinistra, nessun partito offre una soluzione pratica a queste minacce. I partiti di sinistra tendono a parlare della soluzione dei due Stati, ma borbottano sottovoce che alcune parti della Cisgiordania, e soprattutto Gerusalemme est, sarebbero annesse, precludendo quindi un accordo con i palestinesi. I partiti religiosi attendono un miracolo divino che garantisca la docilità dei palestinesi, e i partiti della destra laica nei loro progetti per estendere indefinitamente l’occupazione israeliana sostituiscono dio con il presidente USA Donald Trump.

In più, l’idea che Netanyahu rischi di perdere a causa del spostamento del dibattito sottostima il suo controllo sul sistema politico israeliano. Le elezioni di aprile hanno diviso i partiti israeliani sulla questione della corruzione. Può Netanyahu ricoprire la carica di primo ministro essendo accusato di corruzione? I partiti di opposizione non ne parlano più tanto, concentrandosi invece sulle libertà religiose.

Da più di un secolo nella classe media progressista e laica israeliana si è coltivato un forte sentimento antireligioso. I politici di opposizione hanno fatto definito “parassiti” gli ultra-ortodossi ed hanno evocato luoghi comuni antisemiti. Eppure queste opinioni sono sempre contraddittorie, in quanto è impossibile tracciare una linea tra essere contro la religione e l’antiebraismo, e non si può essere antiebraici e al contempo appoggiare uno Stato ebraico nel nome del sionismo.

Netanyahu sa che, aizzando gli animi sulla controversia religiosa, sta dettando l’agenda dell’ opposizione. Quando rabbini ortodossi fanno dichiarazioni di odio, come il rabbino Eli Sadan, che recentemente ha detto che “il laicismo è un coltello nella schiena della Nazione”, essi suscitano risposte provocatorie da parte dell’opposizione, obbligando i partiti ortodossi a stare nel campo di Netanyahu.

 

Mostrare un volto diverso

Nel contempo Netanyahu ha nominato un ministro della Giustizia apertamente gay, Amir Ohana, per dimostrare che il Likud non è uguale ai partiti religiosi della sua coalizione. Mentre il Likud sta mostrando un volto diverso, tenendo insieme misoginia e tolleranza, ortodossia e neoliberismo, i partiti di opposizione formano un tutt’uno con un ridotto gruppo di progressisti laici di classe media, per lo più ebrei ashkenaziti [cioè originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.], che sono favorevoli alla pace, ma al contempo molto militaristi.

Questo campo è diviso in tre gruppi politici: l’alleanza “Blu e Bianco”, il partito Laburista e l’ “Unione Democratica”. “Blu e Bianco”, come il Likud, concorda con la decisione di escludere la “Lista Unitaria”, che rappresenta gli elettori palestinesi.

Netanyahu sa che quasi sempre gli israeliani tendono a votare in base a modelli tribali. Gli ebrei ortodossi votano per partiti ortodossi, gli ashkenaziti di classe media di Tel Aviv votano per la sinistra, eccetera.

Sa anche che non c’è mai stata veramente una tribù “laica” in Israele. C’è una piccola tribù antireligiosa, ed anche molti che non si ostinerebbero a favore di una separazione tra Stato e chiesa, ma vorrebbero comunque poter andare a un concerto senza che la famiglia sia divisa per genere o usare il trasporto pubblico nei fine settimana. Questa distribuzione dei votanti garantisce in pratica che i laici di centro-sinistra non saranno in grado di formare un governo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever è un membro del direttivo di “Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East” [Voci Ebraiche per una Giusta Pace in Medio Oriente, organizzazione di ebrei contrari all’occupazione attiva in Germania, ndtr.].

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Laburismo israeliano e colonizzazione

Come il partito Laburista israeliano ha concepito le colonie ebraiche illegali in Palestina

 

Ramzy Baroud

24 agosto 2019  Middle East Monitor

 

 

Dopo la vittoria israeliana nella guerra del 1967 diventò impossibile per gli ideologi sionisti mascherare la vera natura del loro Stato: un regime colonialista inflessibile con un progetto espansionista.

Anche se il sionismo fu fin da principio un’impresa coloniale, molti sionisti rifiutarono di vedere se stessi come colonizzatori. I “sionisti culturali”, i “sionisti riformisti” e i “sionisti laburisti” sostenevano progetti politici simili a quelli dei “revisionisti” [la corrente sionista di destra, ndtr.] e di altre forme estreme di sionismo. Quando venne messa alla prova, la differenza tra il sionismo di sinistra e di destra dimostrò di essere una semplice semantica ideologica. Entrambi i gruppi lavorarono per mantenere la stessa dissonanza cognitiva: vittime alla ricerca di una patria e coloni con un progetto razzista e violento.

Questo paradigma intellettuale egoista è ancora in vigore oggi, più definito nei discorsi politici apparentemente conflittuali dei partiti di destra (Likud e altri partiti nazionalisti religiosi e di estrema destra) e di sinistra (laburista e altri) israeliani. Per i palestinesi, tuttavia, entrambe le correnti politiche sono due facce della stessa medaglia.

Dopo la decisiva vittoria israeliana nella guerra del giugno 1967, il nazionalismo ebraico acquisì un nuovo significato. Nacque l’“esercito invincibile” di Israele, e anche gli ebrei scettici cominciarono a vedere Israele come uno Stato vittorioso, che ora era una forza regionale, se non internazionale, di cui tener conto. Cosa altrettanto importante, furono i cosiddetti “progressisti di sinistra” israeliani e altri “sionisti moderati” che progettarono completamente il periodo più riprovevole della storia.

L’occupazione israeliana del Sinai, delle Alture del Golan, di Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza e la distruzione degli eserciti uniti di Egitto, Siria e Giordania entusiasmarono la maggioranza degli israeliani, spingendo molti a sviluppare una prospettiva imperialista e ad adottare totalmente un progetto colonialista, basato sulla convinzione che il loro esercito fosse il più forte in Medio Oriente. Gli stessi istinti espansionisti contribuirono a santificare il principio sionista secondo cui “non si sarebbe dovuto dividere mai più Eretz Israel [la Terra di Israele, ndtr.].”

Di fatto, come ha sostenuto il professor Ehud Sprinzak (citato nel libro di Nur Masalha “Imperial Israel and the Palestinians: The Politics of Expansion” [Israele imperialista e i palestinesi: la politica di espansione]), dopo la vittoria israeliana nel 1967, il concetto di espansione imperialista e il rifiuto della “divisione” di Eretz Israel si convertì in “un principio più vigoroso e influente nel sionismo moderno.” Indipendentemente dal fatto se Israele abbia anticipato del tutto questa espansione territoriale di massa o meno, il Paese sembrava deciso a rafforzare rapidamente le proprie conquiste, rifiutando qualunque richiesta di tornare alle linee dell’armistizio del 1949.

Benché gli ebrei religiosi fossero intossicati dall’idea che la zona biblica di “Giudea e Samaria” “ritornasse” ai suoi lontani proprietari, il primo movimento per capitalizzare le conquiste territoriali fu, di fatto, un’organizzazione laica d’élite chiamata “Movimento per Tutta la Terra di Israele” (WLIM).

La conferenza ufficiale di fondazione del WLIM si celebrò poco dopo la vittoria di Israele. Benché fosse stata fondata e dominata da attivisti del partito Laburista, il WLIM superò i confini del partito e le divisioni ideologiche, unite nella loro determinazione a conservare tutta la Palestina, come tutto Israele. In quanto alla popolazione indesiderata, quelli che non vennero espulsi dovevano essere assoggettati a dovere.

Mentre l’Egitto e altri Paesi arabi denunciavano la loro sfortunata guerra, la Palestina si occupò totalmente della prigionia dei palestinesi nella loro stessa terra. Proprio quando Israele celebrava la sua vittoria sugli eserciti arabi ufficiali, i soldati israeliani si riprendevano sorridenti mentre facevano il segno di vittoria presso il cosiddetto “Muro del Pianto”, così come nei luoghi santi della Gerusalemme araba. I palestinesi si prepararono al peggio.

Di fatto, come Baruch Kimmerling scrive nel suo libro “The Palestinian People: A History” [I Palestinesi: la genesi di un popolo, La Nuova Italia, 2002], “fu il momento nella storia palestinese più privo di speranza”, i rifugiati palestinesi che sognavano di tornare alla Palestina precedente al 1948 si scontrarono con una immane difficoltà, nei fatti una nuova Nakba, perché il problema dei rifugiati ora peggiorò e si aggravò a causa della guerra e della creazione di 400.000 nuovi rifugiati. Le ruspe israeliane si spostarono rapidamente in molte parti dei territori palestinesi appena conquistati, come fecero in altre terre arabe occupate, demolendo realtà storiche e costruendone di nuove, come fanno tuttora.

Poco dopo la guerra, Israele cercò di rafforzare la sua occupazione, in primo luogo rifiutando le proposte di pace presentate dal nuovo presidente egiziano, Anwar Sadat, a partire dal 1971, e in secondo luogo attivando la costruzione di colonie in Cisgiordania e a Gaza.

Le prime colonie avevano scopi militari e strategici, dato che l’intenzione era quella di creare fatti sul terreno tali da alterare la natura di un qualunque futuro accordo di pace; di lì il piano Allon, così chiamato da Yigal Allon, un ex ministro e generale del partito laburista nel governo israeliano, che si assunse il compito di delineare un progetto israeliano per i territori palestinesi appena conquistati.

Il piano intendeva annettere per “ragioni di sicurezza” il 30% della Cisgiordania e tutta Gaza. Stabilì la costituzione di un “corridoio di sicurezza” lungo il fiume Giordano, oltre alla “Linea verde”, una delimitazione israeliana unilaterale delle proprie frontiere con la Cisgiordania. Il piano prevedeva l’annessione della Striscia di Gaza a Israele e intendeva restituire parte della Cisgiordania alla Giordania come primo passo verso la messa in pratica dell’“opzione giordana” per i rifugiati palestinesi, cioè la pulizia etnica con la creazione di una “patria alternativa” per i palestinesi.

Il piano fallì, ma non del tutto. I nazionalisti palestinesi garantirono che mai si sarebbe realizzata una patria alternativa, ma la confisca, la pulizia etnica e l’annessione della terra occupata furono un successo totale. Ciò che fu altrettanto importante e coerente fu che il piano di Allon fornì un indicatore inequivocabile che il governo laburista di Israele aveva tutte le intenzioni di conservare almeno grandi aree della Cisgiordania e di tutta Gaza, e non intendeva rispettare la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite [risoluzione del 1967, che imponeva il ritiro dai territori occupati, ndt.].

Per approfittare dell’interesse politico della colonizzazione in Cisgiordania per il governo, un gruppo di ebrei religiosi affittò un hotel nella città palestinese di Hebron (Al-Khalil) per passare la festa di Pesach [la Pasqua ebraica, ndtr.] nella “Tomba dei patriarchi” e si rifiutò semplicemente di andarsene. Ciò provocò la passione per la Bibbia degli israeliani religiosi ortodossi in tutto il Paese, che si riferivano alla Cisgiordania con la sua denominazione biblica, Giudea e Samaria. Il loro movimento risvegliò anche le ire dei palestinesi, che videro con totale costernazione come la loro terra venisse conquistata, chiamata con un nuovo nome e poi colonizzata da stranieri.

Nel 1970, per “espandere” la situazione, il governo israeliano costruì la colonia di Kiryat Arba nella periferia della città araba, che attirò altri ebrei ortodossi a Hebron. Il piano Allon poteva essere stato ideato per obiettivi strategici, ma poco dopo ciò che era strategico e politico si confuse con quello che diventò religioso e spirituale.

In definitiva i palestinesi stavano perdendo molto velocemente la loro terra, un processo che avrebbe portato a un grande spostamento di popolazione israeliana, inizialmente a Gerusalemme est occupata – che venne annessa illegalmente poco dopo la guerra del 1967 – e alla fine nel resto dei territori occupati. Nel corso degli anni l’aumento delle colonie strategiche si unì all’espansione per ragioni religiose, promossa da un movimento vitale, esemplificato nella creazione di Gush Emunim (Blocco dei Fedeli [movimento dei coloni nazional-religiosi, ndtr.]) nel 1974. Il movimento era deciso a insediare in Cisgiordania legioni di fondamentalisti ebrei.

Il piano di Allon si estese anche fino ad includere Gaza e il Sinai. Allon desiderava creare una “striscia” di territori che avrebbe fatto da zona cuscinetto tra Egitto e Gaza. “Zona cuscinetto” fu, in questo contesto, un nome in codice per colonie ebraiche illegali e posti militari nell’estremo sud della Striscia di Gaza e in zone adiacenti del nord del Sinai, una regione che Israele denominò la “pianura di Rafiah”.

All’inizio del 1972 migliaia di uomini, donne e bambini, per lo più beduini palestinesi, vennero espulsi dalle loro case nel sud di Gaza. Nonostante vivessero nella zona da generazioni, la loro presenza era un ostacolo rispetto ad un piano dell’esercito israeliano che presto avrebbe inglobato la metà di Gaza. Furono evacuati senza che venisse loro permesso di portare via neppure i propri beni, per modesti che fossero. L’esercito israeliano affermò che nella zona la pulizia etnica venne messa in atto “solo” a danno di 4.950 persone. Ma i capi delle tribù affermarono che più di 20.000 abitanti vennero obbligati ad abbandonare le proprie case e terre.

Allon aveva conferito ad Ariel Sharon e ad altri comandanti militari l’incarico di dividere i territori da poco occupati in piccole regioni, tra le quali inserire colonie strategiche e basi militari per indebolire la resistenza locale e consolidare il controllo israeliano.

“(Sharon) racconta di essersi trovato in una duna (nei pressi di Gaza) con ministri del governo”, scrisse Gershom Gorenberg, “a spiegare che, insieme alle misure militari, per controllare la Striscia voleva “strisce” di colonie che dividessero le città tagliando la regione in quattro parti. Un’altra “striscia” avrebbe attraversato il confine del Sinai, contribuendo a creare una “zona neutrale ebraica tra Gaza e il Sinai per interrompere il flusso di armi e dividere le due regioni, nel caso in cui il resto del Sinai fosse tornato all’Egitto.”

Il resto è storia. Benché negli ultimi giorni la presenza demografica dei coloni si sia spostata in larga misura verso destra e la loro influenza politica sia aumentata esponenzialmente a Tel Aviv, questi coloni, che ora rappresentano circa 600.000 persone che vivono in più di 200 insediamenti, sono l’orribile creazione della “sinistra” israeliana con il totale sostegno e appoggio della destra, tutti al servizio della causa originaria del sionismo, che è rimasto fedele ai principi fondativi: un movimento colonialista sostenibile solo con la violenza e la pulizia etnica.

 

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

 

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 




Gaza sul punto di esplodere

“Sul punto di esplodere”: cosa c’è dietro gli attacchi alla frontiera di Gaza?

I recenti attacchi isolati di combattenti palestinesi indicano che la posizione di Hamas come partito al potere a Gaza è minacciata?

 

Di Motasem A Dalloul

GAZA, giovedì 29 agosto 2019 – Middle East Eye

 

Questo mese è stato letale nella Striscia di Gaza assediata. Dopo il primo agosto alcuni palestinesi hanno condotto una serie di attacchi contro le forze israeliane schierate lungo la barriera di separazione tra l’enclave palestinese e Israele.

Sono stati uccisi nove palestinesi apparentemente coinvolti in questi attacchi, mentre due soldati e un comandante israeliani sono rimasti feriti.

Giovedì scorso, come rappresaglia dopo lanci di razzi dal territorio palestinese durante la notte, aerei israeliani hanno colpito varie basi di Hamas nella Striscia di Gaza. Nessuno dei razzi o attacchi ha fatto vittime.

Questo picco di operazioni condotte da palestinesi che, anche se membri di fazioni della resistenza armata, avrebbero agito in modo indipendente, ha suscitato una serie di congetture, in particolare nei media israeliani, dove alcuni commentatori si sono chiesti se Hamas abbia perso il controllo della situazione a Gaza.

Anche se il portavoce di Hamas Hazem Qassim ha dichiarato a Middle East Eye che la situazione a Gaza è “sotto controllo”, egli ha avvertito che il piccolo territorio sotto assedio è “come un vulcano sul punto di esplodere di fronte all’occupazione israeliana.”

 

Congetture mediatiche

Almeno nove palestinesi uccisi nel corso di tre attacchi perpetrati questo mese erano affiliati a gruppi della resistenza palestinese, soprattutto al braccio armato di Hamas, le brigate Al-Qassam, ma hanno agito a titolo personale.

É sulla bocca di tutti La possibilità che Hamas perda il controllo di Gaza – dove è il principale attore politico e militare tredici anni dopo la sua vittoria alle elezioni legislative nel contesto della lotta per il potere con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) basata in Cisgiordania e di fronte a un devastante assedio diretto da Israele.

Per alcuni osservatori, vari scenari potrebbero vedere Hamas perdere la presa su Gaza: un’offensiva militare israeliana che porti a una nuova occupazione dell’enclave costiera con la presenza al suo interno di soldati israeliani; la presa del potere a Gaza da parte dell’ANP grazie a un intervento israeliano o a un progresso senza precedenti dei negoziati sull’unità palestinese,  in stallo da molto tempo; infine, una pressione simultanea della popolazione e delle fazioni contro Hamas, che potrebbe comportare un imprevedibile vuoto di potere a Gaza.

Per gli organi di stampa israeliani il fatto che a quanto pare le recenti operazioni siano avvenute all’insaputa di Hamas e senza la sua approvazione avrebbe messo il gruppo della resistenza di fronte a un “dilemma”, intrappolato tra le responsabilità in quanto partito al potere – che è in particolare l’interlocutore politico in ogni tentativo di tregua – e la sua missione di resistenza contro l’occupazione.

Il giornalista di “Maariv” [giornale israeliano indipendente, ndtr.] Jacky Hugi, per esempio, ha dichiarato alla radio dell’esercito che Hamas si è messo in una situazione delicata a causa di “promesse irrealistiche” riguardanti l’alleggerimento dell’assedio israeliano contro Gaza.

A maggio Israele e Hamas hanno concluso un accordo di tregua che stabiliva che Israele avrebbe ampliato la zona di pesca definita per Gaza a 15 miglia marine; avrebbe attivato i programmi “denaro contro lavoro” dell’ONU; avrebbe permesso ai farmaci e ad altri ausili civili di entrare nell’enclave assediata; avrebbe avviato discussioni indirette sulle questioni relative all’elettricità, al passaggio delle frontiere, alle cure mediche e ai finanziamenti del Qatar a Gaza.

In cambio Hamas ha accettato di controllare la “Grande Marcia del Ritorno” – un movimento di protesta popolare che dal marzo 2018 si presenta sotto forma di manifestazioni lungo la barriera di separazione tra Gaza e Israele per chiedere la fine dell’assedio e la messa in pratica del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Nel quadro della tregua, Hamas ha accettato di sorvegliare le manifestazioni per garantire che i manifestanti restino all’interno della zona cuscinetto di 300 m. nei pressi della barriera, cessino di lanciare aquiloni incendiari e interrompano ogni manifestazione sul mare.

In Israele membri dell’esercito e dell’opposizione accusano il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di aver perso la forza di dissuasione contro Gaza e chiedono una grande offensiva nella fascia costiera per interrompere gli intermittenti lanci di razzi e i tentativi di infiltrazione. Ma Netanyahu e il suo partito al potere, il Likud, sembrano in apparenza più esitanti a promuovere una guerra a poche settimane dalle elezioni legislative.

Jacky Hugi sostiene che i militanti del gruppo della resistenza palestinese non hanno constatato nessun miglioramento sul terreno dopo l’accordo di tregua e si starebbero quindi rivoltando contro Hamas.

Di fatto tra molti palestinesi di Gaza cresce il malcontento per la mancata applicazione dell’accordo da parte di Israele. La folta presenza durante i recenti funerali di tre combattenti palestinesi uccisi sembra confermare che Hamas ha perso in certa misura il sostegno popolare nel territorio assediato.

 

Guerra di propaganda

Invece per il portavoce di Hamas Hazem Qassim il discorso ripetuto dai media israeliani nel corso dello scorso mese relativo alla perdita di popolarità di Hamas a Gaza è grossolanamente esagerato.

Secondo lui, i media israeliani “sottolineano problemi che non sono reali o non hanno niente a che vedere con i problemi sul terreno per coprire i crimini israeliani commessi contro i luoghi santi palestinesi.”

Per l’esperto giornalista palestinese Mustafa al-Sawwaf le affermazioni secondo cui Hamas avrebbe perso il controllo della Striscia di Gaza sono inverosimili, dato il “forte coordinamento” delle diverse fazioni palestinesi.

“Il consenso e l’unità delle fazioni della resistenza palestinese attraverso la centrale operativa comune impedisce ogni scontro imprevisto con l’occupante israeliano,” ha dichiarato a MEE.

Di conseguenza secondo Sawwaf i gruppi della resistenza potrebbero aver “dato il proprio consenso” ai recenti attacchi realizzati da combattenti isolati per “inviare un vero messaggio all’occupazione israeliana sul fatto che il ritardo riguardante la messa in pratica dei termini della tregua potrebbe avere conseguenze pericolose”, compresa una guerra, suggerisce.

Mentre Qassim sottolinea che i recenti attacchi sono stati perpetrati da individui con mezzi propri, riconosce che la maggior parte dei combattenti uccisi durante questi attacchi facevano parte del braccio militare del suo movimento.

Anche Hussam al-Dajani, analista politico palestinese e professore associato all’università al-Ummah a Gaza, rifiuta l’idea secondo la quale Hamas avrebbe perso il controllo dell’enclave. Dice però a MEE che da molto tempo tra le ali militari delle fazioni palestinesi regna lo scontento riguardo agli “sforzi profusi a Gaza e in Cisgiordania dai settori politici.”

La sensazione che Hamas abbia fallito nel far terminare l’assedio israeliano e nel proteggere la popolazione dalle misure punitive adottate dall’ANP ha sicuramente deluso molti gazawi, tra cui alcuni si sono detti irritati dalla sua cattiva amministrazione.

“Siamo furiosi contro Israele a causa dell’assedio imposto a Gaza, ma anche Hamas e l’ANP sono da biasimare per questa divisione interna che permette ad Israele di rafforzare la sua aggressione contro di noi e al mondo di continuare ad ignorarci,” dichiara a MEE Said, un medico di 33 anni.

“Noi pensiamo che Hamas, che abbiamo eletto, salvaguardi i principi palestinesi, ma, al contempo, dovrebbe essere pragmatica e trattare con Israele (…) almeno per migliorare le condizioni di vita dei gazawi,” aggiunge.

“Se non riesce a farlo, allora dovrebbe farsi da parte.”

Dajani insiste sul fatto che la responsabilità di Israele di fronte alla situazione economica, sociale e umanitaria sul terreno a Gaza –dodici anni di blocco e tre guerre dalla sua messa in pratica – resta la causa principale della collera tra i civili palestinesi e le fazioni armate.

Le violazioni del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo da parte di Israele nei territori palestinesi occupati, aggiunge Dajani, hanno trasformato Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est in una “pentola che ribolle” e minaccia di traboccare in qualunque momento.

Anche Khalid, insegnante gazawi di 37 anni, è dello stesso parere.

“Siamo furiosi contro l’occupazione israeliana che impone un assedio a Gaza da più di 10 anni,” dichiara a MEE. “Hamas non è da condannare per questa situazione perché ha le mani legate dall’Autorità Nazionale Palestinese, dagli Stati arabi e dalla comunità internazionale.”

 

“Mediatori deboli”

In un contesto di persistenti tensioni e di minacce di conflitto aperto, Hazem Qassim ammette che l’Egitto e l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente Nikolai Mladenov hanno giocato un ruolo importante nel contribuire alla distensione della situazione a Gaza, soprattutto con l’ultimo accordo di tregua.

Sottolineando l’importanza di avere dei mediatori presso tutte le fazioni palestinesi, il portavoce di Hamas richiama l’attenzione sul fatto che, rispetto alle altre fazioni palestinesi, il movimento “ha le proprie linee guida riguardo alla gestione della situazione e alla direzione della resistenza palestinese”.

Da parte sua Mustafa al-Sawwaf insiste sul fatto che tuttavia il ruolo importante della mediazione è “squilibrato” – sostenendo che, mentre sui palestinesi vengono esercitate pressioni, i mediatori “quando vanno a Tel Aviv stanno zitti.”

Anche Hussam al-Dajani imputa il peggioramento della situazione a Gaza e nelle altre regioni dei territori palestinesi all’inazione della comunità internazionale. Teme che Hamas perda realmente il controllo di Gaza a causa delle “continue violazioni israeliane” che provocano solo un “timido biasimo a livello internazionale”.

Egli esorta Israele a togliere l’assedio a Gaza e chiede alla comunità internazionale di giocare un “ruolo più positivo” per mantenere la calma – per esempio, adottando una posizione più ferma contro le violazioni israeliane a Gaza.

“Ciò migliorerebbe la posizione di Hamas riguardo alla sua stessa popolazione e le consentirebbe di avere più potere per mantenere la Striscia di Gaza sotto controllo,” ritiene l’analista.

 

 

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)

 




Permessi di costruzione per palestinesi

I nuovi permessi di costruzione per i palestinesi aprono la strada all’annessione?

A fine luglio la decisione israeliana di approvare 715 alloggi in città palestinesi potrebbe essere un gesto simbolico o la premessa di una maggiore presa di controllo sulle terre della Cisgiordania occupata

Ben White

23 agosto 2019 – Middle East Eye

La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano, annunciata a fine luglio, di approvare i permessi di costruzione per abitazioni palestinesi in zona C [sotto totale controllo israeliano, ndtr.] della Cisgiordania occupata costituisce un’eccezione perché si tratta della “prima decisione di questo tipo dal 2016”.

Benché il numero comunicato di 715 alloggi nelle città palestinesi sembri positivo, finora non è stata diffusa alcun’altra informazione, per esempio se i progetti riguardino nuove costruzioni o la regolarizzazione retroattiva  di abitazioni costruite senza i permessi rilasciati da Israele.

Al di là della mancanza di chiarezza, queste abitazioni sono una goccia nell’oceano: secondo Peace Now, «si stima che ogni anno nella zona C vi sia almeno un migliaio di giovani coppie palestinesi che hanno bisogno di un alloggio.»

Dal 2009 al 2016 le autorità d’occupazione israeliane hanno approvato solo 66 permessi di costruzione per palestinesi nella zona C, cioè appena il 2% del totale delle domande. Nello stesso periodo è iniziata la costruzione di 12.763 alloggi nelle colonie israeliane della zona C.

Ciononostante, benché questi nuovi permessi di costruzione si avvicinino appena alle necessità derivanti da un sistema intenzionalmente discriminatorio, questa resta una decisione inusuale. Perché un governo di estrema destra –alla vigilia delle elezioni – dovrebbe prendere una simile misura?

Una iniziativa dovuta «alla pressione americana » ?

Il «piano di pace» della Casa Bianca costituisce un elemento essenziale del contesto : Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] cita «fonti politiche» anonime che ritengono che questa iniziativa «potrebbe essere dovuta a pressioni americane.»

Queste autorizzazioni sono avvenute proprio prima della visita di una delegazione americana guidata dal consigliere della Casa Bianca Jared Kushner, nel quadro di un tour regionale per promuovere il piano.

Questa possibilità ha destato preoccupazione in alcuni membri del movimento dei coloni: due importanti responsabili hanno definito i permessi di costruzione per i palestinesi «particolarmente inquietanti”, tenuto conto di ciò che descrivono come «il chiaro obbiettivo dell’Autorità Nazionale Palestinese di stabilire uno Stato terrorista nel cuore del Paese.»

Non devono preoccuparsi. Secondo Haaretz, che cita «fonti informate sui dettagli», alcune informazioni hanno rapidamente rivelato che la decisione del governo israeliano è dipesa in realtà da un «cambio di politica destinato ad estromettere l’Autorità Nazionale Palestinese dalla pianificazione territoriale e dalla costruzione nei territori (occupati) ».

Prevenire uno Stato palestinese

Inoltre il Ministro dei Trasporti e deputato dell’Unione dei partiti di destra, Bezalel Smotrich, ha pubblicato su Facebook una spiegazione dettagliata  per giustificare questi permessi.

Affermando che uno dei principali obbiettivi della sua carriera politica è «impedire l’instaurazione di uno Stato terrorista arabo nel cuore di Israele » (con riferimento alla Cisgiordania), Smotrich scrive : «Oggi, finalmente…Israele predispone un piano strategico per fermare la creazione di uno Stato palestinese.”

Secondo Smotrich la decisione del gabinetto segna «la prima volta » che Israele « controlla che nella zona C vi siano costruzioni solo per gli arabi che siano residenti originari della regione dal 1994 e non per gli arabi arrivati in seguito dalle zone A [sotto controllo palestinese, ndtr.] e B [sotto controllo amministrativo palestinese e militare israeliano, ndtr]. »

La costruzione per i palestinesi sarà quindi autorizzata solo «in luoghi che non nuocciano alla colonizzazione e alla sicurezza delle colonie e non creino una contiguità territoriale né uno Stato palestinese di fatto. »

E non è tutto. «Per la prima volta nella sua storia », prosegue il Ministro, « lo Stato di Israele applicherà la propria sovranità sull’insieme del territorio ed assumerà la responsabilità di ciò che accade al suo interno. »

Ecco, sta scritto nero su bianco. I permessi concessi ai palestinesi nella zona C sono una dimostrazione della «sovranità » israeliana – un’altra premessa all’annessione formale.

In quest’ottica il legame tra i permessi di costruzione ed il piano dell’amministrazione Trump assume una dimensione più preoccupante – anche se poco sorprendente -, che non suggerisce una «concessione» per facilitare i negoziati, ma un coordinamento tra Israele e gli Stati Uniti riguardo all’annessione della zona C.

Dare priorità alle comunità ebree

Fatto rivelatore, parallelamente alla concessione di permessi ai palestinesi, il governo israeliano ha approvato circa 6000 alloggi nelle colonie israeliane. Il giorno dopo, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in occasione di una visita nella colonia di Efrat, dichiarava: «Nessuna colonia e nessun colono saranno sradicati…Ciò che fate qui è definitivo.»

Tuttavia, che i permessi di costruzione per i palestinesi – se mai si concretizzeranno – siano solo un gesto simbolico oppure una premessa all’annessione, questi sviluppi mettono in evidenza i limiti di una critica meramente umanitaria alla politica israeliana di demolizione e di espulsione.

Negli ultimi anni il brutale approccio «discriminatorio ed iniquo» di Israele riguardo alle comunità e alle abitazioni nella zona C della Cisgiordania ha suscitato giustamente critiche internazionali sempre più numerose, e Amnesty International ha condannato il regime di pianificazione discriminatorio di Israele come “unico al mondo.”

Nonostante questo, man mano che Israele si avvicina all’ufficializzazione dell’annessione della zona C, alcuni diranno che tale sviluppo è vantaggioso per gli abitanti palestinesi perché concederà loro la cittadinanza, legalizzerà le loro comunità, rilascerà dei permessi, eccetera.

Beninteso, un simile argomento può essere contestato in base ai suoi stessi termini, anche citando gli argomenti chiaramente avanzati dai sostenitori di Smotrich, secondo i quali la politica di pianificazione continuerà a dare priorità alle comunità ebree (come è sempre stato entro i confini del 1967).

Progetto colonizzatore

Tuttavia, una posizione molto più forte consiste nel considerare le demolizioni e le espulsioni di Israele nella zona C, compresi i permessi che rilascia, nel contesto di un regime di apartheid molto più vasto, nel quale i palestinesi vengono espulsi, frammentati e discriminati per perseguire l’obbiettivo principale di mantenere lo Stato ebraico – ed il controllo della terra e della demografia necessario a tale obbiettivo.

Il regime di pianificazione territoriale discriminatorio di Israele costituisce una crisi umanitaria e dei diritti umani, ma non si tratta solo di questo – e se l’opposizione alle demolizioni si esprime in questi termini, le critiche diventano vulnerabili alle iniziative israeliane quale un aumento simbolico dei permessi, cioè l’annessione.

In fin dei conti, come altrove in Palestina, è più facile comprendere e attaccare le politiche israeliane collocandole nel quadro di un progetto di colonizzazione di molti decenni – un quadro che mantiene tutta la sua rilevanza, piuttosto che assistere tra breve ad un’annessione ufficiale della zona C o alla perpetuazione dello statu quo.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi media, tra cui Middle East Monitor, Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian ed altri ancora.

 

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Repressione delle proteste in Israele

La repressione delle proteste da parte di Israele sfida il concetto di “democrazia”

Documenti da poco resi pubblici mostrano come la polizia israeliana si sia adoperata per eludere il diritto dei cittadini a protestare

 

Shir Hever

22 agosto 2019 – Middle East Eye

 

Un appello per la libertà d’informazione da parte di sostenitori israeliani dei diritti civili ha rivelato che la polizia israeliana ha segretamente elaborato una serie di politiche per reprimere i diritti dei cittadini di tenere manifestazioni e assemblee, evidenziando la falsa natura della “democrazia” di Israele.

Due anni fa la Corte Suprema israeliana ha stabilito che i cittadini possono tenere manifestazioni senza permesso, dopo che la polizia aveva tentato di impedire proteste settimanali contro la corruzione a Petah Tikva. La sentenza non è stata una sorpresa, in quanto i manifestanti erano ebrei israeliani laici di classe medio-alta che probabilmente consideravano Israele una democrazia e davano per scontato il proprio diritto di protestare.

Tuttavia il precedente creato dall’Alta Corte minacciava di pregiudicare la lunga tradizione israeliana di repressione delle proteste delle minoranze, compresi gli ebrei ultraortodossi, gli ebrei di colore, i mizrahim [ebrei di origine araba, ndtr.] e, più frequentemente, i cittadini palestinesi di Israele.

 

Arresti preventivi

Documenti rivelati di recente mostrano che, per aggirare la decisione della Corte, la polizia si è concentrata su una parte marginale della sentenza che le consente di limitare gli assembramenti in casi estremi, quando vi sia un’alta probabilità di pericolo per l’ordine pubblico.

La polizia ha inventato il nuovo termine giuridico di “evento di protesta”, quando più di 50 persone si riuniscono per diffondere un messaggio. In questo caso, la polizia può chiedere che gli organizzatori presentino preventivamente richiesta di un permesso.

Nel 2009 venni invitato a testimoniare alla commissione Goldstone dell’ONU sull’invasione israeliana di Gaza nel 2008-09. Uno degli argomenti che mi fu chiesto di trattare fu la repressione delle proteste all’interno di Israele. Avevo solo pochi giorni per prepararmi, e feci un corso accelerato con l’aiuto di organizzazioni israeliane per la libertà di parola.

Dissi alla commissione che, durante l’invasione, avevo partecipato liberamente a Gerusalemme e a Tel Aviv alle manifestazioni di attivisti ebrei-israeliani, ma che i cittadini palestinesi dello Stato non avevano goduto del diritto di protestare, con centinaia di arresti con la falsa accusa di “protestare senza permesso”. Alcuni cittadini vennero anche arrestati preventivamente per evitare che manifestassero.

In una società colonialista, il ruolo della polizia non è garantire legge e ordine, ma preservare l’egemonia della classe dominante.

Fin dalla fondazione stessa dello Stato, la polizia israeliana ha represso i palestinesi ed ha usato violenza per impedire loro di manifestare contro l’ingiustizia e la discriminazione. Il 30 marzo 1976 la violenza poliziesca contro i palestinesi raggiunse un punto critico con l’uccisione di sei cittadini che commemoravano come ogni anno il Giorno della Terra.

 

Repressione colonialista

Tentando di ingraziarsi gli elettori palestinesi, l’ex-primo ministro Ehud Barak che ora guida il Partito Democratico di Israele, ha recentemente chiesto scusa per l’uccisione di 13 cittadini palestinesi di Israele da parte della polizia israeliana nell’ottobre 2000.

Poco dopo, tuttavia, ha twittato che “Petah Tikva non è Umm al-Hiran, alla gente è permesso manifestare” – suggerendo che secondo lui i cittadini palestinesi di Israele a Umm al-Hiran non hanno il diritto di protestare.

La repressione va oltre i palestinesi. Nel passato la polizia ha usato una violenza mortale per reprimere il movimento delle “Pantere nere” mizrahi, e lo scorso mese le strade israeliane si sono riempite di manifestanti dopo che un ebreo di colore è stato ucciso dalla polizia.

Anche gli ebrei ultraortodossi che protestano contro la politica di reclutamento obbligatorio nell’esercito hanno imparato ad aspettarsi manganellate, cavalli, granate assordanti, cannoni ad acqua e lacrimogeni. Negli ultimi cinque anni la polizia israeliana ha ucciso 14 cittadini israeliani senza un solo rinvio a giudizio contro i poliziotti.

Il diritto di tenere manifestazioni senza fare richiesta di permesso è un diritto collettivo fondamentale e democratico. Questo diritto è insito nelle leggi israeliane ed è stato inteso come un diritto fondamentale dall’Alta Corte nel 2017, ma in uno Stato colonialista le leggi vengono applicate solo quando le autorità lo ritengono conveniente.

La legge sullo Stato-Nazione di Israele, approvata lo scorso anno, ha chiarito che i diritti collettivi si applicano solo ai cittadini ebrei, escludendo quindi Israele dall’essere considerato una democrazia.

 

Chiudere il cerchio

Infatti la scorsa settimana la polizia israeliana ha caricato una manifestazione nella Gerusalemme est occupata, aggredendo un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana, Ofer Cassif, e il suo assistente parlamentare. Cassif è ebreo, ma stava sventolando una bandiera palestinese. Benché ciò non sia illegale, la polizia lo ha aggredito, ha arrestato il suo assistente e gli ha confiscato la bandiera. In uno Stato colonialista la legge è uno strumento utilizzato dalle autorità – ma mai per limitarne il potere.

E così il cerchio ora si è chiuso. Gli ebrei israeliani sono stati quasi del tutto silenziosi riguardo alla negazione dei diritti civili delle minoranze, pensando che i tribunali avrebbero difeso i loro diritti. Ma con la polizia israeliana che ha trovato il modo per ignorare le decisioni della Corte e per limitare i diritti di protestare persino dei cittadini israeliani più privilegiati, le richieste di difendere la “democrazia” israeliana suonano vuote.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever è un membro del direttivo di “Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East” [Voci Ebraiche per una Giusta Pace in Medio Oriente, organizzazione di ebrei contrari all’occupazione attiva in Germania, ndtr.].

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele non è un Paese democratico

Perché Israele non può essere definito uno Stato democratico

La ‘democrazia’ in Israele è stata instaurata per gli ebrei dopo che i sionisti hanno espulso il 90% dei palestinesi

 

Joseph Massad

23 agosto 2019 – Middle East Eye

 

 

Le elezioni israeliane della scorsa primavera sono state viste dalla stampa occidentale e  da alcuni politici occidentali come una conferma che Israele sta diventando meno democratico e più razzista e sciovinista.

Ci viene detto che questo sta compromettendo l’immagine di Israele come “Stato ebreo e democratico”. Il New York Times ha scritto: “Per la sinistra la democrazia israeliana è sulla difensiva. Per la destra etno-nazionalista, che l’anno scorso è riuscita a sancire con la legge fondamentale l’autodefinizione di Israele come lo Stato-Nazione degli ebrei, ha bisogno di un adeguamento.”

Il comune cliché celebrativo secondo cui Israele è stato in grado di bilanciare i suoi due importanti principi ideali e fondamentali – cioè essere “uno Stato ebreo e democratico” –  si è di recente modificato in quanto alcuni stanno lamentando che questo presunto equilibrio sia stato compromesso dalle “recenti” tendenze della destra.

Impegno nella pulizia etnica

Il fatto rilevante che questo quadro ignora deliberatamente è che la “democrazia” in Israele è stata instaurata per gli ebrei israeliani dopo che i sionisti hanno espulso il 90% della popolazione palestinese quando Israele è stato fondato nel 1948, diventando da un giorno all’altro maggioranza nel Paese etnicamente ‘ripulito’.

Hanno scelto un governo liberale democratico per la maggioranza ebrea di coloni, instaurando un sistema di apartheid legale per i palestinesi che non hanno potuto espellere, anche attraverso decine di leggi razziste.

Questo impegno ad attuare una pulizia etnica e un governo ebraico suprematista è stato un cardine  dell’ideologia del movimento sionista fin dal  suo esordio.

Theodor Herzl, il padre del sionismo, ha tracciato le linee su come comportarsi con i nativi palestinesi. Nel suo pamphlet fondativo  del 1896 ‘The State of the jews” [Lo Stato degli ebrei]  mise in guardia contro ogni impegno democratico e ammoniva che “un’infiltrazione (di ebrei in Palestina) è destinata a finire in un disastro. Proseguirà fino al momento inevitabile in cui la popolazione nativa si sentirà minacciata e costringerà il governo esistente ad arrestare un ulteriore afflusso di ebrei. Di conseguenza l’immigrazione è inutile se non si basa su una sicura supremazia.”

I coloni ebrei, ha scritto Herzl nel suo diario, dovrebbero “cercare di sospingere la poverissima popolazione [araba, ndtr.] al di là del confine, trovandole impiego nei Paesi di transito, negando loro qualunque impiego nel nostro Paese….

L’espulsione dei poveri deve essere condotta in modo discreto e prudente. Bisogna lasciar credere ai proprietari di immobili che stanno raggirandoci, vendendoci i beni a prezzo maggiore del loro valore. Ma noi non venderemo loro niente in cambio.”

Le colonie ebree si sono moltiplicate di pari passo con l’espulsione dei palestinesi. Nel 1920 l’agronomo e giornalista polacco Chaim Kalvarisky,  direttore della ‘Jewish Colonization Association’, affermava che, essendo stato uno di coloro che hanno spodestato i palestinesi fin dagli anni ’90 dell’800, “la questione degli arabi mi è apparsa per la prima volta in tutta la sua gravità subito dopo il primo acquisto di terra che ho fatto là. Ho dovuto espellere gli abitanti arabi dalla loro terra allo scopo di insediarvi i nostri fratelli.”

Kalvarisky si rammaricava che il “doloroso canto funebre” di coloro che stava cacciando “non ha smesso di risuonare alle mie orecchie per lungo tempo da allora.”

Opposizione categorica

La paura della democrazia universale da parte dei sionisti ed il loro impegno verso la pulizia etnica erano così forti che dopo la prima guerra mondiale, quando gli inglesi – preoccupati di impegnarsi su troppi fronti–  volevano chiedere agli USA di assumersi parte della responsabilità per la Palestina, loro si opposero categoricamente.

L’Organizzazione Mondiale Sionista (World Zionist Organization, WZO) contestò con veemenza il coinvolgimento statunitense: “La democrazia in America troppo frequentemente significa governo della maggioranza senza riguardo alla diversità di tipi o fasi di civilizzazione o alle differenze di qualità…La maggioranza numerica in Palestina oggi è araba, non ebrea. Qualitativamente, è un semplice fatto che gli ebrei oggi sono predominanti in Palestina, e date le opportune condizioni saranno quantitativamente predominanti anche nella prossima o nelle prossime due generazioni”, ha affermato la WZO.

“Ma se la mera concezione aritmetica di democrazia dovesse essere applicata adesso o tra breve tempo nelle condizioni palestinesi, la maggioranza che comanderebbe sarebbe la maggioranza araba, e il compito di creare e sviluppare una grande Palestina ebrea sarebbe infinitamente più difficile.”

Si noti che la WZO ignorava il fatto che gli indigeni americani e gli afroamericani, tra gli altri, non erano inclusi nella versione USA di “democrazia”.

Nello stesso anno Julius Kahn, un membro ebreo del Congresso USA, inviò una dichiarazione appoggiata da circa 300 personalità ebree – sia rabbini che laici –  all’allora presidente Woodrow Wilson, la cui amministrazione sosteneva i sionisti.

La dichiarazione denunciava che i sionisti cercavano di segregare gli ebrei e di invertire la storica tendenza verso l’emancipazione, e si opponeva alla creazione di uno specifico Stato ebraico in Palestina in quanto contrario “ai principi della democrazia.”

 ‘Trasferimento forzato’

Il radicato timore di Herzl per la democrazia si trasmise ai suoi seguaci sionisti. A destra, il fondatore del sionismo revisionista, Vladimir Jabotinsky, nel 1923 polemizzò contro la “sinistra” laburista sionista, che voleva espellere la popolazione palestinese con l’inganno, spiegando che non c’era altra strada se non la formula violenta secondo cui la colonizzazione ebrea e l’espulsione dei palestinesi erano un solo e unico processo.

“Qualunque popolo nativo….non accetterà volontariamente non solo un nuovo padrone, ma neanche un nuovo partner. Ed è così per gli arabi”, ha sottolineato Jabotinsky. “Coloro tra di noi che sono inclini al compromesso cercano di convincerci che gli arabi siano una specie di folli che possono essere ingannati… (e) che abbandoneranno il loro diritto di nascita in Palestina per ottenere vantaggi culturali ed economici. Io rigetto totalmente questa analisi degli arabi palestinesi.”

Negli anni ’20 e ’30 del  ‘900 i sionisti idearono piani strategici per la pulizia etnica (che chiamavano “trasferimento”) dei palestinesi. Concordando con Jabotinsky, David Ben-Gurion, il leader  aburista sionista dei coloni, dichiarò nel giugno 1938: “Sostengo il trasferimento forzato. Non vi vedo niente di immorale.”

La sua dichiarazione faceva seguito alla politica adottata dall’Agenzia Ebraica, che creò il suo primo “Comitato per il trasferimento della popolazione” nel novembre 1937 per pianificare l’espulsione forzata dei palestinesi. Due altri comitati furono creati nel 1941 e nel 1948.

Nemici dei palestinesi

Chaim Weizmann, capo della WZO, nel 1941 concepì dei piani per espellere un milione di palestinesi in Iraq e sostituirli con cinque milioni di polacchi ed altri coloni ebrei europei. Parlò dei suoi piani all’ambasciatore sovietico a Londra, Ivan Maisky, sperando di ottenere l’appoggio sovietico.

Quando Maisky si mostrò sorpreso, Weizmann replicò con un argomento razzista, non diverso da quello usato dai fascisti nei confronti degli ebrei europei nello stesso periodo: “l’indolenza e il primitivismo dei palestinesi trasforma un fiorente giardino in un deserto. Datemi la terra occupata da un milione di arabi e vi insedierò facilmente un numero di ebrei cinque volte maggiore.”

La cosiddetta formula di uno “Stato ebreo e democratico”, che tanti tra i difensori di Israele temono sia oggi in pericolo, si è sempre basata su un calcolo di supremazia ebrea e pulizia etnica – non diversamente dalle democrazie liberali suprematiste bianche instaurate dopo la pulizia etnica in USA, Canada, Australia e Nuova Zelanda.

Ma, mentre le altre colonie di insediamento sono state capaci, dopo secoli di pulizia etnica, di istituire la supremazia demografica bianca – anche se le attuali politiche contrarie all’immigrazione non bianca negli USA dimostrano quanto delicato sia diventato questo equilibrio – la popolazione ebrea coloniale di Israele è tornata ad essere una minoranza di fronte ad una maggioranza di nativi palestinesi.

Quella maggioranza continua a resistere alla pulizia etnica e al governo suprematista ebraico, che i sostenitori di Israele ed i nemici dei palestinesi vantano come “uno Stato ebreo e democratico.”

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Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

 

Joseph Massad è professore di politica araba contemporanea e di storia del pensiero alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e di articoli accademici e giornalistici. I suoi libri comprendono: ‘Colonial effects: the making of National identity in Jordan’ [Effetti colonialisti: la creazione di un’identità nazionale in Giordania], ‘Desiring arabs’ [Arabi desiderosi], ‘The persistence of the palestinian question: essays on zionism and the palestinians’ [La persistenza della questione palestinese: saggi su sionismo e palestinesi], ed il più recente ‘Islam in liberalism’ [L’Islam nel liberalismo]. I suoi libri e i suoi articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

 

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




In Israele i coloni ebrei hanno il controllo totale, ma a quale prezzo?

Ramzy Baroud

19 agosto 2019 – Middle East Monitor

I coloni ebrei israeliani sono inarrestabili quando si scatenano in tutta la Cisgiordania palestinese occupata. Mentre la violenza dei coloni è parte della routine quotidiana in Palestina, la violenza delle scorse settimane è direttamente legata alle elezioni politiche israeliane, previste per il 17 settembre.

Le elezioni precedenti, solo quattro mesi fa, il 9 aprile, non sono riuscite a portare stabilità politica. Benché Benjamin Netanyahu sia ora il primo ministro più a lungo al potere in Israele nei 71 anni di storia del Paese, non è stato in grado di formare una coalizione di governo.

Segnata da una serie di casi di corruzione che coinvolgono lui, la sua famiglia e i suoi collaboratori, la leadership di Netanyahu si trova in una posizione poco invidiabile. Gli investigatori della polizia gli stanno alle costole, mentre alleati politici opportunisti, come Avigdor Leiberman [segretario di un partito di estrema destra, ndtr.], gli stanno forzando la mano nella speranza di estorcergli future concessioni politiche.

La crisi politica in Israele non è il risultato di un partito Laburista resuscitato o di partiti politici di centro più forti, ma dell’incapacità della destra (compresi i partiti di estrema destra e ultranazionalisti) di esprimere un programma politico unitario.

I coloni ebrei illegali comprendono bene che la futura identità di una qualunque coalizione di governo di destra avrà un impatto duraturo sulla loro impresa di colonizzazione. I coloni, tuttavia, non sono affatto preoccupati, dato che tutti i maggiori partiti politici, compreso quello “Blu e Bianco”, il presunto partito di centro di Benjamin Gantz, hanno fatto dell’appoggio alle colonie ebraiche una parte importante della propria campagna elettorale.

Il voto decisivo dei coloni ebrei della Cisgiordania e dei loro sostenitori all’interno di Israele è risultato evidente nelle ultime elezioni. Il loro potere ha obbligato Gantz ad adottare un approccio politico totalmente diverso.

L’uomo che due giorni prima delle votazioni di aprile ha criticato l’“irresponsabile” annuncio di Netanyahu riguardo all’intenzione di annettere la Cisgiordania, pare ora un grande sostenitore delle colonie. Secondo il sito di notizie israeliano “Arutz Sheva”, Gantz ha promesso di continuare ad espandere le colonie “da un punto di vista strategico e non come una strategia politica”.

Dato il cambio di prospettiva di Gantz riguardo alle colonie, a Netanyahu non è rimasta altra possibilità che alzare la posta in gioco. Ora sta spingendo per un’annessione totale e irreversibile della Cisgiordania.

Annettere il territorio palestinese occupato è, dal punto di vista di Netanyahu, una strategia politica corretta. Naturalmente il primo ministro israeliano si dimentica delle leggi internazionali che considerano illegale la presenza militare e delle colonie di Israele. Né Netanyahu né qualunque altro leader israeliano, tuttavia, si sono mai preoccupati delle leggi internazionali. Tutto ciò che conta realmente per Israele è avere il sostegno cieco e incondizionato di Washington.

Secondo “Times of Israel” [giornale indipendente israeliano, ndtr.] Netanyahu sta ora facendo ufficialmente pressione per una dichiarazione pubblica da parte del presidente USA Donald Trump di sostegno all’annessione della Cisgiordania da parte di Israele. Benché la Casa Bianca si rifiuti di fare commenti a questo proposito, e un funzionario dell’ufficio di Netanyahu sostenga che ciò “non è esatto”, la destra israeliana è sulla buona strada per rendere possibile l’annessione.

Incoraggiati dalla dichiarazione dell’ambasciatore USA David Friedman, secondo cui “Israele ha il diritto di impossessarsi di una parte della Cisgiordania”, molti politici israeliani parlano con franchezza ed esplicitamente della loro intenzione di annettere il territorio occupato. Netanyahu ha effettivamente accennato a questa possibilità in agosto durante una visita alla colonia illegale di Beit El: “Siamo venuti a costruire. Le nostre mani si tenderanno e noi renderemo più profonde le nostre radici nella nostra patria, in ogni sua parte,” ha detto durante una cerimonia che festeggiava l’espansione delle colonie illegali con altre 650 unità abitative.

A differenza di Netanyahu, l’ex-ministra della Giustizia e dirigente di “Destra Unita”, [coalizione] da poco formata, Ayelet Shaked, non parla in codice. In un’intervista con il “Jerusalem Post” ha chiesto la totale annessione dell’Area C, che costituisce quasi il 60% della Cisgiordania. “Dobbiamo applicare la nostra sovranità su Giudea e Samaria,” ha insistito Shaked, utilizzando la terminologia biblica per descrivere la terra palestinese, come se ciò rafforzasse in qualche modo la sua posizione.

Peraltro il ministro della Sicurezza Pubblica, delle Questioni Strategiche e dell’Informazione Gilad Erdan vuole fare un passo in più. Secondo “Arutz Sheva” e il “Jerusalem Post”, Erdan ha chiesto l’annessione di tutte le colonie illegali in Cisgiordania, così come l’estromissione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.

Ormai al centro della politica israeliana, i coloni ebrei si godono lo spettacolo di essere corteggiati da tutti i principali partiti politici. La loro crescente violenza contro gli autoctoni palestinesi in Cisgiordania è una sorta di prova di forza politica, un’espressione di dominio e una brutale dimostrazione di priorità politiche.

“C’è una sola bandiera dal Giordano al mare [Mediterraneo, ndtr.], la bandiera di Israele,” è stato lo slogan di un corteo di oltre 1.200 coloni ebrei che hanno percorso le strade della città palestinese di Hebron il 14 agosto. I coloni, insieme ai soldati israeliani, hanno invaso via Al-Shuhada e hanno maltrattato gli abitanti palestinesi e gli attivisti internazionali nella città assediata.

Pochi giorni prima, circa 1.700 coloni ebrei, appoggiati dalla polizia israeliana, hanno fatto irruzione nel complesso della moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata. Secondo la Mezzaluna rossa palestinese, oltre 60 palestinesi sono rimasti feriti quando le forze israeliane e i coloni hanno attaccato i fedeli musulmani. La violenza si è ripetuta a Nablus, dove colone armate hanno invaso la città di Al-Masoudiya e hanno fatto un “addestramento militare” sotto la protezione dell’esercito di occupazione israeliano. Il messaggio dei coloni è chiaro: ora abbiamo il controllo totale, non solo in Cisgiordania, ma anche nella politica israeliana.

Ma a quale prezzo? Tutto ciò avviene come se si trattasse esclusivamente di una questione politica israeliana. L’ANP, che è appena stata del tutto esclusa dai calcoli politici USA, viene lasciata a emanare occasionali e irrilevanti comunicati stampa sulla sua intenzione di chiamare Israele a rispondere in base alle leggi internazionali.

Tuttavia anche i garanti delle leggi internazionali sono assenti in modo sospetto. Né le Nazioni Unite né i sostenitori della democrazia e delle leggi internazionali nell’Unione Europea sembrano essere interessanti ad opporsi all’intransigenza israeliana e alle palesi violazioni dei diritti umani.

Con i coloni ebrei che dettano l’agenda politica in Israele e provocano costantemente i palestinesi nei territori occupati, è probabile che nei prossimi mesi la violenza aumenti in modo esponenziale. Come avviene spesso in questi casi, ciò verrà utilizzato in modo strategico dal governo israeliano, questa volta per porre le basi di un’annessione finale e completa della terra palestinese. Questo sarà un risultato disastroso, indipendentemente da come lo si veda.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)