Le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso una donna palestinese a un checkpoint in Cisgiordania

 Shatha Hammad a  Ramallah, Cisgiordania occupata

 18 settembre 2019 – Middle East Eye

Testimoni hanno riferito a Middle East Eye che la donna è stata uccisa dopo aver sbagliato corsia pedonale al checkpoint di Qalandia.

La polizia israeliana e testimoni palestinesi riferiscono che mercoledì mattina le forze di sicurezza israeliano hanno sparato e ucciso una donna palestinese al checkpoint di Qalandia, nella Cisgiordania occupata.

Un video che circola sui social, ritenuto autentico da Middle East Eye, mostra degli uomini che, con le uniformi del personale di sicurezza privato e armati di fucili, affrontano una donna a parecchi metri di distanza da loro. Si sente uno sparo e subito dopo lei crolla a terra, lasciando cadere un oggetto che una delle guardie sembra colpire con un calcio e mandare fuori dalla portata della donna.

Testimoni hanno riportato a Middle East Eye che la donna è stata colpita quattro volte, dopo aver sbagliato corsia pedonale a Qalandia, il più importante checkpoint israeliano che separa Gerusalemme est dalla Cisgiordania centrale.

Mohammed Hammad Jaradat, un abitante di Gerusalemme, ha riferito a MEE che apparentemente la donna era entrata a piedi nel settore sbagliato del posto di blocco e stava cercando di raggiungere la zona degli autobus.

Le forze di sicurezza israeliane hanno quindi cominciato a urlare e inseguirla e, a questo punto, secondo Jaradat, lei ha tirato fuori un piccolo coltello.

 “Avrebbero potuto tenerla sotto controllo” ha detto Jadarat. “Erano cinque soldati e lei era a circa sette metri di distanza. L’hanno uccisa deliberatamente, hanno voluto non solo uccidere lei, ma anche spaventare noi palestinesi che attraversiamo il posto di blocco ogni giorno tra Ramallah e Gerusalemme.”.

Il ministero della Sanità dell’Autorità Palestinese ha confermato che la donna, non ancora identificata, è morta in un ospedale israeliano a Gerusalemme est a causa delle ferite. La Mezzaluna Rossa palestinese ha detto in un comunicato che le forze israeliane hanno impedito ai suoi medici di raggiungere la donna e prestarle i primi soccorsi.

Un portavoce della polizia israeliana ha dichiarato che “una terrorista ha cercato di compiere un attacco con un coltello” al posto di blocco di Qalandia, ed è stata pubblicata una foto di un coltello sull’asfalto.

Alaa Rimawi, il direttore del Center for Jerusalem Studies [Centro per gli Studi su Gerusalemme, programma di studi dell’università palestinese Al Quds, ndtr.], ha riferito a MEE che uno studio effettuato dal centro ha stimato che il 56% dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme dal 2015 è stato ucciso ai checkpoint, aggiungendo che Qalandia è un punto critico per tali sparatorie mortali.

Dopo la sparatoria, le forze israeliane hanno attaccato i civili palestinesi presenti nell’area con gas lacrimogeni e hanno bloccato l’accesso dei lavoratori al checkpoint, che poi è stato chiuso in entrambe le direzioni.

Secondo fonti ufficiali palestinesi la Cisgiordania era già stata blindata martedì per le elezioni generali in Israele, impedendo a circa 150.000 palestinesi con un permesso di lavoro israeliano di attraversare i checkpoint.

Rimawi ha denunciato procedure scorrette, come la mancanza di avvertimento da parte dei soldati prima di sparare, l’uso di cartucce vere e l’inosservanza delle regole dell’esercito che prevedono che si spari agli arti inferiori di un presunto aggressore onde evitare perdite di vite umane.

Ha anche aggiunto che la sua organizzazione ha documentato dal 2015 almeno 36 casi in cui dei palestinesi sono stati uccisi nonostante “mancasse la prova che fossero in possesso di un oggetto che costituisse una minaccia per le vite dei soldati”.

Documentare le uccisioni

Secondo Helmi al-Araj, il direttore del Centre for Defense of Liberties and Civil Rights [Centro per la Difesa delle Libertà e dei Diritti Civili, Ong palestinese per la difesa dei diritti umani e politici dei palestinesi, ndtr]  foto e video di uccisioni da parte delle forze israeliane costituiscono un’utile prova per rendere nota una prassi corrente nei territori palestinesi occupati indipendentemente dal fatto che si tenga conto se i palestinesi costituiscano una minaccia reale o meno.

 “Tutta la documentazione è molto importante da usare contro i soldati israeliani e i coloni e per procedere contro di loro per crimini di guerra e continuo incitamento a uccidere i palestinesi” riferisce Araj al MEE, citando l’uccisione del palestinese Abd al-Fattah al-Sharif a Hebron nel 2016.

Il video dell’uccisione di Sharif, una vera e propria esecuzione, ha suscitato la condanna internazionale e ha portato a un processo ampiamente pubblicizzato in cui Elor Azarya è stato uno dei pochi soldati israeliani a essere condannato al carcere, seppure per un breve periodo, per aver ucciso un palestinese.

Secondo l’United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari; OCHA), quest’anno, fino al 2 settembre, le forze israeliane hanno ucciso in Cisgiordania 20 palestinesi.

Si stima che, fra il 2015 and 2016, un’ondata di violenza abbia causato la morte di 236 palestinesi e circa 34 israeliani, con un numero significativo di palestinesi uccisi dalle forze israeliane nella Gerusalemme est annessa  e nella Cisgiordania occupata.

(traduzione di Mirella Alessio)




Il piano di annessione di Netanyahu ucciderà Israele

David Hearst

17 settembre 2019    Middle East Eye

L’annessione elimina tutti i muri accuratamente eretti da Israele per dividere i palestinesi, distruggendo dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

Questa doveva essere la promessa elettorale più importante. Benjamin Netanyahu, l’uomo che governa Israele da quasi 30 anni, aveva previsto di assestare così il colpo di grazia ai suoi rivali politici della destra colonizzatrice. Avigdor Lieberman, l’ago della bilancia? Ora non più.

Tuttavia l’annuncio di Netanyahu che, se sarà rieletto, annetterà la Valle del Giordano e con essa quasi un terzo della Cisgiordania, non ha avuto l’effetto previsto.

Netanyahu si è vantato di essere in grado di annettere tutte le colonie  al centro della sua patria, grazie alla “sua relazione personale con il presidente Trump”.

Ma il presidente americano Donald Trump questa volta non è stato al gioco.

Bolton licenziato

La Casa Bianca ha emesso un comunicato che afferma che la politica americana al momento non è cambiata e per rafforzare il concetto Trump ha licenziato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, a lungo considerato dai dirigenti israeliani il proprio uomo a Washington.

Ben Caspit, corrispondente di Maariv (quotidiano israeliano, ndtr.), ha affermato che Netanyahu aveva chiesto a Trump un riconoscimento per l’annessione della Valle del Giordano simile a quello dato per le Alture del Golan. Bolton era d’accordo, ma Trump si è rifiutato.

Caspit ed altri corrispondenti hanno sottolineato che Netanyahu non aveva neppure bisogno di chiedere il permesso di Trump per annettere la Valle del Giordano, che ha una storia giuridica molto diversa da quella delle Alture del Golan, che sono state sottratte alla Siria.

Netanyahu ha bisogno soltanto di una maggioranza semplice alla Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] per annettere la Valle del Giordano, perché la legge che glielo permette esiste già. Questa legge, adottata dai deputati di sinistra nel 1967, perfezionava un’ordinanza risalente al mandato britannico, che autorizzava il governo ad emanare un decreto che enunciava in quali regioni della Palestina si dovevano applicare la giurisdizione e l’amministrazione dello Stato di Israele. È questa legge che ha permesso a Levy Eshkol [all’epoca primo ministro israeliano, ndtr.] di annettere Gerusalemme est nel 1967.

Poco importa. Questa defezione sensazionale è stata seguita da un’altra : la sua.

Netanyahu ha dovuto essere portato via dal palco dalle guardie del corpo nel mezzo di un discorso  della campagna elettorale a Ashdod, nel sud di Israele, quando dei razzi lanciati da Gaza hanno fatto suonare le sirene di allarme che annunciavano un attacco dal cielo. Era un avvertimento indirizzato a Netanyahu e a tutti i coloni israeliani dalla terra sulla quale si sono insediati.

La finzione ANP

Nessuna annessione, per quanto ampia, porrà fine a questo conflitto. I palestinesi se ne infischiano di sapere in che modo le loro terre sono occupate, o se effettivamente un ulteriore 33% sarà sottratto al 20% della Palestina storica che rimane loro.

Sapere in quale enclave, in quale bantustan o in quale prigione sono detenuti, o se l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è davvero dissolta, o se il presidente Mahmoud Abbas consegna le chiavi della Cisgiordania al più vicino comandante dell’esercito israeliano, tutti questi sono sofismi per loro. Allo stato attuale delle cose, Abbas deve chiedere il permesso all’esercito israeliano per ogni suo atto.

L’ANP non esiste veramente, non è che uno strumento con cui Israele obbliga i poliziotti palestinesi a liberare le strade prima che le sue forze armate entrino in tutta la Cisgiordania con incursioni notturne.

L’autonomia della zona A [in base agli accordi di Oslo sotto totale controllo palestinese, ndtr.] è in gran parte fittizia. Se l’ANP dovesse essere sciolta, l’unica preoccupazione di Israele sarebbero le circa 100.000 armi detenute dalle forze di sicurezza palestinesi.

A causa della loro natura priva di sostanza, tutte le istituzioni e le strutture palestinesi sono diventate ampiamente irrilevanti – tranne che come fonte di reddito – per gli stessi palestinesi. Poco importa sapere chi gestisce l’occupazione, né quante leggi vengono adottate per privarli della loro identità nazionale, dei loro diritti di proprietà e del loro Stato.

Qualunque cosa accada e qualunque sia il numero delle enclave create per i palestinesi, il nodo demografico di questo conflitto resterà lo stesso: oggi ci sono più palestinesi che ebrei israeliani tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo].

Apartheid israeliano

Il vice capo dell’Amministrazione civile israeliana [ente che governa sui territori palestinesi occupati, ndtr.], generale Haim Mendes, ha presentato i seguenti dati alla Commissione affari esteri e difesa della Knesset lo scorso dicembre : vi sono attualmente 6,8 milioni di palestinesi tra il fiume e il mare (5 milioni a Gaza e in Cisgiordania, 1,8 milioni all’interno di Israele e di Gerusalemme est). Di contro, secondo l’Ufficio Centrale di Statistica, gli ebrei in Israele sono 6,6 milioni.

Il solo modo di cambiare il cuore del conflitto è sapere se, o quando, Israele procederà ad un’altra espulsione di massa o ad un’azione di pulizia etnica, come è avvenuto nel 1948 e nel 1967.

Diversamente, la vita dei palestinesi non cambierà. Questo significa che, qualunque siano le dichiarazioni fatte durante le campagne elettorali, gli ebrei israeliani stanno diventando una minoranza su quella che affermano essere la propria terra e non possono imporre la loro supremazia che attraverso l’apartheid.

Anche se ciò non modifica niente rispetto alla situazione di sudditanza imposta ai palestinesi nel loro Paese, modifica però la narrativa di Israele tra le elite politiche in Europa e negli Stati Uniti, alle quali Israele ha devoluto miliardi di shekel [valuta israeliana] per ingraziarsele.

Prima dell’annessione, e quando il principio “terra in cambio di pace” era ancora la narrazione dominante del processo di Oslo, la classe politica di sinistra e di destra in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in tutta Europa poteva aderire simultaneamente a interpretazioni che si escludevano l’un l’altra  per una soluzione del conflitto.

Potevano impegnarsi ad essere “sostenitori di Israele”, approvando al tempo stesso il diritto all’autodeterminazione palestinese in un Stato palestinese ipotetico – però mai realizzabile.

Perdita di legittimità internazionale

Per quanto riguardava Israele, il mito che ribadivano era che c’era qualcosa chiamato “Israele propriamente detto”, che è stato riconosciuto a livello internazionale – e poi, ahimè (grosso sospiro) c’erano cose chiamate colonie, che erano illegali, ma (altro grosso sospiro) che cosa ci si può fare? L’idea era che se soltanto le due parti fossero riuscite a fare dei compromessi, si sarebbe potuta trovare una soluzione territoriale.

Con l’annessione come politica ufficiale, tutto questo cambierebbe. Il momento in cui lo Stato di Israele consideri le colonie come facenti parte del proprio territorio,  sarà il momento in cui “Israele propriamente detto” cesserà di esistere. Tutto Israele diventerebbe una colonia. Lo Stato israeliano perderebbe la sua legittimità internazionale.

Se l’annessione è letale per l’immagine internazionale di Israele come Stato europeo avanzato in un deserto di arabi selvaggi, irragionevoli e agitati, lo è ancor di più nella prospettiva di costruire e mantenere uno Stato ebraico all’interno.

La concessione più deleteria che Yasser Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) hanno fatto nel corso del processo di Oslo non è stato il riconoscimento dello Stato di Israele, ma l’abbandono dei palestinesi – il 20% della popolazione – che ci vivono.

Lotta per la sovranità

Questo ha creato ogni sorta di anomalie. Gerusalemme era il cuore del conflitto e la capitale dello Stato palestinese, ma l’ANP, in quanto tale, non esercitava alcuna autorità sugli abitanti di Gerusalemme che là vivono.

Per una gran parte del processo di pace i “palestinesi del 1948” – quelli che sono stati autorizzati a restare, o che sono stati spostati all’interno del Paese al momento della creazione dello Stato di Israele – non hanno preso parte alla lotta contro l’occupazione. Avevano la cittadinanza israeliana e sono stati chiamati dai loro padroni “arabi israeliani”.

L’annessione cambia tutto ciò. Elimina in un colpo solo tutti i muri accuratamente eretti che Israele ha costruito per dividere i palestinesi, creando una gamma di blocchi carcerari sotto sorveglianza. Gaza, la Cisgiordania, i “palestinesi del 1948” e quelli della diaspora diventano un solo popolo che lotta per la sovranità nel proprio Paese.

Inconsapevolmente, l’annessione distrugge dall’interno il sogno sionista di uno Stato a maggioranza ebraica.

I dirigenti palestinesi che non sono stati assassinati o imprigionati da Israele erano essenziali per il mantenimento dello status quo, grazie al quale aree come la Valle del Giordano sono state annesse di fatto, se non ufficialmente.

Non è come se i palestinesi potessero realmente utilizzare e coltivare la Valle del Giordano, la loro terra più fertile. Essa si estende su circa 160.000 ettari e rappresenta quasi il 30% della Cisgiordania. Israele sfrutta la quasi totalità della Valle del Giordano per le proprie necessità e impedisce ai palestinesi di entrare o di utilizzare circa l’85% dell’area, sia per edilizia che per infrastrutture, per scopi agricoli o abitativi.

Nel 2016 ci vivevano 65.000 palestinesi e 11.000 coloni. Ciò significa che una minoranza della popolazione è autorizzata a spostarsi nell’85% della terra.

Una morte lenta

Israele non ha bisogno di annettere la Valle del Giordano. In realtà lo ha già fatto.

Dato che i dirigenti palestinesi sono moribondi, le future generazioni di palestinesi andranno alla ricerca di una prospettiva molto diversa. Saranno obbligati a riformulare la loro strategia, a correggere gli errori del passato e a considerarsi nuovamente come parte di un popolo espulso da un Paese.

L’annessione è la morte dell’Israele del 1948, uno Stato a maggioranza ebraica.

E’ la nascita di uno Stato ebraico minoritario che non può sopravvivere se non eliminando e controllando la sua maggioranza palestinese. Fare questo, in un continente a maggioranza araba e musulmana, equivale a votarsi ad una morte lenta e costante.

Quale che sia il numero di dirigenti palestinesi che compra, Israele suscita continuamente l’ira degli arabi e dei musulmani, dovunque vivano. Nessun muro, nessun esercito, nessuna flotta di droni, nessun arsenale nucleare, nessun presidente americano proteggeranno a lungo termine uno Stato con una minoranza ebraica.

 

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Quando ha lasciato The Guardian, era capo editorialista della rubrica Esteri del giornale. Durante i suoi 29 anni di carriera, si è occupato dell’attentato con una bomba a Brighton, dello sciopero dei minatori, della reazione lealista in seguito all’accordo anglo-irlandese in Irlanda del nord, dei primi conflitti scoppiati in Slovenia e Croazia al momento della dissoluzione della ex-Yugoslavia, della fine dell’Unione Sovietica, della Cecenia e delle guerre che hanno contraddistinto l’epoca a lui contemporanea. Ha seguito il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le circostanze che hanno permesso l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente europeo per la rubrica Europa del Guardian, prima di trasferirsi nel 1992 all’ufficio di Mosca, assumendone la direzione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per andare all’ufficio Esteri, prima di diventare redattore capo della rubrica Europa e poi vice redattore capo della rubrica Esteri. Prima di lavorare al Guardian, David Hearst è stato corrispondente per la rubrica Educazione nel giornale The Scotsman.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Elezioni Israeliane:Benjamin Netanyahu: mandarlo via o no?

Sylvain Cypel

16 settembre 2019 – Orient XXI

Poche divergenze separano il Likud dai suoi avversari del partito Blu e Bianco sulla maggior parte delle questioni. Ma la vera – la sola? – posta in gioco delle elezioni israeliane è il futuro del primo ministro Benjamin Netanyahu

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è mai sembrato così vicino ad andarsene di quanto lo sia oggi, e mai una campagna elettorale è sembrata altrettanto vuota di contenuti di quella che dovrebbe portare, martedì 17 settembre, all’elezione del prossimo parlamento israeliano, la Knesset. Queste elezioni dovrebbero definire il futuro dell’uomo che ha governato Israele senza interruzione dal 2009 e la cui influenza su questo Paese è stata di gran lunga la più significativa dall’inizio di questo secolo. A tre giorni dal voto, i sondaggi, stabili dall’inizio della campagna, danno un vantaggio molto netto alla destra e all’estrema destra israeliana dei coloni (otterrebbero la metà dei voti, senza contare i loro alleati religiosi ortodossi). Ma, date le sue divisioni, la sua prevalenza non le garantisce necessariamente di riuscire a mettere insieme una maggioranza assoluta di 61 seggi su 120 per governare.

Le elezioni dell’aprile 2019, da cui la destra era uscita vincitrice, avevano così dato luogo a una paralisi politica, in quanto il partito di estrema destra nazionalista laica “Israele Casa Nostra”, guidata da Avigdor Lieberman, aveva rifiutato di allearsi con i partiti religiosi senza la garanzia dell’approvazione di una legge sulla partecipazione dei giovani “uomini in nero” (i “timorati di dio”, chiamati anche religiosi ultra-ortodossi) al servizio militare, o a un servizio civile obbligatorio. Questa situazione si potrebbe ripetere martedì.

Dieci anni, ora basta!

Potrebbe essere così soprattutto se Lieberman ottenesse, come gli attribuiscono i sondaggi, una decina di deputati, incrementando la sua possibilità di danneggiare il Likud, il principale partito della destra guidato da Netanyahu, e se il Likud non riuscisse a superare il suo principale rivale, un’alleanza ibrida di centro destra denominata “Blu e Bianco” (i colori della bandiera) che unisce diversi ex-capi di stato maggiore a una formazione laica di centro. Secondo i sondaggi, questa alleanza pareggerebbe con il Likud. Ha fatto campagna elettorale avendo come solo programma “mandarlo a casa”, sulla posizione “Netanyahu, dieci anni, ora basta”. Niente sul futuro dei palestinesi, niente sulle questioni economiche e sociali, vaghezza sulle sfide della società (in particolare sul posto della religione); l’elemento più significativo della sua campagna elettorale è stata l’assenza di un qualunque programma definito del leader di questa alleanza, il generale Benny Gantz.

La semplice ostilità nei confronti di Netanyahu non pare sufficiente a permettere ai blu e bianchi di superarlo. Ma, per la prima volta, l’uomo che ha unificato la destra e l’estrema destra sotto la sua bandiera, ormai invischiato in molti casi di conflitto d’interesse e di arricchimento personale, sembra dare segni evidenti di affanno, accompagnati dalla sensazione che la sua aura si sgretoli. Benny Begin, figlio dello storico dirigente della destra nazionalista israeliana Menachem Begin, ha annunciato che, per la prima volta nella sua vita, non voterà per il Likud, proprio a causa della “corruzione” dell’uomo che lo dirige. Ormai è la sua stessa persona che rischia di ostacolare la rielezione di Netanyahu.

I quattro scenari

Nell’attuale situazione si possono individuare quattro alternative principali, a seconda dei risultati del voto:

– Netanyahu vince di nuovo, e questa volta con una maggioranza che gli permette di prescindere dal sostegno dell’estrema destra laica per formare un governo. Sarebbe una vittoria imprevista. É possibile, ma improbabile;

– Netanyahu vince ma non a sufficienza per formare un governo senza il sostegno di Lieberman, che si nega. Ma i blu e bianchi sono ancor meno in condizione di governare. È la paralisi. Ciò fa immaginare che nel Likud emerga un’opposizione che tenti di uscirne liberandosi della tutela divenuta ingombrante di Netanyahu. La principale probabilità sarebbe un governo di unità nazionale, probabilmente senza Netanyahu. Si aprirebbe la via per processare l’ex-primo ministro per corruzione, concussione, frode e abuso di fiducia. Altra possibilità, poco probabile ma da non escludere, Netanyahu propone un governo di unità con i blu e bianchi. Questi hanno lasciato intendere che rifiuterebbero, ma potrebbero cambiare opinione;

– I blu e bianchi vincono di poco. Non potrebbero governare che formando un governo di unità nazionale con il Likud o costituendo una coalizione con i partiti religiosi ortodossi in cui questi non avrebbero nessuna obiezione ad inserire anche l’estrema destra laica. Certamente, rimangiarsi gli impegni ha una lunga tradizione nella politica israeliana, ma questa possibilità resta tuttavia molto aleatoria;

– Né il Likud né i blu e bianchi sono in condizioni di formare una coalizione e non si accordano per un governo di coalizione. Israele entra in un’epoca d’instabilità istituzionale. Poco probabile ma non da escludere.

“Un attacco terroristico contro la democrazia”

Nell’attesa, durante la campagna elettorale Netanyahu ha mostrato dei segni di debolezza e di agitazione non abituali. Non che abbia modificato il suo metodo usuale per convincere l’elettorato ad avere fiducia in lui. Come nel 2015, quando aveva fatto appello su Facebook ai suoi elettori il giorno stesso del voto perché si mobilitassero per opporsi alla “sinistra” che “portava delle orde di arabi a votare in massa” e di andare ai seggi per impedirne il successo, questa volta si è ripetuto facendo della sinistra (nella quale include illecitamente i suoi avversari blu e bianchi) e ancor più dei media  l’oggetto di attacchi incessanti, seguendo una linea in cui si riconosce la mano del maestro Trump (“Essi” non imporranno la loro volontà al popolo). Quando la catena televisiva Canale 12 ha proposto un programma sui “casi” di Netanyahu, questi ha invocato “un attacco terroristico contro la democrazia”.

E, naturalmente, ancora una volta ha lusingato le tendenze più razziste del suo elettorato, inventando letteralmente notizie false secondo le quali “gli arabi” avevano commesso brogli nelle urne durante le elezioni dell’aprile 2019, esigendo che il suo partito fosse autorizzato a installare delle telecamere nei seggi arabi. L’obiettivo era, evidentemente, di fare pressione sugli elettori arabi per farli votare il meno possibile. Netanyahu non è riuscito in questa operazione (l’inchiesta della polizia ha trovato ben pochi casi di sospetta frode elettorale nella “zona araba”, il caso più inoppugnabile è stato a favore…del Likud). Ma può sperare che questo fallimento gli sia in parte favorevole, perché compatta il suo elettorato su base razzista nella sensazione di essere ingiustamente vessato.

Lo spettro di un dialogo tra Teheran e Washington

Peraltro queste operazioni nascondono male il fatto che Netanyahu non riesce a convincere che la sua alleanza con Donald Trump resti altrettanto solida di quanto l’ha rivendicata fin dall’inizio della sua campagna. Il primo ministro israeliano ha fatto fin da subito di questa alleanza la base della sua rielezione. Perché potrebbe legittimamente rivendicare una vicinanza simbiotica con il presidente americano, e che Trump è stato letteralmente plebiscitato dall’opinione pubblica ebraica israeliana. Tuttavia questa volta il presidente americano non ha risposto, a dir poco, alle sue aspettative. Finora aveva periodicamente offerto a Netanyahu dei “regali” molto utili: nel dicembre 2017 il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, nel maggio 2018 l’uscita americana dall’accordo con l’Iran sul nucleare, infine il riconoscimento dell’annessione israeliana del Golan siriano nel marzo 2019, alla vigilia delle precedenti elezioni politiche in Israele. Ma questa volta non ha offerto nessun appiglio spettacolare a Netanyahu, e il vago riferimento a un trattato israelo-americano di mutua difesa fatto dal presidente americano tre giorni prima delle elezioni non cambia niente, dato che un trattato simile è stato da sempre considerato con molta reticenza dal sistema militare israeliano.  In compenso l’atteggiamento che Trump ha tenuto sulla questione iraniana – che si è concluso con la destituzione da parte del presidente americano, il 10 settembre, del suo consigliere alla sicurezza nazionale John Bolton, l’uomo politicamente più vicino alle idee di Netanyahu – ha posto il primo ministro israeliano in conflitto con il presidente americano,

Perché, in uno dei momenti che gli sono consueti, l’8 settembre 2019 Donald Trump ha dichiarato di non escludere di incontrare prossimamente il presidente iraniano Hassan Rohani, lasciando intravedere che spera di raggiungere un nuovo accordo con la repubblica islamica. Nel dibattito che oppone nella Casa Bianca i nazionalisti aggressivi (John Bolton, Mike Pompeo.. .) favorevoli a un’offensiva militare contro Teheran a quelli che le sono ostili e cercano un’uscita dalla crisi, Trump ha scelto. Siccome le sue minacce di guerra non hanno portato Teheran al pentimento e le sanzioni hanno avuto un impatto reale sul regime iraniano, ma insufficiente a piegarlo, il nuovo atteggiamento della Casa Bianca indica che Trump ha fatto la sua scelta. Non è favorevole alla linea israelo-saudita. E Bolton, che ne era il pilastro, era “troppo radicale”, secondo Trump. Ormai, a quanto dice il quotidiano [israeliano di centro sinistra, ndtr.] Haaretz, l’organizzazione di un futuro vertice Trump-Rohani “è una questione certa, secondo gli ambienti militari israeliani” e la prima conseguenza potrebbe essere che Israele venga obbligato a “moderarsi contro Hezbollah e l’Iran sulla frontiera nord”, cioè nei massicci attacchi aerei che conduce da molti mesi contro le forze iraniane in Siria e anche, di recente, in Iraq, a cui finora Teheran non ha reagito.

Quello che i dirigenti israeliani temono di più è che Trump si impegni in un’operazione diplomatica simile a quella che ha condotto riguardo alla Corea del Nord. In altri termini, che dopo aver alzato la voce e mostrato i denti, finisca per firmare un accordo lungi da tutto quello per cui si era impegnato, presentandolo come un successo eccezionale. In tal ipotetico caso, ritengono molti commentatori israeliani, dopo aver definito Trump come il presidente più filo-israeliano della storia, Israele avrebbe dei problemi ad opporsi.

Il Likud e l’opposizione centrista uniti contro l’Iran

Netanyahu ha immediatamente reagito con nuovi bombardamenti contro le truppe iraniane in Siria e spiegando che non era il momento di “allentare la pressione” su Teheran. Su questo terreno ha ricevuto l’appoggio di Moshe Yaalon, un ex-capo di stato maggiore che è stato anche ministro della Difesa e che oggi si trova al terzo posto della … lista dei blu e bianchi. “Il problema è il rifiuto degli americani ad affrontare la situazione. E quando non lo si fa, si dimostra la propria debolezza,” ha dichiarato il 9 settembre durante una conferenza all’Istituto internazionale di antiterrorismo.

Come si vede, sul tema di cui Israele ha fatto il proprio principale problema regionale, cioè il rapporto con il regime iraniano, Netanyahu e il suo oppositore si uniscono (d’altronde una parte dei dirigenti dei blu e bianchi sogna di vincere e di mettere in piedi un governo di unità con il Likud). Ma quando, in risposta all’atteggiamento di Trump, Netanyahu ha fatto uscire delle nuove “informazioni” ottenute dal Mossad [servizi segreti israeliani, ndtr.] per mostrare che Teheran viola i suoi impegni a non rilanciare il suo programma nucleare militare, questa operazione ha avuto una scarsa eco negli Stati Uniti. Bisogna dire che le sue “prove” risalivano a prima dell’accordo internazionale del 2015 con l’Iran e riguardavano un sito… poi distrutto da Teheran! Quanto ai dirigenti dei blu e bianchi, hanno accusato Netanyahu di utilizzare “delle informazioni sensibili relative alla sicurezza per fini elettorali.”

Appello all’odio contro gli arabi

Per la felicità di Netanyahu, Trump domani può di nuovo cambiare opinione sull’Iran, come in Afghanistan ha dichiarato “morto” un accordo con i talebani che sembrava già raggiunto. E l’attacco contro le installazioni petrolifere saudite del 14 settembre potrebbe servire come pretesto. Nell’attesa, per la prima volta, il primo ministro israeliano è apparso non allineato con quello che ha trasformato nel suo mentore esclusivo. Un fatto che non l’ha aiutato a convincere gli elettori che solo il suo ritorno al potere potrebbe garantire loro il sostengo senza incertezze del padrino americano, come lo definisce da tre anni.

A qualche giorno dalla scadenza, Netanyahu ha moltiplicato le promesse nei confronti della sua base, tra cui quella di annettere immediatamente la valle del Giordano se vincerà. Potrebbe sperare in un nuovo “regalo” di Trump dell’ultimo minuto. O tirare fuori dal suo cappello un’ultima provocazione per mobilitare un elettorato di destra più apatico del solito. Questi ultimi giorni, in un’atmosfera d’isteria frenetica, Netanyahu ha condotto “la campagna più razzista e disgustosa mai fatta” in Israele (a parte i kahanisti [sostenitori del partito razzista Kach, messo fuori legge ed ora riammesso alle elezioni, ndtr.]), descritta dal cronista politico di Haaretz. Il suo partito, il Likud, ha moltiplicato gli incitamenti all’odio in tutte le direzioni, focalizzati in prevalenza contro “gli arabi” – che “ci vogliono annichilire tutti, donne, bambini e uomini, e permetterebbero all’Iran di sterminarci”, diffuse sulla sua pagina Facebook prima di ritrattarle. Questi “incitamenti all’odio sono diventati così frequenti che l’opinione pubblica sembra apatica di fronte alle sue nuove manifestazioni,” ha notato un editoriale dello stesso quotidiano. Si noti che, se i palestinesi d’Israele sono stati i principali bersagli, non sono stati gli unici; gli intellettuali, i laici, i media liberi, i giudici e tutti i sostenitori di un pensiero liberale sono allo stesso modo stati vittime di campagne d’odio della destra.

I principali vantaggi di Netanayhu restano tuttavia il fatto di non aver contro di sé alcun avversario in condizioni di contestare il suo peso politico e di continuare ad incarnare indubbiamente nel modo più totale l’evoluzione politica della società israeliana da due decenni. Ma, a volte, il desiderio di cambiare è più forte di tutto.

Sylvain Cypel

Ha fatto parte della direzione redazionale di Le Monde e in precedenza è stato direttore della redazione del “Corriere internazionale”. É autore di “Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse” [I murati. La società israeliana bloccata, ndtr.], La Découverte, 2006.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Traumatiche esperienze dei bambini di Gaza

Infanzia perduta: a Gaza, la generazione dei più giovani cerca di affrontare i traumi a cinque anni dalla fine dell’ultima guerra

Sarah Algherbawi

11 settembre 2019 Mondoweiss

 

Ho visto di recente un documentario spagnolo di 45 minuti intitolato “Nacido en Gaza” (“Nato a Gaza”) che tratta l’impatto della guerra sui bambini e guardandolo la mia attenzione si è concentrata sul fatto che, anche molto tempo dopo che i carri armati se ne erano andati, i bambini provavano ancora lo stress e l’ansia della guerra. Un genitore non vorrebbe mai nemmeno immaginare che il proprio figlio o la propria figlia debbano provare dolori, perdite o paura, eppure a Gaza la generazione dei più piccoli deve affrontare il trauma dell’aver vissuto tre guerre negli ultimi dieci anni.

Negli anni 2008-09, 2012 e 2014, Gaza è stata in guerra contro Israele in un’escalation di violenza nella striscia costiera che ha raggiunto nuovi picchi dalla guerra del 1967 quando iniziò l’occupazione israeliana del territorio palestinese. Nell’ultima guerra del 2014 tra gli oltre 2200 civili palestinesi uccisi ci sono stati 551 bambini e oltre 3.000 sono stati i feriti. Sei civili israeliani sono stati uccisi e 270 bambini sono stati feriti.

Essere mamma di un piccolo di dieci mesi mi ha portato a riflettere sulle conseguenze della guerra per i bambini.

Nell’inchiesta pubblicata da Save the Children all’inizio di quest’anno, i ricercatori hanno rilevato che, nel 2018, il 62% dei bambini di Gaza riferisce sintomi di depressione e il 55% di angoscia. Oltre la metà dei bambini ha detto di sentirsi ansiosa e impaurita quando si trova lontano dai propri genitori. Molti hanno incubi notturni, il 53% bagna il letto. Sono stati intervistati anche i genitori e gli operatori sanitari che si occupano di loro e il 42% ha detto che i loro bambini hanno perso la capacità di parlare in seguito al trauma.

È allarmante che, nel 2010, uno studio condotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal CDC [Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, negli USA, ndtr.] abbia rilevato che a Gaza un quarto degli adolescenti fra i 13 e i 15 anni abbia detto di avere pensieri suicidi e di aver progettato di farlo nei 12 mesi precedenti. Nel Medio Oriente i giovani palestinesi hanno le percentuali più elevate di pensieri suicidi e, anche se i ricercatori non hanno analizzato il rapporto fra guerra e suicidio, i risultati riflettono il profondo senso di disperazione fra i bambini di Gaza.

Volevo intervistare dei bambini per avere un’idea più precisa di quello che ricordano della guerra e di come quei ricordi abbiano ancora un impatto sulla loro vita di oggi.

Sharif al-Namla, un bambino amputato

Un episodio della guerra del 2014 che gli abitanti di Gaza probabilmente non dimenticheranno mai è la storia della famiglia al-Namla, della cittadina di Rafah, nel sud di Gaza.

La mattina del primo agosto 2014, Israele avrebbe fatto ricorso alla direttiva Annibale, una procedura militare per rispondere con la forza alla cattura di un soldato [colpendo in modo indiscriminato il luogo in cui si presume sia presente il militare rapito, anche a rischio di ucciderlo, ndtr.]. All’epoca le forze israeliane stavano cercando Hadar Goldin, un soldato che si riteneva fosse stato fatto prigioniero da Hamas. Hadar e oltre 121 palestinesi, di cui almeno 72 civili [era in corso una tregua, ndtr.], furono uccisi durante i violenti scontri di quel giorno, il più sanguinoso della guerra, talvolta chiamato il “venerdì nero”.

Gruppi per i diritti umani hanno in seguito accusato Israele di aver commesso crimini di guerra, citando l’uso di cannoneggiamento con carri armati, sparatorie e attacchi aerei su civili.

Quel giorno Wael al-Namla, 27 anni, sua moglie Asraa e il piccolo Sharif di 3 anni stavano per lasciare la loro casa quando questa fu colpita da un missile. Nella distruzione tre parenti rimasero uccisi, Wael e il figlio persero una gamba, ad Asraa furono amputate entrambe le gambe e Sharif perse anche l’occhio destro.

Oggi Sharif ha otto anni.

“A Sharif non piace uscire di casa, si vergogna delle sue lesioni, a differenza dei suoi coetanei non parla molto e preferisce stare sempre da solo” mi ha detto il padre Wael.

Recentemente Wael ha convinto il figlio ad andare per un mese a un campo estivo a luglio. Il programma includeva 55 bambini che avevano perso gli arti a causa di malformazioni congenite o ferite.

Wael ha detto che il figlio ha bisogno di vari interventi chirurgici, sia all’occhio destro che alla gamba, per prepararla all’uso di un arto artificiale.

Wael ha detto che “Sharif era diventato più attivo dopo il campo, ma non è sufficiente perché avrebbe bisogno di molta assistenza e molto tempo per reinserirsi nella comunità.”

Zidan Qarmout

Il primo agosto 2014, il ventisettesimo giorno della guerra del 2014 fra Israele e Gaza, Zidan Qarmout aveva dieci anni e stava mangiando dei dolci, in piedi vicino a una finestra di casa. La guerra del 2014 durò 50 giorni ed è diventato comune riferirsi agli eventi aggiungendo anche il giorno in cui sono avvenuti, invece che solo con la data.

Durante la guerra, la mamma di Zidan, Monira, 50 anni, non permetteva ai suoi bambini di uscire di casa, neppure nelle lunghe ore di cessate il fuoco, quando gli altri bambini andavano fuori a giocare. Spiega che lo faceva per proteggerli dai proiettili vaganti nel loro quartiere. La famiglia vive nel campo profughi di Jabalia, a nord di Gaza, dove le forze israeliane attuarono un’invasione via terra.

Tre giorni prima, una scuola nel vicinato che fungeva da rifugio delle Nazioni Unite era stata colpita, gli abitanti della zona non si sentivano al sicuro. Improvvisamente fu sganciata una bomba vicino alla casa di Zidan mentre lui stava vicino alla finestra. Lo spostamento d’aria lo gettò a terra.

Si scoprì poi che l’esplosivo aveva colpito una casa che apparteneva alla famiglia Abu al-Qomsan, affittata alla famiglia Wahdan che era sfollata da Beit Hanoun dopo che dodici dei suoi membri erano stati uccisi in vari attacchi aerei israeliani. Questa esplosione uccise tre persone, fra cui due donne, e ne ferì dieci, incluso Zidan. In totale, 12.000 case furono distrutte durante la guerra del 2014.

Zidan fu ferito in modo lieve da schegge di proiettile che lo avevano colpito al volto e alle spalle. Fu portato in ospedale lo stesso giorno e rimandato a casa dopo essere stato medicato. Una vicina, un’infermiera, lo aiutava con le medicazioni a casa.

“Adesso sono passati cinque anni, ma non dimenticherò mai la palla di fuoco che è esplosa davanti ai miei occhi. Qualche volta, mentre dormo, mi sembra che mi stia inseguendo.” dice Zidan con voce esitante.

In seguito mi dice: “Da grande sarò un chirurgo o un dottore specializzato in trapianti del cuore. Guardo sempre documentari sui dottori e leggo molto, penso che ce la farò.”

Quella non era la prima guerra per Zidan. Quando aveva otto anni, nell’autunno del 2012, alle sei del mattino, lui e la sua famiglia si svegliarono, fra colonne di polvere, al suono di pietre che bersagliavano la loro casa appena costruita. La casa dei vicini, quella della famiglia Salah, era stata colpita da tre missili lanciati da un caccia F-16.

“Durante la seconda guerra avevo otto anni, ogni notte di solito andavo a letto accanto a mia mamma. Quella notte improvvisamente lei mi ha afferrato per la mano e trascinato fuori dalla stanza, io non vedevo niente per la polvere e la puzza di polvere da sparo che riempiva la casa”. Con difficoltà siamo riusciti a trovare la via d’uscita, siamo andati giù per le scale, quasi completamente distrutte, finché siamo arrivati a pianterreno. Ancora oggi non riesco a credere di essere vivo” mi ha detto Zidan.

Oggi Zidan ha quindici anni, è il più giovane di sei tra fratelli e sorelle. La mamma, Monira, lo descrive come “un bambino molto intelligente, prende sempre i voti più alti della classe. Ma ha un carattere nervoso che si aggrava con ogni escalation e ad ogni violenza israeliana.”

Ma l’evento più traumatico che Zidan abbia mai subito durante la sua giovane vita non è stato in tempo di guerra. Il 4 febbraio 2008 il padre fu ucciso in un raid aereo israeliano perché era un membro del braccio armato dei Comitati Popolari di Resistenza a Gaza, che gli Usa e Israele considerano un gruppo terroristico.

“Io non ricordo molte cose di me e papà, ero molto piccolo, ma lo ricordo quando mi portava sulle spalle e io gli tiravo i capelli e poi ci mettevamo tutti e due a ridere.” ha aggiunto Zidan.

Ahmad Abu Dahrouj e sua cugina, la piccola Jana

La storia di Zidan non è un caso unico. Molti bambini a Gaza sono sopravvissuti ai bombardamenti e sono stati costretti a lasciare le loro case durante le guerre. Nel 2014 oltre 500.000 palestinesi, circa un terzo della popolazione, sono sfollati.

Nello stesso studio di Save the Children si segnala che il 78% degli adulti che si prendono cura di loro hanno riportato che i bambini erano spaventati dai rumori di bombardamenti, aerei e droni, mentre il 60% di bambini e genitori ha detto che si sentono in uno stato di “insicurezza costante” in attesa di bombardamenti o della ripresa della guerra.

Durante la guerra del 2014, Ahmad Abu Dahrouj, di dieci anni, aveva lasciato casa sua con i genitori e gli altri due fratelli per rifugiarsi in quella del nonno, nel centro di Gaza City.

All’inizio della guerra tutte le zie di Ahmad con le loro famiglie si erano trasferite dal nonno. Ahmad era molto affezionato alla zia più giovane, Susan, che allora aveva ventidue anni ed era sfollata da casa sua nel campo di al-Buraij, specialmente perché sua figlia, la piccola Jana di un anno, era la compagna di giochi preferita da Ahmad.

“Ovunque andassi Jana mi seguiva, mia zia ci teneva insieme quasi tutto il tempo passato dal nonno, appena lasciavo Jana per pochi minuti si metteva subito a piangere.” dice Ahmad.

Il 29 luglio 2014, durante un cessate il fuoco temporaneo, Susan decise di tornare a casa sua ad al-Buraij, portando con sé Jana. Più tardi quella sera, lo zio di Ahmad, Ramadan, di 35 anni, decise di andare a trovare Susan per vedere come stava e portò con sé Ahmad in moto. Nell’istante in cui Ahmad e Ramdan arrivarono, un’enorme esplosione colpì il posto. “Io sono caduto a terra, ricordo solo il buio e le pietre che volavano in aria.” ricorda Ahmad.

Quando la polvere si diradò, Ahmad vide che il punto di impatto era la casa di Susan, da dietro la moto vide arrivare le ambulanze e i primi soccorritori con in braccio Susan che era viva, ma ferita. Trenta minuti dopo trovarono Jana senza vita, sotto le macerie.

“Ricordo ancora il corpo bruciato di Jana, rivedo il suo corpo ogni volta che vado a casa del nonno. In effetti, odio andarci dopo quello che è successo.”

Ahmad non ha detto molto altro su quel giorno, ma è sicuro che non ci sono parole per descrivere quello che ha visto. Spera un giorno di rendere onore alla memoria di Jana. Adesso si allena con una squadra di parkour, uno sport acrobatico urbano.

“Quando diventerò un allenatore di questo sport formerò una squadra e la chiamerò Jana, per rendere immortale la mia piccola amica di infanzia.” afferma.

Sarah Abu el-Tarabesh, un’attrice e una pittrice promettente

Fra i bambini che ho intervistato per questo articolo c’è Sarah, la sorella di mio marito, che adesso ha tredici anni. La sua storia è un po’ diversa da quella degli altri bambini.

Sarah aveva solo otto anni durante l’ultima guerra, non è stata ferita, non ha perso né la casa né qualche parente. Tuttavia aveva preso parte a una locale produzione televisiva, “Diari di un bambino innocente”, in cui c’era la scena della visita di una bambina ai siti bombardati durante la guerra del 2014.

Di questa esperienza Sarah dice: “Non mi aspettavo che la guerra potesse causare tutta questa distruzione, la prima volta che ho visto i posti distrutti sono rimasta sconvolta. Da allora, ogni volta che sapevo di dover girare un nuovo video, non potevo dormire la notte immaginando i posti che avrei visto il giorno dopo.”

“Quando hanno trasmesso i film non li ho guardati, non volevo rivedere la distruzione, continuavo a guardare solo l’episodio in cui io distribuisco dei fiori” aggiunge Sarah, descrivendo la scena dei fiori, un simbolo di rinascita. Oggi la mano sinistra di Sarah trema ogni volta che viene sorpresa da un forte rumore.

“Odio la nostra casa durante le guerre e le escalation” dice. Il tetto di asbesto, come molti a Gaza, “fa un rumore molto forte che mi terrorizza, mi sembra che ogni missile che cade piomberà sulla nostra casa.”

Anche se Sarah è ancora sconvolta dalla guerra, c’è stato un risvolto positivo, perché ha imparato a esprimere i suoi sentimenti dipingendo.

“Non mi aspettavo di diventare una pittrice, ho sempre sognato di essere una corrispondente per un giornale, ma sembra che le mie aspirazioni siano cambiate da quando ho cominciato a disegnare dopo la guerra del 2014” sostiene.

 

Sarah Algherbawi è una scrittrice e traduttrice freelance di Gaza.

 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Annessione della valle del Giordano

I palestinesi della valle del Giordano: “Le nostre terre sono già state annesse”

La promessa di Netanyahu di formalizzare il controllo di fatto di Israele sulla valle del Giordano provoca inquietudine tra gli abitanti palestinesi

di Arwa Ibrahim

12 settembre 2019 – Al Jazeera

 

Ras Ain al-Auja, valle del Giordano – Tra le vaste terre aride della valle del Giordano, che si estendono a nord del Mar morto e a ovest dei confini della Cisgiordania con la Giordania, sorge il piccolo villaggio palestinese di Ras Ain al-Auja.

Se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu porterà a compimento il suo piano, annunciato martedì, di annettere la valle del Giordano e le zone a nord del Mar morto, il villaggio di circa 350 residenti e i suoi fertili terreni agricoli diventeranno parte di Israele.

Alcuni osservatori hanno liquidato il piano di Netanyahu come una bravata da campagna elettorale prima delle elezioni generali della prossima settimana. Ma gli abitanti di Ras Ain al-Auja dicono che le parole di Netanyahu sono minacciose in quanto il suo piano potrebbe formalizzare il controllo israeliano sulla zona.

“Non è una novità. Le nostre terre sono già state annesse e stiamo vivendo sotto l’occupazione israeliana,” afferma ad Al Jazeera il quarantottenne Ahmed Atiyat, un contadino di Ras Ain al-Auja.

“Tutte queste terre e le palme sono degli israeliani,” dice indicando distese di terre coltivate punteggiate di cespugli verdi e palme da dattero che si estendono verso il Mar Morto.

Il progetto di Netanyahu intende annettere il villaggio e altre parti della valle del Giordano, tuttavia non includerebbe Gerico, la città palestinese più vicina a  Ras Ain al-Auja.

L’annessione di Gerico lo obbligherebbe ad occuparsi là della condizione di migliaia di cittadini palestinesi. L’attuale piano tendenzialmente taglierebbe fuori Gerico da altre città palestinesi nella Cisgiordania occupata.

 

Occupazione di fatto

La popolazione di Ras Ain al-Auja comprende soprattutto contadini che hanno lavorato su quella terra da generazioni. Dicono che risorse idriche in esaurimento e restrizioni alla costruzione e ai collegamenti da parte dell’esercito israeliano hanno reso difficili le condizioni di vita.

“Tutte le nostre sorgenti d’acqua sono sotto controllo israeliano. Abbiamo pochissima acqua potabile, per non parlare dell’acqua per i nostri orti,” afferma Atiyat, che racconta che la sua famiglia si è spostata nella zona dopo essere stata espulsa dall’esercito israeliano dalle sponde del fiume Giordano nel 1967.

Hussein Saida, un altro contadino e membro del locale Comune, è d’accordo.

“Dobbiamo affrontare continue difficoltà, soprattutto quando si tratta di aver accesso e di fare la manutenzione ai nostri pozzi per innaffiare in nostri orti. Essi sono di fatto sotto il controllo israeliano,” dice Saida. Secondo molte Ong palestinesi e israeliane, Israele nega accesso alla terra, all’acqua e all’elettricità ai palestinesi che vivono nella valle del Giordano, così come in altre aree nella Cisgiordania occupata, rendendo le condizioni di vita difficili.

“Israele ha annesso di fatto la zona della valle del Giordano. Gran parte di essa è destinata ad uso militare, per cui i palestinesi non possono viverci. Se lo fanno, vengono espulsi” dice Roi Yellim, direttore della diffusione al pubblico di B’Tselem, una Ong [israeliana, ndtr.] per i diritti umani.

“C’è anche un continuo tentativo da parte di Israele di rendere difficili le condizioni di vita dei palestinesi nella valle del Giordano, in modo che la maggior parte di loro lasci le proprie terre,” aggiunge, sottolineando che tali condizioni vengono applicate in tutta la Zona C, che costituisce il 60% della Cisgiordania occupata.

L’area che Netanyahu progetta di annettere costituisce circa il 30% della Cisgiordania occupata. Più di 65.000 palestinesi e circa 11.000 coloni israeliani illegali vivono nella zona.

Maha Abdullah, una ricercatrice giuridica e avvocatessa di Al-Haq, un’Ong palestinese, dice che queste condizioni potranno solo peggiorare se l’area viene annessa, portando i palestinesi a pensare di lasciare le proprie case. “Queste zone rendono molto all’economia israeliana e quindi conviene sfruttarne le risorse e le terre,” afferma Abdullah. “Al contempo, creare un contesto costrittivo per i palestinesi che vi vivono attraverso la demolizione di case e la fornitura ridotta di acqua e di elettricità spingerà i palestinesi ad andarsene,” dice, facendo un confronto con l’annessione di Gerusalemme est nel 1967.

Ai palestinesi della Gerusalemme est occupata non è stata concessa la cittadinanza israeliana, dato che le annessioni e il loro status rimangono controversi e irrisolti.

Futuro Stato palestinese

Il piano minaccia anche la formazione di un futuro Stato palestinese, in quanto i palestinesi rivendicano i 2.400 km2 della valle del Giordano come confine orientale di un futuro Stato palestinese nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, denuncia il progetto di annessione, dicendo ad Al Jazeera che “seppellirebbe ogni restante prospettiva di una pace e di uno Stato palestinese fattibile e indipendente.”

La minaccia per il futuro della Palestina è avvertita anche ad un livello più locale.

 

“Anche se si trattasse solo di parole, per il momento, il progetto di Netanyahu di annettere le terre più fertili della Palestina e parti di un futuro Stato palestinese è molto pericoloso,” dice ad Al Jazeera Salah Frijat, capo dell’autorità locale di Auja, che è il Comune più esteso da cui dipende

Ras Ain al-Auja. “Ci sono continue violazioni delle nostre terre e delle nostre risorse idriche. Vogliono vederci andar via in quanto la vita diventa più dura e le colonie intorno a noi aumentano,” aggiunge.

Israele ha ripetuto le sue intenzioni di mantenere il controllo militare sulla zona, che ha conquistato nella guerra del 1967, anche se venisse raggiunto un accordo di pace con i palestinesi.

Lo scorso anno il presidente USA Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. Oltre a ciò la sovranità di Israele sulle Alture del Golan occupate, che le sue forze hanno conquistato dalla Siria nel 1967, ha fatto temere a molti osservatori che prima o poi questo piano possa effettivamente essere messo in atto.

“Anche se quello che Netanyahu ha detto fosse davvero una bravata elettorale, probabilmente procederà a una sorta di annessione perché ha l’appoggio dell’amministrazione di Trump,” sostiene Yellim.

Nonostante queste difficili condizioni e minacce, Atiyat dice che non lascerà mai la sua terra.

“Anche se la vita continua ad essere sempre più dura, moriremo qui piuttosto che andarcene o essere di nuovo cacciati dalle nostre terre,” dice ad Al Jazeera.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 

 




Negazionismo e Nakba

Quando scoppia la bolla del negazionismo: un kibbutz israeliano di fronte alla Nakba

Salman Abu Sitta

5 settembre 2019 – Mondoweiss

 

Cosa succede quando un popolo è rinchiuso in una bolla in cui la “verità” ha un solo libro da leggere, da seguire e a cui ubbidire, e poi improvvisamente la bolla scoppia e il sole risplende su una verità completamente nuova, verificabile, chiara e corretta?

Ciò è quello che succede ai kibbutz [comunità agricole sioniste con proprietà collettiva, ndtr.] di Nirim, Nir Oz, Magen e Ein Hashloshla. Questi quattro kibbutz vennero fondati dopo la Nakba del 1948 sulla mia terra, Al Ma’in (65,000 dunum – 6.500 ettari). Al Ma’in è stato ed è da secoli il luogo d’origine della mia famiglia, Abu Sitta, ora rifugiata nella Striscia di Gaza e altrove.

Eitan Bronstein Aparicio, fondatore di “De-Colonizer” [De- Colonizzatore] (fondatore in precedenza di “Zochrot”, un gruppo israelo-palestinese che insegna la Nakba agli israeliani), ha fatto scoppiare la bolla. Eitan ha allestito una mostra piccola e semplice. Ha raccolto mappe, libri, video e una foto aerea della RAF [aviazione militare britannica, ndtr.] di Al Ma’in nel 1945, che mostra campi e l’aspetto principale del villaggio e le ha collocate in due stanze e un cortile. La mostra si è tenuta il 25 luglio 2019 nella “Casa Bianca”, l’unico edificio palestinese sopravvissuto alla demolizione del villaggio da parte degli israeliani nel 1948 e trasformata da Haim Peri, un artista di Nir Oz, in una galleria d’arte.

Eitan ha invitato i coloni di Al Ma’in e della zona circostante ad andare a vedere la mostra. Il suo messaggio era semplice. Quella era la gente che viveva qui e che ora è rifugiata a due chilometri di distanza dietro il filo spinato nella Striscia di Gaza. La presentazione lasciava intendere che Israele aveva preso la loro proprietà ed ora ci vivete voi.

Nonostante il fatto che il numero dei visitatori è stato modesto, probabilmente tra quaranta e cinquanta, le reazioni sono state indicative di gente a cui è stata negata la verità, le vittime del fatto di aver messo a tacere la Nakba.

Le considerazioni, e persino le minacce, più irate sono venute da un vecchio abitante di un kibbutz, di più di 80 anni, che aveva assistito e partecipato all’attacco contro Al Ma’in. La milizia Haganah [principale gruppo armato sionista prima della nascita di Israele, ndtr.] attaccò Al Ma’in il 14 maggio 1948 con 24 veicoli blindati, distrusse e bruciò case, demolì la scuola costruita nel 1920, fece saltare in aria il pozzo e il mulino a motore. Ad essa resistettero coraggiosamente per alcune ore 15 difensori palestinesi armati di vecchi fucili. Da bambino vidi le rovine fumanti del mio villaggio mentre ero ammassato insieme ad altri bambini e donne in una forra lì vicino. Non avevo mai visto un ebreo prima di allora e non sapevo chi fossero gli aggressori o perché fossero venuti a distruggere le nostre vite.

Il 14 maggio 1948 diventai un rifugiato.

Quel giorno sulle rovine del mio Paese, la Palestina, Ben Gurion proclamò lo Stato di Israele.

In seguito all’attacco e all’occupazione, nel periodo tra il 1949 e il 1955 sulla terra di Al Ma’in vennero costruiti i quattro kibbutz. La famiglia Abu Sitta, che era allora composta da circa 1.000 persone ed ora da circa 10.000, diventò rifugiata, per lo più nella Striscia di Gaza.

I coloni anziani, che erano presenti nel 1948, hanno accusato Eitan di eversione e gli hanno consigliato di trovare un altro Paese in cui emigrare. Hanno minacciato di dire alle autorità di negare l’ingresso a visitatori stranieri che potrebbero andare proprio per vedere la mostra. Ironicamente questi anziani sono stati i primi a visitare la mostra, probabilmente per trovare il modo di spiegare la loro storia negazionista.

Ovviamente la loro storia non merita neppure una replica. Hanno detto che lì non c’era nessuno: “Siamo arrivati dove c’era un deserto vuoto.” Come spiegare i campi coltivati nelle foto aeree? Chi li aveva seminati? La casa in cui è stata sistemata la mostra, il pozzo e il mulino a motore, le rovine che si trovano ancora lì, come li possono spiegare?

Il colono più anziano di Nirim, Solo (cioè Chaim Shilo o Solo Weicheck), 94 anni, un tedesco di origini russe, era indignato quando un giornalista britannico gli ha chiesto ripetutamente: “Perché non permettete alla famiglia Abu Sitta di tornare a casa?”

I coloni anziani hanno detto che quelle case erano state costruite dagli inglesi. Si tratta di una strana affermazione, in quanto chiunque abbia una conoscenza anche approssimativa della storia palestinese sa che abbiamo combattuto contro i britannici fin dalla [dichiarazione] Balfour. In particolare, il mio fratello maggiore Abdullah era il leader della rivolta del 1936-1939 nel distretto meridionale. Lui e i suoi compagni espulsero i britannici dal distretto di Beer Sheba per un anno, dall’ottobre 1938 al novembre 1939.

I coloni anziani sostengono di aver comprato le terre. Ma nessuno potrebbe fornire una prova di essere proprietario, legalmente o in altro modo, di un solo appezzamento di terreno per miglia e miglia.

La risposta più comune di giovani e anziani è stata: “Abbiamo vinto la guerra. Quando mai il vincitore ha restituito quello che ha vinto?”

Affermare che essere forti nella vittoria contro una controparte debole sia una giustificazione per un crimine solleverebbe la Germania nazista dai suoi crimini perché avrebbe potuto commettere e commise quei crimini. In base alla stessa argomentazione, i britannici sarebbero assolti da ogni colpa per il massacro di Amritsar  del 1919 [le truppe inglesi spararono contro la folla che assisteva ad un comizio nella città indiana, uccidendo più di 300 persone, ndtr.], i russi per aver giustiziato ufficiali polacchi nella foresta di Katyn nel 1940 [truppe sovietiche sterminarono più di 20.000 tra ufficiali e prigionieri polacchi, ndtr.] e i francesi per aver gettato in mare centinaia di prigionieri algerini da voli della morte con elicotteri nel 1957 [durante la “battaglia di Algeri” combattuta dal movimento di liberazione algerino, ndtr.].

I coloni hanno ripetuto il solito vecchio ritornello: “Noi abbiamo accettato il piano di spartizione [della Palestina tra arabi ed ebrei, approvato dall’ONU nel 1947, ndtr.], voi no. Sarebbe possibile che la Francia concedesse più di metà del Paese agli immigrati africani?”

Se i coloni fossero stati informati, avrebbero saputo che il piano di spartizione era una semplice raccomandazione, senza alcun valore giuridico vincolante. L’ONU non aveva l’autorità di dividere Paesi e lo disse. Oltretutto l’ONU, e sorprendentemente gli USA, lasciarono cadere il piano di spartizione a favore dell’amministrazione fiduciaria sulla Palestina da parte dell’ONU.

Nessuna fonte israeliana lo cita. I poveri coloni sarebbero gli ultimi a saperlo.

I coloni hanno sostenuto che “se non ci aveste fatto una guerra, tra di noi ci sarebbe stata la pace.” Ciò è molto strano. Non ricordo che la mia famiglia o qualunque altro gruppo di palestinesi abbia schierato un esercito ed abbia marciato verso la Polonia e la Russia per attaccarvi gli ebrei. É vero il contrario. Allora, chi ha scatenato la guerra? Non sanno rispondere.

Ciò che sicuramente non sanno è che l’abbandono del piano di spartizione a metà del marzo 1948 innescò un fondamentale avvenimento nella storia della Nakba. Ben Gurion [leader sionista e primo capo del governo israeliano, ndtr.] decise di conquistare la Palestina e ordinò di mettere in pratica immediatamente il piano Dalet [che prevedeva l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina, ndtr.].

Di conseguenza iniziò l’invasione sionista della Palestina. In sei settimane, dal primo di aprile al 14 maggio 1948, l’Haganah conquistò località cruciali in Palestina e fondò sul terreno Israele, dopo che Herbert Samuel [politico ebreo sionista inglese nominato alto commissario del Mandato britannico sulla Palestina, ndtr.] (1920-1925) [periodo in cui Samuel fu alto commissario in Palestina, ndtr.] aveva definito le sue fondamenta giuridiche 28 anni prima.

In quelle sei settimane 220 villaggi, comprese molte cittadine, vennero attaccati e spopolati, quasi metà di tutti i rifugiati palestinesi vennero espulsi e vennero commessi 22 degli oltre 50 massacri avvenuti nel corso della Nakba. Durante quelle stesse sei settimane vennero condotte 17 operazioni militari da nove brigate. In ogni attacco ci fu una superiorità numerica di 10 a 1 contro i difensori. In totale Israele organizzò 31 operazioni militari per occupare parecchie regioni della Palestina, incrementando così il proprio controllo dal 6% della Palestina alla fine del Mandato [britannico] al 78% a metà del 1949. Vennero occupate nuove terre per formare una solida spina dorsale dalla pianura della costa centrale fino a Merj bin Amer e alle rive occidentali del fiume Giordano da Beisan a Metulla.

Quella fu la vera invasione della Palestina. Fu un’invasione sionista.

Ecco Adele Raemer, una nuova colona di Nirim. Arrivò dal Bronx [quartiere di New York, ndtr.] nel 1975 per insediarsi sulla mia terra. Scrive un blog sulla sofferenza dei kibbutz nell’‘enclave di Gaza’ e si lamenta degli aquiloni palestinesi che incendiano i ‘suoi’ campi di grano. Ho risposto dicendo che quelli sono i miei campi di grano. Le ho detto che ricordo che da bambino mi veniva permesso di sedermi sulla nostra mietitrebbia.

Ha voluto sapere: “Da quanto tempo la famiglia Abu Sitta ha vissuto ad Al Ma’in?”

Mi sono rifiutato di rispondere. Avrei potuto replicare che il nome Abu Sitta era sulle mappe di Allenby [generale britannico che sconfisse i turchi in Medio Oriente, ndtr.] quando conquistò Beer Sheba nel 1917, che il mio trisnonno fu citato per nome in un documento ottomano del 1845 riprodotto al Cairo e a Gerusalemme. Avrei potuto dirle che il nome Abu Sitta (Padre di Sei) venne coniato verso il 1720 in considerazione del fatto che il mio progenitore era un ben noto cavaliere accompagnato dalla scorta di sei compagni.

Mi sono rifiutato di rispondere perché non devo provare la mia discendenza a una colona i cui parenti sono arrivati di nascosto su una nave da uno shtetl [villaggio ebraico dell’Europa dell’est, ndtr.] sulle spiagge della Palestina nel cuore della notte.

Le sue lamentele sulla dura vita a Nirim sono state riprese da suo cugino, Gil Troy, un docente di storia all’università McGill [università canadese con sede a Montreal, ndtr.]. La formazione accademica non lo salva dai limiti della bolla della negazione. In risposta al devastante attacco israeliano contro Gaza dell’agosto 2014 [l’operazione “Margine protettivo”, ndtr.] ha scritto che Nirim venne fondato nel 1946, cioè prima della Nakba. Falso. Venne fondato sulla mia terra nella primavera del 1949, dopo che fummo attaccati ed espulsi. Egli ammira la “vera comunità di coltivatori”, ma omette di menzionare che venne fondata su una proprietà rubata e che i proprietari la vedono da dietro il filo spinato a due chilometri di distanza. Egli loda i coloni in quanto “agricoltori che persino sotto il continuo fuoco tendono la mano ai loro vicini gazawi, sconcertano il mondo con la loro straordinaria generosità ebraica, sionista e democratica.”

La bolla negazionista ha impedito al dotto professore di notare che la popolazione di 247 villaggi spopolati è stata ammassata nella stretta Striscia di Gaza con una densità di 7.000 persone per km2, mentre i coloni vagano sulla loro terra con una densità di 7 persone per km2.

Lo stesso Nirim ha 173 membri e le loro famiglie sfruttano 20.000 dunam (2.000 ettari) della mia terra, mentre la mia famiglia estesa, Abu Sitta, è composta da 10.000 rifugiati che vivono a due chilometri di distanza.

Il dotto professore parla del “confine” di Israele. Dovrebbe sapere che Israele non ha mai avuto un confine né per sua stessa ammissione né per le leggi internazionali. Probabilmente si riferiva alla linea dell’accordo di armistizio del 24 febbraio 1949. Ma il secondo articolo di questo accordo stabilisce che esso non concede diritti a Israele, né riguardo alla sua sovranità né alla proprietà di terre occupate.

Senza dubbio il dotto professore non sa che il confine di cui parla è solo una linea temporanea di ‘modus vivendi’ concordata nel febbraio 1950. La vera linea di armistizio è tre chilometri all’interno della terra occupata da Israele nel 1948, il che fa sì che Nirim, Ein Hashlosha e Nir Oz si trovino nella Palestina non occupata, nota ora come Striscia di Gaza.

Questo solo pensiero terrorizzerebbe i coloni e trasformerebbe la mostra di Eitan in una bomba di fatti che minerebbe tutte le loro rivendicazioni. Ma ciò non è stato citato.

È stranamente assente da ogni discussione l’orrendo stupro e l’uccisione di una ragazzina araba di 12 anni catturata da un plotone di Nirim nell’agosto 1949. I soldati di un plotone l’hanno violentata a turno, poi le hanno sparato e l’hanno sepolta. L’unico segno fu la sua mano che spuntava dalla fossa poco profonda. Ben Gurion citò brevemente questo fatto nel suo diario di guerra. Nessuno fa riferimento a questo crimine, neppure i coloni più anziani, come Solo, che all’epoca erano lì.

Ma c’è un raggio di speranza, un raggio così tenue da mettere in evidenza la dimensione della negazione. È una risposta di Efran Katz, un colono di Nir Oz. Vale la pena di citarlo integralmente:

Quello che oggi ho visto qui è stato molto toccante e persino doloroso. Nonostante abbia vissuto qui per più di 35 anni, sento la necessità e la speranza di tornare alla terra e riviverla con le emozioni passate, di riviverla con la cultura e i costumi vostri, degli abitanti.

Una terra non è un mattone. Una terra è un valore, è radici, è l’amore per un luogo. Non c’è posto per la deportazione. Il mio cuore è con voi.

Ai coloni può sembrare che la bolla della negazione sia un luogo sicuro in cui nascondersi. La logica è chiara. Se un crimine viene rivelato, chi lo ha commesso sarebbe un criminale meritevole di una punizione e obbligato a un risarcimento. La mostra di Eitan è un chiaro promemoria.

Ma ora non è rimasto molto spazio per nascondersi nella bolla della negazione. Quando tutto il mondo saprà del crimine, la giustizia li raggiungerà e il risarcimento sarà un prezzo molto pesante da pagare.

 

Salman Abu Sitta è fondatore e presidente della “Palestine Land Society” [Società Palestinese della Terra], di Londra, che si dedica alla documentazione sulla terra e il popolo palestinesi. É l’autore di sei libri sulla Palestina, compresi il compendio “Atlante della Palestina 1917-1966”, edizione in inglese e in arabo, l’“Atlante del viaggio di ritorno” e oltre 300 documenti e articoli sui rifugiati palestinesi, il diritto al ritorno, la storia della Nakba e i diritti umani. Gli viene attribuita una vasta documentazione e cartografia della terra e del popolo palestinesi di oltre 40 anni. La sua acclamata autobiografia “Mappare il mio ritorno” descrive la sua vita in Palestina e la sua lunga lotta in quanto rifugiato per tornare in patria.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Discriminazione politica dei palestinesi di Israele

Eletti ma sotto attacco: come in Israele si sta riducendo lo spazio per i deputati palestinesi

Un nuovo rapporto di Amnesty International evidenzia la discriminazione radicata all’interno della Knesset israeliana

 

Ben White

4 settembre 2019 – Middle East Eye

 

 

Mentre Israele si prepara alle seconde elezioni in un anno, Amnesty International ha pubblicato un nuovo rapporto che evidenzia quelle che descrive come “crescenti minacce” alla “libertà di espressione” dei membri palestinesi della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.].

[Il rapporto] “Eletti ma condizionati: spazio che si sta riducendo per i parlamentari palestinesi nella Knesset israeliana” è stato reso pubblico due settimane prima che gli israeliani vadano a votare il 17 settembre, e costituisce una cruda sintesi di quello che Amnesty descrive come uno “spazio ridotto” per le critiche e una discriminazione “radicata”.

Al centro delle preoccupazioni di Amnesty c’è l’uso “discriminatorio” dei regolamenti e delle leggi che compromette la possibilità dei palestinesi eletti alla Knesset di rappresentare i propri elettori.

 

Rifiuto del dissenso politico

Un esempio degli esempi citati è una modifica legislativa del 2016 che consente alla Knesset di “espellere i deputati eletti attraverso un voto a maggioranza dei loro colleghi parlamentari,” dando facoltà “alla maggioranza politica di far dimettere un deputato eletto” per aver manifestato opinioni politiche ritenute inaccettabili, persino quando queste dichiarazioni “non sono state sottoposte ad alcun procedimento penale o di altro genere.”

Nel contempo “i regolamenti della Knesset, che si presume siano in vigore per imporre comportamenti etici ai parlamentari, sono stati utilizzati per limitare il diritto di parola, colpendo i parlamentari palestinesi in modo discriminatorio,” afferma Amnesty, evidenziando una loro modifica nel 2018 “per non concedere a un deputato della Knesset il permesso di viaggiare all’estero se il viaggio viene finanziato da ‘un ente che chiede il boicottaggio dello Stato di Israele’.”

Preso nel suo complesso, il rapporto di Amnesty mina seriamente le ricorrenti argomentazioni del governo israeliano, compresa la spesso ripetuta affermazione che la semplice presenza di parlamentari “arabi israeliani” sia la prova di quella che sarebbe una democrazia vitale.

“Importanti dirigenti del governo israeliano” hanno rivolto “dichiarazioni incendiarie” contro i deputati palestinesi, afferma Amnesty, “intese a delegittimare loro e il loro lavoro”. Per aver osato criticare le politiche del governo, questi parlamentari hanno dovuto affrontare la richiesta che venissero “messi fuori legge” o processati per “tradimento”.

 

Mancanza di democrazia

Oltre a questi discorsi, leggi presentate da parlamentari palestinesi sono state bocciate su basi politiche. Secondo Amnesty, dal 2011 “la Knesset ha bocciato quattro leggi riguardanti diritti o rivendicazioni politiche dei palestinesi.”

Tra queste una legge proposta nel 2018 da deputati palestinesi in cui si dava una definizione di Israele come “un Paese per tutti i suoi cittadini”, a cui è stato impedito di “arrivare alla discussione parlamentare” sulla base del fatto che “avrebbe negato la definizione di Israele come Stato ebraico”.

“A giudizio di Amnesty International,” sostiene il rapporto, “la decisione ha discriminato i parlamentari palestinesi, a quanto pare sulla base della loro origine nazionale o etnica.”

In vista delle elezioni di questo mese, questo nuovo documento è un importante promemoria delle difficoltà che incontrano i deputati palestinesi – limitazioni che per alcuni cittadini palestinesi sono sufficientemente pesanti da rendere di per sé inutile o controproducente la partecipazione al sistema parlamentare.

Il nuovo rapporto è anche un’opportunità per una riflessione critica più generale sulle presunte credenziali democratiche di Israele. Oltre ai condizionamenti che i cittadini palestinesi devono affrontare nella Knesset, ci sono tre fattori chiave che indicano il deficit democratico di Israele.

 

Discorso divisivo

Il primo luogo c’è la discriminazione istituzionalizzata presente dal 1948. Come nota anche Amnesty, i cittadini palestinesi di Israele rappresentano circa il 20% della popolazione totale “e, come per ogni altro cittadino israeliano, i loro diritti alla partecipazione politica e ad essere rappresentati sono riconosciuti dalle leggi israeliane.”

Tuttavia, “le leggi israeliane consentono discriminazioni dirette o indirette contro i palestinesi ed altri cittadini non ebrei in molti ambiti, comprese la cittadinanza, la terra e la pianificazione territoriale, la casa, l’educazione e la salute.” Non certo la solida democrazia liberale che rivendicano gli apologeti di Israele.

Questa discriminazione, durata decenni, si è inasprita negli ultimi anni, in quanto le autorità israeliane hanno “incrementato i discorsi divisivi contro le minoranze e le comunità emarginate,” e “minacciato e calunniato i difensori palestinesi ed israeliani dei diritti umani.”

In secondo luogo, c’è il problema di chi è escluso dal voto. Mentre Israele esalta il fatto che i suoi cittadini palestinesi possono votare, nel corso di questo mese molti più palestinesi non saranno in grado di votare benché le loro vite siano controllate dallo Stato israeliano e dalle decisioni prese dalla Knesset.

Gli esclusi dal voto includono la grande maggioranza dei più di 300.000 palestinesi con residenza permanente, senza la cittadinanza, che vivono a Gerusalemme est, occupata ed illegalmente annessa.

Tuttavia questo numero è oscurato dai quasi cinque milioni di palestinesi che vivono nei territori palestinesi occupati, sottoposti negli ultimi 50 anni a un regime militare. In Cisgiordania i coloni israeliani che vivono nelle colonie illegali voteranno; i palestinesi nelle comunità limitrofe non lo potranno fare.

 

Disumanizzazione dei palestinesi

È importante ricordare anche i milioni di palestinesi al di fuori della Palestina storica, espulsi dalle proprie case dalle autorità israeliane nel 1948, e i loro discendenti. Le leggi israeliane li hanno privati della nazionalità, impedendo loro di tornare, e quindi hanno creato la maggioranza ebraica tra i cittadini israeliani.

In terzo e ultimo luogo, la mancanza di democrazia in Israele è evidenziata anche dal diffuso appoggio alla disumanizzazione dei palestinesi e dalla negazione dei loro diritti nelle tendenze politiche principali di Israele.

Indipendentemente dai risultati delle elezioni, il prossimo governo israeliano, come tutti quelli che l’hanno preceduto, non terrà in alcun conto le leggi internazionali, compresa la perpetrazione di crimini di guerra, e continuerà a violare i diritti fondamentali dei palestinesi.

È un consenso criminale condiviso sia dal Likud che dall’alleanza di opposizione “Blu e Bianco”.

Mettendo insieme tutto questo, con la discriminazione istituzionalizzata e il fatto che milioni di palestinesi non possano votare per il governo che controlla le loro vite, viene alla mente la citazione del deputato Ahmed Tibi, secondo cui Israele è “democratico verso gli ebrei, ed ebreo verso gli arabi.”

E per quanti sono impegnati a favore del principio di uguaglianza, ovviamente non la si può affatto definire una democrazia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi media, tra cui Middle East Monitor, Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian ed altri ancora.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Netanyahu e il fattore religioso

Come Netanyahu sta utilizzando la religione per modellare le elezioni israeliane

Fomentare controversie religiose fa sì che l’opposizione faccia quello che vuole il primo ministro

Shir Hever

2 settembre 2019 – Middle East Eye

 

Benché in Israele questioni relative all’imposizione alla popolazione nel suo complesso di leggi religiose siano sempre state parte del discorso politico, le elezioni del 17 settembre saranno le prime in cui esse figureranno al primo posto.

Come mai gli altri problemi – prima di tutto l’occupazione della Palestina – sono stati messi in secondo piano?

Avigdor Lieberman, una volta alleato di estrema destra di Benjamin Netanyahu, ha sparato il colpo d’inizio dopo le elezioni del 9 aprile, quando ha rifiutato di arrivare a un compromesso con i partiti ultraortodossi ed ha impedito a Netanyahu di formare un governo di coalizione. Lieberman ha lanciato una bomba evidenziando che l’alleanza decennale tra la destra religiosa e quella laica in Israele potrebbe essere arrivata al termine.

 

Grande clamore

Non sempre i partiti ultraortodossi sono stati alleati della destra, ma gli alloggi a buon mercato nelle colonie illegali in Cisgiordania li hanno attirati sempre più in quella direzione. La loro linea invalicabile, tuttavia, rimane l’insistenza sul fatto che gli studenti delle Yeshiva [scuole religiose, ndtr.] siano esentati dal servizio militare.

Nei mesi successivi alle ultime elezioni una serie di dichiarazioni di rabbini molto noti ha provocato clamore tra l’opinione pubblica laica. La città di Afula ha organizzato un evento con il pubblico separato per genere di cui si è dibattuto dal punto di vista giudiziario in vari tribunali. L’importante personaggio di destra e ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich ha chiesto l’imposizione della legge religiosa ebraica e il ministro dell’Educazione Rafi Peretz ha manifestato il suo sostegno per la “terapia della conversione” [che pretende di far diventare eterosessuali le persone LGBT, ndtr.].

Recentemente il giornalista Meron Rapoport ha scritto un interessante articolo in cui ha esaminato la prevalenza del dibattito religioso nell’attuale ciclo di elezioni. Egli ha notato che, poiché molti israeliani sentono che la questione palestinese non è più importante a causa della ridotta resistenza armata palestinese, si stanno interessando ad altre questioni controverse, e questo spostamento potrebbe implicare la caduta di Netanyahu, che non può più trarre vantaggio dalle sue credenziali relative alla sicurezza, ma deve tentare di ricostruire l’alleanza tra la destra religiosa e quella laica se avrà l’opportunità di vincere le elezioni.

Non sono d’accordo con questa affermazione. In primo luogo penso che gli israeliani siano più minacciati da proteste non violente che da quelle violente, e che le idee dell’opinione pubblica israeliana siano tutt’altro che pacate e accondiscendenti quando si tratta della resistenza dei palestinesi all’occupazione.

Le prime pagine dei giornali bombardano l’opinione pubblica con infiniti presagi di un disastro se dovesse scoppiare un’altra guerra con Gaza, o se il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) dovesse crescere con maggiore forza, o se l’Autorità Nazionale Palestinese dovesse collassare. Gli israeliani sono fin troppo consapevoli che non c’è più una maggioranza ebraica nelle zone sotto controllo israeliano.

Estendere l’occupazione

Tuttavia, tra Lieberman a destra e l’Unione Democratica a sinistra, nessun partito offre una soluzione pratica a queste minacce. I partiti di sinistra tendono a parlare della soluzione dei due Stati, ma borbottano sottovoce che alcune parti della Cisgiordania, e soprattutto Gerusalemme est, sarebbero annesse, precludendo quindi un accordo con i palestinesi. I partiti religiosi attendono un miracolo divino che garantisca la docilità dei palestinesi, e i partiti della destra laica nei loro progetti per estendere indefinitamente l’occupazione israeliana sostituiscono dio con il presidente USA Donald Trump.

In più, l’idea che Netanyahu rischi di perdere a causa del spostamento del dibattito sottostima il suo controllo sul sistema politico israeliano. Le elezioni di aprile hanno diviso i partiti israeliani sulla questione della corruzione. Può Netanyahu ricoprire la carica di primo ministro essendo accusato di corruzione? I partiti di opposizione non ne parlano più tanto, concentrandosi invece sulle libertà religiose.

Da più di un secolo nella classe media progressista e laica israeliana si è coltivato un forte sentimento antireligioso. I politici di opposizione hanno fatto definito “parassiti” gli ultra-ortodossi ed hanno evocato luoghi comuni antisemiti. Eppure queste opinioni sono sempre contraddittorie, in quanto è impossibile tracciare una linea tra essere contro la religione e l’antiebraismo, e non si può essere antiebraici e al contempo appoggiare uno Stato ebraico nel nome del sionismo.

Netanyahu sa che, aizzando gli animi sulla controversia religiosa, sta dettando l’agenda dell’ opposizione. Quando rabbini ortodossi fanno dichiarazioni di odio, come il rabbino Eli Sadan, che recentemente ha detto che “il laicismo è un coltello nella schiena della Nazione”, essi suscitano risposte provocatorie da parte dell’opposizione, obbligando i partiti ortodossi a stare nel campo di Netanyahu.

 

Mostrare un volto diverso

Nel contempo Netanyahu ha nominato un ministro della Giustizia apertamente gay, Amir Ohana, per dimostrare che il Likud non è uguale ai partiti religiosi della sua coalizione. Mentre il Likud sta mostrando un volto diverso, tenendo insieme misoginia e tolleranza, ortodossia e neoliberismo, i partiti di opposizione formano un tutt’uno con un ridotto gruppo di progressisti laici di classe media, per lo più ebrei ashkenaziti [cioè originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.], che sono favorevoli alla pace, ma al contempo molto militaristi.

Questo campo è diviso in tre gruppi politici: l’alleanza “Blu e Bianco”, il partito Laburista e l’ “Unione Democratica”. “Blu e Bianco”, come il Likud, concorda con la decisione di escludere la “Lista Unitaria”, che rappresenta gli elettori palestinesi.

Netanyahu sa che quasi sempre gli israeliani tendono a votare in base a modelli tribali. Gli ebrei ortodossi votano per partiti ortodossi, gli ashkenaziti di classe media di Tel Aviv votano per la sinistra, eccetera.

Sa anche che non c’è mai stata veramente una tribù “laica” in Israele. C’è una piccola tribù antireligiosa, ed anche molti che non si ostinerebbero a favore di una separazione tra Stato e chiesa, ma vorrebbero comunque poter andare a un concerto senza che la famiglia sia divisa per genere o usare il trasporto pubblico nei fine settimana. Questa distribuzione dei votanti garantisce in pratica che i laici di centro-sinistra non saranno in grado di formare un governo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever è un membro del direttivo di “Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East” [Voci Ebraiche per una Giusta Pace in Medio Oriente, organizzazione di ebrei contrari all’occupazione attiva in Germania, ndtr.].

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Laburismo israeliano e colonizzazione

Come il partito Laburista israeliano ha concepito le colonie ebraiche illegali in Palestina

 

Ramzy Baroud

24 agosto 2019  Middle East Monitor

 

 

Dopo la vittoria israeliana nella guerra del 1967 diventò impossibile per gli ideologi sionisti mascherare la vera natura del loro Stato: un regime colonialista inflessibile con un progetto espansionista.

Anche se il sionismo fu fin da principio un’impresa coloniale, molti sionisti rifiutarono di vedere se stessi come colonizzatori. I “sionisti culturali”, i “sionisti riformisti” e i “sionisti laburisti” sostenevano progetti politici simili a quelli dei “revisionisti” [la corrente sionista di destra, ndtr.] e di altre forme estreme di sionismo. Quando venne messa alla prova, la differenza tra il sionismo di sinistra e di destra dimostrò di essere una semplice semantica ideologica. Entrambi i gruppi lavorarono per mantenere la stessa dissonanza cognitiva: vittime alla ricerca di una patria e coloni con un progetto razzista e violento.

Questo paradigma intellettuale egoista è ancora in vigore oggi, più definito nei discorsi politici apparentemente conflittuali dei partiti di destra (Likud e altri partiti nazionalisti religiosi e di estrema destra) e di sinistra (laburista e altri) israeliani. Per i palestinesi, tuttavia, entrambe le correnti politiche sono due facce della stessa medaglia.

Dopo la decisiva vittoria israeliana nella guerra del giugno 1967, il nazionalismo ebraico acquisì un nuovo significato. Nacque l’“esercito invincibile” di Israele, e anche gli ebrei scettici cominciarono a vedere Israele come uno Stato vittorioso, che ora era una forza regionale, se non internazionale, di cui tener conto. Cosa altrettanto importante, furono i cosiddetti “progressisti di sinistra” israeliani e altri “sionisti moderati” che progettarono completamente il periodo più riprovevole della storia.

L’occupazione israeliana del Sinai, delle Alture del Golan, di Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza e la distruzione degli eserciti uniti di Egitto, Siria e Giordania entusiasmarono la maggioranza degli israeliani, spingendo molti a sviluppare una prospettiva imperialista e ad adottare totalmente un progetto colonialista, basato sulla convinzione che il loro esercito fosse il più forte in Medio Oriente. Gli stessi istinti espansionisti contribuirono a santificare il principio sionista secondo cui “non si sarebbe dovuto dividere mai più Eretz Israel [la Terra di Israele, ndtr.].”

Di fatto, come ha sostenuto il professor Ehud Sprinzak (citato nel libro di Nur Masalha “Imperial Israel and the Palestinians: The Politics of Expansion” [Israele imperialista e i palestinesi: la politica di espansione]), dopo la vittoria israeliana nel 1967, il concetto di espansione imperialista e il rifiuto della “divisione” di Eretz Israel si convertì in “un principio più vigoroso e influente nel sionismo moderno.” Indipendentemente dal fatto se Israele abbia anticipato del tutto questa espansione territoriale di massa o meno, il Paese sembrava deciso a rafforzare rapidamente le proprie conquiste, rifiutando qualunque richiesta di tornare alle linee dell’armistizio del 1949.

Benché gli ebrei religiosi fossero intossicati dall’idea che la zona biblica di “Giudea e Samaria” “ritornasse” ai suoi lontani proprietari, il primo movimento per capitalizzare le conquiste territoriali fu, di fatto, un’organizzazione laica d’élite chiamata “Movimento per Tutta la Terra di Israele” (WLIM).

La conferenza ufficiale di fondazione del WLIM si celebrò poco dopo la vittoria di Israele. Benché fosse stata fondata e dominata da attivisti del partito Laburista, il WLIM superò i confini del partito e le divisioni ideologiche, unite nella loro determinazione a conservare tutta la Palestina, come tutto Israele. In quanto alla popolazione indesiderata, quelli che non vennero espulsi dovevano essere assoggettati a dovere.

Mentre l’Egitto e altri Paesi arabi denunciavano la loro sfortunata guerra, la Palestina si occupò totalmente della prigionia dei palestinesi nella loro stessa terra. Proprio quando Israele celebrava la sua vittoria sugli eserciti arabi ufficiali, i soldati israeliani si riprendevano sorridenti mentre facevano il segno di vittoria presso il cosiddetto “Muro del Pianto”, così come nei luoghi santi della Gerusalemme araba. I palestinesi si prepararono al peggio.

Di fatto, come Baruch Kimmerling scrive nel suo libro “The Palestinian People: A History” [I Palestinesi: la genesi di un popolo, La Nuova Italia, 2002], “fu il momento nella storia palestinese più privo di speranza”, i rifugiati palestinesi che sognavano di tornare alla Palestina precedente al 1948 si scontrarono con una immane difficoltà, nei fatti una nuova Nakba, perché il problema dei rifugiati ora peggiorò e si aggravò a causa della guerra e della creazione di 400.000 nuovi rifugiati. Le ruspe israeliane si spostarono rapidamente in molte parti dei territori palestinesi appena conquistati, come fecero in altre terre arabe occupate, demolendo realtà storiche e costruendone di nuove, come fanno tuttora.

Poco dopo la guerra, Israele cercò di rafforzare la sua occupazione, in primo luogo rifiutando le proposte di pace presentate dal nuovo presidente egiziano, Anwar Sadat, a partire dal 1971, e in secondo luogo attivando la costruzione di colonie in Cisgiordania e a Gaza.

Le prime colonie avevano scopi militari e strategici, dato che l’intenzione era quella di creare fatti sul terreno tali da alterare la natura di un qualunque futuro accordo di pace; di lì il piano Allon, così chiamato da Yigal Allon, un ex ministro e generale del partito laburista nel governo israeliano, che si assunse il compito di delineare un progetto israeliano per i territori palestinesi appena conquistati.

Il piano intendeva annettere per “ragioni di sicurezza” il 30% della Cisgiordania e tutta Gaza. Stabilì la costituzione di un “corridoio di sicurezza” lungo il fiume Giordano, oltre alla “Linea verde”, una delimitazione israeliana unilaterale delle proprie frontiere con la Cisgiordania. Il piano prevedeva l’annessione della Striscia di Gaza a Israele e intendeva restituire parte della Cisgiordania alla Giordania come primo passo verso la messa in pratica dell’“opzione giordana” per i rifugiati palestinesi, cioè la pulizia etnica con la creazione di una “patria alternativa” per i palestinesi.

Il piano fallì, ma non del tutto. I nazionalisti palestinesi garantirono che mai si sarebbe realizzata una patria alternativa, ma la confisca, la pulizia etnica e l’annessione della terra occupata furono un successo totale. Ciò che fu altrettanto importante e coerente fu che il piano di Allon fornì un indicatore inequivocabile che il governo laburista di Israele aveva tutte le intenzioni di conservare almeno grandi aree della Cisgiordania e di tutta Gaza, e non intendeva rispettare la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite [risoluzione del 1967, che imponeva il ritiro dai territori occupati, ndt.].

Per approfittare dell’interesse politico della colonizzazione in Cisgiordania per il governo, un gruppo di ebrei religiosi affittò un hotel nella città palestinese di Hebron (Al-Khalil) per passare la festa di Pesach [la Pasqua ebraica, ndtr.] nella “Tomba dei patriarchi” e si rifiutò semplicemente di andarsene. Ciò provocò la passione per la Bibbia degli israeliani religiosi ortodossi in tutto il Paese, che si riferivano alla Cisgiordania con la sua denominazione biblica, Giudea e Samaria. Il loro movimento risvegliò anche le ire dei palestinesi, che videro con totale costernazione come la loro terra venisse conquistata, chiamata con un nuovo nome e poi colonizzata da stranieri.

Nel 1970, per “espandere” la situazione, il governo israeliano costruì la colonia di Kiryat Arba nella periferia della città araba, che attirò altri ebrei ortodossi a Hebron. Il piano Allon poteva essere stato ideato per obiettivi strategici, ma poco dopo ciò che era strategico e politico si confuse con quello che diventò religioso e spirituale.

In definitiva i palestinesi stavano perdendo molto velocemente la loro terra, un processo che avrebbe portato a un grande spostamento di popolazione israeliana, inizialmente a Gerusalemme est occupata – che venne annessa illegalmente poco dopo la guerra del 1967 – e alla fine nel resto dei territori occupati. Nel corso degli anni l’aumento delle colonie strategiche si unì all’espansione per ragioni religiose, promossa da un movimento vitale, esemplificato nella creazione di Gush Emunim (Blocco dei Fedeli [movimento dei coloni nazional-religiosi, ndtr.]) nel 1974. Il movimento era deciso a insediare in Cisgiordania legioni di fondamentalisti ebrei.

Il piano di Allon si estese anche fino ad includere Gaza e il Sinai. Allon desiderava creare una “striscia” di territori che avrebbe fatto da zona cuscinetto tra Egitto e Gaza. “Zona cuscinetto” fu, in questo contesto, un nome in codice per colonie ebraiche illegali e posti militari nell’estremo sud della Striscia di Gaza e in zone adiacenti del nord del Sinai, una regione che Israele denominò la “pianura di Rafiah”.

All’inizio del 1972 migliaia di uomini, donne e bambini, per lo più beduini palestinesi, vennero espulsi dalle loro case nel sud di Gaza. Nonostante vivessero nella zona da generazioni, la loro presenza era un ostacolo rispetto ad un piano dell’esercito israeliano che presto avrebbe inglobato la metà di Gaza. Furono evacuati senza che venisse loro permesso di portare via neppure i propri beni, per modesti che fossero. L’esercito israeliano affermò che nella zona la pulizia etnica venne messa in atto “solo” a danno di 4.950 persone. Ma i capi delle tribù affermarono che più di 20.000 abitanti vennero obbligati ad abbandonare le proprie case e terre.

Allon aveva conferito ad Ariel Sharon e ad altri comandanti militari l’incarico di dividere i territori da poco occupati in piccole regioni, tra le quali inserire colonie strategiche e basi militari per indebolire la resistenza locale e consolidare il controllo israeliano.

“(Sharon) racconta di essersi trovato in una duna (nei pressi di Gaza) con ministri del governo”, scrisse Gershom Gorenberg, “a spiegare che, insieme alle misure militari, per controllare la Striscia voleva “strisce” di colonie che dividessero le città tagliando la regione in quattro parti. Un’altra “striscia” avrebbe attraversato il confine del Sinai, contribuendo a creare una “zona neutrale ebraica tra Gaza e il Sinai per interrompere il flusso di armi e dividere le due regioni, nel caso in cui il resto del Sinai fosse tornato all’Egitto.”

Il resto è storia. Benché negli ultimi giorni la presenza demografica dei coloni si sia spostata in larga misura verso destra e la loro influenza politica sia aumentata esponenzialmente a Tel Aviv, questi coloni, che ora rappresentano circa 600.000 persone che vivono in più di 200 insediamenti, sono l’orribile creazione della “sinistra” israeliana con il totale sostegno e appoggio della destra, tutti al servizio della causa originaria del sionismo, che è rimasto fedele ai principi fondativi: un movimento colonialista sostenibile solo con la violenza e la pulizia etnica.

 

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

 

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 




Gaza sul punto di esplodere

“Sul punto di esplodere”: cosa c’è dietro gli attacchi alla frontiera di Gaza?

I recenti attacchi isolati di combattenti palestinesi indicano che la posizione di Hamas come partito al potere a Gaza è minacciata?

 

Di Motasem A Dalloul

GAZA, giovedì 29 agosto 2019 – Middle East Eye

 

Questo mese è stato letale nella Striscia di Gaza assediata. Dopo il primo agosto alcuni palestinesi hanno condotto una serie di attacchi contro le forze israeliane schierate lungo la barriera di separazione tra l’enclave palestinese e Israele.

Sono stati uccisi nove palestinesi apparentemente coinvolti in questi attacchi, mentre due soldati e un comandante israeliani sono rimasti feriti.

Giovedì scorso, come rappresaglia dopo lanci di razzi dal territorio palestinese durante la notte, aerei israeliani hanno colpito varie basi di Hamas nella Striscia di Gaza. Nessuno dei razzi o attacchi ha fatto vittime.

Questo picco di operazioni condotte da palestinesi che, anche se membri di fazioni della resistenza armata, avrebbero agito in modo indipendente, ha suscitato una serie di congetture, in particolare nei media israeliani, dove alcuni commentatori si sono chiesti se Hamas abbia perso il controllo della situazione a Gaza.

Anche se il portavoce di Hamas Hazem Qassim ha dichiarato a Middle East Eye che la situazione a Gaza è “sotto controllo”, egli ha avvertito che il piccolo territorio sotto assedio è “come un vulcano sul punto di esplodere di fronte all’occupazione israeliana.”

 

Congetture mediatiche

Almeno nove palestinesi uccisi nel corso di tre attacchi perpetrati questo mese erano affiliati a gruppi della resistenza palestinese, soprattutto al braccio armato di Hamas, le brigate Al-Qassam, ma hanno agito a titolo personale.

É sulla bocca di tutti La possibilità che Hamas perda il controllo di Gaza – dove è il principale attore politico e militare tredici anni dopo la sua vittoria alle elezioni legislative nel contesto della lotta per il potere con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) basata in Cisgiordania e di fronte a un devastante assedio diretto da Israele.

Per alcuni osservatori, vari scenari potrebbero vedere Hamas perdere la presa su Gaza: un’offensiva militare israeliana che porti a una nuova occupazione dell’enclave costiera con la presenza al suo interno di soldati israeliani; la presa del potere a Gaza da parte dell’ANP grazie a un intervento israeliano o a un progresso senza precedenti dei negoziati sull’unità palestinese,  in stallo da molto tempo; infine, una pressione simultanea della popolazione e delle fazioni contro Hamas, che potrebbe comportare un imprevedibile vuoto di potere a Gaza.

Per gli organi di stampa israeliani il fatto che a quanto pare le recenti operazioni siano avvenute all’insaputa di Hamas e senza la sua approvazione avrebbe messo il gruppo della resistenza di fronte a un “dilemma”, intrappolato tra le responsabilità in quanto partito al potere – che è in particolare l’interlocutore politico in ogni tentativo di tregua – e la sua missione di resistenza contro l’occupazione.

Il giornalista di “Maariv” [giornale israeliano indipendente, ndtr.] Jacky Hugi, per esempio, ha dichiarato alla radio dell’esercito che Hamas si è messo in una situazione delicata a causa di “promesse irrealistiche” riguardanti l’alleggerimento dell’assedio israeliano contro Gaza.

A maggio Israele e Hamas hanno concluso un accordo di tregua che stabiliva che Israele avrebbe ampliato la zona di pesca definita per Gaza a 15 miglia marine; avrebbe attivato i programmi “denaro contro lavoro” dell’ONU; avrebbe permesso ai farmaci e ad altri ausili civili di entrare nell’enclave assediata; avrebbe avviato discussioni indirette sulle questioni relative all’elettricità, al passaggio delle frontiere, alle cure mediche e ai finanziamenti del Qatar a Gaza.

In cambio Hamas ha accettato di controllare la “Grande Marcia del Ritorno” – un movimento di protesta popolare che dal marzo 2018 si presenta sotto forma di manifestazioni lungo la barriera di separazione tra Gaza e Israele per chiedere la fine dell’assedio e la messa in pratica del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Nel quadro della tregua, Hamas ha accettato di sorvegliare le manifestazioni per garantire che i manifestanti restino all’interno della zona cuscinetto di 300 m. nei pressi della barriera, cessino di lanciare aquiloni incendiari e interrompano ogni manifestazione sul mare.

In Israele membri dell’esercito e dell’opposizione accusano il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di aver perso la forza di dissuasione contro Gaza e chiedono una grande offensiva nella fascia costiera per interrompere gli intermittenti lanci di razzi e i tentativi di infiltrazione. Ma Netanyahu e il suo partito al potere, il Likud, sembrano in apparenza più esitanti a promuovere una guerra a poche settimane dalle elezioni legislative.

Jacky Hugi sostiene che i militanti del gruppo della resistenza palestinese non hanno constatato nessun miglioramento sul terreno dopo l’accordo di tregua e si starebbero quindi rivoltando contro Hamas.

Di fatto tra molti palestinesi di Gaza cresce il malcontento per la mancata applicazione dell’accordo da parte di Israele. La folta presenza durante i recenti funerali di tre combattenti palestinesi uccisi sembra confermare che Hamas ha perso in certa misura il sostegno popolare nel territorio assediato.

 

Guerra di propaganda

Invece per il portavoce di Hamas Hazem Qassim il discorso ripetuto dai media israeliani nel corso dello scorso mese relativo alla perdita di popolarità di Hamas a Gaza è grossolanamente esagerato.

Secondo lui, i media israeliani “sottolineano problemi che non sono reali o non hanno niente a che vedere con i problemi sul terreno per coprire i crimini israeliani commessi contro i luoghi santi palestinesi.”

Per l’esperto giornalista palestinese Mustafa al-Sawwaf le affermazioni secondo cui Hamas avrebbe perso il controllo della Striscia di Gaza sono inverosimili, dato il “forte coordinamento” delle diverse fazioni palestinesi.

“Il consenso e l’unità delle fazioni della resistenza palestinese attraverso la centrale operativa comune impedisce ogni scontro imprevisto con l’occupante israeliano,” ha dichiarato a MEE.

Di conseguenza secondo Sawwaf i gruppi della resistenza potrebbero aver “dato il proprio consenso” ai recenti attacchi realizzati da combattenti isolati per “inviare un vero messaggio all’occupazione israeliana sul fatto che il ritardo riguardante la messa in pratica dei termini della tregua potrebbe avere conseguenze pericolose”, compresa una guerra, suggerisce.

Mentre Qassim sottolinea che i recenti attacchi sono stati perpetrati da individui con mezzi propri, riconosce che la maggior parte dei combattenti uccisi durante questi attacchi facevano parte del braccio militare del suo movimento.

Anche Hussam al-Dajani, analista politico palestinese e professore associato all’università al-Ummah a Gaza, rifiuta l’idea secondo la quale Hamas avrebbe perso il controllo dell’enclave. Dice però a MEE che da molto tempo tra le ali militari delle fazioni palestinesi regna lo scontento riguardo agli “sforzi profusi a Gaza e in Cisgiordania dai settori politici.”

La sensazione che Hamas abbia fallito nel far terminare l’assedio israeliano e nel proteggere la popolazione dalle misure punitive adottate dall’ANP ha sicuramente deluso molti gazawi, tra cui alcuni si sono detti irritati dalla sua cattiva amministrazione.

“Siamo furiosi contro Israele a causa dell’assedio imposto a Gaza, ma anche Hamas e l’ANP sono da biasimare per questa divisione interna che permette ad Israele di rafforzare la sua aggressione contro di noi e al mondo di continuare ad ignorarci,” dichiara a MEE Said, un medico di 33 anni.

“Noi pensiamo che Hamas, che abbiamo eletto, salvaguardi i principi palestinesi, ma, al contempo, dovrebbe essere pragmatica e trattare con Israele (…) almeno per migliorare le condizioni di vita dei gazawi,” aggiunge.

“Se non riesce a farlo, allora dovrebbe farsi da parte.”

Dajani insiste sul fatto che la responsabilità di Israele di fronte alla situazione economica, sociale e umanitaria sul terreno a Gaza –dodici anni di blocco e tre guerre dalla sua messa in pratica – resta la causa principale della collera tra i civili palestinesi e le fazioni armate.

Le violazioni del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo da parte di Israele nei territori palestinesi occupati, aggiunge Dajani, hanno trasformato Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est in una “pentola che ribolle” e minaccia di traboccare in qualunque momento.

Anche Khalid, insegnante gazawi di 37 anni, è dello stesso parere.

“Siamo furiosi contro l’occupazione israeliana che impone un assedio a Gaza da più di 10 anni,” dichiara a MEE. “Hamas non è da condannare per questa situazione perché ha le mani legate dall’Autorità Nazionale Palestinese, dagli Stati arabi e dalla comunità internazionale.”

 

“Mediatori deboli”

In un contesto di persistenti tensioni e di minacce di conflitto aperto, Hazem Qassim ammette che l’Egitto e l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente Nikolai Mladenov hanno giocato un ruolo importante nel contribuire alla distensione della situazione a Gaza, soprattutto con l’ultimo accordo di tregua.

Sottolineando l’importanza di avere dei mediatori presso tutte le fazioni palestinesi, il portavoce di Hamas richiama l’attenzione sul fatto che, rispetto alle altre fazioni palestinesi, il movimento “ha le proprie linee guida riguardo alla gestione della situazione e alla direzione della resistenza palestinese”.

Da parte sua Mustafa al-Sawwaf insiste sul fatto che tuttavia il ruolo importante della mediazione è “squilibrato” – sostenendo che, mentre sui palestinesi vengono esercitate pressioni, i mediatori “quando vanno a Tel Aviv stanno zitti.”

Anche Hussam al-Dajani imputa il peggioramento della situazione a Gaza e nelle altre regioni dei territori palestinesi all’inazione della comunità internazionale. Teme che Hamas perda realmente il controllo di Gaza a causa delle “continue violazioni israeliane” che provocano solo un “timido biasimo a livello internazionale”.

Egli esorta Israele a togliere l’assedio a Gaza e chiede alla comunità internazionale di giocare un “ruolo più positivo” per mantenere la calma – per esempio, adottando una posizione più ferma contro le violazioni israeliane a Gaza.

“Ciò migliorerebbe la posizione di Hamas riguardo alla sua stessa popolazione e le consentirebbe di avere più potere per mantenere la Striscia di Gaza sotto controllo,” ritiene l’analista.

 

 

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)