Ricordare il “disimpegno” di Israele da Gaza

Rebecca Stead

15 agosto 2019 – Middle East Monitor

Cosa: Israele smantellò le sue colonie nella Striscia di Gaza, ritirando tutti i coloni e le truppe di terra dall’enclave.

Dove: Nella Striscia di Gaza, Palestina occupata.

Quando: Il 15 agosto 2005

Cos’è successo?

Il 15 agosto 2005 Israele iniziò il suo disimpegno dalla Striscia di Gaza, che aveva occupato dalla guerra dei Sei Giorni del 1967. Nel corso di 38 anni Israele aveva creato circa 21 colonie nell’enclave costiera e trasferito nel territorio circa 9.000 coloni, in violazione delle leggi internazionali.

Di fronte a costi in vertiginosa ascesa per l’amministrazione del territorio, Israele decise di far uscire dalla Striscia le sue forze armate e i coloni illegali. Mentre le telecamere di tutto il mondo li riprendevano, i coloni che non volevano andarsene vennero portati via a forza dalle proprie case, un momento perfetto di propaganda che dimostrava la “volontà” di Israele di ritirarsi dai territori occupati nel tentativo di “riannodare” il processo di pace.

Quattordici anni dopo Israele non si è in realtà disimpegnato da Gaza: conserva il controllo dei suoi confini terrestri, dell’accesso al mare a allo spazio aereo. La popolazione di 1,9 milioni di Gaza rimane sottoposta a un’occupazione a “controllo remoto” e a un rigido assedio, che ha distrutto l’economia locale e soffocato l’esistenza dei palestinesi.

Il grande piano di Sharon

Benché il disimpegno sia iniziato nel 2005, la politica era già in atto da tempo. Nel mezzo della Seconda Intifada – una rivolta popolare nei territori palestinesi che ebbe luogo tra il settembre del 2000 e gli inizi del 2005 – l’allora primo ministro Ariel Sharon propose il disimpegno dalla Striscia di Gaza.

Prima delle elezioni israeliane del 2003, Sharon aveva manifestato il proprio appoggio alla continuazione della colonizzazione del suo Paese nella Striscia, affermando che “il destino di Tel Aviv è quello di Netzarim”, una colonia nel sud della Striscia di Gaza. Eppure dopo la sua elezione Sharon sembrò aver cambiato parere, spiegando nel dicembre di quell’anno che “l’obiettivo del piano di disimpegno è ridurre il più possibile il terrorismo e garantire ai cittadini israeliani il massimo livello di sicurezza.”

Proseguì: “Il processo di disimpegno porterà a un miglioramento della qualità di vita (degli israeliani), aiuterà a rafforzare l’economia israeliana, (…) incrementerà la sicurezza degli abitanti di Israele e ridurrà la pressione sulle IDF (Forze di Difesa Israeliane) e sulle forze di sicurezza.”

In una lettera dell’aprile 2004 all’allora presidente USA George Bush, Sharon sottolineò la sua visione del disimpegno, proponendo che Israele “trasferisse le installazioni militari e tutti i villaggi e cittadine israeliane dalla Striscia di Gaza.” Il piano includeva l’eliminazione di quattro colonie illegali dalla Cisgiordania settentrionale.

Nell’ottobre di quell’anno, la Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] approvò in via preliminare alla proposta di Sharon. Uno dei più accesi critici fu il ministro degli Affari Esteri Benjamin Netanyahu, che minacciò di dimettersi dal governo salvo che Sharon non avesse sottoposto il progetto a un referendum. Alla fine fece marcia indietro, citando la “nuova situazione” presentata dalla prevista dipartita del leader palestinese di lungo corso Yasser Arafat, che morì l’11 novembre 2004.

Nel febbraio 2005 il piano di disimpegno venne approvato ufficialmente dalla Knesset, mentre in marzo ai cittadini israeliani che non vivessero già nella Striscia di Gaza venne vietato di insediarsi nel territorio. La scena era pronta.

Luci, motore, azione

Il 15 agosto Israele iniziò a realizzare il disimpegno. Gush Katif – un blocco di colonie nel sud della Striscia – venne dichiarato zona militare chiusa e il valico di Kissufim, la principale arteria che collegava la colonia a Israele, venne chiuso.

Alle 8 ora locale (le 5 ora di Greenwich) forze israeliane entrarono a Gush Katif, andando di casa in casa con l’ordine che i coloni se ne dovevano andare. Alcuni accettarono di farlo in modo pacifico, essendogli stato offerto un pacchetto di misure di indennizzo fino a 500.000 dollari. Altri si rifiutarono di andarsene, obbligando l’esercito israeliano a portarli via con la forza dalle loro colonie.

Immagini di coloni portati via a calci dalle loro abitazioni e che gridavano vennero diffuse in tutto il mondo. Alcuni bambini dei coloni lasciarono le proprie case con le mani in alto, con stelle di David gialle simili a quelle che contraddistinguevano gli ebrei durante l’Olocausto. Questi “fiumi di lamenti” vennero descritti dalla stampa israeliana come “kitsch” e “squallidi”, mentre molti israeliani criticarono duramente l’invocazione dell’Olocausto da parte dei coloni.

Come notò Donald Macintyre – l’ex capo dell’ufficio dell’“Independent” [giornale britannico di centro sinistra, ndtr.] a Gerusalemme – nel suo libro “Gaza: preparandosi all’alba”: “C’era qualcosa di teatrale in questo congedo forzoso – e in tutto il ritiro israeliano da Gaza.”

Il 22 agosto l’evacuazione era stata in buona misura completata. Le forze israeliane distrussero con i bulldozer migliaia di case, edifici pubblici e luoghi di culto; persino i cadaveri nei cimiteri ebraici vennero esumati e sepolti di nuovo in Israele.

La maggior parte dell’apparato militare israeliano venne rimosso e il 21 settembre il governo dichiarò che la Striscia di Gaza era territorio extragiudiziale e designò i valichi nell’enclave come confini internazionali che richiedevano documenti di viaggio.

Nei giorni seguenti i palestinesi camminarono per le vie delle colonie ora abbandonate che erano state loro vietate per decenni. I bambini raccolsero palloni e giocattoli lasciati dai bambini israeliani per portarli a casa ai propri fratelli. Alcuni erano felici che l’occupazione se ne fosse andata, mentre altri corsero al mare che prima non potevano raggiungere. I festeggiamenti non sarebbero durati a lungo.

Come evidenziò Macintyre, benché il disimpegno “rappresentasse certamente un precedente storico, il paradosso era che segnava anche l’inizio di un decennale e opprimente blocco economico di Gaza e di tre attacchi militari da parte di Israele più devastanti di ogni altro nella turbolenta storia del territorio.”

Forse i semi di quello che stava per avvenire erano stati seminati nel settembre 2005. Meno di una settimana dopo che Israele aveva dichiarato Gaza territorio extragiudiziale, aerei da guerra israeliani bombardarono la Striscia, uccidendo parecchi palestinesi, tra cui il comandante della Jihad islamica Mohammed Khalil. Gli attacchi israeliani colpirono anche una scuola e altri edifici che [Israele] sosteneva fossero stati usati per costruire razzi.

La narrazione di Israele riguardo al disimpegno sostiene che, in seguito alla sua decisione di lasciare la Striscia, ai palestinesi era stata offerta una grande opportunità di diventare economicamente prosperi. Questa narrazione spesso ricorda le serre lasciate dai coloni che, a quanto si dice, vennero immediatamente distrutte dai palestinesi con un caratteristico delirio di imprevidenza.

Tuttavia, anche se qualche serra venne depredata di alcune parti, esse rimasero in grande misura intatte. Il raccolto di novembre rese un valore di 20 milioni di dollari in frutta e verdure pronte da esportare in Europa e altrove, molte delle quali marcirono per il caldo autunnale in quanto rimasero in attesa dei controlli di sicurezza al valico di confine di Karni. Secondo stime dell’ONU, solo il 4% del raccolto stagionale venne esportato.

Occupazione a controllo remoto

Nel gennaio 2006 nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania occupata si tennero le elezioni per il consiglio legislativo palestinese (CLP). Hamas, all’epoca un movimento popolare palestinese, vinse 74 dei 132 seggi, battendo tra i più votati Fatah – che aveva dominato la politica palestinese per decenni. Ismail Haniyeh, del movimento islamico, venne eletto primo ministro dell’ANP.

A febbraio Israele sospese il trasferimento dei dazi doganali all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), imponendo limitazioni agli spostamenti dei membri di Hamas a Gaza. Dopo che Fatah rifiutò di collaborare con il governo guidato da Hamas – e una fazione all’interno di Fatah venne sostenuta da Israele e dagli USA per fare un colpo di stato contro Hamas – ne seguì una guerra civile di fatto, che portò a una definitiva divisione del governo nel giugno 2007 e al consolidamento del potere di Hamas nella Striscia, con Fatah che continuò a governare a Ramallah sotto Mahmoud Abbas. La fine del 2007 vide Israele chiudere totalmente i confini di Gaza, sottoponendola a un duro assedio che continua fino ad oggi.

Nel corso dell’assedio, arrivato ormai ai 12 anni, Israele ha continuato a strangolare Gaza a distanza. Dopo tre pesanti offensive militari israeliane – in cui sono stati uccisi circa 4.000 palestinesi – e innumerevoli attacchi aerei, le infrastrutture e il sistema sanitario della Striscia sono a pezzi. Circa il 54% della popolazione di Gaza ora è disoccupata, mentre il 53% vive al di sotto della soglia ufficiale di povertà di 2 dollari al giorno.

Invivibile”, “prigione a cielo aperto” e occupazione “a controllo remoto” sono diventati luoghi comuni quando si descrive oggi l’enclave costiera. Gaza rimane un territorio occupato, senza controllo sui suoi confini, sulle acque del territorio o sullo spazio aereo. Nel contempo Israele rispetta ben poche delle sue responsabilità in quanto potere occupante, non provvedendo alle necessità fondamentali dei civili palestinesi che vivono nel territorio.

In Israele il disimpegno viene generalmente visto come un errore, non a causa delle misere condizioni umanitarie che colpiscono i palestinesi in conseguenza di ciò, ma perché non ha portato alcun “vantaggio per la sicurezza o diplomatico” a Israele.

Oggi importanti personalità del sistema politico israeliano, compresa la ministra della Cultura Miri Regev e il presidente della Knesset Yuli Edelstein, hanno manifestato pentimento per il disimpegno di Israele da Gaza. Politici di destra come la leader di “Yemina”, Ayelet Shaked, e il ministro dei Trasporti Bezalel Smotrich hanno chiesto l’annullamento del disimpegno e la ricostruzione delle colonie israeliane illegali là.

Nella corsa alle elezioni politiche israeliane del settembre 2019, le seconde quest’anno, il reinsediamento nella Striscia di Gaza è stato propagandato da quei ministri di destra come modo per rimediare all’errore storico di Sharon. Con gli stessi politici che invocano attivamente l’annessione dell’Area C della Cisgiordania a Israele, il prossimo mandato della Knesset potrebbe vedere Israele ri-colonizzare la Striscia di Gaza e porre ancora una volta la popolazione palestinese sotto diretto potere militare [israeliano].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Palestina occupata. Passate la notte in una colonia!

Anna Mutelet e Annabelle Martella

14 agosto 2019 – Orient XXI

Accogliere il turista di passaggio è una pratica sempre più diffusa tra i coloni israeliani. Ma dietro all’ospitalità si nasconde un obiettivo politico: migliorare l’immagine delle colonie e dell’occupazione.

Montagna tranquilla, ancora un po’ selvaggia, coperta di verde e di fiori sbocciati al sole, il monte Gerizim ha tutto della meta sognata per un “couchsurfer” [letteralmente ‘surfista del divano’, termine inglese che indica un ospite che a titolo gratuito viene sistemato a dormire su un sofà, ndtr.], Ophir ne è convinto. “Guardate un po’ che vista!” Un “vero regalo” con il quale è fiero di poter sorprendere gli invitati fugaci che si succedono da circa un anno nel suo salotto di Har Brakha.

Riguardo all’atmosfera, il suo profilo sul sito di alloggi gratuiti couchsurfing. com sembra predisporre il contesto: Pink Floyd, spiritualità e natura. Ma quello che Ophir non specifica è che Har Brakha (in ebraico “monte della benedizione”) è una colonia israeliana situata in terra palestinese, nel nord della Cisgiordania. Un territorio illegale agli occhi del diritto internazionale.

Peraltro non è il caso di vedervi un tentativo di dissimulazione, perché come tutti i coloni della sua generazione Ophir ha fatto la scelta di vivere qui come risultato di un “sogno di bambino” e della ricerca di “questa terra di Samaria, promessa agli ebrei nella Bibbia”. Perché precisare una cosa che si giudica così naturale? Al contrario, è un progetto molto particolare che l’ha spinto ad iscriversi come ospite su “Couchsurfing”: “Ho un messaggio da trasmettere al mondo: mostrare che qui tutto va bene, viviamo in pace.”

Vacanze di sogno ai piedi delle vigne

A prima vista a Har Brakha, abbarbicata a 880 metri d’altezza dietro a una barriera di sicurezza, la vita è prospera. Nella colonia il tempo sembra fermarsi.

Sulle strade ci sono poche macchine, ma molti bambini che camminano soli all’uscita da scuola. Si è ben lontani dall’agitazione di Nablus, polverosa e caotica, situata a valle e bastione della Seconda Intifada palestinese (2000-2006). Ophir vaga per la montagna e le sue vigne che si estendono a perdita d’occhio. Una parte di esse viene coltivata dai cristiani evangelici che si sono aggiunti agli ebrei di Har Brakha.

Negli Stati Uniti mio padre coltivava patate. Un giorno ha scoperto che nella Bibbia non si coltivavano patate, ma semmai vigne. Ed è venuto ad abitare qui,” spiega Nate, che parla di qui come “Israele”.

Nelle strade della colonia e in mezzo ai tralci delle vigne è difficile capire che Har Brakha ha preso forma al di là della “Linea Verde” – i confini dello Stato ebraico suggellati nel 1949. Unico segno della storia, un posto di guardia militare che testimonia della presenza dell’esercito su queste terre nel 1982, prima di lasciar posto ai primi membri della comunità religiosa.

Circa 2.000 persone vivono oggi a Har Brakha. Nella Cisgiordania occupata dopo gli anni ’90 il numero dei coloni è triplicato, per raggiungere i 420.000 abitanti, senza considerare Gerusalemme est.

Ma non è questa storia profana che Ophir vuole raccontare ai suoi ospiti. Questa guida turistica professionista confida nel suo metodo e nella sua narrazione: “Le persone vengono, ci si diverte, si beve del vino, gli faccio incontrare degli abitanti della regione, e qui possono sperimentare la pace.”

Sì, è legale”

Se ci si basa sui commenti lasciati su couchsurfing.com, è una ricetta che funziona. “Ho imparato molto durante questo soggiorno, ci penserò sicuramente per molto tempo,” oppure: “Sono contento che tu faccia vedere cos’è la vita nelle colonie”. Cisco, che non aveva mai visitato una colonia, una volta tornato in Romania ne conclude: “Ciò consente di avere una vita semplice in famiglia. Onestamente, non si può chiedere di meglio.”

A un centinaio di chilometri a sud nella colonia di Kfar Adumim, Yonadav, 18 anni, quest’estate ha iscritto la sua famiglia su couchsurfing.com. Come Ophir, la sua abitazione seduce molti viaggiatori. Alle porte del deserto, vicino a Gerusalemme, anche questo luogo ha una dimensione biblica.

Più che la pace, sono le loro voci che Yonadav e la sua famiglia vogliono far sentire: “La maggior parte del tempo le persone non conoscono che una sola storia, e hanno una cattiva immagine di Israele.” Anche se non è la motivazione all’origine del fatto di mettere a disposizione la loro casa ai “couchsurfer”, “ciò ci permette di dare quest’altra versione, soprattutto a quelli che hanno viaggiato nei territori palestinesi”, riconosce il liceale, che non ha mai lasciato il suo Paese. Questa versione è lunga una riga, la prima della sua descrizione: “Vivo in una colonia, non è pericoloso, e sì, è legale”. Insomma, fedele alla dottrina del governo. Del resto Yonadav ha aggiornato il suo profilo poco più di un mese fa, dopo la visita di due ospiti che pensavano che abitasse in un villaggio arabo.

Un’esperienza buffa, che deriva dai riferimenti ambigui proposti dalla piattaforma “Couchsurfing”. Quando si digita “Cisgiordania” nella barra di ricerca, gli annunci che vengono visualizzati includono a casaccio ospiti palestinesi o coloni, senza specificazioni relative a chi risiede in una colonia. Stesso risultato se si cerca “Giudea e Samaria”, termini di origine biblica che corrispondono alla denominazione amministrativa utilizzata dalle autorità israeliane per definire le zone a maggioranza ebraica che si trovano in Cisgiordania, a parte Gerusalemme est. A causa di questi riferimenti schizofrenici e a meno di spulciare i 23.864 annunci, impossibile ottenere la cifra totale delle sistemazioni relative alle colonie.

Per avere un ordine di idee che si avvicini al massimo alla realtà, è possibile non far apparire altro che ospitanti che indichino di parlare ebraico, prendendo in considerazione delle zone geografiche sufficientemente lontane per evitare che i risultati si sommino. Così si trovano 47 persone ospitanti ad Ariel, 323 a Modin Illit, o ancora 518 a Alfei Menashe. Quanto alle Alture del Golan, che fanno parte dei territori occupati da Israele contemplati nella risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, se ne trovano 231.

Presi di mira da Amnesty International

Ma queste risoluzioni e altre critiche internazionali che fanno delle colonie uno degli ostacoli principali alla soluzione del conflitto israelo-palestinese non sembrano influenzare le esperienze dei viaggiatori. Sui profili di Ophir, di Yonadav e di molti altri, i commenti vantano il loro senso di ospitalità, le loro virtù culinarie, o la bellezza dei luoghi. Scoprire che nelle colonie si fa del “couchsurfing” come ovunque altrove. “Tutti se ne fregano! assicura Ophir. “Si beve del vino, il paesaggio è gradevole. È tutto quello che interessa. La sua unica esperienza negativa non è andata oltre lo stadio virtuale. “Non è mai venuta, perché quando ha capito che era qui, nella cosiddetta ‘Cisgiordania’, mi ha scritto che a Ginevra dicono ‘così e cosà’, e che quello che fate è male. Ride. “Le ho detto: va bene, a Ginevra dicono così, ma c’è dio. E io scelgo dio.

Peraltro il turismo nelle colonie può essere un turismo qualunque? Per Amnesty International e per molte altre Ong la risposta è no. In un rapporto al vetriolo pubblicato lo scorso gennaio l’organizzazione per la difesa dei diritti umani prende di mira le attività di Booking.com, Airbnb, Expedia e TripAdvisor per le loro offerte nelle colonie, accusate di contribuire “alla conservazione, allo sviluppo e all’estensione delle colonie di popolamento illegale, che costituiscono dei crimini di guerra in base al diritto penale internazionale, traendone profitto. In sostanza, queste compagnie sono accusate di normalizzare la situazione. In novembre Airbnb ha ritirato tutte le sue offerte di affitto nella Cisgiordania occupata, prima di cambiare idea in aprile e di riproporne circa 200, minacciata di denuncia in Israele come negli Stati Uniti. Ormai, garantisce la compagnia, “Airbnb non ricaverà nessun profitto dall’attività nella regione.”

La piattaforma “Couchsurfing”, che ha superato il livello di 4 milioni di utenti, fornisce un servizio gratuito, tranne che per i membri cosiddetti “verificati”, che pagano una cifra fissa al sito e di cui fanno parte un certo numero di coloni. Senza contare che nessun avvertimento compare sulle pagine delle sistemazioni in zona occupata.

Il turismo nelle colonie costituisce una questione strategica per Israele, che d’altronde nel 2018 ha raggiunto il suo record complessivo di visitatori con quasi 4 milioni di viaggiatori. A colpi di sovvenzioni, finanziamenti dei programmi o statuti speciali, negli ultimi anni il governo ha massicciamente investito in Cisgiordania. Ultimo aiutino a metà maggio: lo Stato promette fino al 20% di sovvenzioni agli imprenditori che vogliano costruire o ingrandire i propri hotel in “Giudea e Samaria”. Sul “Jerusalem Post” il sindaco di Efrat si è rallegrato di questa misura: “I turisti sono i migliori ambasciatori nella promozione del sionismo e nella lotta contro il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).” L’obiettivo: “Vedranno così che non c’è una guerra quotidiana e che non c’è apartheid.” Come su “Couchsurfing”?

Anna Mutelet

Giornalista.

Annabelle Martella

Giornalista.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dalle ondate di caldo all’ “apartheid ecologico”: cambiamento climatico in Israele-Palestina

Matan Kaminer, Basma Fahoum ed Edo Konrad

8 agosto 2019 – +972

Mentre il nascente movimento per la giustizia climatica in Israele cerca di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, i palestinesi sotto occupazione rimangono estremamente vulnerabili ai pericolosi effetti del cambiamento climatico. Tuttavia, a causa dello squilibrio di potere esistente, lavorare insieme per combatterlo sembra quasi impossibile.

Secondo i ricercatori del clima europei, il luglio 2019 è stato il mese più caldo mai registrato. Dopo solo un anno da quando la Commissione Intergovernativa sul Cambiamento Climatico dell’ONU ha reso pubblico il suo storico rapporto che mette in guardia su un’imminente catastrofe climatica, le temperature sono vertiginosamente aumentate in luoghi come Alaska e Svezia, sono state ridotte in cenere foreste in Siberia, si sono sciolti ghiacciai in Groenlandia e intere città sono rimaste senz’acqua in India.

Di fronte a un aumento delle temperature, affrontare la crisi climatica e i suoi effetti sugli esseri umani è diventato un problema cruciale per governi, politici e movimenti per la giustizia sociale in tutto il mondo. Si prevede che Israele-Palestina, situati in una delle regioni più calde del globo, vedranno un aumento delle temperature a un ritmo ancora più veloce.

Sondaggi effettuali tra gli israeliani mostrano una notevole indifferenza nei confronti dell’imminente crisi, il che significa che il governo israeliano deve affrontare una scarsa pressione popolare riguardo al problema. Non sono state fatte ricerche simili nei territori palestinesi occupati, ma la continua occupazione della Cisgiordania e l’assedio di Gaza accentuano il rischio di una catastrofe climatica per i palestinesi e al contempo rendono in pratica impossibile per il loro governo fare qualcosa al riguardo.

Alla fine dello scorso anno un gruppo di ricercatori israeliani ha pubblicato la prima previsione su quello che il cambiamento climatico potrebbe significare per Israele-Palestina. I risultati sono stati terrificanti: rispetto al periodo di riferimento 1981-2010, si prevede che il lasso di tempo di 30 anni che inizierà nel 2041 vedrà temperature medie in aumento di 2,5° e una riduzione delle precipitazioni fino al 40% nelle zone non aride del Paese.

Secondo uno dei ricercatori, la professoressa Hadas Saaroni dell’università di Tel Aviv, il caldo e l’umidità che israeliani e palestinesi che vivono lungo la costa avvertono durante i mesi estivi non farà che crescere in modo più estremo. Sostiene che in estate abbiamo già quasi 24 ore di stress termico, ma che tende a ridursi nelle ore serali e notturne. “Ciò peggiorerà: lo stress termico sarà più pesante di giorno e non si ridurrà di notte.” E, come praticamente tutto ciò che si riferisce al cambiamento climatico, il caldo non sarà distribuito in modo equilibrato. Una recente ricerca del comune di Tel Aviv-Jaffa prevede che le temperature nelle zone povere del sud della città saliranno di sette gradi Celsius più che nei ricchi quartieri settentrionali.

Mentre Saaroni è sorprendentemente ottimista riguardo agli effetti del cambiamento climatico sul livello del mare (“il mare salirà di circa un metro, ma solo alla fine del secolo. Con la tecnologia abbiamo il tempo di adeguarci”), lei e altri scienziati del clima israeliani sono sempre più preoccupati della strisciante desertificazione del Paese. Temperature in aumento e minor piovosità significano che il deserto, che già copre buona parte del Paese, si estenderà lentamente verso nord, sostiene il professore di ecologia Marcelo Sternberg, anche lui dell’università di Tel Aviv.

Tuttavia senza ulteriori studi è difficile dire fino a dove arriverà la desertificazione. “Alcune ricerche, compresa la mia, mostrano che il nostro territorio è resistente ai cambiamenti della piovosità all’interno della gamma naturale di variazioni,” dice Sternberg. “Ma cambiamento climatico significa temperature al di fuori di quella gamma – e non sappiamo cosa ciò significhi.” Quello che pare certo è che gli incendi, che negli ultimi anni hanno colpito sempre più frequentemente il Paese, continueranno a devastarlo durante le estati.

Lottare contro l’“apartheid climatico”

Lo Stato di Palestina ha firmato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico. Ma, a causa del governo militare israeliano in Cisgiordania e del blocco della Striscia di Gaza, i palestinesi non hanno praticamente alcun controllo sulle proprie risorse naturali, e non sono in grado di mettere pienamente in atto i trattati o di adottare progetti nazionali, e non possono fare piani concreti per adattarsi alla crisi climatica.

In Cisgiordania la fornitura di acqua è più vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico. Secondo un rapporto del 2013 dell’associazione palestinese per i diritti umani “Al-Haq”, il consumo pro capite di acqua per uso domestico degli israeliani è da quattro a cinque volte maggiore di quello della popolazione palestinese dei territori occupati. In Cisgiordania i coloni israeliani consumano circa sei volte la quantità di acqua usata dalla popolazione palestinese che vive nello stesso territorio.

Alcune comunità palestinesi, soprattutto quelle che vivono in zone della Cisgiordania sotto totale controllo militare israeliano, non sono collegate con alcuna infrastruttura idrica e devono percorrere chilometri per procurarsi l’acqua, che spesso è cara e di dubbia qualità. Nel contempo l’esercito israeliano rende quasi impossibile avere l’autorizzazione per nuovi serbatoi d’acqua, e quelli costruiti senza permesso sono regolarmente distrutti dalle autorità. Secondo Al-Haq, il settore idrico nei territori occupati e in Israele è caratterizzato da uno sfruttamento eccessivo notevolmente asimmetrico delle risorse idriche condivise, da un esaurimento dello stoccaggio a lungo termine, da un deterioramento della qualità dell’acqua e da crescenti livelli di domanda provocati da alti tassi di incremento della popolazione. Nel contempo la zona sta assistendo a una diminuzione della fornitura di acqua pro capite – un peso che è sproporzionatamente a carico della popolazione palestinese.

Il dottor Abdulrahman Tamimi, direttore generale del Gruppo Idrologico Palestinese, afferma che, mentre Israele ha le competenze tecnologiche per adattare il proprio settore agricolo ai cambiamenti del clima, in Cisgiordania entro un decennio l’agricoltura diverrà impraticabile. La situazione a Gaza è aggravata dall’assedio israeliano, che tra le altre cose ha portato all’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche del sottosuolo che sta sempre più esaurendo l’Acquifero costiero, il che ha reso non potabile il 90% della fornitura d’acqua.

“Non c’è speranza per Gaza da nessun punto di vista finché la situazione politica là rimane senza soluzione,” sostiene Tamimi. Afferma di credere che entro i prossimi cinque o sei anni l’agricoltura di Gaza, le infrastrutture idriche e l’economia non funzioneranno più. Soluzioni come la desalinizzazione, che consentirebbe di avere sia acqua potabile che un’irrigazione regolare, sono lussi che la gente di Gaza semplicemente non si può permettere, spiega Tamimi: “Chi potrebbe pagare 1,5 dollari al metro cubo?”

“L’acqua è già una risorsa così rara nella regione,” dice Zena Agha, l’esperta di politica USA del gruppo di analisi palestinese Al-Shabaka, che si concentra sull’intersezione tra il clima e l’occupazione israeliana, “che il cambiamento climatico agisce semplicemente come un peggioramento della minaccia.” Agha afferma che sulla carta un accordo di pace tra israeliani e palestinesi dovrebbe poter risolvere la crisi idrica in Cisgiordania. Invece gli accordi di Oslo, una serie di intese provvisorie che due decenni fa avrebbero dovuto portare a un accordo per uno status finale, l’hanno solo peggiorata. In seguito a ciò, l’80% delle risorse idriche nei territori occupati è sotto controllo israeliano. Nel contempo i soldati israeliani distruggono regolarmente sistemi di raccolta dell’acqua tradizionali a livello locale utilizzati dai palestinesi nelle zone della Cisgiordania lasciati da Oslo sotto totale controllo militare israeliano.

“Si comincia a vedere una politica ufficiale di sottrazione dell’acqua e delle risorse, sostenuta e delineata da una serie di leggi, politiche, licenze, permessi e udienze in tribunale utilizzati per rubare l’acqua dei palestinesi,” dice Agha. “D’altra parte, c’è anche una sorta di approccio concreto, che coinvolge l’esercito israeliano che si presenta, dichiara un’area militare chiusa e ruba direttamente le risorse. Questa è la politica attiva dello Stato israeliano.” Agha dice che le politiche israeliane in Cisgiordania equivalgono a un “apartheid climatico”.

“Quanto sta avvenendo in Palestina è un chiaro esempio di un gruppo etnico-religioso che possiede risorse migliori e preferenziali rispetto a un altro gruppo, esclusivamente sulla base della religione e della cittadinanza. L’occupazione crea una situazione in cui è impossibile per i palestinesi sviluppare realmente le capacità di adattamento per resistere alla minaccia davvero incombente del cambiamento climatico,” dice Agha.

Agha sostiene che, mentre l’Autorità per la Qualità dell’Ambiente dell’Autorità Nazionale Palestinese ha elaborato un piano di adeguamento sostenuto dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, simili piani sono “quasi ridicoli”.

“Supponiamo che l’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] abbia la possibilità di pianificare con 40 anni di anticipo: per ora non ha neppure il potere di prevedere cosa succederà domani. L’ANP si trova in un paradosso: pianificare per il futuro su una terra su cui non ha controllo. Da ogni punto di vista è priva di potere.”

Eppure Agha crede che l’ANP abbia un ruolo da giocare nel mettere in atto strategie a lungo termine per cercare di adattarsi all’attuale situazione, compreso il contrasto diretto con Israele riguardo alle politiche sull’acqua, promuovendo un’agricoltura sostenibile ed ecologica, ripristinando le cooperative agricole, che hanno rappresentato gli interessi e le preoccupazioni dei contadini e negli anni ’80 erano apprezzate nei territori occupati.

Alcune Ong e attivisti palestinesi stanno cercando di approfittare del vuoto lasciato. Per esempio la Società per la Natura in Palestina sta tentando di condurre la prima ricerca complessiva su flora e uccelli della Palestina, per comprendere meglio i cambiamenti della biodiversità in conseguenza del cambiamento climatico. L’Istituto Palestinese per la Biodiversità e la Sostenibilità e il Museo Palestinese di Storia Naturale presso l’università di Betlemme stanno dirigendo un progetto per la conservazione della biodiversità unica del Paese e per fare studi sulle complesse questioni della distruzione dell’habitat e del declino dell’ambiente provocati dal cambiamento climatico e dalle politiche del conflitto.

In Cisgiordania attivisti palestinesi hanno creato iniziative ambientali come archivi dei semi tradizionali che preservano il patrimonio agricolo e la biodiversità palestinesi, l’ agro-ecologia e l’agricoltura sostenuta dalla comunità, per promuovere la sovranità alimentare, riducendo al minimo gli effetti delle coltivazioni sull’ambiente.

Una politica senza sbocco

Nel luglio 2018 il governo israeliano ha adottato il “Programma Nazionale per l’Adeguamento al Cambiamento Climatico”, che include 30 punti di azione che affrontano vari aspetti del cambiamento climatico, come acqua, energia e salute pubblica. Il piano si occupa anche di problemi specifici delle preoccupazioni politiche ed economiche di Israele, compresi gli adeguamenti per l’industria ambientale, la possibilità di utilizzare energia nucleare e come il cambiamento climatico colpisca il Medio Oriente nel suo complesso, compresi rifugiati, nuove rotte commerciali, scarsità di cibo e di acqua.

Si presta particolare attenzione alle questioni della capacità di intervento dell’esercito. Il piano include raccomandazioni per affrontare le necessità materiali e strategiche delle IDF, che vanno dalle uniformi dei soldati e dalla dislocazione delle basi allo studio dell’“effetto del cambiamento climatico sui Paesi musulmani”, alla stipula di accordi di mutuo aiuto. Il piano tuttavia non specifica la fonte di finanziamento di ogni punto e non fornisce i costi totali previsti.

La produzione di energia di Israele rimane pressoché interamente basata su combustibili fossili. In molti Paesi in tutto il mondo le discussioni sul clima sono concentrate sul liberarsi dalla produzione di energia basata sui combustibili fossili – in seguito a forti pressioni dell’opinione pubblica, governi come quello della Germania e della California hanno annunciato un passaggio pianificato al 100% di energia rinnovabile entro il 2050 -, ma in Israele il problema rimane una questione politica senza sbocco. All’inizio del 2018 il ministro dell’Energia israeliano ha proposto un piano per passare dai “combustibili inquinanti” come carbone e petrolio al gas naturale. Il progetto intende raggiungere un obiettivo di appena il 17% della produzione da energia rinnovabile entro il 2030, con un obiettivo intermedio del 10% entro il 2020.

Tuttavia la richiesta di una produzione interna del 100% da energia rinnovabile ha oppositori persino all’interno il movimento ecologista israeliano. Mentre “Green Course”, un gruppo ambientalista di base, ha accolto la richiesta, la “Società per la Protezione della Natura in Israele”, l’organizzazione ambientalista israeliana più affermata, ha preso la posizione secondo cui solare ed eolico rappresentano una minaccia per la rara e pregiata biodiversità del Paese – il primo distrugge l’habitat della fauna terrestre e il secondo uccide gli uccelli.

“Stimiamo che i pannelli solari sui tetti e altre superfici alterate o deteriorate possano fornire almeno un terzo del fabbisogno di energia di Israele,” afferma Dror Boymel, capo del dipartimento di pianificazione presso l’SPNI. “Il resto dovrebbe venire da altre fonti – sia da gas naturale che da altri Paesi della regione che non hanno problemi di spazio e hanno una natura meno vulnerabile.”

É difficile parlare di render questo un posto migliore”

Uno studio pubblicato quest’anno dal centro di ricerche “PEW” prima del “Giorno della Terra” ha rilevato che solo il 38% degli israeliani considera il cambiamento climatico una grave minaccia. Su 26 Paesi in cui è stata fatta la ricerca Israele è arrivato per ultimo. Lo studio non include i palestinesi dei territori occupati.

Di conseguenza il movimento ambientalista israeliano sta cambiando marcia. Mentre in passato i gruppi ecologisti hanno teso a concentrarsi su problemi “lievi” come il riciclaggio, oggi la crisi climatica è in cima alla loro agenda, e molti che sono convinti che solo un’azione radicale sarà in grado di fermare la catastrofe.

“Gli ambientalisti non sono più considerati ‘simpatici’ come una volta,” dice Ya’ara Peretz, responsabile delle politiche di “Green Course”. Peretz è stata anche una delle principali organizzatrici della Marcia per il Clima di quest’anno, la più grande di sempre in Israele, che ha visto molte migliaia di persone protestare nel centro di Tel Aviv, con la richiesta che il governo di Israele prenda immediatamente misure. “Il rapporto dell’IPCC ha cambiato tutto e ha spinto la gente fuori dal proprio guscio,” dice. “Ci siamo resi conto del fatto che ciò è grave e quello che vediamo accadere nel mondo sta aiutando. Le persone vogliono essere coinvolte – ora è il momento di essere creativi.”

Secondo Peretz uno dei maggiori cambiamenti è l’impegno di giovani cittadini israeliani – sia ebrei che palestinesi – che ora stanno guidando il movimento con l’aiuto degli attivisti di “Green Course”. Prendendo esempio da Greta Thunberg, l’attivista svedese adolescente che è diventata l’icona della lotta contro il cambiamento climatico, studenti delle superiori hanno fatto vari scioperi e hanno marciato fino alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], chiedendo che i parlamentari inizino a prendere sul serio il problema. “Questi ragazzi sono molto più svegli di noi,” dice Peretz.

“Ho sempre pensato che i problemi fossero dovuti al fatto che qualcun altro stava prendendo le decisioni,” dice Lama Ghanayim durante un evento nel Left Bank Club di Tel Aviv a metà luglio. Ghanayim, della città araba di Sakhnin, nel nord di Israele, è una dei dirigenti degli scioperi studenteschi. “Organizzare questi scioperi è stata un’opportunità per ottenere finalmente qualcosa. Non voglio stare fuori e lasciare che qualcun altro prenda i comandi quando si tratta di una questione così grave,” dice Ghanayim.

Gruppi ambientalisti esperti come “Green Course” e SPNI non sono più le uniche voci che affrontano il problema del clima in Israele. Recentemente il movimento per l’azione diretta “Extinction Rebellion” ha aperto una sezione in Israele. Il movimento israeliano di sinistra “Standing Together”, che finora si era concentrato prevalentemente sulla lotta contro il razzismo, l’occupazione e l’appoggio ai diritti dei lavoratori, recentemente ha adottato il cambiamento climatico come questione centrale del suo programma.

“Tra gli attivisti c’è la sensazione che, quando passano dalle proteste per il clima a quelle per la pace, vedano facce completamente diverse,” dice Ilay Abramovitch, un attivista di Standing Together. “Non si tratta delle stesse persone. Ma se guardi in giro per il mondo vedrai che molti partiti di sinistra hanno il clima in cima al loro programma.”

Abramovitch dice che la visione della sua organizzazione si basa sull’idea che ogni lotta contro il cambiamento climatico debba essere intrapresa insieme ai sindacati e ai gruppi palestinesi. “Crediamo che, quando viene danneggiato l’ambiente, lo sono anche le persone, e quelli che sono più a rischio sono i segmenti più poveri della società e i Paesi più poveri. La nostra lotta deve essere regionale, e ovviamente deve essere di ebrei e arabi insieme.”

Ma anche se il lavoro comune di arabi ed ebrei sui problemi del clima risulta naturale per attivisti come Ghanayem e Abramovich, che sono cittadini di Israele, gli attivisti e gli accademici palestinesi della Cisgiordania si trovano di fronte a una decisione molto più complicata. Mentre si rendono conto che la pianificazione regionale è inevitabile, sono preoccupati che qualunque discussione di collaborazione con gli israeliani sulle questioni climatiche che non affronti l’occupazione serva a normalizzare una situazione politica in cui le comunità palestinesi sono le più vulnerabili al cambiamento climatico.

Ma persino nella sinistra israeliana unire le forze nel movimento ambientalista non sempre sembra una scelta naturale. “Alcune persone chiedono: ‘Cosa c’entra la sinistra con il movimento ambientalista? Perché non ci lasciate continuare a lottare contro l’occupazione?’” Dice Abramovitch. “La gente non capisce pienamente l’opportunità che abbiamo di creare una lotta più ampia occupandoci della crisi climatica.”

Peretz dice che, nonostante il suo ottimismo, è ancora difficile trovare israeliani, persino quelli coinvolti in altre lotte per la giustizia sociale, che vedano il cambiamento climatico come una minaccia immediata. “La lotta ambientalista è vista come una battaglia di privilegiati, soprattutto quando così tanti credono che niente sia più importante della nostra sicurezza nazionale,” dice. “È difficile parlare con la gente di fare di questo un posto migliore. La mentalità è che dovremmo semplicemente essere grati di avere uno Stato nostro – che sia uno Stato buono o giusto è secondario.”

Matan Kaminer è un antropologo e un membro del consiglio di amministrazione dell’Accademia per l’Uguaglianza [organizzazione israeliana per i diritti di tutti i cittadini, ndtr.].

Basma Fahoum è una dottoranda in storia alla Standford University.

Edo Konrad è vice direttore di +972 Magazine.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ilhan Omar: il divieto di ingresso in Israele è “un insulto ai valori democratici”

MEE e agenzie

15 agosto 2019 – Middle East Eye

Omar e la sua collega deputata al Congresso Rashida Tlaib avevano progettato per questo fine settimana un viaggio in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate

Ilhan Omar ha denunciato la decisione israeliana di vietare a lei e alla sua collega deputata al Congresso Rashida Tlaib l’ingresso nei territori palestinesi occupati, un’iniziativa che la rappresentante del Minnesota ha definito “un insulto ai valori democratici.”

Martedì pomeriggio in un comunicato Omar ha affermato che la decisione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di impedire l’ingresso alle due parlamentari è stata presa “sotto la pressione” del presidente USA Donald Trump.

È un insulto che il primo ministro israeliano Netanyahu, sottoposto alle pressioni del presidente Trump, abbia negato l’ingresso a rappresentanti del governo USA,” ha detto Omar.

L’ironia che l’‘unica democrazia’ del Medio Oriente abbia preso una simile decisione è che si tratta sia di un oltraggio ai valori democratici che un’agghiacciante risposta alla visita da parte di politici di una Nazione alleata.”

Anche Tlaib ha attaccato la decisione del governo israeliano in un post su twitter in cui ha condiviso una foto della sua nonna palestinese, che vive nella Cisgiordania occupata. “Merita di vivere in pace e con dignità umana. Sono quello che sono grazie a lei,” ha twittato Tlaib, che è nata negli USA da genitori palestinesi ed ha ancora parte della famiglia in Palestina.

La decisione israeliana di impedire l’ingresso a sua nipote, parlamentare USA, è un segnale di debolezza perché la verità di quanto sta avvenendo ai palestinesi è spaventosa.”

All’inizio della giornata il governo israeliano ha affermato di aver intenzione di impedire a Omar e Tlaib di entrare in questo fine settimana nei territori palestinesi occupati.

La conferma è arrivata ore dopo che la famosa giornalista israeliana Dana Weiss ha twittato che il governo aveva deciso di impedire l’ingresso delle due deputate a causa delle loro “presunte provocazioni e del sostegno” a favore del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi.

Prima della dichiarazione del governo israeliano, Trump ha twittato il proprio appoggio al divieto di ingresso per le due parlamentari USA.

La legge israeliana consente di impedire ai sostenitori del BDS di entrare nel Paese.

Sia Tlaib che Omar sono sostenitrici del movimento, che intende fare pressione su Israele perché interrompa le violazioni dei diritti umani contro i palestinesi, provocando una reazione dei gruppi filo-israeliani.

Martedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che il ministero degli Interni del Paese ha deciso di non consentire a Tlaib e a Omar di entrare – un’iniziativa che ha detto di appoggiare. “Nessun Paese al mondo rispetta l’America e il Congresso americano più dello Stato di Israele,” ha detto Netanyahu in un comunicato condiviso dal ministero degli Esteri israeliano.

Tuttavia il programma di viaggio delle due congressiste rivela che l’unico scopo della loro visita è di danneggiare Israele e incentivare l’incitamento all’odio contro di esso.”

Però Netanyahu ha detto che, se lei facesse tale richiesta, Israele valuterebbe di lasciare che Tlaib visiti la sua famiglia per una questione umanitaria.

Il ministro degli Interni ha annunciato che, se la deputata Tlaib presentasse una richiesta di visitare i suoi parenti per ragioni umanitarie, prenderebbe in considerazione la sua richiesta a patto che si impegni a non agire per promuovere il boicottaggio contro Israele durante la sua visita,” ha detto il primo ministro israeliano.

Assolutamente prevedibile”

Tlaib e Omar hanno progettato di fare un giro in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate durante una visita prevista per il fine settimana.

Secondo fonti diplomatiche israeliane che hanno parlato a giornalisti locali, il giro doveva includere una visita al complesso di Al-Aqsa, un luogo sacro sia per i musulmani che per gli ebrei, che la scorsa settimana è stato teatro di violenti scontri.

Il mese scorso l’ambasciatore israeliano a Washington Ron Dermer ha affermato di credere che Israele non avrebbe negato l’ingresso ad alcun parlamentare USA” come segno di rispetto per il Congresso USA e per la grande alleanza tra Israele e l’America.”

Ma prima che il divieto venisse confermato, Yousef Munayyer, direttore esecutivo della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi, ha affermato che vietare l’ingresso nel Paese a Tlaib e Omar era offensivo “ma anche assolutamente prevedibile”.

Israele ha discriminato i cittadini USA – soprattutto i palestinesi americani – da molto tempo. Ora sta facendo ciò persino ai nostri PARLAMENTARI,” ha scritto Munayyer martedì su twitter

In verità la discriminazione razzista di Israele contro i palestinesi non è una novità e ai palestinesi vengono costantemente negati il ritorno e la libertà di movimento nella loro patria. Ma questo episodio sottolinea la portata della complicità del Congresso nel consentire che il razzismo colpisca ora i loro stessi colleghi,” ha aggiunto.

Martedì molti sostenitori dei palestinesi, così come alcuni membri democratici del Congresso, hanno espresso la propria preoccupazione riguardo alla decisione di Israele di impedire alle parlamentari in carica l’ingresso nel Paese.

Il MIFTAH, il gruppo USA a favore dei palestinesi che ha organizzato il viaggio a cui Tlaib e Omar pensavano di unirsi, ha condannato il divieto come “un affronto contro il popolo americano e i suoi rappresentanti.”

Come ogni violatore dei diritti umani, Israele vuole imporre il silenzio sulla situazione della Palestina occupata e impedisce alle parlamentari Tlaib (e) Omar di avere un contatto diretto con il popolo palestinese, che è soggetto al crudele regime israeliano di colonizzazione, oppressione e furto di terre,” ha affermato l’associazione in un comunicato.

Ma David Friedman, ambasciatore USA in Israele e fedele sostenitore del governo israeliano e del suo progetto di colonizzazione, ha detto che l’amministrazione Trump appoggia la decisione di vietare l’ingresso alle deputate.

Ha preso di mira l’appoggio delle parlamentari al BDS come l’elemento trainante che ha provocato il divieto. “Puramente e semplicemente, questo viaggio non è altro che un tentativo di alimentare la macchina del BDS che le deputate Tlaib e Omar appoggiano così vigorosamente,” ha affermato Friedman in una dichiarazione condivisa su Twitter. “Come gli Stati Uniti, Israele è una Nazione con delle leggi. Appoggiamo l’applicazione delle sue leggi da parte di Israele in questo caso.”

Mettere in atto il “bando contro i musulmani” di Trump

Tlaib, 43 anni, è nata negli USA, ma sua nonna e la sua famiglia estesa vivono nel villaggio palestinese di Beit Ur al-Fauqa, in Cisgiordania.

Omar, trentasettenne nata in Somalia, è stata una critica accanita della criminalizzazione del movimento BDS negli USA.

Lo scorso anno Tlaib e Omar sono entrate nella storia in quanto sono diventate le prime donne musulmane ad essere mai state elette al Congresso.

Nella sua dichiarazione Omar ha affermato che, vietando l’ingresso a lei e a Tlaib, Israele sta mettendo in pratica il cosiddetto “bando contro i musulmani” dell’amministrazione Trump.

L’ordine presidenziale impedisce ai cittadini di vari Paesi a maggioranza musulmana l’ingresso negli USA, e ciò ha attirato critiche generalizzate da parte di gruppi per i diritti umani e parlamentari che hanno accusato il presidente di islamofobia.

Quello che Israele sta mettendo in pratica è il bando di Trump contro i musulmani, questa volta contro due componenti del Congresso regolarmente elette,” ha detto Omar.

Ha aggiunto che il bando non è una sorpresa, “data la posizione pubblica del primo ministro Netanyahu, che si è sempre opposto ai tentativi di pace, ha limitato la libertà di movimento dei palestinesi, la consapevolezza da parte dell’opinione pubblica della brutale realtà dell’occupazione e si è schierato con islamofobi come Donald Trump.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Issawiya, la cittadina palestinese che resiste alle punizioni collettive di Israele

Hanadi Qawasmi – ISSAWIYA, Gerusalemme est occupata

Lunedì 12 agosto 2019 – Middle East Eye

L’ultima campagna israeliana contro questo quartiere della conurbazione di Gerusalemme est, una delle più lunghe e violente della sua storia recente

Nel quartiere palestinese di Issawiya le auto della polizia israeliana non sono tollerate.

Nel comune ogni traccia della presenza poliziesca degenera rapidamente in scontri, con giovani palestinesi che lanciano pietre e molotov contro i veicoli, mentre le forze israeliane fanno uso di proiettili veri, di pallottole d’acciaio ricoperte di gomma e di lacrimogeni.

Questo quartiere, che conta più di 15.000 abitanti, è ben noto ai palestinesi come un faro della resistenza civile all’occupazione israeliana.

Issawiya è una delle zone più ribelli di Gerusalemme,” dichiara a Middle East Eye Fadi Elayan, un abitante trentatreenne della cittadina.

La polizia obbedisce alla logica in base alla quale se Issawiya viene sottomessa e il suo rifiuto dell’occupazione è ridotto al silenzio, il resto di Gerusalemme sarà domato.”

La portata della determinazione della polizia israeliana nel demonizzare questa zona periferica è stata svelata lo scorso martedì, quando si è saputo che, durante una serie televisiva di reality show sulla polizia, alcuni agenti hanno messo un fucile M-16 nella casa di un abitante di Issawiya e in seguito hanno sostenuto di averlo scoperto lì.

Durante gli ultimi due mesi Issawiya è stata bersaglio di una violenta e dirompente repressione israeliana lanciata poco dopo l’Aid al-Fitr [festa musulmana per la fine del Ramadan, ndtr.] con il pretesto di garantirvi la sicurezza.

Da allora la cittadina è bersaglio di una politica di punizione collettiva: più di 250 arresti politici, centinaia di vessazioni perpetrate dalle forze israeliane ai danni di veicoli e negozi, decine di abitanti feriti dagli spari israeliani e il funerale per un giovane palestinese.

Il 27 giugno, durante un’incursione notturna, la polizia israeliana ha ucciso Mohammad Samir Obaid, provocando viva indignazione tra gli abitanti della cittadina. Due testimoni oculari hanno dichiarato a MEE che nel momento in cui è stato ucciso questo palestinese di 20 anni non rappresentava alcuna minaccia.

Il giorno prima le immagini di un soldato ricoperto di pittura rossa lanciata dai giovani della cittadina erano state ampiamente condivise dai palestinesi sulle reti sociali.

Repressione concertata

Tale repressione non è un fatto raro per la cittadina: di fatto non passa un anno senza azioni simili da parte delle forze israeliane.

Ma secondo gli abitanti l’ultima campagna è una delle più lunghe e violente della storia recente del quartiere – dura consecutivamente da più di 50 giorni ed è stata messa in atto da diversi organi militari e civili israeliani.

Le incursioni delle forze israeliane sembrano una sfilata organizzata: quattro grossi SUV arrivano nel quartiere, insieme a guardie di frontiera e a volte a un reparto a piedi, gli agenti lanciano delle bombe assordanti nelle strade per disperdere i giovani e seminare la paura, poi procedono a un’operazione di controllo e perquisizione umiliante e aggressiva.

La polizia di frontiera, le forze speciali, la polizia stradale, così come le autorità municipali e fiscali israeliane si danno da fare durante tutta la giornata, concentrandosi sui giovani nelle strade e sugli abitanti che ritornano a casa dopo il lavoro.

Come il resto di Gerusalemme est, Issawiya è passata sotto occupazione israeliana nel 1967 ed oggi è circondata da ogni parte dalle colonie israeliane e dalle loro infrastrutture, che in base al diritto internazionale sono tutte illegali.

L’autostrada 1, che si trova al limite est del quartiere, è stata costruita per collegare le colonie della Cisgiordania occupata a Gerusalemme e Tel Aviv.

A sud Issawiya è a cavallo del campus dell’Università Ebraica. A nord e a ovest si trovano le colonie della Collina Francese e di Tsameret HaBira. 

La cittadina è sottoposta a restrizioni, come blocchi stradali e perquisizioni arbitrarie, che sconvolgono la vita quotidiana.

Punire la cittadina e i suoi abitanti”

Quando procedono a degli arresti, le autorità israeliane non esitano a ricorrere alla forza, aggredendo i giovani, sfondando le porte delle case prima di perquisirle e procedendo a perquisizioni violente.

Fonti locali hanno dichiarato a Middle East Eye che negli ultimi due mesi, soprattutto durante retate notturne, sono stati arrestati dalla polizia non meno di 250 giovani maschi.

La maggioranza di loro è stata arrestata per brevi periodi e poi rilasciata, spesso su cauzione, e posta agli arresti domiciliari per periodi variabili, a volte fino a una settimana.

Secondo l’avvocato Mohammad Mahmoud, che li rappresenta davanti ai tribunali israeliani, almeno cinque di essi sono ancora detenuti.

L’avvocato Mahmoud ha dichiarato a MEE che questi giovani devono rispondere di diverse accuse, come partecipazione a manifestazioni e a scontri con le forze israeliane, compreso il lancio di pietre e di molotov, in particolare dopo l’annuncio della morte di Obaid.

Sempre secondo il loro avvocato, le cauzioni di quelli che sono stati liberati superano i 60.000 shekel (più di 15.000 €).

Mohammad Abu al-Hummos, un attivista politico di Issawiya, ritiene che le misure israeliane siano assolutamente arbitrarie e costituiscano una forma di punizione collettiva. Rappresentano il “desiderio della polizia dell’occupazione israeliana di procedere a una qualunque perquisizione o detenzione, poco importa il motivo, semplicemente per punire la cittadina e le sue famiglie,” ha dichiarato a MEE.

Un padre convocato dalla polizia per un bambino

Il 30 luglio la storia di Mohammad Elayyan, 4 anni, è diventata virale sulle reti sociali quando lui e suo padre sono stati convocati dalla polizia israeliana per un interrogatorio.

Il nonno del bambino, Nayef Elayan, ha dichiarato in un’intervista che Mohammad giocava per la strada con altri bambini quando un veicolo della polizia israeliana ha fatto irruzione nella zona.

Più tardi, durante la giornata, le forze israeliane si sono recate al domicilio di Mohammad alla ricerca del bambino, sostenendo che aveva lanciato delle pietre contro di loro. Quando si sono resi conto che aveva 4 anni e che in base alla legge non poteva essere arrestato, hanno consegnato a suo padre, Rabiaa, un mandato di comparizione per l’indomani mattina, chiedendogli di portare con sé Mohammad.

Per appoggiare il padre e il figlio un gruppo di abitanti di Issawiya li ha accompagnati al commissariato di polizia di via Salah al-Din, la principale arteria commerciale di Gerusalemme est.

A causa della crescente pressione popolare, le autorità israeliane non hanno incontrato il bambino, ma hanno interrogato il padre.

Quest’ultimo ha dichiarato che dei poliziotti l’avevano minacciato che non avrebbe mai più visto suo figlio se quest’ultimo avesse lanciato loro delle pietre.

I bambini non costituiscono una minaccia,” ha dichiarato Fadi Elayyan, uno dei parenti di Mohammed.

Quello che avviene è un tentativo di terrorizzare le famiglie di Issawiya – dai giovani agli anziani.” 

Perquisita la casa di una persona malata

Un giorno dopo il caso di Mohammad, la polizia israeliana ha convocato un altro abitante palestinese di Issawiya per azioni di cui era accusato suo figlio di 6 anni.

Secondo l’agenzia di stampa ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese, WAFA, Firas Obaid ha ricevuto un mandato di comparizione nel commissariato della polizia israeliana per essere interrogato riguardo a suo figlio Qais, accusato di aver tentato di lanciare pietre contro la polizia israeliana che stava di pattuglia nella cittadina.

In un altro episodio molto pubblicizzato tre settimane fa, le forze israeliane hanno cercato di arrestare Iyad Attiyah, un giovane uomo di 24 anni colpito dalla sindrome di Williams, un disturbo genetico raro che può causare problemi fisici e cognitivi. Sua madre, Laila Attiyah, ha dichiarato a MEE che la polizia aveva effettuato un’irruzione a casa loro dopo mezzanotte alla ricerca di suo figlio.

Iyad è stato convocato dai servizi di intelligence, un’ingiunzione che è stata annullata solo quando i servizi sociali sono intervenuti e hanno presentato documenti che provano la sua malattia.

Motivi ridicoli” 

Nel quadro della recente repressione, la polizia stradale israeliana è stata messa di guardia ad ognuno degli ingressi di Issawiya.

Gli agenti fermano arbitrariamente i veicoli per effettuare dei lunghi controlli della vettura, della patente, dell’assicurazione e della carta d’identità, prima di infliggere multe dai 250 ai 1000 shekel (da 65 a 255 euro), rendendo così più pesante il peso economico a scapito degli abitanti.

Secondo Mohammad Abu al-Hummos, durante improvvisi controlli sono state revocate decine di libretti di circolazione a causa di presunte infrazioni al codice della strada per i “motivi più ridicoli”.

In una situazione normale nei quartieri non palestinesi ragioni del genere non comporterebbero dei reati o l’annullamento di un libretto di circolazione,” sostiene. “Ci sono dei veicoli che hanno semplicemente superato di un mese il periodo di immatricolazione, cosa che non è illegale, ma ciononostante i loro proprietari ricevono delle multe.”

Giovedì scorso la polizia ha fermato un autobus che trasportava bambini dagli 8 ai 12 anni in viaggio per una gita ricreativa.

L’autista è stato accusato di aver commesso un’infrazione, il suo libretto di circolazione è stato revocato e cinque giovani che accompagnavano i bambini come guide sono stati arrestati.

Neppure i negozi sono stati risparmiati. Le squadre israeliane del Comune e della finanza hanno effettuato parecchie perquisizioni nei negozi, soprattutto sulla strada principale, ed hanno controllato le autorizzazioni, le attrezzature ed i pagamenti delle imposte.

Come reazione, i commercianti hanno cercato di evitare di ricevere troppe multe del fisco chiudendo i propri negozi e aprendoli solo dopo la partenza della polizia.

Di conseguenza l’attività commerciale della cittadina è stata notevolmente rallentata.

Messaggio di resistenza

Interrogate sulle ragioni della repressione israeliana, le famiglie di Issawiya hanno sottolineato la posizione contro l’occupazione adottata da molto tempo dal quartiere.

La cittadina è una delle più note a Gerusalemme per le sue reazioni alle aggressioni delle forze israeliane, e le azioni dei suoi cittadini non si limitano a respingere le misure prese da Israele in nome della sicurezza.

Le famiglie di Issawiya rifiutano anche la presenza delle istituzioni “civili” israeliane, come un centro comunitario finanziato dal governo nella cittadina.

I giovani di Issawiya, per inviare a Israele un messaggio di resistenza, hanno più volte incendiato il centro comunitario, in particolare l’ultima volta dopo l’assassinio di Obaid.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Piani di guerra contro Gaza mostrano la brutta strada che ha preso l’esercito israeliano

Shir Hever

6 agosto 2019 – Middle East Eye

Il nuovo capo dell’esercito pare intenzionato ad assecondare l’opinione pubblica di destra

Sono stati in parte rivelati piani di guerra per una possibile futura invasione di Gaza, mentre l’esercito israeliano delinea la strategia per una di campagna ad alta intensità per danneggiare le infrastrutture civili e indebolire Hamas, pur lasciandogli la possibilità di governare.

Gadi Eizenkot, capo dell’esercito israeliano prima di Aviv Kochavi, , è stato responsabile dell’ uccisione di circa 200 manifestanti palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno di Gaza, ma è comunque stato criticato in quanto troppo di sinistra. Ha chiesto che il soldato Elor Azaria venisse punito per aver giustiziato un palestinese ferito a Hebron, ha segnalato al governo che una crisi umanitaria danneggerebbe gli interessi di Israele e ha insistito che le truppe israeliane facciano ricorso al minimo indispensabile di forza per evitare che i palestinesi raggiungano la barriera di Gaza.

È chiaro che invece Kochavi asseconderà l’opinione pubblica israeliana di destra piuttosto che alimentare la leggenda secondo cui l’esercito israeliano è “il più morale al mondo”.

I nuovi progetti per Gaza sono l’ultima di una serie di iniziative che dimostrano come Kochavi condurrà l’esercito israeliano su un sentiero che porterà verso un aumento della violenza.

Falciare il prato”

La prima di queste mosse è stato il suo discorso di insediamento, in cui Kochavi ha affermato che avrebbe potenziato un esercito “letale”. La seconda è stata in giugno, quando si è saputo che Kochavi si aspetta centinaia di vittime nemiche al giorno e “un’eliminazione fisica aggressiva … ogni un’unità militare dovrà dimostrare la distruzione di più del 50% delle forze nemiche: vale per il Libano come per Gaza.”

Poi, a luglio, Kochavi ha nominato il noto brigadiere generale Ofer Winter al comando della 98ttesima “divisione di fuoco” dell’esercito, già comandata dallo stesso Kochavi.

Per anni Eizenkot ha ignorato Winter per la sua eccessiva aggressività contro i civili. Costui ha descritto l’invasione di Gaza nel 2014 come una guerra di religione contro gli “empi” palestinesi. Winter è stato anche responsabile dell’attacco contro Rafah noto come “venerdì nero” [le truppe israeliane attaccarono i civili palestinesi durante una tregua, causando decine di morti, ndtr.].

Non è un caso che la furia di Kochavi sembri concentrata su Gaza. Ai generali israeliani piace l’espressione “falciare il prato” in riferimento ai periodici attacchi contro Gaza, come se fosse un terreno incolto da tenere sotto controllo (al costo di migliaia di vittime) affinché non diventi una minaccia per la sicurezza di Israele.

Ma trasformare Gaza in un campo di sterminio serve anche agli interessi delle industrie belliche israeliane, che vi possono testare le proprie armi, e consente alle truppe israeliane di placare la sete di sangue e recuperare fiducia in se stesse.

Sollevare il morale

Nel 2006, dopo la fallita invasione del Libano, il morale tra le truppe israeliane era basso. In previsione delle elezioni del febbraio 2009 il governo israeliano volle ottenere una facile vittoria con il minimo di vittime da parte israeliana. Nel dicembre 2008 Israele lanciò un attacco di tre settimane contro Gaza, uccidendo più di 1.400 palestinesi.

In questi giorni il morale dell’esercito è di nuovo basso, in quanto la resistenza non violenta dei palestinesi ha obbligato le truppe israeliane ha mostrare moderazione. Negli ultimi anni i livelli di reclutamento sono scesi sotto il 50%, il che suggerisce che, anche se il servizio militare è obbligatorio, sia facile ottenere l’esonero. Le reclute si aspettano un servizio militare “gratificante”, la possibilità di “sentirsi uomini” e di usare armi letali. I mezzi di comunicazione di destra descrivono i soldati che evitano di sparare ai civili come soggetti a un’“umiliazione”.

Molti soldati hanno espresso solidarietà con Azaria, che ha infranto le regole ed ha ucciso un uomo indifeso, e disprezzo per Eizenkot, che si è rifiutato di fargliela passare liscia. Sulle reti sociali alcuni hanno manifestato la propria frustrazione nei confronti di ordini che impediscono loro di usare armi letali contro manifestanti palestinesi.

L’esercito e il ricercatore per i diritti umani Avihai Stollar hanno fatto luce sulle orrende ferite, che hanno provocato disabilità e morte, patite dai palestinesi lungo la barriera di Gaza. Stollar ha spiegato che i cecchini sono equipaggiati con due tipi di fucili, e se scelgono di utilizzare da vicino un fucile a lunga gittata possono volontariamente provocare danni e sofferenze eccessivi a manifestanti disarmati.

Reclamare a gran voce di agire

Ogni comandante militare impara che vittoria e sconfitta sono termini relativi, da misurare rispetto agli obiettivi strategici stabiliti all’inizio del conflitto. È quindi degno di nota che il piano di battaglia di Koshavi manchi di obiettivi strategici. Non c’è nessuna volontà di ristabilire il controllo diretto su Gaza, o di spodestare Hamas. È un piano per una incursione rapida, che semini morte e distruzione, per poi ritirarsi velocemente.

Credo che due obiettivi non dichiarati siano testare nuove armi e ricostituire la disciplina militare.

Per le compagnie di armamenti ogni attacco contro Gaza è un’opportunità per esibire le proprie tecnologie eperciò Kochavi ha detto alla stampa che nella sua nuova battaglia contro Gaza è incluso l’acquisto di nuove armi.

Ancor più importante, dare alle reclute l’opportunità di impegnarsi in una sanguinosa operazione militare – anche unilaterale – è fondamentale per mantenere la disciplina di un esercito israeliano indisciplinato che chiede di agire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever

Shir Hever è un membro del direttivo di “Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East” [Voci Ebraiche per una Giusta Pace in Medio Oriente, organizzazione di ebrei contrari all’occupazione attiva in Germania, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




La guerra all’innocenza: bambini palestinesi nei tribunali militari israeliani

Ramzy Baroud |

7-agosto 2019 – Foreing Policy Journal

Non si deve permettere ai tribunali militari israeliani di continuare a brutalizzare impunemente i bambini palestinesi.

E’ stato riportato che il 29 luglio, nella Gerusalemme occupata, Muhammad Rabi Elayyan, di 4 anni, è stato convocato dalla polizia israeliana per essere interrogato.

La notizia, originariamente riportata dalla Palestinian News Agency (WAFA), è stata successivamente smentita dalla polizia israeliana, probabilmente per ridurre il successivo impatto mediatico disastroso.

Gli israeliani non negano la vicenda nel suo complesso, ma sostengono piuttosto che non sia stato convocato il bambino, Muhammad, ma suo padre, Rabi ‘, che sarebbe stato convocato presso la stazione di polizia israeliana in Salah Eddin Street a Gerusalemme, per essere interrogato riguardo alle azioni di suo figlio.

Il bambino è stato accusato di aver lanciato una pietra contro i soldati israeliani di occupazione nel quartiere di Issawiyeh, un obiettivo abituale delle violenze israeliane. Il quartiere è stato anche il luogo tragico della demolizione di case con il pretesto che i palestinesi avessero costruito senza i permessi. Naturalmente, a Issawiyeh, o ovunque a Gerusalemme, la stragrande maggioranza delle richieste di costruire dei palestinesi viene respinta, mentre i coloni ebrei possono costruire senza ostacoli sulle terre palestinesi.

A tale proposito, Issawiyeh non è nuovo a comportamenti assurdi e illegali da parte dell’esercito israeliano. Il 6 luglio, una madre residente nel quartiere assediato è stata arrestata per fare pressione sul figlio adolescente, Mahmoud Ebeid, affinché a sua volta si consegnasse. La madre “è stata arrestata dalla polizia israeliana come pedina di scambio”, ha riferito Mondoweiss, citando il Wadi Hileh Information Center di Gerusalemme.

Le autorità israeliane hanno ragione di sentirsi in imbarazzo per l’intero episodio riguardante il bambino di 4 anni, da cui il tentativo di insinuare dubbi sulla vicenda. Il fatto è che il corrispondente di WAFA a Gerusalemme aveva, in effetti, verificato che il mandato era a nome di Muhammad, non di Rabi.

Mentre alcune fonti di notizie hanno sposato l’ “hasbara” [propaganda in ebraico, ndtr] israeliana, trasmettendo prontamente le proteste da parte israeliana su “false notizie”, bisogna tenere presente che questo evento non è certo un incidente isolato. Nei confronti dei palestinesi, notizie riguardanti detenzioni, percosse e uccisioni di bambini sono tra le caratteristiche più ricorrenti dell’occupazione israeliana dal 1967.

Proprio il giorno dopo la convocazione di Muhammad, le autorità israeliane hanno interrogato anche il padre di un bambino di 6 anni, Qais Firas Obaid, dello stesso quartiere di Issawiyeh, dopo aver accusato il bambino di aver gettato il contenitore di carta di un succo contro i soldati israeliani.

L’International Middle East Media Center (IMEMC) ha rivelato che “secondo fonti locali a Issawiyeh, l’esercito (israeliano) ha inviato un mandato di comparizione alla famiglia di Qais perché si recasse per essere interrogato presso l’ufficio di polizia di Gerusalemme mercoledì (31 luglio) alle 8 di mattina”. In una foto, il bambino è raffigurato mentre gli viene sottoposto davanti ad una telecamera un ordine militare israeliano scritto in ebraico.

Le storie di Muhammad e Qais sono la norma, non l’eccezione. Secondo il gruppo di difesa dei prigionieri, Addameer, attualmente nelle carceri israeliane ci sono 250 minori, e circa 700 minori palestinesi che hanno a che fare ogni anno con il sistema giudiziario militare israeliano. “L’accusa più comune rivolta contro i minori, riferisce Addameer, è il lancio di pietre, un reato punibile in base alla legge militare [con la reclusione] fino a 20 anni”.

In effetti, Israele ha molto di cui essere imbarazzato. Dall’inizio della Seconda Intifada, la rivolta popolare del 2000, circa 12.000 minori palestinesi sono stati arrestati e interrogati dall’esercito israeliano.

Ma non sono solo i minori e le loro famiglie a essere presi di mira dai militari israeliani, ma anche coloro che prendono le loro difese. Il 30 luglio, un avvocato palestinese, Tariq Barghouth, è stato condannato a 13 anni di carcere da un tribunale militare israeliano per “aver sparato in diverse occasioni contro gli autobus israeliani e le forze di sicurezza “.

Per quanto fragile possa sembrare l’accusa riguardante un noto avvocato che spara agli “autobus”, è importante notare che Barghouth è molto stimato per le sue difese in tribunale di molti minori palestinesi. Barghouth era una fonte costante di grattacapi per il sistema giudiziario militare israeliano a causa della sua strenua difesa di un ragazzino, Ahmad Manasra.

Manasra, all’età di 13 anni, è stato processato e incriminato da un tribunale militare israeliano perché avrebbe pugnalato e ferito due israeliani vicino all’insediamento ebraico illegale di Pisgat Ze’ev nella Gerusalemme occupata. Il cugino di Manasra, Hassan, di 15 anni, è stato ucciso sul posto, mentre Ahmad, ferito, è stato processato in tribunale come un adulto.

Fu l’avvocato Barghouth a contestare e denunciare il tribunale israeliano per il duro interrogatorio e per aver filmato in segreto il bambino ferito mentre era legato al suo letto d’ospedale.

Il 2 agosto 2016, Israele ha approvato una legge che consente alle autorità di “imprigionare un minore condannato per crimini gravi come omicidio, tentato omicidio o omicidio colposo anche se ha meno di 14 anni”. La legge è stata predisposta all’uopo per trattare casi come quello di Ahmad Manasra, il quale il 7 novembre 2016 (tre mesi dopo l’approvazione della legge) è stato condannato a 12 anni di carcere.

Il caso di Manasra, i video trapelati dei maltrattamenti che ha subito da parte degli interrogatori israeliani e la sua dura condanna hanno determinato una maggiore attenzione internazionale sulla difficile situazione dei minori palestinesi all’interno del sistema giudiziario militare israeliano.

“Si ravvisa come gli interrogatori israeliani facciano uso di abusi verbali, intimidazioni e minacce a quanto pare per infliggere sofferenza mentale allo scopo di ottenere una confessione”, ha detto all’epoca Brad Parker, avvocato e responsabile ufficiale per la sensibilizzazione a livello internazionale di Defence for Children — Palestine.

La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, di cui Israele, a partire dal 1991, è firmataria, “proibisce la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”. Tuttavia, secondo Parker, “maltrattamenti e torture di minori palestinesi arrestati dai militari e dalla polizia israeliani sono diffusi e sistematici “.

Così sistematici, in effetti, che video e notizie sull’arresto di minori palestinesi molto giovani sono quasi una costante sulle piattaforme di social media che si occupano di Palestina e diritti dei Palestinesi.

La triste realtà è che Muhammad Elayyan, 4 anni, e Qais Obaid, 6 anni, e molti bambini come loro, sono diventati un bersaglio di soldati israeliani e coloni ebrei in tutti i territori palestinesi occupati.

Questa orrenda realtà non deve essere tollerata dalla comunità internazionale. I crimini israeliani contro i minori palestinesi devono essere efficacemente affrontati perché Israele, le sue leggi disumane e gli iniqui tribunali militari non devono poter continuare la loro incontrastata brutalità nei confronti dei minori palestinesi.

(Traduzione di Aldo Lotta)




In seguito all’uccisione del soldato*, politici israeliani promuovono l’annessione della Cisgiordania

Lubna Masarwa , Daniel Hilton

9 agosto 2019 – Middle East Eye

Esperti del discorso politico affermano che la scoperta del corpo del diciannovenne spinge i politici a chiedere l’estensione della sovranità di Israele, che ora è accettata dalla maggioranza dell’opinione pubblica israeliana

Inizialmente la risposta israeliana al ritrovamento giovedì del corpo del diciannovenne Dvik Sorek nei pressi di una colonia in Cisgiordania è stata la stessa di altri momenti in cui un soldato è stato ucciso nei territori occupati.

Le forze di sicurezza hanno perlustrato la zona nelle cittadine e villaggi vicini, bloccando le strade principali tra le città di Hebron e Betlemme.

Nel contempo leader israeliani hanno emesso comunicati, esprimendo le proprie condoglianze alla famiglia di Sorek, condannando l’aggressione e le fazioni palestinesi e promettendo una punizione esemplare.

Tuttavia la piega che ha preso il discorso è stata molto significativa.

Ore dopo che è iniziata la caccia all’uomo, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha partecipato ad una cerimonia per la posa della prima pietra nella colonia di Beit El. Là ha parlato della costruzione di centinaia di appartamenti e di rafforzare il radicamento israeliano “in tutte le sue parti”.

La nostra missione è di insediare il popolo di Israele sulla nostra terra, di garantire la nostra sovranità sulla nostra patria storica,” ha detto Netanyahu.

Benché la costruzione di colonie e l’incremento della presenza ebraica siano stati da molto tempo un ritornello comune delle politiche della destra israeliana, l’estensione della sovranità e quindi la piena annessione della Cisgiordania sta diventando un discorso sempre più spesso ventilato.

E il primo ministro israeliano non è stato l’unico leader a prendere la morte di Sorek nel blocco di colonie di Gush Etzion come spunto per parlarne ancora una volta.

Il portavoce del parlamento Yuli Edelstein ha detto che la risposta di Israele all’aggressione deve essere decisiva: “L’applicazione della sovranità israeliana in ogni luogo – e prima a Gush Etzion.”

È intervenuto anche Naftali Bennet, ex-ministro dell’educazione e importante esponente della lista “Destra Unita”, da poco formata.

Oggi, sì, oggi, la legge israeliana deve essere applicata a Gush Etzion con una decisione del governo,” ha twittato.

Raggiungere il consenso diffuso

L’idea di annessione ha fatto breccia nella comune opinione pubblica ai primi di aprile, giorni prima delle elezioni politiche israeliane, quando Netanyahu ha provato a prendersi i voti di destra promettendo di applicare la sovranità [israeliana] alle colonie della Cisgiordania.

La Cisgiordania è stata ufficialmente sotto occupazione militare da quando è stata conquistata nel 1967, e da allora ogni colonia vi è stata costruita in violazione delle leggi internazionali in base a un sistema amministrativo separato dalle comunità israeliane all’interno dei confini del Paese del 1948.

Ma negli ultimi mesi la destra ha cercato di estendere la sovranità israeliana e di annettere parti o tutto il territorio, riflettendo iniziative prese in altre zone conquistate nel 1967, come Gerusalemme est e le Alture del Golan. Queste annessioni non sono mai state riconosciute dalla comunità internazionale.

È sicuramente significativo che il dibattito sia diventato una questione ampiamente condivisa,” dice a Middle East Eye Meron Rapoport, un esperto analista politico israeliano. “Le parole ‘annessione’ e ‘sovranità’ vengono dette quotidianamente dai politici.”

Il dibattito non si limita alle sole colonie israeliane.

All’inizio di questa settimana Ayelet Shaked, dirigente della coalizione di estrema destra “Destra Unita”, ha chiesto ai membri della lista di dichiarare il proprio impegno ad estendere la sovranità di Israele sui “territori di Giudea, Samaria e della valle del Giordano,” riferendosi a tutta la Cisgiordania.

Con la “Destra Unita” in corsa per vincere circa 10 seggi nel parlamento israeliano, la Knesset, tale discorso potrebbe diventare una parte importante del futuro governo di destra in seguito alle elezioni israeliane del 17 settembre.

Già molti nel partito Likud di Netanyahu stanno chiedendo la stessa cosa.

La maggioranza dei deputati del Likud parla di sovranità, annessione e sviluppo delle colonie,” dice Rapoport.

Ma non bisogna dimenticare che è periodo di elezioni, quando i politici sostengono posizioni sempre più radicali.” Per Rapoport l’annessione senza cittadinanza per gli abitanti palestinesi della Cisgiordania, il cui numero è di circa 2.8 milioni, renderebbe ufficialmente Israele uno Stato di apartheid. Ma, afferma, se la destra dovesse fallire, ciò porrebbero serie domande.

L’annessione è uno dei principali progetti politici della destra. Per cui se non riuscisse ad ottenere l’approvazione per l’annessione della Cisgiordania, ciò provocherebbe una grave crisi all’interno della destra.”

Salah Khawaja, un attivista palestinese contro l’occupazione, afferma che l’annessione è già in atto sul terreno.

Nota che la maggior parte della popolazione palestinese che una volta risiedeva nell’Area C, territorio direttamente amministrato da Israele, è stata cacciata altrove in Cisgiordania a causa di una serie di politiche israeliane.

Nel contempo il discorso sulla soluzione dei due Stati è totalmente assente.

I partiti di destra israeliani non parlano più di uno Stato palestinese,” dice a MEE. “L’annessione sta diventando istituzionalizzata.”

* vedi http://zeitun.info/2019/08/10/luccisione-di-un-soldato-israeliano-scatena-una-vasta-caccia-alluomo-in-cisgiordania/

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rabbini israeliani di accademia militare ripresi in un video mentre lodano Hitler

Jonathan Ofir

30 aprile 2019, Mondoweiss

Ieri il Canale 13 israeliano ha trasmesso delle registrazioni video di rabbini che insegnano nell’ accademia militare Bnei David, sostenuta dallo Stato, che si trova nella colonia di Eli in Cisgiordania. I rabbini elogiano l’ideologia nazista razzista di Hitler come “corretta al 100%”, criticandola solo per il fatto di non essere stata applicata alle persone giuste – cioè, gli ebrei dovrebbero essere la razza superiore e i non ebrei gli “untermenschen” [i subumani, in base alla teoria nazista, ndtr.].

Le affermazioni lasciano senza parole. L’intera trasmissione sottotitolata può essere vista in un video realizzato dal giornalista David Sheen.

Questi insegnanti mandano i giovani nell’esercito e sostengono queste idee da anni. Hanno stretti legami con parlamentari, in particolare con il rabbino Rafi Peretz, ora a capo dell’ “Unione dei partiti di destra”, la nota coalizione con il partito kahanista “Potere Ebraico”, che è attualmente il principale candidato a diventare ministro dell’Educazione. L’accademia è legata anche a una yeshiva [università di studi ebraici, ndtr.], frequentata da molti studenti dopo il servizio militare.

Dovrebbe tornare la schiavitù

Si inizia con il rabbino Eliezer Kashtiel che deplora il fatto che la schiavitù sia stata abolita:

L’abolizione della schiavitù legale ha creato dei problemi. Nessuno è responsabile per quel bene di proprietà. Con l’aiuto di dio essa ritornerà. I goyim (non ebrei) vorranno essere nostri schiavi. Essere schiavo degli ebrei è la cosa migliore. Devono essere schiavi, vogliono essere schiavi. Invece di vagabondare per le strade, fare follie e farsi del male l’un l’altro, adesso sono schiavi, adesso la loro vita incomincia a diventare ordinata.”

In questo contesto per ‘goyim’ bisogna intendere i palestinesi.

Afferma che è a causa del fatto che loro hanno “problemi genetici” e sostiene che vogliono essere sotto occupazione:

Ci sono persone con problemi genetici intorno a noi. Chiedete a qualunque arabo medio dove vuole stare. Vuole stare sotto occupazione. Perché? Perché hanno problemi genetici, non sanno come governare un Paese, non sanno fare niente – guardate in che condizioni si trovano.”

Sì, siamo razzisti

Certamente si tratta di razzismo”, continua Kashtiel.

Forse non sappiamo che vi sono razze differenti? E’ forse un segreto? E’ falso? Che cosa ci si può fare? E’ la verità. Sì, siamo razzisti, crediamo nel razzismo.”

Kashtiel suggerisce che, poiché gli ebrei sono una razza superiore, possono “aiutare” quelle inferiori:

Giusto, ci sono delle razze nel mondo, le nazioni hanno caratteristiche genetiche, quindi noi (gli ebrei) dobbiamo pensare a come aiutarli. Le differenze razziali sono reali e questa è proprio la ragione per offrire aiuto.”

Uno studente chiede al rabbino: “Chi vi dà il diritto di decidere chi è chi?”

Kashtiel: “Posso vedere che le mie capacità sono molto più grandi delle sue.”

L’Olocausto sono l’umanitarismo e il pluralismo

Un altro rabbino, Giora Radler, afferma che l’Olocausto non è ciò che si pensa, non riguarda l’uccisione degli ebrei. Sono l’ umanitarismo e il pluralismo ad ucciderci realmente:

L’Olocausto in realtà non riguarda l’uccisione degli ebrei – quello non è l’Olocausto. Tutte queste giustificazioni che sostengono che si basava sull’ideologia o che è stato un sistema, sono ridicole. Il fatto che avesse una base ideologica, in un certo senso lo rende più morale che non se si trattasse di gente che ha ucciso altra gente senza motivo. L’ umanitarismo, tutta la cultura secolare sul fatto di avere fede nell’umanità, questo è l’Olocausto. L’Olocausto in realtà è essere pluralisti, credere nella ‘fede nell’umanità’. Questo è ciò che si definisce un Olocausto. Il Signore (sia benedetto il suo nome) grida da anni che l’esilio (ebraico) è finito, ma il popolo non lo ascolta, e quella è la sua malattia, una malattia che deve essere curata con l’Olocausto.”

In altre parole, l’Olocausto è avvenuto per dare una lezione agli ebrei – abbandonate il pluralismo, isolatevi nello Stato ebraico e dimenticate la “malattia” della diaspora.

Queste considerazioni sono state fatte durante una lezione intitolata “Riguardo all’Olocausto”.

La logica nazista era giusta

Radler: “La logica dei nazisti era giusta per loro stessi. Hitler dice che un certo gruppo nella società è il seme di tutte le disgrazie per tutta l’umanità, che a causa di ciò tutto il genere umano cadrà nell’abisso, che essi danneggiano l’umanità e perciò devono essere sterminati.”

Radler chiede a uno studente: “Questa ideologia ti sembra illogica? Pessima?”

Lo studente risponde: “Non sembra essere etica”.

Radler: “Mosè era cattivo come Hitler?”

Studente: “No.”

Radler: “Perché no? C’è una sola cosa al mondo che è veramente diabolica, ed è essere ipocrita. C’è differenza per te se ti uccidono con un coltello come hanno fatto ad Agag (il re amalechita che il profeta Samuele ‘ha tagliato a pezzi’) o se ti uccidono in una camera a gas?”

Hitler aveva ragione, “nel giusto al 100%”

Radler continua a parlare di Hitler ed ora aggiunge che la malattia non sono solo il pluralismo e l’ umanitarismo, ma anche il femminismo, e che Hitler aveva assolutamente ragione:

Cominciamo con la domanda se Hitler aveva ragione o no.”

Studente: “No.”

Radler: “(Hitler) è la persona più giusta. Ha senz’altro ragione in ogni parola che dice. La sua ideologia è giusta. C’è un mondo maschio che combatte, che ha a che fare con l’onore e la fratellanza dei soldati. E c’è il mondo debole, etico e femminile (che parla di) ‘porgere l’altra guancia’. ‘E noi (i nazisti) crediamo che gli ebrei portino avanti questa eredità, cercando, nei nostri termini, di guastare l’umanità intera, ed è per questo che sono i veri nemici.’ Ora, lui (Hitler) è al 100% nel giusto, a parte il fatto che stava dalla parte sbagliata.”

Quindi qui Radler sta emulando Hitler, citando le ragioni dei nazisti con approvazione. Secondo Radler l’unico errore dei nazisti è che non sapevano quale fosse la vera razza superiore, e chi fossero realmente gli ‘untermenschen’. I nazisti non potevano avere ragione, perché solo gli ebrei potevano essere superiori. Ma se ora gli ebrei applicassero questa teoria e ideologia della razza ai giorni nostri – cioè essenzialmente riguardo ai palestinesi, allora sarebbero davvero “al 100% nel giusto” – forse addirittura al 101%, perché avrebbero ancor più ragione di Hitler. 

Risposte

Sono parole grosse. Un vero giudeo-nazismo.

I rabbini sono stati contattati per una risposta e hanno cercato di insabbiare tutto come se si trattasse di un malinteso.

Il rabbino Kashtiel ha detto di essere “dispiaciuto e addolorato che una lezione sui diritti umani sia stata intesa all’opposto di ciò che era, un’interpretazione moderno-socialista di schiavitù.”

Il rabbino Radler ha detto che le sue parole sono state “citate fuori dal contesto” e che la lezione sull’Olocausto “cerca di spiegare la logica patologica di Hitler e le ragioni e motivazioni dell’Olocausto.”

Il parlamentare israelo-palestinese Ahmad Tibi ha risposto alla trasmissione: “In Germania sarebbe risultata più autentica.”

Ovviamente anche i politici sionisti israeliani si sono allarmati. Il parlamentare di centro Yair Lapid ha scritto su Twitter:

Questo non è ebraismo. Questi non sono valori. Persone che parlano in questo modo non sono degne di educare i giovani.”

Lapid ha chiesto di sospendere i finanziamenti dello Stato alla yeshiva “finché non verrano espulsi i rabbini razzisti”. Ma qui sorge un problema, perché l’ideologia di Lapid sostiene “il massimo di ebrei sul massimo di terra con il massimo di sicurezza e il minimo di palestinesi” e, benché Lapid ora specifichi che “sono state persone laiche a creare Israele”, in realtà la sua religione è il sionismo ultra-nazionalista e lui è solo la faccia leggermente più presentabile di quel giudeo-nazismo che vediamo provenire da Bnei David.

La leader del partito di sinistra [sionista, ndtr.] Meretz Tamar Zandberg:

L’accademia di Eli avrebbe dovuto essere chiusa da tempo e chiunque permetta che lo sciovinismo, l’omofobia e tutte le altre espressioni di odio che provengono da là portino avanti la follia, non si dovrebbe sorprendere delle orribili espressioni che sono uscite oggi di là.”

Zandberg ha detto di aver fatto richiesta al ministero dell’Educazione di smettere di finanziare l’accademia.

Ma la yeshiva e l’accademia di Eli sono ora strettamente legate al governo. È stato il rabbino capo della yeshiva, Eli Sadan, a fare campagna perché Rafi Peretz diventasse capo dell’ “Unione dei partiti di destra”, ora principale candidato per il ministero dell’Educazione. A Peretz è stato permesso di parlare agli studenti prima delle elezioni, anche quando questo è stato impedito a Naftali Bennett (che finora è stato ministro dell’Educazione) e al primo ministro Netanyahu.

In altri termini, esiste un’intera realtà politica che è ancor più radicale sia di Netanyahu che persino di Bennett, che era considerato di estrema destra, uno che davvero parla di potere ebraico, con uno spirito apertamente fascista, letteralmente nazista. E questa ideologia è in procinto di ottenere un posto centrale nel governo israeliano. 

Non un lapsus

Come sottolinea anche il servizio di Canale 13, ciò che abbiamo ascoltato non è un lapsus:

Queste affermazioni sono state ripetute per anni a Bnei David. Non si tratta di un lapsus, ma di un programma politico.”

E Bnei David non è un’isola. Un’altra vicenda di un insegnante genocida delle forze di sicurezza riguarda il rabbino Dov Lior, della colonia di Kiryat Arba [colonia di fondamentalisti nazional religiosi nei pressi di Hebron, ndtr.], che ha promosso il libro Torat Hamelech (‘La Torah del re’) del 2009, che sostiene l’uccisione dei bambini non ebrei poiché “è chiaro che cresceranno per farci del male”. Lior ha insegnato alle forze di polizia in un progetto speciale per reclute religiose denominato “Credenti nella polizia”. Tra l’altro gli autori del libro provengono dalla ‘Od Yosef Chai Yesiva’ nella colonia di Yitzhar, una yeshiva che è stata finanziata dalla fondazione della famiglia di Jared Kushner ( genero e consigliere di Trump, ndtr.] fino al 2011. Interpretazioni dell’Olocausto come punizione divina per i peccatori sono state espresse dall’ex rabbino capo sefardita Ovadia Yosef, che credeva anche che lo scopo dei non ebrei fosse di servire gli ebrei e paragonava i non ebrei agli asini.

È possibile che la summenzionata divulgazione di opinioni sconvolgenti possa provocare un certo temporaneo e circoscritto turbamento, ma questa ideologia è profondamente radicata e oggi è parte integrante di una fondamentale situazione politica israeliana. E’ chiaro che i rabbini considerano questa attenzione come una seccatura da parte di progressisti senza raziocinio, ed è probabile che la considerino al pari di uno sfortunato ‘Azarya’ – il soldato che tre anni fa è stato filmato mentre uccideva a distanza ravvicinata un palestinese immobilizzato e ha dovuto trascorrere alcuni mesi in prigione. Il problema per i sostenitori di Azarya non era l’assassinio, ma il video. E così queste persone potrebbero trovare il modo per uscire da questo disastro mediatico, ma continueranno a credere nella giustezza della supremazia ebraica.

Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger/scrittore che vive in Danimarca

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Sionismo e studi africani globali

Samar Al-Bulushi, Peter James Hudson, Zachary Mondesire, Corinna Mullin, Jemima PierreI

21 luglio 2019, Africa is a Country

Il 27 e 28 giugno di quest’anno, abbiamo partecipato a una conferenza dal titolo “Razzializzazione e Dimensione Pubblica in Africa e nella Diaspora Africana”, ospitata dal Centro Studi Africani dell’Università di Oxford e dalla sua Scuola di Studi Globali e di Area. La conferenza si è tenuta per “affrontare il problema contemporaneo della razzializzazione in Africa e nella diaspora africana”. Gli organizzatori intendevano analizzare come “le persone di origine africana vengano razzializzate … [e] perché e come in Africa e nella diaspora africana le identità e le categorie razziali siano costruite, immaginate e inscritte all’interno di processi, pratiche e rapporti sociali, politici ed economici.”

In realtà, una conferenza accademica internazionale sull’Africa Globale è stata cooptata in un progetto teso a legittimare lo Stato israeliano [fondato] sugli insediamenti coloniali e l’apartheid e a operare un “black-wash” [ripulita attraverso la matrice nera, n.d.tr.] delle sue politiche e pratiche razziste. In quanto tale, e alla luce dei continui tentativi di Israele di normalizzare le sue relazioni con gli Stati africani in coordinamento con l’imperialismo USA, ingraziandosi alle comunità della diaspora africana, vogliamo dare un monito ai futuri organizzatori della conferenza Black Studies e African Studies, i quali potrebbero avere a che fare con simili tattiche da parte delle organizzazioni sioniste.

Nell’invito originale, gli organizzatori della conferenza hanno usato i linguaggi dell’antirazzismo, anticolonialismo, panafricanismo e intersezionalità. Hanno invocato l’omicidio di Trayvon Martin e la detenzione illegale da parte del Regno Unito e le deportazioni di membri della generazione Windrush [bambini importati dai Caraibi in Gran Bretagna nel 1948, n.d.tr.], e hanno fatto riferimento al lavoro di intellettuali neri radicali tra cui W.E.B. Du Bois e Frantz Fanon. I 12 seminari della conferenza dovevano essere introdotti da linee guida dell’antropologa Faye V. Harrison e del filosofo Achille Mbembe (Mbembe non ha potuto partecipare).

Dei 12 seminari, due erano elencati sotto un solo titolo (con una Prima Parte e una Seconda Parte): “Nozioni di Diaspora e Patria: l’Impatto dell’Emergenza Contemporanea del (dei) Razzismo (Razzismi), Antisemitismo (Antisemitismi), Nazionalismo (Nazionalismi) e Supremazia Bianca nell’Era della Globalizzazione.” A prima vista, il titolo generale appariva innocuo. Sembrava correttamente accademico, anche se leggermente obsoleto, e sembrava rientrare nei temi espliciti della conferenza. Tuttavia, uno sguardo più attento alla composizione dei seminari ha rivelato alcune cose sorprendenti.

Entrambi i dibattiti erano organizzati da un gruppo chiamato Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy (ISGAP) – un’associazione di parte, non un’istituzione accademica. È stato fondato da Charles Asher Small, un canadese senza un definito ruolo accademico che ha conseguito una laurea presso il St. Anthony’s College a Oxford. In un’intervista del 2019, Small ha descritto l’ISGAP come “un movimento di base intellettuale all’interno dell’università” i cui obiettivi principali includono la lotta al movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), un movimento che Small ha identificato come anti-semita. L’ISGAP lavora “conducendo ricerche strategiche e fornendo informazioni” al fine di “influire sulle future generazioni di politici, studiosi e leader di comunità”.

Mentre altre organizzazioni sioniste hanno usato strumenti giuridici e ostracismo per smorzare la solidarietà verso i Palestinesi nei campus universitari, la strategia adottata dall’ISGAP sembra essere leggermente diversa. Da un lato, il suo approccio è di infiltrarsi negli ambiti studenteschi e di appropriarsi del linguaggio accademico. Dall’altro, mira a incitare al dissenso e al conflitto all’interno dei circoli accademici ai fini dell’auto-promozione e della propaganda, usando la bandiera del “libertà di parola accademica” come randello contro la critica.

I partecipanti dell’ISGAP alla conferenza di Oxford costituivano una strana compagine. Tra di loro c’erano un membro del partito Likud alla Knesset, uno psicologo clinico e un componente del consiglio dell’ISGAP che non aveva mai scritto niente sull’Africa, un antropologo del Grinnell College interessato alla “doppia coscienza” [concetto che si riferisce ai gruppi marginalizzati in una società oppressiva, n.d.tr.] e alla diversità israeliana, uno scienziato politico dell’università di Tel Aviv, nonché lo stesso Charles Small. Molti dei relatori dei due seminari dell’ISGAP provenivano dagli Historically Black Colleges and Universities (HBCUs) [College e Università Storicamente Neri, n.d.tr.] negli Stati Uniti. Tra questi c’erano Harold V. Bennett del Morehouse, Valerie Ann Johnson del Bennett College, Carlton Long, un consulente educativo un tempo del Morehouse, e Ansel Brown della North Carolina Central University. Brown ha utilizzato tutto il tempo assegnatogli per il primo dibattito dell’ISGAP per una presentazione di cinquanta minuti intitolata “Sionismo e Pan-Africanismo: Un Viaggio Comune per la Riconquista dell’Auto-Realizzazione Etnica”.

La connessione coll’ HBCU è importante. Negli ultimi anni, l’American Israel Public Affairs Committee [Commissione per gli Affari Pubblici Israeliani (AIPAC), principale gruppo lobbystico filoisraeliano negli U.S.A., n.d.tr.], di destra, ha fatto proselitismo nei college neri, puntando su studenti e docenti interessati alla politica internazionale. L’AIPAC ha sponsorizzato un viaggio a Washington DC per incontrare i politici che sono sostenitori di Israele e ha fornito viaggi completamente gratuiti in Israele. Il suo obiettivo è coltivare la simpatia per il sionismo mettendo nel frattempo in conflitto le lotte di liberazione dei neri e quelle dei Palestinesi.

Anche prima dell’inizio dei seminari dell’ISGAP, molti partecipanti alla conferenza hanno espresso preoccupazione per la loro inclusione nel programma. Erano turbati dalle asserite connessioni tra Israele, uno Stato fondato sulla pulizia etnica e sulla disumanizzazione ed espropriazione della popolazione palestinese autoctona, e le vicende radicali del Pan-Africanismo. Ed erano sorpresi e preoccupati per la preminenza data a questo tipo di visione dagli organizzatori della conferenza. Molti partecipanti alla conferenza hanno discusso del modo in cui i seminari sponsorizzati dall’ISGAP sembravano progettati per infiltrarsi ed interferire con il programma, rispecchiando ciò che si era visto in precedenti conferenze, specialmente quando si trattava di questioni relative al BDS.

Di conseguenza, i partecipanti alla conferenza hanno richiesto un dibattito pubblico con gli organizzatori al fine di discutere la relazione dell’ Oxford African Studies Centre con l’ISGAP. Ma le nostre domande e preoccupazioni sono state travisate, e in alcuni casi accolte con sprezzante ilarità, e siamo stati francamente sorpresi dalla riluttanza a sostenere una discussione aperta. Nel frattempo, alcuni partecipanti affiliati all’ISGAP hanno tentato di affossare le nostre richieste di chiarimento sostenendo che le nostre preoccupazioni incoraggiavano l’antisemitismo, il razzismo e, ironicamente, negavano la “libertà di espressione”.

Il secondo giorno della conferenza, diversi relatori hanno rinunciato al tempo a loro dedicato per l’intervento, dandoci l’opportunità di incontrarci per discutere delle nostre preoccupazioni. La maggioranza dei partecipanti alla conferenza ha preso parte alla riunione, durante la quale ha espresso soddisfazione per il fatto di essere stati in grado di riunirci come collettivo, soprattutto perché gli ambienti accademici spesso incoraggiano l’isolamento, l’atomizzazione e l’alienazione. Abbiamo redatto collettivamente una dichiarazione in cui ci dissociavamo dall’ ISGAP e abbiamo chiesto al Centro Studi Africani di Oxford di pubblicare la nostra dichiarazione sul loro sito web. Il Centro ha rifiutato di farlo. La direzione del Centro ha, invece, rilasciato una propria dichiarazione, negando qualsiasi connessione con l’ISGAP affermando nel contempo il proprio impegno a favore del libero scambio intellettuale.

Crediamo fermamente che parte della risposta del Centro Studi Africani avesse lo scopo di ovviare al fatto che così tanti partecipanti alla conferenza fossero infastiditi dalla presenza preminente dell’ISGAP. A tal fine, alcuni organizzatori della conferenza hanno persino insinuato che un eminente studioso di sesso maschile di alto livello avesse guidato questa protesta.

Non è stato affatto così. In realtà, nonostante gli sforzi degli organizzatori, come gruppo abbiamo spontaneamente preso il controllo della conferenza e l’abbiamo trasformata in un forum collettivo, auto-organizzato e multi-generazionale per l’educazione politica, imparando e facendo noi tutti nuove valutazioni e interventi in risposta all’opposizione da parte dell’African Studies Center e delle affiliate ISGAP. La nostra risposta scritta collettivamente è stata pubblicata sul sito web della Fondazione Frantz Fanon il 4 luglio 2019.

A dire il vero, c’era una certa ansia manifestata riguardo alla dichiarazione collettiva. Alcuni partecipanti erano preoccupati che se avessimo reso pubbliche le nostre obiezioni, avremmo coinvolto l’Oxford African Studies Centre, che avrebbe avuto gravi conseguenze sui tentativi di imprimere dei cambiamenti nell’università. In effetti, Charles Small dell’ISGAP, seduto tra il pubblico a seguire le nostre discussioni, ha suggerito di non fare nulla che potesse mettere a repentaglio la posizione del direttore del Centro (il primo docente nero della cattedra Rhodes di Oxford), che ha descritto come un vecchio amico.

Eravamo preoccupati della possibile reazione da parte di Oxford e altrove per quegli studenti laureati e per i docenti precari che volevano appoggiarci. Un certo numero di docenti senior era preoccupato per le rappresaglie e uno studioso, che all’ultimo minuto ha chiesto che il suo nome venisse rimosso dalla dichiarazione, ci ha invitati a “riconoscere l’atmosfera di intimidazione e paura alimentata durante questa vicenda”.

Ma alla fine, tra i firmatari (e tra i molti che hanno espresso sostegno, ma hanno ritenuto di non poter firmare), c’era la sensazione che non potessimo lasciare che lo studio sull’Africa Globale fosse ostaggio dei sionisti. Inoltre, non abbiamo potuto accettare la diffamazione e la profanazione della storia del pan-Africanismo da parte di finti accademici e agenti di uno Stato razzista e colonialista.

L’infiltrazione della conferenza da parte dell’ISGAP è stata poco più che una continuazione del razzismo sionista, rivestito della raffinatezza del linguaggio accademico e, in particolare, con gli abiti eleganti di Oxford. Ma dovremmo sottolinearne l’importanza e capire che tali infiltrazioni accadranno di nuovo.

Se vogliamo mantenere l’integrità politica e intellettuale dello studio dell’Africa Globale, dobbiamo diffidare in futuro di tali infiltrazioni – e, per combatterle, dobbiamo continuare a rafforzare e rinnovare, in tutto il mondo, le connessioni tra le lotte contro il neocolonialismo, il capitalismo basato sulla razza e l’imperialismo.

Traduzione: Aldo Lotta