La corsa di Israele in Africa: vendere acqua, armi e menzogne

Ramzy Baroud

23 luglio 2019 – Al Jazeera

Israele sta cercando di riscrivere la storia per entrare nei cuori dei cittadini africani, ma non ci riuscirà

Per anni, il Kenya è stato la porta di Israele verso l’Africa. Israele ha usato le forti relazioni politiche, economiche e di sicurezza tra i due Stati per espandere la sua influenza sul continente e mettere altre Nazioni africane contro la Palestina. Malauguratamente la strategia di Israele sembra, almeno in apparenza, avere successo: il sostegno storico e dichiarato dell’Africa alla lotta palestinese sulla scena internazionale sta diminuendo.

Il riavvicinamento del continente a Israele è una sventura, perché, per decenni, l’Africa è stata all’avanguardia nell’opporsi a tutte le ideologie razziste, incluso il sionismo, ideologia alla base della fondazione di Israele sulle rovine della Palestina. Se l’Africa cedesse alle lusinghe e alle pressioni israeliane e accettasse pienamente lo Stato sionista, il popolo palestinese perderebbe un partner prezioso nella lotta per la libertà e i diritti umani.

Ma non tutto è perduto.

Il mese scorso ho visitato Nairobi, capitale del Kenya, per partecipare a incontri con giornalisti, intellettuali, attivisti per i diritti umani e cittadini comuni del Paese, nel tentativo di contrastare parte della propaganda imposta negli ultimi anni dalla macchina israeliana dell’hasbara [propaganda israeliana, ndtr.]. Considerando il successo di Israele nel penetrare i vari strati della società keniota, volevo indagare se fosse ancora in qualche modo possibile una solidarietà.

Alla fine della mia visita sono rimasto piacevolmente sorpreso, poiché ho scoperto che la “storia del successo” di Israele in Kenya e nel resto dell’Africa è superficiale e l’affinità tra Africa e Palestina è troppo profonda perché sia facilmente sradicata da una qualsiasi “campagna d’immagine” da parte di Israele.

La lunga storia della solidarietà africana con la Palestina

Secondo l’analista politico israeliano Pinhas Anbari, la “campagna d’immagine in Africa” di Israele è iniziata dopo che Israele ha fallito nel convincere gli Stati europei a sostenere le sue politiche nei confronti dei palestinesi.

“Quando l’Europa espresse apertamente il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese”, ha detto Anbara, “Israele ha preso la decisione strategica di rivolgersi all’Africa”.

Ma il sostegno dell’UE a uno Stato palestinese e le critiche occasionali alle colonie ebraiche illegali nei territori occupati non sono state le uniche ragioni alla base della decisione di Israele di concentrarsi sull’Africa.

La maggior parte dei Paesi africani, come la maggior parte dei paesi del sud del mondo, ha votato a lungo a favore delle risoluzioni filo-palestinesi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA), contribuendo ulteriormente al senso di isolamento di Israele sulla scena internazionale. Di conseguenza, riconquistare l’Africa – “riconquistare” perché l’Africa non è sempre stata ostile a Israele e al sionismo – è diventato un modus operandi delle relazioni internazionali israeliane.

Il Ghana riconobbe ufficialmente Israele nel 1956, otto anni appena dopo la sua nascita, e iniziò una tendenza che continuò tra i Paesi africani negli anni seguenti. All’inizio degli anni ’70, Israele aveva conquistato una posizione forte nel continente. Alla vigilia della guerra arabo-israeliana del 1973, Israele aveva rapporti diplomatici con 33 Paesi africani.

“La guerra di ottobre”, tuttavia, ha cambiato tutto. Allora, i Paesi arabi, sotto la guida egiziana, agivano, in certa misura, con una strategia politica unitaria. E quando i Paesi africani dovettero scegliere tra Israele, un Paese nato da intrighi coloniali occidentali, e gli arabi, che soffrivano per mano del colonialismo occidentale quanto l’Africa, scelsero naturalmente la parte araba. Uno dopo l’altro, i Paesi africani iniziarono a recidere i legami con Israele. Ben presto nessuno Stato africano tranne Malawi, Lesotho e Swaziland intrattenne relazioni diplomatiche ufficiali con Israele.

In seguito, la solidarietà del continente con la Palestina è andata anche oltre. L’Organizzazione dell’Unità Africana – il precursore dell’Unione Africana – nella sua dodicesima sessione ordinaria, tenutasi a Kampala nel 1975, fu il primo organo internazionale a riconoscere su larga scala il razzismo intrinseco nell’ideologia sionista di Israele, adottando la Risoluzione 77 (XII) [di sostegno alla popolazione palestinese e forte condanna di Israele, ndtr]. La stessa risoluzione è citata nella risoluzione UNGA 3379, adottata nel novembre dello stesso anno, che stabiliva che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. La risoluzione 3379 è rimasta in vigore fino a quando non è stata revocata dall’Assemblea nel 1991, dietro una veemente pressione americana.

Purtroppo, la solidarietà dell’Africa con la Palestina ha iniziato a erodersi negli anni ’90. In quegli anni il processo di pace sponsorizzato dagli Stati Uniti ebbe un grosso slancio, dando luogo agli Accordi di Oslo e ad altri accordi che normalizzarono l’occupazione israeliana senza dare ai palestinesi i diritti umani fondamentali. Con molti incontri e strette di mano tra palestinesi e raggianti funzionari israeliani, presentati regolarmente sui media, molte Nazioni africane ebbero l’illusione che una pace duratura fosse finalmente a portata di mano. Alla fine degli anni ’90, Israele aveva riattivato i legami con ben 39 Paesi africani. Mentre i palestinesi perdevano sempre più terra grazie a Oslo, Israele ottenne molti nuovi alleati importanti in Africa e in tutto il mondo.

Eppure per Israele una “lotta per l’Africa” a tutto campo – come alleata politica, partner economico e cliente delle sue tecnologie della “sicurezza” e di armamenti – non si è manifestata apertamente che poco tempo fa.

La lotta di Israele per l’Africa

Il 5 luglio 2016, Benjamin Netanyahu ha dato il via alla corsa di Israele per l’Africa con una storica visita in Kenya, che ha fatto di lui il primo ministro israeliano a visitare l’Africa negli ultimi 50 anni. Dopo aver trascorso un po’ di tempo a Nairobi, dove ha partecipato al Forum economico Israele-Kenya accanto a centinaia di leader israeliani e kenioti, si è trasferito in Uganda, dove ha incontrato i leader di altri Paesi africani tra cui il Sud Sudan, il Ruanda, l’Etiopia e la Tanzania. Nello stesso mese, Israele ha annunciato il ripristino dei rapporti diplomatici tra Israele e Guinea.

La nuova strategia israeliana è iniziata lì. Sono seguite altre visite ad alto livello in Africa e annunci trionfali su nuove joint venture e investimenti economici.

Tuttavia, il primo ministro israeliano ha presto rilevato come gli sforzi diplomatici ed economici per conquistare l’Africa fossero insufficienti. Quindi, si è arreso alla riscrittura della storia per migliorare la posizione di Israele nel continente.

Nel giugno 2017, Netanyahu ha preso parte alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS), che si tiene nella capitale liberiana Monrovia. “Africa e Israele godono di una naturale affinità”, ha affermato Netanyahu nel suo discorso. “Abbiamo, sotto molti aspetti, storie simili. Le vostre Nazioni hanno sofferto duramente sotto il dominio straniero. Avete vissuto guerre e massacri orribili. La nostra storia è molto simile.”

Con queste parole, Netanyahu ha cercato non solo di coprire la brutta faccia del colonialismo sionista e di ingannare gli africani, ma anche di derubare i palestinesi della loro storia.

Nonostante l’evidente falsità delle “storie simili” di Netanyahu, l’offensiva del fascino di Israele in Africa è proseguita di successo in successo. Nel gennaio di quest’anno, ad esempio, il Ciad, nazione a maggioranza musulmana e geograficamente la più importante dell’Africa centrale, ha stabilito legami economici con Israele.

Cercando di affermarsi come partner delle Nazioni africane, Israele ha fornito alcuni aiuti a beneficio degli africani, come la fornitura di tecnologie solari, idriche e agricole alle regioni bisognose. Tuttavia, questi contributi hanno avuto un alto costo.

Quando, ad esempio, nel dicembre 2016, il Senegal ha sottoscritto la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che condannava la costruzione di insediamenti ebrei illegali nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, Netanyahu ha richiamato l’ambasciatore israeliano a Dakar e prontamente cancellato tutti i progetti di irrigazione a goccia del Mashav [l’Agenzia israeliana per lo Sviluppo e la Cooperazione Internazionale, ntr.] – i progetti erano stati precedentemente “ampiamente pubblicizzati come parte importante del contributo di Israele alla ‘lotta contro la povertà in Africa’ “.

Israele non solo si è servito così di progetti come questi per punire le nazioni africane quando queste abbiano mancato di fornire supporto cieco a Israele nei contesti internazionali, ha anche usato le sue nuove relazioni per trasformare l’Africa in un nuovo mercato per la vendita di armi.

Paesi africani come Ciad, Niger, Mali, Nigeria e Camerun, tra gli altri, sono diventati clienti delle tecnologie israeliane di “antiterrorismo”, gli stessi strumenti mortali attivamente utilizzati per reprimere i palestinesi nella loro eterna lotta per la libertà.

E tutto questo mentre Israele continua a promuovere la medesima mentalità razzista e coloniale che ha asservito e soggiogato l’Africa per centinaia di anni. La cosa sembra essere sfuggita ai leader africani che si sono messi in fila per ricevere sussidi e appoggio israeliani nella loro dubbia “guerra al terrorismo”. Inoltre, lo sfacciato razzismo anti-africano che impronta in generale la politica e la società israeliane non sembra avere alcuna conseguenza per il crescente fan-club di Israele in Africa.

Molti governi africani, compresi quelli di Nazioni a maggioranza musulmana, stanno dando a Israele esattamente ciò che vuole: un modo per uscire dal suo isolamento e legittimare l’apartheid.

“Israele si sta facendo strada nel mondo islamico”, ha detto Netanyahu durante la prima visita di un leader israeliano nella capitale del Ciad, Ndjamena, il 20 gennaio 2019. “Stiamo facendo la storia e stiamo trasformando Israele in una potenza globale in crescita”.

I palestinesi e gli arabi, naturalmente, hanno una parte di colpa in tutto ciò, per aver abbandonato i loro alleati africani nell’ inseguimento insensato, dopo le promesse di Stati Uniti e Occidente, di una pace che non si è mai realizzata. La politica araba è enormemente cambiata dalla metà degli anni ’70. Non solo i Paesi arabi non parlano più con una sola voce e, quindi, non hanno una strategia unificata per quanto riguarda l’Africa o il resto del mondo, ma alcuni governi arabi stanno attivamente tramando con Tel Aviv e Washington contro i palestinesi. La conferenza economica del Bahrain, che si è tenuta a Manama dal 25 al 26 giugno, è stata l’ultimo di questi eventi.

La stessa leadership palestinese ha allontanato la propria attenzione politica dal sud del mondo, soprattutto dopo la firma degli Accordi di Oslo. Per decenni, l’Africa ha avuto poca importanza nei calcoli angusti e auto-referenziali dell’Autorità Nazionale Palestinese. Per l’ANP, solo Washington, Londra, Madrid, Oslo e Parigi avevano un’importanza strategica – un errore politico deplorevole sotto tutti gli aspetti. Questo errore storico deve essere corretto prima che la storia del successo di Israele escluda i palestinesi da qualsiasi influenza in Africa e nel resto del sud del mondo.

Eppure, nonostante i molti successi nell’attirare governi africani nella propria rete di alleati, Israele non è riuscito a entrare nei cuori degli africani, che ancora vedono la lotta palestinese per la giustizia e la libertà come un’estensione della propria lotta per la democrazia, l’uguaglianza e i diritti umani.

È vero, Israele ha ottenuto il sostegno di parte della classe dirigente in Africa, ma non è riuscito a conquistare il popolo africano, che rimane dalla parte dei palestinesi. Durante la mia visita di 10 giorni nel loro Paese, i kenioti di ogni estrazione sociale mi hanno dimostrato il loro sostegno alla Palestina nel modo più confortante, autentico e naturale. 

A Nairobi, studenti, accademici e attivisti per i diritti umani si rapportano al popolo palestinese non come osservatori esterni simpatizzanti della loro lotta, ma come partner in una battaglia collettiva per giustizia, libertà e diritti. La sanguinosa lotta del Kenya contro il colonialismo britannico, la sua orgogliosa guerra di liberazione e i molti sacrifici per ottenere la libertà sono un’immagine quasi speculare dell’attuale lotta palestinese contro un altro nemico coloniale e razzista.

La Palestina sarà sempre vicina al cuore di tutti gli africani a causa della dolorosa e orgogliosa storia di colonialismo e resistenza che condividiamo. Con questa considerazione, i palestinesi dovrebbero rendersi conto del fatto che Israele sta attivamente cercando di riscrivere la loro storia e privarli della solidarietà di popoli che forse comprendono la loro situazione meglio di chiunque altro.

Sarebbe un’ingiustizia morale alla quale non dovrebbe essere permesso di avere la meglio. 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è editorialista noto a livello internazionale, consulente per i media e scrittore.

(traduz. di Luciana Galliano)




L’iniziativa del Canada di etichettare i vini delle colonie è un passo positivo. È necessario fare molto di più

Kamel Hawwash

2 Agosto 2019 – Middle East Eye

La comunità internazionale deve prendere provvedimenti per ricordare a Israele e ai suoi sostenitori statunitensi la fondamentale importanza delle leggi internazionali

In quello che è uno dei loro peggiori momenti, i palestinesi sono alla ricerca di qualunque iniziativa da parte della comunità internazionale a sostegno della loro richiesta di libertà, giustizia e uguaglianza.

Ogni volta che un membro dell’amministrazione Trump dice qualcosa, rimangono collettivamente a bocca aperta, in quanto concezioni di lunga data sono spazzate via, mentre le richieste israeliane vengono appoggiate e messe in pratica con una velocità sorprendente.

È per questo che i palestinesi vedono la recente decisione di un tribunale federale canadese di etichettare i vini della Cisgiordania come “un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità.”

Sì, esagero, ma la sentenza del tribunale – che ha stabilito che etichettare un vino dalla Cisgiordania come un “prodotto di Israele” è fuorviante e ingannevole – è significativa perché rispetta le leggi internazionali sull’occupazione illegale della Palestina.

Negare l’occupazione

È proprio quello contro cui l’amministrazione USA dissente. Nel 2017 il presidente Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele; più di recente, ha riconosciuto l’annessione delle Alture del Golan siriane a Israele, ed è stato ricompensato con la promessa di dare il suo nome a una colonia illegale.

L’ambasciatore USA in Israele, David Friedman, ha negato l’occupazione e il Dipartimento di Stato ha dovuto eliminare il termine nel suo rapporto annuale sui diritti umani. Sia Friedman che Jason Greenblatt, l’inviato per il Medio Oriente di Trump, appoggiano l’impresa di colonizzazione e preferiscono riferirsi alla Cisgiordania con il suo nome biblico, Giudea e Samaria.

Recentemente Greenblatt ha manifestato la propria preferenza per definire le colonie “quartieri e cittadine”, descrivendo la parola “insediamenti” come “peggiorativa”. Ha anche rifiutato il termine “occupata” in riferimento alla Cisgiordania, affermando: “Ritengo che la terra sia contesa… Chiamarla territorio occupato non contribuisce a risolvere il conflitto.”

Recentemente Friedman ha detto che Israele ha il diritto di conservare “parte della Cisgiordania, ma probabilmente non tutta”. Parlando alla CNN, ha escluso uno Stato per i palestinesi, notando: “Crediamo nell’autonomia palestinese, crediamo nell’autogoverno civile, crediamo che l’autonomia debba essere estesa fino al punto in cui non interferisce con la sicurezza di Israele.”

La sua posizione è contraria alle leggi e al consenso internazionali, ma quello che importa a questa amministrazione USA è l’opinione degli USA, e poi di Israele.

Israele una vittima?

Greenblatt è andato oltre nello smentire l’importanza delle leggi internazionali per risolvere il conflitto israelo-palestinese. In un recente discorso al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che ha scatenato l’opposizine di altri membri, ha affermato che la pace non può essere raggiunta “attraverso l’imposizione delle leggi internazionali o queste risoluzioni (ONU) verbosissime e poco chiare.”

A quanto risulta Greenblatt avrebbe detto: “Israele è in realtà più la vittima che il responsabile” del conflitto mediorientale. Ai suoi occhi, mentre Israele non è “perfetto”, riguardo al governo israeliano egli non ha “trovato niente da criticare che vada oltre i limiti”.

È stato bello vedere alcuni membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU respingere il disprezzo di Greenblatt nei confronti delle leggi internazionali. “Per noi, le leggi internazionali non sono un menu da cui uno sceglie quello che vuole,” ha detto al Consiglio l’ambasciatore tedesco all’ONU Christoph Heusgen. “Ci sono altri esempi in cui i rappresentanti degli USA insistono qui sulle leggi internazionali, sulla messa in pratica delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, ad esempio riguardo alla Corea del Nord.”

Se questa posizione si fosse tradotta in un reale tentativo di imporre ad Israele la messa in pratica delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, il conflitto sarebbe già stato risolto. Invece altri Paesi stanno a guardare mentre Israele, protetto e ora incoraggiato dagli USA, continua a ignorare le risoluzioni [dell’ONU] e le leggi internazionali.

Se i membri del Consiglio di Sicurezza fossero seri, avrebbero interrotto ogni rapporto e imposto sanzioni a Israele fino a quando non le rispetterà. Invece giocano a nascondino. Vogliono apparire come rispettosi dei principi, ma si nascondono quando Israele costruisce più colonie o demolisce le case dei palestinesi, provocando inimmaginabili sofferenze a chi viene colpito.

Vietare i prodotti delle colonie

La recente decisione del Canada è un piccolo passo – un modo per fare pressione su Israele, che tutti i Paesi che credono nelle leggi internazionali dovrebbero seguire. Però riguarda solo l’etichettatura dei prodotti invece del necessario blocco dei beni delle colonie illegali, che molti Paesi non si sentono di adottare.

In giugno la Corte di Giustizia Europea ha emesso una dichiarazione che conferma la richiesta che in base alle leggi UE i prodotti dei territori occupati vengano chiaramente etichettati come tali. Nel contempo in Irlanda un divieto totale di importazione dei prodotti delle colonie sta per diventare legge.

Mentre i palestinesi accoglierebbero positivamente “un grande passo per l’umanità” in appoggio alle loro richieste di libertà, giustizia e uguaglianza, una serie di piccoli passi serve a ricordare a Israele e ai suoi sostenitori negli USA che i diritti e le leggi internazionali sono fondamentali.

L’amministrazione USA dovrebbe ricordare che la bibbia di oggi, che garantisce l’ordine mondiale, sono le leggi internazionali – non quella a cui Friedman, Greenblatt e compagnia fanno riferimento per realizzare il Grande Israele.

Riguardo al ruolo del Canada nell’insistere per l’etichettatura dei vini delle colonie, evviva!

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Kamel Hawwash è un professore anglo-palestinese di ingegneria all’università di Birmingham. Hawwash è da molto tempo un attivista per la giustizia, soprattutto per il popolo palestinese. È il presidente della Palestine Solidarity Campaign [Campagna per la Solidarietà con la Palestina] (PSC) e membro fondatore del British Palestinian Policy Council [Consiglio Britannico per la Politica Palestinese] (BPPC).

(traduzione di Amedeo Rossi)




Non punire i rifugiati palestinesi per il malfunzionamento dell’UNRWA

Yara Hawari

1 agosto 2019 – Al Jazeera

All’inizio della settimana un rapporto etico interno riguardo all’Agenzia ONU per il Sostegno e il Lavoro (UNRWA) per i rifugiati palestinesi è stato fatto filtrare sia ad Al Jazeera che all’agenzia di notizie AFP. In base a testimonianze di ex-dipendenti e dipendenti, come anche a una serie di altri documenti che le confermano, il rapporto dettaglia gravi abusi di autorità all’interno della dirigenza dell’agenzia.

Cosa più importante, esso accusa il commissario generale Pierre Krahenbuhl ed altri della sua cerchia ristretta di essere “coinvolti in scorrettezze, nepotismo (e) rappresaglie.” Il rapporto nota anche che la situazione è peggiorata nel 2018, in seguito alla decisione degli Stati Uniti, il principale donatore dell’UNRWA, di tagliare i finanziamenti all’agenzia. Ciò ha consentito ai dirigenti di giustificare “un’estrema concentrazione del potere di decisione nelle mani dei membri della ‘cricca’…un incremento dell’inosservanza delle regole dell’agenzia e delle procedure stabilite, con l’eccezione che è diventata la norma, e continui viaggi troppo frequenti del commissario generale.”

Molti palestinesi non sono rimasti particolarmente stupiti dal contenuto trapelato del rapporto. Nel corso degli anni abbiamo sentito molti aneddoti sulla cultura piuttosto problematica di abusi e irregolarità perpetrati dal ben pagato personale straniero dell’UNRWA e di altre agenzia dell’ONU.

Oltre a nepotismo e abuso di potere, ci sono gravissimi problemi nella distribuzione delle scarse risorse economiche destinate a questi enti. Per esempio, in tempi di austerità, i programmi di supporto vengono in genere tagliati prima dei salari del personale straniero e dei dirigenti.

Funzionari di alto livello sono anche ben noti per essersi impegnati in una serie di azioni ipocrite, compreso il fatto di aver affittato a Gerusalemme (soprattutto nel quartiere popolare di Musrara) case rubate ai rifugiati palestinesi nel 1948 e di aver consentito al negozio duty free dell’ONU di vendere prodotti delle colonie israeliane illegali, come il vino israeliano prodotto nelle Alture del Golan occupate.

Questo tipo di comportamenti scorretti, tuttavia, non è una peculiarità dell’UNRWA ed è stato denunciato in altre agenzie dell’ONU e in grandi organizzazioni umanitarie. Le rivelazioni del rapporto sono sicuramente condannabili e i responsabili non dovrebbero rimanere impuniti. Ma ciò non significa che l’UNRWA debba essere privata dei fondi o chiusa.

L’UNRWA, in quanto agenzia rivolta esclusivamente ai rifugiati palestinesi, ha uno status e una funzione particolari. Venne fondata nel 1949 per fornire assistenza ai palestinesi espulsi dalla loro patria in seguito alla creazione dello Stato di Israele. Ora opera in Cisgiordania, a Gaza, in Giordania, in Libano e in Siria, e fornisce educazione primaria e secondaria, servizi sanitari e vari progetti per infrastrutture nei campi a circa 5 milioni di palestinesi. Dà anche lavoro a 30.000 persone, per lo più palestinesi.

Il mandato all’UNRWA perché si occupi dei rifugiati viene periodicamente rinnovato in attesa dell’applicazione della risoluzione 194 dell’ONU, che afferma il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare nelle proprie case e a ricevere un giusto indennizzo.

Per molti l’agenzia non è solo un’importante ancora di salvezza, ma anche un ente ufficiale che protegge dalle potenze che vogliono abolire il diritto dei palestinesi al ritorno.

Infatti, da quando Donald Trump ha assunto la presidenza, i tentativi di obbligare i rifugiati palestinesi a rinunciare al proprio diritto al ritorno hanno subito un’accelerazione. Gli attacchi all’UNRWA sono stati incessanti e questo rapporto fatto filtrare ha soffiato sul fuoco.

L’ex-ambasciatrice USA all’ONU Nikki Haley ha rapidamente commentato il rapporto affermando che questa era “esattamente la ragione per cui noi (gli USA) abbiamo smesso di finanziarla”, mentre l’inviato di Trump per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha twittato l’articolo di Al Jazeera, affermando che “il modello dell’UNRWA è difettoso/insostenibile e basato sull’espansione infinita dei beneficiari.” 

Nessuna di queste affermazioni è vera: il finanziamento è stato tagliato per punire collettivamente i palestinesi e la loro dirigenza e il malfunzionamento dell’UNRWA non è peggiore di quello di qualunque altra agenzia dell’ONU.

Gli USA stanno traendo ispirazione da Israele, che, da quando è stato fondato, ha cercato di eliminare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. All’inizio di quest’anno, per esempio, il governo israeliano ha annunciato che avrebbe chiuso le scuole gestite dall’UNWRA nella Gerusalemme est occupata, che forniscono servizi a oltre 3.000 minori palestinesi, violando chiaramente la convenzione sui rifugiati del 1946. Nir Barkat, l’allora sindaco israeliano di Gerusalemme, ha sostenuto che avrebbe “messo fine alla menzogna del problema dei rifugiati palestinesi.”

Evidentemente nelle più alte sfere dell’UNRWA è all’opera una cultura sistematica di irregolarità che deve essere affrontata e contrastata. Tuttavia questo rapporto non può e non dovrebbe portare ad ulteriori tagli ai finanziamenti. Alla luce di questo rapporto sia Olanda che Svizzera hanno scorrettamente sospeso l’aiuto all’agenzia.

I milioni di rifugiati e di dipendenti palestinesi, molti dei quali stanno lottando per mantenere le proprie famiglie, non dovrebbero essere puniti collettivamente per le violazioni e l’egoismo dei massimi dirigenti dell’UNRWA, molti dei quali sono stranieri.

Chiamare a rispondere i responsabili per la cattiva gestione dell’agenzia è fondamentale, anche se molti temono che le persone potenti denunciate in questo rapporto verranno semplicemente riciclate all’interno del sistema dell’ONU, solo per continuare il proprio comportamento scorretto in un’altra agenzia.

Nel contempo l’attenzione dovrebbe essere rivolta ai sette milioni di palestinesi che vivono un perpetuo esilio dalla loro patria, molti dei quali devono affrontare un’ulteriore espulsione. Sono il loro benessere ed il loro diritto al ritorno che dovrebbero essere in cima alle considerazioni dei donatori.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica sulla Palestina di Al-SHabaka, la rete di politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele istiga a minacciare di morte i difensori dei diritti umani

Ali Abunimah

1 agosto 2019 – Electronic Intifada

La propaganda governativa israeliana istiga a minacciare con violenza i difensori dei diritti umani.

Sulla pagina Facebook per il sito web 4IL i visitatori hanno scritto commenti che invitano a uccidere Shawan Jabarin, direttore dell’associazione palestinese per i diritti umani Al-Haq.

Tra queste [minacce] figuravano: “Quando gli piantiamo una pallottola in testa?”, “Perché gente simile respira ancora?” e “Perché non è stato ancora fatto fuori?”

4IL è un organo di propaganda del Ministero per gli Affari Strategici di Israele.

Il ministero, guidato da Gilad Erdan, conduce la campagna israeliana di diffamazione e sabotaggio contro le associazioni per i diritti umani e il movimento mondiale di solidarietà con la Palestina.

Al-Haq definisce questi commenti “discorsi di incitamento all’odio”.

Le associazioni per i diritti umani dicono che l’aumento delle minacce di morte si è verificato dopo che 4IL ha pubblicato un articolo che accusava Jabarin, un difensore dei diritti umani che ha meritato riconoscimenti e premi internazionali, di “terrorismo”.

Il governo israeliano ha pubblicato l’articolo che diffama Al-Haq dopo che l’organizzazione ha tenuto un evento per festeggiare il suo 40esimo anniversario, a cui hanno partecipato accademici, diplomatici e dirigenti, anche delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea.

Secondo Al-Haq “l’attacco è l’ultimo di una campagna su larga scala contro organizzazioni della società civile palestinesi e altre, che lavorano per promuovere e difendere lo stato di diritto e gli standard dei diritti umani per il popolo palestinese”.

La settimana scorsa la rete internazionale per i diritti umani FIDH ha diffuso un allarme per condannare la campagna di diffamazione e le minacce di morte contro Jabarin e chiedere a Israele di “porre immediatamente fine ad ogni atto di aggressione contro di lui, contro Al-Haq e contro tutti i difensori dei diritti umani.”

Al-Haq è stata presa di mira in modo particolare da parte di Israele a causa del suo ruolo nel raccogliere prove di crimini israeliani contro i diritti umani per la Corte Penale Internazionale.

In Olanda, dove ha sede la Corte, alcuni organi competenti si sono messi a fare indagini sulle minacce di morte nei confronti di un avvocato che lavora con Al-Haq.

Secondo un giornalista israeliano esperto di intelligence, la campagna di aggressione contro l’avvocato è probabilmente opera del Ministero per gli Affari Strategici di Israele.

Un obbiettivo centrale della campagna di diffamazione è costringere i governi a interrompere i finanziamenti alle associazioni per i diritti umani collegandole al “terrorismo”.

Il mese scorso l’UE ha detto di essere “al corrente delle accuse” contro Al-Haq, ma che la verifica dei rappresentanti dell’organizzazione con le liste delle persone sottoposte a sanzioni dall’ONU e dall’UE non hanno rivelato alcun problema.

Mercoledì Amnesty International ha chiesto che le autorità israeliane “indaghino urgentemente sulle minacce di morte nei confronti di tre organizzazioni della società civile, compresa la sezione israeliana di Amnesty International a Tel Aviv.”

L’organizzazione ha detto che minacce di morte anonime sono state scritte con lo spray fuori dagli uffici di Amnesty International Israele e di ASSAF, un’organizzazione che lavora con rifugiati e richiedenti asilo.

Amnesty Israele ha postato su Facebook una foto del graffito in ebraico fuori dal suo ufficio.

Vi è scritto: “Le persone malvagie moriranno per i loro peccati” – una citazione dalla Bibbia.

Inoltre una scatola contenente minacce di morte ed un topo morto è stata lasciata all’ingresso del Centro di attività per i rifugiati Elifelet.

Amnesty ha sottolineato che negli ultimi anni “il clima per i difensori dei diritti umani sia in Israele che nei territori palestinesi occupati è rapidamente peggiorato.”

“Le autorità israeliane hanno preso misure per restringere indebitamente i diritti di libertà di espressione e di associazione all’interno di Israele, con funzionari che intimidiscono i difensori dei diritti umani che criticano il governo e approvano leggi per mettere a tacere il dissenso”, ha aggiunto Amnesty.

Come Al-Haq, Amnesty è stata vittima di aggressioni e rappresaglie da parte dei pubblici poteri per aver documentato le violazioni israeliane.

Ali Abunimah

Co-fondatore di ‘The Electronic Intifada’ e autore di ‘La lotta per la giustizia in Palestina’, in uscita per Haymarket Books.

Ha anche scritto ‘Un solo Paese: una proposta coraggiosa per porre fine all’impasse israelo-palestinese’.

Le opinioni sono esclusivamente dell’autore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Perché gli americani dovrebbero appoggiare il BDS

Omar Barghouti

29 luglio – The Nation

Ispirato ai movimenti per i diritti civili e contro l’apartheid, chiede la liberazione dei palestinesi nei termini di una piena uguaglianza con gli israeliani e si oppone in modo netto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo.

Martedì scorso la Camera dei Rappresentanti [USA, ndtr.] ha approvato una risoluzione, la “H.Res. 246”, che prende di mira il movimento internazionale di base per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi che ho contribuito a fondare nel 2005. Purtroppo la H.Res. 246, che fondamentalmente travisa i nostri obiettivi e le mie opinioni personali, è solo l’ultimo tentativo da parte dei sostenitori di Israele nel Congresso di demonizzare e reprimere la nostra lotta pacifica.

La H. Res. 246 è una radicale condanna degli americani che sostengono i diritti dei palestinesi utilizzando le tattiche del BDS. Rafforza altre misure incostituzionali contro il boicottaggio, comprese quelle approvate da circa 27 Stati, che, secondo l’“American Civil Liberties Union” [Unione per le Libertà Civili Americane, storica associazione USA a favore dei diritti e delle libertà costituzionali, ndtr.] ricordano le “tattiche dell’epoca di McCarthy”. Esaspera anche l’atmosfera oppressiva che i palestinesi e i loro sostenitori già devono affrontare, scoraggiando ulteriormente i discorsi che criticano Israele in un momento in cui il presidente Donald Trump sta pubblicamente calunniando membri del Congresso che si esprimono a favore della libertà dei palestinesi.

In risposta alla H.Res. 246 e a misure legislative simili, la deputata Ilhan Omar, affiancata da Rashida Tlaib, dall’icona dei diritti civili John Lewis [deputato afro-americano della Georgia, ndtr.] e da altri 12 co-firmatari, ha presentato la H.Res. 496, che difende “il diritto di partecipare a boicottaggi a favore di diritti civili e umani in patria e all’estero, in quanto protetto dal Primo emendamento della Costituzione.”

Ispirato al movimento USA per i diritti civili e a quello sudafricano contro l’apartheid, il BDS chiede la fine dell’occupazione militare israeliana del 1967, la piena uguaglianza per i cittadini palestinesi di Israele e il diritto stabilito dall’ONU al ritorno dei rifugiati palestinesi alla patria da cui vennero cacciati.

Il BDS si oppone nel modo più assoluto a ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Contrariamente alle false affermazioni della H.Res. 246, il BDS non prende di mira i singoli individui, ma piuttosto le istituzioni e le compagnie che sono coinvolte nella sistematica violazione dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.

La H.Res. 246 include anche una specifica calunnia contro di me, sostenuta dai gruppi della lobby israeliana come l’AIPAC, estrapolando un’unica frase fuori di contesto da un discorso che ho fatto nel 2013. La stessa affermazione falsa viene ripetuta in una risoluzione simile del Senato, la S.Res. 120.

In quel discorso ho sostenuto un unico Stato democratico che riconosca e accetti gli ebrei israeliani come cittadini uguali e partner a pieno diritto nella costruzione e nello sviluppo di una nuova società condivisa, libera da ogni sottomissione colonialista e discriminazione razziale e in cui Stato e chiesa siano separati. Chiunque, compresi i rifugiati palestinesi rimpatriati, saranno titolari degli stessi diritti indipendentemente dall’identità etnica, religiosa, di genere, sessuale o altre. Ho affermato che qualunque “Stato musulmano”, “Stato cristiano” o “Stato ebraico” escludente e suprematista negherebbe per definizione uguali diritti ai cittadini con identità differenti e precluderebbe la possibilità di una vera democrazia, che è la condizione per una pace giusta e duratura. Le risoluzioni della Camera e del Senato, così come il video propagandistico dell’AIPAC, cancellano tutto quel contesto, distorcendo intenzionalmente le mie opinioni.

Ad ogni modo questa è la mia opinione personale, non la posizione del movimento BDS. In quanto movimento per i diritti umani ampio ed inclusivo, il BDS non prende posizione su una soluzione politica definitiva per palestinesi ed israeliani. Include sostenitori sia dei due Stati che di uno Stato democratico unico con uguali diritti per tutti.

In quanto difensore dei diritti umani, non sono solo oggetto di una costante denigrazione da parte di Israele e dei suoi sostenitori anti-palestinesi. Sono anche stato sottoposto, con le parole di Amnesty International, a un “arbitrario divieto de facto di viaggiare da parte di Israele”, anche nel 2018, quando mi è stato impedito di andare in Giordania per accompagnare la mia defunta madre per un’operazione per un tumore. Nel 2016 il ministero dell’Intelligence di Israele mi ha minacciato di “eliminazione civile mirata”, attirando la condanna da parte di Amnesty. E per la prima volta in assoluto lo scorso aprile mi è stato vietato di entrare negli Stati Uniti, impedendomi di partecipare al matrimonio di mia figlia e a un incontro al Congresso.

Israele non ha semplicemente intensificato il suo pluridecennale sistema di occupazione, apartheid e pulizia etnica contro i palestinesi, sta sempre più esternalizzando le sue tattiche repressive all’amministrazione USA.

Trump sta sfacciatamente appoggiando e proteggendo dall’essere chiamato a rispondere delle proprie azioni il governo israeliano di estrema destra, mentre esso annienta le vite e i mezzi di sostentamento di milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione e sotto l’assedio a Gaza, di fronte alla spoliazione e l’espulsione nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est e a pari diritti negati nell’Israele attuale. Solo due settimane fa egli [Trump, ndtr.] ha accentuato il suo incitamento contro i sostenitori dei diritti dei palestinesi, attaccando quattro nuovi membri progressisti del Congresso, tutte donne di colore, dicendo loro di “chiedere scusa” a Israele e di “tornare” ai loro Paesi d’origine, benché tre di esse siano nate negli Stati Uniti.

Nonostante tutto ciò, la disperata guerra di Israele contro il BDS, combattuta con la falsificazione, la demonizzazione e l’intimidazione, come esemplificato da parte di questa risoluzione della Camera da poco approvata, sta fallendo. La nostra speranza rimane viva in quanto assistiamo a un promettente cambiamento nell’opinione pubblica a favore dei diritti umani dei palestinesi, anche negli Stati Uniti. L’orribile situazione del regime di apartheid israeliano e delle sue alleanza con forze xenofobe e palesemente antisemite stanno diventando incompatibili ovunque con valori liberali e democratici.

Guidati da comunità di colore, gruppi progressisti ebraici, importanti chiese, sindacati, associazioni accademiche, gruppi LGBTQI, movimenti per la giustizia per gli indigeni e studenti universitari, molti americani stanno abbandonando la posizione eticamente insostenibile dell’“eccezione progressista sulla Palestina”. Al contrario stanno adottando il principio moralmente conseguente di essere progressisti anche sulla Palestina.

Oggi essere progressisti comporta essere moralmente coerenti, stare dalla parte giusta della storia appoggiando noi che lottiamo per la nostra libertà, giustizia ed uguaglianza a lungo negate.

Omar Barghouti è un palestinese difensore dei diritti umani e co-fondatore del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi. È stato uno dei vincitori del premio Gandhi per la Pace del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele, gli Stati Uniti e il rompicapo della successione nell’ANP

Adnan Abu Amer

28 luglio 2019 – Al Jazeera

Gli USA e Israele vogliono estromettere dal potere il presidente Mahmoud Abbas, ma questo potrebbe non essere per loro la soluzione migliore.

Da quando a gennaio 2017 si è insediata l’amministrazione Trump, la pressione sul presidente palestinese Mahmoud Abbas perché si dimetta è salita. E’ ormai chiaro che Washington non vuole più trattare con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) sotto la sua direzione.

Il principale consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner, di recente ha definito la decisione di Abbas di boicottare il convegno in Bahrain, in cui è stato presentato l’aspetto economico del piano di pace, “isterica e incoerente.”

Nel frattempo anche diversi dirigenti israeliani hanno fatto capire che sperano che Abbas lasci l’incarico. Alcuni, come l’ex Ministro degli Esteri Dore Gold, sono arrivati a sostenere che entro i prossimi sei mesi gli stessi palestinesi chiederanno un cambio di leadership.

L’attuale governo israeliano ha tentato attivamente di destabilizzare l’ANP attraverso diverse misure ostili, compreso il blocco del versamento di 140 milioni di dollari di entrate fiscali destinate al pagamento mensile dei salari. Questo, insieme ai tagli degli aiuti USA, ha posto Ramallah sotto una crescente pressione finanziaria.

Mentre è evidente che i governi americano e israeliano stanno cercando di spingere Abbas sull’orlo del precipizio, il loro piano per dopo la sua caduta è come minimo piuttosto vago. Anzi, diversi soggetti all’interno dell’apparato di sicurezza israeliano hanno avvertito che una simile mossa potrebbe avere conseguenze pericolose.

La lotta per la successione

Il dibattito sulla successione per la leadership nell’Autorità Nazionale Palestinese prosegue da dieci anni. Il termine della presidenza Abbas è ufficialmente scaduto nel 2009 ed è stato provvisoriamente prorogato in quell’anno dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina [che riunisce le principali fazioni della resistenza palestinese tranne Hamas, ndtr.]. Da allora la Palestina non è stata in grado di svolgere elezioni presidenziali e parlamentari a causa dei continui dissidi tra Fatah e Hamas.

L’ottantatreenne presidente palestinese ha finora fatto resistenza non solo a dare le dimissioni, ma anche a nominare un suo vice e delineare un chiaro percorso per la sua sostituzione. Ma dato che la sua salute sta peggiorando, prima o poi la questione della successione dovrà essere risolta. Le forti pressioni da parte delle manovre americane e israeliane probabilmente accelereranno il processo, mentre all’interno della Cisgiordania sta crescendo il malumore, che negli ultimi due anni ha provocato molte grandi proteste di piazza.

Ci sono parecchie figure importanti all’interno di Fatah che negli ultimi anni sono emerse come contendenti per la carica di Abbas.

Mahmoud al-Aloul, vice capo del partito [al-Fatah, ndtr.] e governatore di Nablus, è uno dei favoriti. È assai popolare tra i sostenitori di Fatah per la sua posizione anti israeliana e finora ha anche evitato di essere coinvolto in scandali per corruzione.

Un altro candidato è Jibril Rajoub, uno dei principali leader di Fatah, presidente della Federazione Calcio palestinese ed ex capo delle forze di sicurezza preventive in Cisgiordania. È noto che ha molta influenza nell’ambito dei servizi di intelligence palestinese e gode della fiducia delle agenzie di sicurezza sia USA che israeliane.

Majed Faraj, capo del Servizio Generale di Intelligence, è un altro candidato forte alla successione di Abbas. E’ stato fidato collaboratore del presidente palestinese e ha guidato la delegazione palestinese che ha incontrato dirigenti americani, nonostante l’attuale boicottaggio dei colloqui con l’amministrazione Trump da parte dell’ANP.

Anche Saeb Erekat, segretario generale dell’OLP, è stato dato come possibile candidato. Tuttavia nel 2011 indiscrezioni note come ‘Palestinian Papers’, che hanno rivelato la volontà di Erekat di fare maggiori concessioni a Israele durante i negoziati, hanno lasciato una macchia indelebile sulla sua reputazione ed è improbabile che raccolga molto consenso popolare. Allo stesso modo Mohammed Dahlan, a lungo arcinemico di Abbas, è stato anch’egli un aspirante alla sua carica, almeno in passato. Ma le sue chances si sono recentemente ridotte a causa dei suoi stretti legami con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che attualmente sono impopolari in Palestina perché premono per la normalizzazione con Israele.

Benché tutti questi candidati (eccetto Dahlan) appoggino il boicottaggio dell’attuale amministrazione USA da parte di Abbas, la loro posizione potrebbe cambiare se uno di loro assumesse la presidenza dell’ANP. Con questa prospettiva Washington ha spinto attivamente per un cambio di leadership a Ramallah.

Il futuro dell’ANP

Se l’amministrazione Trump non è riuscita a impegnarsi direttamente con nessuno dei principali contendenti alla presidenza dell’ANP, ha invece coinvolto altre importanti figure palestinesi al di fuori della cerchia di Abbas. Negli ultimi due anni vi sono stati parecchi incontri tra dirigenti USA e vari rappresentanti dell’ élite politica e imprenditoriale palestinese.

Al tempo stesso personaggi politici che pare abbiano stretti legami con Washington, compresi l’ex Primo Ministro Salam Fayyad e l’imprenditore palestinese Adnan Majali, sono riapparsi sulla scena politica. L’anno scorso il secondo si è spinto fino a tentare di mediare un accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.

Prima dell’incontro in Bahrain l’amministrazione USA è riuscita a trovare un uomo d’affari palestinese disposto a saltare il fosso e a partecipare: Ashraf al-Jabari di Hebron. All’inizio di quest’anno al-Jabari, che è stato definito un “amico” dall’ambasciatore USA in Israele David Friedman, ha annunciato che stava creando un partito in Cisgiordania chiamato ‘Riforma e Sviluppo’, che si contrapporrà al programma di Fatah per costituire uno Stato.

Washington probabilmente si rende conto che nessuno di questi personaggi ha una reale possibilità di succedere ad Abbas, perché è improbabile che vincano le elezioni, ma sono comunque utili per fare pressione sull’ANP. In fin dei conti, l’amministrazione Trump vuole che la leadership palestinese accetti le sue proposte di “pace” con Israele ed è scarsamente interessata a chi prenderà il potere dopo Abbas.

D’altro lato, in Israele diversi interlocutori non solo auspicano un cambio di leadership a Ramallah, ma sperano anche in un completo crollo dell’ANP. Parecchi dirigenti israeliani, attuali e del passato, hanno ripetutamente dichiarato “morti” gli accordi di Oslo ed hanno suggerito che è ora che i palestinesi accettino la sconfitta e smettano di pretendere uno Stato. Una soluzione che è stata proposta è che parti della Cisgiordania abitate da palestinesi siano connesse alla Giordania e godano di qualche forma di autonomia amministrativa.

Altri si sono spinti oltre, suggerendo che Israele cerchi di sciogliere l’ANP e stabilisca un governo palestinese a livello comunale sulla base di clan e famiglie. Questo presuppone una forma di autogoverno in cui Israele aiuti i leader locali in varie città della Cisgiordania a gestire le questioni quotidiane, come avveniva prima della creazione dell’ANP.

Mentre è sempre più chiaro che l’establishment israeliano spinge per la fine non solo dell’ANP, ma anche di ogni apparenza di Stato nei territori palestinesi occupati, alcuni, soprattutto nel settore della sicurezza, avvertono che questo potrebbe non essere la miglior soluzione per lo Stato israeliano. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz c’è il timore che, se l’ANP iniziasse a perdere il controllo sulla Cisgiordania, il coordinamento sulla sicurezza tra Israele e Ramallah potrebbe essere compromesso e altri elementi di opposizione potrebbero cercare di assumere il controllo.

Per questo motivo le agenzie di intelligence israeliane sono state solerti nel proteggere l’ANP e la presidenza di Abbas dai tentativi di indebolirli e a volte hanno paradossalmente agito contro le politiche ufficiali sia di Washington che di Tel Aviv.

Sebbene la leadership politica israeliana e i suoi alleati USA siano felici di dichiarare morto Oslo e pensino alla dissoluzione dell’ANP, ignorano però il fatto che per decenni Tel Aviv ha tratto i maggiori benefici dalle disposizioni stabilite da questi accordi. Esse hanno di fatto indebolito la lotta palestinese, imbrigliato l’attivismo politico e reso l’ANP il principale garante della passività politica palestinese.

Se Israele e Stati Uniti riusciranno ad infrangere questo status quo con le loro politiche aggressive, ciò che avverrà dopo potrebbe non essere di loro gradimento.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Adnan Abu Amer è capo del Dipartimento di Scienze Politiche dell’università Ummah a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Due spettri si aggirano: sovranismo* e razzismo.

Ugo Giannangeli

luglio 2019

Nota redazionale: pubblichiamo volentieri su Zeitun questo contributo di Ugo Giannangeli, giurista e da anni impegnato nella solidarietà con la lotta del popolo palestinese per la libertà e la giustizia. Partendo da un articolo scritto da Patrizia Cecconi, anche lei nota attivista a favore dei palestinesi, Giannangeli disegna il contesto giuridico internazionale e suggerisce la necessità di collegare le varie lotte contro razzismo e discriminazione con quella contro le politiche di Israeliane, che è diventato un modello sia ideologico che pragmatico per ogni tipo di sovranismo.

L’articolo di Patrizia Cecconi a cui fa riferimento la prima parte del contributo è il seguente:

https://www.pressenza.com/it/2019/07/uno-spettro-si-aggira-ma-non-e-il-comunismo/

Nell’articolo pubblicato su Pressenza il 23 luglio Patrizia Cecconi, sull’onda dello sdegno per l’ennesimo crimine sionista (la demolizione di palazzi costruiti a Sur Bahig nella zona A della Palestina con tanto di autorizzazione della ANP), ripercorre le tappe più importanti della marcia del sionismo, individuandone conseguenze nefaste non limitate all’area mediorientale. L’articolo ricorda la assoluta inanità del Diritto universale umanitario, la vanificazione della legalità internazionale a partire dalle Convenzioni di Ginevra; ricorda l’insipienza dell’Onu, l’impunità assoluta di Israele; ricorda la nascita di Israele sulla base di una preteso diritto su quella terra promessa agli ebrei dal loro dio, l’interesse delle potenze occidentali all’insediamento di uno Stato “occidentale” in Medio Oriente e giunge a definire “nuova Shoah” la tragedia del popolo palestinese, precisato il significato della parola ebraica e fatto il dovuto distinguo tra la volontà nazista di eliminazione degli ebrei e la volontà sionista di espulsione di tutti i palestinesi dalla loro terra.

Cecconi ricorda infine il ricatto dell’accusa di antisemitismo che va a colpire qualsiasi critica al disegno sionista e alla politica di Israele e torna, in conclusione, sul concetto di “ falsa legalità” che governa Israele ma non gli impedisce di essere ritenuto una democrazia: l’Alta corte di giustizia, ad esempio, ha attribuito la patente di legalità anche a questo ultimo crimine di demolizione creando la nuova figura del “crimine legale” con insanabile e inconciliabile contrapposizione tra la pretesa legalità interna e la legalità internazionale. L’articolo forse per questa sua capacità di sintesi, forse per la narrazione sofferta (si leggano le ultime righe) ha provocato in me una reazione: di fronte a queste verità palesi e inoppugnabili da decenni, come dimostrato anche dalla necessità di fare ricorso alla farsa dell’accusa di antisemitismo in assenza di qualsiasi possibilità di contrasto reale, che senso ha continuare a denunciare l’inanità del diritto internazionale e l’inutilità dell’Onu? Dopo 71 anni di violazioni ha senso ancora attribuire la perenne impunità sionista solo a un certo benevolo lassismo nei confronti di Israele derivante principalmente dalla Shoah (Golda Meir fu facile profeta: “Dopo la Shoah tutto ci sarà permesso”)? La prima insubordinazione alla legalità internazionale risale al 1948 (risoluzione 181); i primi crimini di guerra e contro l’umanità risalgono allo stesso anno (la Nakba), senza tenere conto dei crimini sionisti precedenti la nascita dello Stato (il terrorismo ebraico di Irgun e Banda Stern); gli ultimi crimini sono dell’altro ieri.

Mai una sanzione, mai qualcosa che andasse al di là del buffetto sulla guancia, buffetto puntualmente dato dall’ONU anche per queste ultime demolizioni. Nulla dopo il parere della Corte di giustizia de L’Aia sulla illegalità del muro nel 2004; nulla dopo la risoluzione n. 2334 del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 26 dicembre 2016 di condanna delle colonie. Non solo, ma ad ogni timida critica ad Israele, e, soprattutto, ad ogni modesta concessione ai diritti dei palestinesi, Israele ha sempre risposto contrattaccando: ammessa la Palestina all’Onu come Stato osservatore? Il giorno dopo deliberate nuove colonie; ammessa all’Unesco? Nuove colonie; sottoscritta la adesione palestinese al Tribunale penale internazionale? Nuove colonie. Gli attacchi sono a largo raggio: all’ UNRWA; al Consiglio dei diritti umani definito da Yair Lapid “Consiglio per i diritti dei terroristi”; ai sostenitori del Bds, a livello nazionale con la legge che ne vieta l’ingresso in Israele, a livello internazionale con la richiesta (accolta in alcuni casi) di leggi o sentenze repressive e criminalizzanti il movimento.

Questo sul piano delle relazioni. Sul terreno, ai bombardamenti indiscriminati di civili inermi nelle varie “ operazioni” contro Gaza nel 2008/ 2009, 2012, 2014 ha fatto seguito lo sterminio mirato di vecchi, donne, bambini, medici, infermieri, giornalisti durante la Grande marcia del ritorno. L’Occidente ha parlato solo di “uso eccessivo della forza”! Dobbiamo allora dare ragione a Trump quando, quattro giorni dopo la risoluzione n.2334, ha twittato: “L’ONU è un club dove le persone si riuniscono, chiacchierano e si divertono”?

Tutto questo, rapidamente riassunto in una sintesi incompleta, è sotto gli occhi di tutti, è palese, incontrovertibile da sempre. Sono giunto allora a una conclusione e attendo speranzoso una smentita: non è forse tutto voluto e pianificato? Se non dal 1948, almeno dal 1967 quando tutti hanno tifato Israele credendo alla frottola della guerra difensiva e continuando a crederci anche dopo che tre generali israeliani protagonisti della guerra dei 6 giorni nel 1972 hanno smentito la versione ufficiale. Cos’è la legge sullo Stato nazione del luglio 2018 che proclama Israele Stato degli ebrei e solo degli ebrei se non un atto di guerra al diritto internazionale? Se le colonie, fresche della condanna ad opera della risoluzione n.2334, sono da valorizzare e incrementare; se Gerusalemme, definita unica e indivisibile, è proclamata capitale dello Stato ebraico in spregio al diritto internazionale, quale significato attribuire a questi articoli della legge se non che Israele è autorizzato a fare quello che vuole? Se non c’è reazione agli omicidi mirati sul border di Gaza, c’è da stupirsi se il dovere di soccorso dei profughi in mare è diventato un diritto e infine un crimine da pagare con la galera? L’imbarbarimento indotto dalle leggi e dalle pratiche israeliane dilaga a favore dei sovranismi e dei razzismi nel mondo. Quale Stato è più sovranista e più razzista, ora anche per legge, di Israele? Chi, se non Israele, faceva affari con il Sudafrica dell’apartheid in violazione del boicottaggio internazionale? E’ casuale il feeling di Israele con Orban e tutti i Paesi di Visegrad o non c’è forse una comunanza di amorosi sensi politici ed economici? Così si può chiudere un occhio, anzi entrambi, sull’antisemitismo (questo sì, vero) di questi signori (Orban: “noi perdoniamo la vostra occupazione, voi il nostro antisemitismo”).

Fermiamoci un attimo a casa nostra: Renzi va alla Knesset e neppure cita la questione palestinese; Salvini prosegue il “lavoro” di Minniti sui profughi, va in Israele, attacca Hezbollah e si trova in buona sintonia con Netanyahu; è stata approvata una legge che aumenta la pena se l’istigazione all’odio razziale riguarda la Shoah; pende un progetto di legge di criminalizzazione del Bds. Il servilismo è assoluto; l’omaggio ad Israele è obbligatorio per chiunque aspiri a carriere politiche.

Se tutto ciò è vero, com’è vero, ha senso continuare a fare riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo di cui Israele viola praticamente tutti gli articoli, alle Convenzioni di Ginevra, pacificamente applicabili ai Territori occupati e continuamente violate, alle convenzioni internazionali a tutela dei bambini, metodicamente imprigionati in Israele, o contro la tortura, regolarmente praticata, si veda l’ultimo rapporto di B’Tselem? ( per inciso: quanto sdegno, mentre scrivo, attorno alla benda sugli occhi del giovane assassino statunitense del carabiniere a Roma quando questa pratica è normalmente in uso contro le migliaia di prigionieri palestinesi nella più assoluta indifferenza!); ha senso sperare in una sentenza della Corte penale internazionale (dinanzi alla quale pende un procedimento fermo da anni in fase preliminare) la cui attività istruttoria andrebbe a scontrarsi inevitabilmente con l’omertà anzi la complicità dell’autorità israeliana che mai consegnerebbe gli indagati o fornirebbe prove a loro carico? Mai Israele ha collaborato con le commissioni d’inchiesta dell’Onu anzi ne ha impedito addirittura l’ingresso sul proprio territorio (Goldstone docet), figuriamoci con un Tribunale internazionale cui neppure ha aderito e di cui contesta la giurisdizione.

Immagino la critica più immediata a questa mia reazione: ma cos’altro abbiamo a disposizione? Rispondo: il rafforzamento delle lotte, migliorando il loro coordinamento. In particolare il Bds ma in generale tutte le lotte. Perché devono essere distinte le lotte a favore dei profughi (costretti a fuggire da guerre e carestie quasi sempre indotte dall’Occidente) da quelle per i palestinesi che, invece, vogliono rimanere nella loro terra? Quelle per il disarmo, quando Israele detiene armi atomiche ma non sottoscrive trattati di non proliferazione, e testa armi e sostanze sperimentali sui gazawi? Quelle contro il razzismo sempre più diffuso e che riprende piede in Europa anche nella sua veste militarizzata con la recente scoperta di vere e proprie organizzazioni armate neonaziste (ad esempio in Ucraina) quando è Israele a distinguere i diritti della propria popolazione su base etnica e religiosa? Quelle contro il TAV e per la tutela del territorio e dell’ambiente, quando Israele è un reticolato di muri, filo spinato, checkpoints, by pass roads e colonie? Quelle per la riaffermazione di principi fondamentali proclamati nell’immediato dopoguerra e poi mano a mano affondati nella palude della impunità di Israele. I Paesi occidentali hanno appoggiato la nascita di Israele come avamposto occidentale contro la cosiddetta barbarie araba. Da tempo l’Occidente e il suo avamposto soffrono di un grave deficit di valori e di democrazia. Da quando le guerre sono state chiamate umanitarie o sono diventate operazioni di polizia internazionale imperialismo e capitalismo hanno avuto gioco più facile dovunque. Paesi sovrani sono stati distrutti (Jugoslavia, Libia, Iraq), con altri si è tentato in vario modo (Siria, Venezuela), altri sono in guerra perenne ( l’Afghanistan da 18 anni). La lotta per i diritti del popolo palestinese si inserisce a pieno titolo in questo contesto di lotte: contro l’imperialismo, contro il capitalismo, contro il razzismo, contro la guerra.

Occorre sviluppare la solidarietà internazionale e mobilitare un sostegno popolare internazionale, così come fa il BDS per la Palestina, movimento che non a caso si vuole criminalizzare fingendo di dimenticare che analogo strumento è stato usato vittoriosamente contro il Sudafrica e contro i boicottatori dei neri negli USA.

Tornando in conclusione all’uso del diritto, faccio mie le parole di Nicola Perugini e Neve Gordon nel loro splendido “Il diritto umano di dominare”: “Se l’uso della legge conferisce legittimità al dominante, bisogna creare un cortocircuito che combini i diritti umani a discorsi e pratiche di emancipazione per spezzare il nesso tra legge e legittimità; ci sembra che questa possa essere una raccomandazione valida per tutti quei contesti nei quali l’osservanza della legge, invece che la sua critica, riproduce i meccanismi della dominazione” ( op.cit. pagg. 209-210). Si pensi al caso delle leggi razziali del 1938 che conferivano “legittimità” all’odio razziale o, oggi, ai decreti sicurezza che rendono “legittime” le stragi nel mare.

Sul piano internazionale l’uso dell’arma giuridica è stato parificato al ricorso al terrorismo. Perugini e Gordon ricordano un rapporto del Pentagono intitolato “La strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti d’America” in cui si legge: ”La nostra forza di Stato nazionale continuerà ad essere messa in discussione da coloro che useranno la strategia dei deboli ricorrendo a forum internazionali, cause giudiziarie e terrorismo” (op.cit.pag.99). Ben in sintonia Israele:” Nel novembre 2010 il Ministero degli Affari esteri israeliano pubblicò un lungo rapporto dal titolo” La campagna per diffamare Israele” nel quale sosteneva che “ ……….. se il teorico militare tedesco Carl von Clausewitz ha affermato che la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi, bisogna riconoscere che anche la guerra giuridica è la continuazione della attività terroristica con altri mezzi” (op. cit. pag. 102).

Questa opera denigratoria (anzi: criminalizzante) nei confronti dello strumento giuridico potrebbe indurre a pensare che, quindi, questo strumento qualche timore lo suscita e che, quindi, il suo uso potrebbe portare a risultati positivi. Così non è: si vuole semplicemente tacitare ogni forma di critica e dissenso.

In un mondo senza regole, senza arbitri e senza voci critiche conta solo una legge, quella della forza, sia essa politica, militare, economica, mediatica.

Per questo la lotta per i diritti del popolo palestinese è in realtà una lotta per i diritti di noi tutti.

Luglio 2019 Ugo Giannangeli

*In questo contesto uso il termine “sovranismo”, dai molteplici significati, per intendere la pretesa di uno Stato di non rispettare normative sovranazionali anche se sottoscritte e ratificate.




Irresponsabilità aziendale di TripAdvisor

Laith Abu Zeyad

28 luglio 2019 – Al Jazeera

TripAdvisor afferma di voler aiutare i rifugiati, ma trascura il proprio appoggio alle violazioni dei diritti umani.

Il 20 giugno, Giornata Mondiale per i Rifugiati, l’amministratore delegato di TripAdvisor Stephen Kaufer ha pubblicato un editoriale in cui chiedeva alle imprese di contribuire ad affrontare la crisi globale dei rifugiati e si impegnava a donare milioni di dollari alle organizzazioni umanitarie “per sostenere e aiutare i rifugiati a ricostruire la propria vita e a rivendicare il proprio futuro.”

È certamente una lodevole iniziativa, se solo non contraddicesse lo spirito di altre prassi dell’azienda. Mentre TripAdvisor ha deciso di aiutare i rifugiati in alcune parti del mondo, altrove – in particolare nei territori palestinesi occupati – contribuisce alle sofferenze della popolazione locale, che è all’origine di una delle più grandi comunità di rifugiati al mondo.

Negli ultimi 70 anni le spietate politiche israeliane di confisca della terra, colonizzazione illegale e spossessamento, accompagnate da una violenta discriminazione, hanno inflitto enormi sofferenze ai palestinesi, privandoli dei loro diritti fondamentali. Anche TripAdvisor ha avuto parte in queste continue violazioni.

Nel gennaio 2019 Amnesty International ha pubblicato un rapporto intitolato ‘Destinazione Occupazione’, che illustra come le compagnie leader mondiali del turismo online – Airbnb, Booking.com, Expedia e TripAdvisor – contribuiscano e traggano profitto dal mantenimento, sviluppo ed espansione delle colonie illegali israeliane. In base al diritto internazionale tali attività costituiscono dei crimini di guerra.

TripAdvisor è il secondo sito web (dopo Google) più visitato dai turisti stranieri che arrivano in Israele, con oltre un quarto delle persone (più di 800.000) che dicono di aver consultato il sito prima del loro arrivo per le attrazioni turistiche, le escursioni, i ristoranti, i caffè, gli hotel o gli appartamenti in affitto.

Durante la nostra campagna abbiamo chiesto a Kaufer di smettere di inserire nei propri annunci, o promuovere, proprietà, attività e attrazioni situate nelle colonie illegali israeliane nei territori palestinesi occupati. TripAdvisor ha risposto sostenendo che “ l’inserimento negli annunci su TripAdvisor di una proprietà o di un’azienda non costituisce la nostra approvazione nei confronti di quella struttura”. Eppure la compagnia trae profitto da annunci che includono quelle che si trovano in colonie illegali israeliane.

TripAdvisor e altre compagnie cercano di difendere la loro posizione sostenendo che la questione delle colonie illegali israeliane è troppo politica, per cui loro non possono prendere posizione in merito. Comprendiamo che le aziende non hanno il compito di risolvere le questioni politiche, ma hanno la responsabilità di garantire che non provochino danni o non contribuiscano a violazioni dei diritti umani.

È forse difficile per i lettori immaginare l’impatto sui diritti umani del turismo e di altre attività aziendali in Palestina, ma è molto concreto per le persone che vivono sotto occupazione israeliana. Per esempio abbiamo scoperto che TripAdvisor ha segnalato con grande evidenza, fungendo da agenzia di prenotazioni, la ‘Città di Davide’, una nota attrazione turistica situata a Silwan, un quartiere palestinese nella Gerusalemme est occupata. Il sito è gestito da un’organizzazione chiamata ‘Fondazione Elad’, che è sostenuta dal governo israeliano e lavora per aiutare i coloni israeliani a trasferirsi in quell’area.

Silwan ospita circa 33.000 palestinesi. Ora vi vivono parecchie centinaia di coloni, per di più in insediamenti rigorosamente protetti. Israele ha trasferito i suoi cittadini nel quartiere fin dagli anni ’80. Questo ha comportato numerose violazioni di diritti umani, compresi l’espulsione e il trasferimento forzati di abitanti palestinesi.

Negli ultimi 10 anni almeno 233 palestinesi sono stati espulsi da Silwan. Molto recentemente, il 10 luglio, la polizia e le forze di sicurezza israeliane hanno cacciato dalla loro casa nel quartiere una famiglia di cinque palestinesi, compresi quattro bambini.

Incoraggiando attivamente gli utenti a visitare la ‘Città di Davide’ e a fare tour guidati del luogo, TripAdvisor ha promosso l’attività di Elad e tratto profitto da ogni prenotazione fatta attraverso il sito.

Se TripAdvisor avesse condotto almeno un’elementare valutazione del rischio della propria attività nelle, o con le, colonie israeliane, avrebbe scoperto che quelle inserzioni contribuiscono a sostenere una situazione illegale che è intrinsecamente discriminatoria e viola i diritti umani dei palestinesi. È stupefacente che una compagnia multimiliardaria (che sostiene di essere il sito di viaggi più visitato al mondo, con più di 450 milioni di visitatori al mese) o non abbia posto tale doverosa attenzione riguardo alle proprie operazioni in Israele e nei territori palestinesi occupati, o lo abbia fatto, ma abbia deciso di proseguire ugualmente le proprie attività.

Anche altre compagnie di turismo digitale hanno inviato messaggi ambigui sui diritti umani. Nell’aprile 2019 Airbnb ha annunciato che, in seguito ad una class-action da parte di avvocati israeliani ,avrebbe revocato una precedente decisione di eliminare le offerte nelle colonie illegali israeliane nella Cisgiordania occupata. La compagnia ha affermato che avrebbe donato i profitti derivanti da questi annunci a “organizzazioni non-profit impegnate negli aiuti umanitari che si occupano di persone in diverse parti del mondo.”

Airbnb, come TripAdvisor, mentre cerca di mostrare preoccupazione per le popolazioni bisognose attraverso un piano di responsabilità aziendale, non può continuare ad ignorare che la sua attività con le colonie israeliane illegali è contraria alle norme fondamentali delle leggi internazionali sui diritti umani,

Nessuna somma di denaro in donazioni cancellerà il danno che stanno commettendo nei territori palestinesi occupati e sicuramente nessun profitto a breve termine dovrebbe valere il prezzo della collaborazione con crimini di guerra.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera

Laith Abu Zeyad è responsabile delle campagne su Israele/Palestina per Amnesty International.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come Israele insegna ai suoi figli a odiare

Asa Winstanley

26 luglio 2019 – Middle East Monitor

Proprio come i bianchi sudafricani, gli ebrei israeliani non rinunceranno mai volontariamente alla loro condizione privilegiata di coloni

L’importante studio accademico dell’intellettuale dissidente Nurit Peled-Elhanan, La Palestina nei libri di scuola israeliani,[vedi la recensione su zeitun.info]  è una lettura essenziale per chiunque voglia comprendere alcune importanti realtà dello Stato e della società israeliani.

In quanto entità di insediamento coloniale, un vero cambiamento della società israeliana non potrà mai provenire dall’interno. Deve essere imposto dall’esterno. Proprio come i bianchi sudafricani, gli ebrei israeliani non rinunceranno mai volontariamente alla loro privilegiata condizione di coloni.

L’apartheid sudafricano è stato sconfitto dalle masse del Sudafrica (con il sostegno di alcuni dissidenti bianchi) e dai loro leader politici, col sostegno di una campagna di solidarietà globale.

Allo stesso modo, l’apartheid israeliano sarà sconfitto dalla lotta palestinese. Questa lotta è sostenuta da una minoranza di dissidenti israeliani e dal movimento internazionale di solidarietà – in particolare dal movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS).

Il libro di Peled-Elhanan è un importante saggio su 17 libri di testo di storia, geografia ed educazione civica adottati nelle scuole israeliane. Come dice nell’intervista che si può vedere in rete (https://youtu.be/pWKPRC-_oSg), la studiosa è arrivata ad alcune nette conclusioni.

Se mai menzionano i palestinesi, i libri di testo ufficiali di Israele danno come insegnamento un “discorso razzista”, che cancella letteralmente la Palestina dalla mappa. Le mappe nei libri di scuola mostrano sempre e soltanto “la terra di Israele”, dal fiume [Giordano, ndtr.] al mare [Mediterraneo, ndtr.].

Spiega come nessuno dei libri di scuola includa “un qualsiasi aspetto culturale o sociale positivo del vitale mondo palestinese: né la letteratura né la poesia, né la storia né l’agricoltura, né l’arte né l’architettura, né i costumi né le tradizioni sono mai menzionati”.

Le rare volte in cui vengono menzionati i palestinesi è in modo straordinariamente negativo e stereotipato: “Tutti [i libri] rappresentano [i palestinesi] secondo icone razziste o in immagini umilianti che li classificano come terroristi, rifugiati o agricoltori arretrati – i tre ‘problemi’ che essi rappresentano per Israele”.

Ne conclude che i libri di testo per bambini “presentano la cultura ebraico-israeliana come superiore a quella arabo-palestinese, la concezione del progressso ebraico-israeliana superiore allo stile di vita arabo-palestinese e il comportamento israeliano-ebraico in linea con i valori universali”.

Il tutto contrapposto ad un racconto stereotipato e fuorviante in merito ai libri di scuola per bambini in Palestina. I libri stampati dall’Autorità Nazionale Palestinese dagli anni ’90 sono spesso dipinti nella demonizzazione anti-palestinese come contenenti le peggiori calunnie antisemite sul popolo ebraico.

Nel complesso, questa narrazione è una oscena montatura istigata da gruppi di propaganda anti-palestinese, come quella gestita dal colono israeliano Itamar Marcus e dal suo “Palestinian Media Watch”.

Il libro di Peled-Elhanan ha demolito in modo esauriente un secondo e complementare mito israeliano: che gli israeliani – in contrasto con i diabolici palestinesi – invece “insegnano ad amare il tuo vicino”, per citare l’ex ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni, criminale di guerra.

Sette anni fa, quando fu pubblicato il suo libro, Peled-Elhanan avvertì che, contrariamente alle speranze liberali di cambiamento dall’interno della società israeliana, le cose si stavano muovendo “sempre più indietro” e che all’epoca i libri di testo erano poco più che “manifesti militaristi”.

Abbiamo tre generazioni di studenti che non sanno nemmeno dove siano i confini” tra la Cisgiordania e il resto della Palestina storica, dice angosciata nella suddetta intervista, filmata nel 2011.

A sette anni dalla pubblicazione del libro le cose sono solo ulteriormente peggiorate.

Lo si può vedere nel video, circolato sui social media questa settimana, dei giovani soldati israeliani che festeggiavano e applaudivano dopo aver fatto saltare le case palestinesi a est di Gerusalemme. Quei soldati sono proprio il prodotto del sistema educativo israeliano.

Poiché la violenta oppressione israeliana di un intero popolo indigeno diventa sempre più evidente nel mondo, l’opinione pubblica si sta progressivamente spostando contro Israele, anche negli Stati Uniti tra gli elettori già sostenitori e la base attivista del Partito Democratico.

Dato che Israele può contare sempre meno sull’appoggio esterno, diventa sempre più importante che lo Stato dell’apartheid si prepari a difendersi e si assicuri che nella prossima generazione di coloni e soldati sia inculcata l’ideologia ufficiale dello stato israeliano: il sionismo.

Il mese scorso è emerso che Israele ha iniziato a richiedere a tutti gli studenti delle scuole superiori – compresi quei palestinesi che sono “cittadini” di seconda classe di Israele – di superare un corso online di propaganda governativa prima di poter partecipare a viaggi all’estero.

Secondo il gruppo palestinese per i diritti umani Adalah, il corso “promuove l’ideologia razzista”, facendo il lavaggio del cervello agli studenti con la leggenda che i palestinesi sono dei selvaggi intrinsecamente violenti.

Adalah riporta una domanda che chiede: “In che modo le organizzazioni palestinesi utilizzano i social network digitali?” La risposta richiesta è “incoraggiando la violenza”.

“Un’altra domanda chiede agli studenti di identificare le origini dell’antisemitismo moderno”, spiega Adalah. “La risposta corretta per l’esame è ‘le organizzazioni musulmane’ e il movimento BDS.”

In questo modo, Israele sta insegnando ai suoi figli a odiare: odiare i palestinesi, odiare i musulmani, odiare gli arabi in generale e odiare chiunque sostenga o si schieri solidale con loro contro l’oppressione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduz. di Luciana Galliano)




La dichiarazione di Abbas secondo cui sta per “sospendere ogni accordo” con Israele è accolta dai palestinesi nel loro complesso con gli occhi al cielo

Yumna Patel

26 giugno 2019 – Mondoweiss

Giovedì il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha fatto una dichiarazione radicale, annunciando di essere in procinto di “sospendere ogni accordo” con Israele a partire da venerdì.

Annunciamo la decisione della dirigenza di interrompere l’operatività degli accordi firmati con la controparte israeliana,” ha detto Abbas, in seguito a una riunione d’emergenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

La decisione di Abbas ha fatto seguito alla demolizione di case palestinesi da parte di Israele nelle zone sotto amministrazione dell’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] della città di Sur Baher, a Gerusalemme est. La natura senza precedenti delle demolizioni ha provocato polemiche e reazioni a livello internazionale.

Non cederemo ai dettami e all’imposizione di un fatto compiuto sul terreno con la forza bruta, soprattutto a Gerusalemme,” ha detto, definendo le demolizioni un crimine di guerra e un atto di pulizia etnica.

Ha continuato facendo una serie di affermazioni, compreso il rifiuto di colloqui di pace a guida americana, ed ha chiesto di riprendere tentativi falliti di riconciliazione tra Hamas e Fatah. Riguardo alla cessazione degli accordi con Israele, Abbas ha detto che la sua leadership “inizierà a predisporre meccanismi” per mettere in pratica la sua decisione, a cominciare da venerdì.

Alla luce dell’insistenza dell’autorità occupante nella negazione di ogni accordo firmato e dei suoi impegni, dichiariamo la decisione della dirigenza di smettere di lavorare in base agli accordi firmati con la parte israeliana,” ha affermato.

Abbas ha dichiarato che la sua decisione diventerà effettiva venerdì, ma molti palestinesi e critici dell’ANP non sono rimasti con il fiato sospeso.

Le sue affermazioni fanno notizia, ma non sono nient’altro, notizie,” dice a Mondoweiss Dianna Buttu, giurista e analista politica che vive a Ramallah.

Ex-consigliera di Abbas nella sua veste di presidente dell’OLP, Buttu descrive le parole del presidente come “prive di significato.” E non è l’unica.

I palestinesi hanno utilizzato le reti sociali per esprimere il proprio scetticismo riguardo alle dichiarazioni di Abbas, che secondo loro ha già fatto un numero infinito di volte, ma non vi ha mai dato seguito.

È il periodo dell’anno in cui Mahmoud Abbas dice ‘niente più accordi con Israele.’ Il risultato è sempre lo stesso: il coordinamento per la sicurezza, gli accordi commerciali, la collaborazione con l’assedio di Gaza continuano. Ma ciò fa un bel titolone,” ha twittato la scrittrice e commentatrice politica palestinese-americana Mariam Barghouti.

Mariam ha proprio ragione,” dice Buttu a Mondoweiss. “Abbas fa solo chiacchiere.”

Minacce vaghe, trite e vuote

Una delle maggiori ragioni per cui attivisti e studiosi palestinesi alzano gli occhi al cielo riguardo alle grandi dichiarazioni di Abbas giovedì, dicono gli analisti a Mondoweiss, è dovuta alla natura vaga e generica delle sue affermazioni.

Abbas ha detto che “sospenderà ogni accordo”, ma la maggior parte delle persone si chiede: cosa significa concretamente?

Prima di tutto, annullare ogni accordo con Israele non è possibile,” dice a Mondoweiss Yara Hawari, docente universitaria palestinese e collaboratrice di Al-Shabaka [sito palestinese di notizie e di dibattito, ndtr.].

In secondo luogo, nota, Abbas non è stato per niente chiaro riguardo a di quali accordi stesse parlando.

Stava parlando di Oslo? Di annullare il coordinamento per la sicurezza con Israele, i protocolli di Parigi? Abbas non ha nessun interesse a farlo,” dice Hawari, definendo le sue dichiarazioni “ridicole”.

Hawari dice di non credere che “qualcuno prenda molto sul serio le sue dichiarazioni,” evidenziando l’ironia del fatto che se stesse davvero per sospendere o annullare ogni accordo con Israele, starebbe sostenendo anche la sua stessa fine.

Se annullano tutti gli accordi, cosa significherebbe ciò per la stessa ANP? L’ANP è stata fondata in base agli accordi di Oslo. Così se dovessimo prenderlo totalmente sul serio, ciò significherebbe lo smantellamento dell’ANP.”

Sia Hawari che Buttu concordano sul fatto che Abbas “doveva fare qualcosa” in seguito alle demolizioni di Sur Bahir, in quanto sono state una chiara violazione dell’“autorità” dell’ANP.

Ma il suo modo di “fare qualcosa”, dicono, è solo una ripetizione delle sue “solite vecchie” e vuote minacce.

Dicendo che sta per sospendere ogni accordo, vuole realmente dire questo?” chiede Buttu, mettendo in evidenza il fatto che la maggior parte degli accordi tra le due parti è all’interno del quadro in cui Israele “concede” benefici all’ANP.

Cose come la distribuzione dell’acqua, come il controllo da parte dell’ANP delle aree A e B, come il rilascio di passaporti. Sono tutte cose che l’occupante attualmente “concede” all’occupato. Vuole sacrificare tutto questo? Non lo credo,” dice Buttu. Una delle poche cose che l’ANP “concede” a Israele e su cui può far leva è la sua collaborazione per la sicurezza con le autorità israeliane.

Se Abu Mazen sta dicendo che sta per interrompere la collaborazione per la sicurezza, la domanda che mi resta è: lo dici sul serio?” chiede Buttu. “Tutte le volte che ne ha parlato in precedenza, non lo ha mai realmente fatto.”

In fin dei conti, indipendentemente da quante sferzanti dichiarazioni o minacce escono dalla bocca di Abbas, rimane lo stesso problema.

Non è mai chiaro,” afferma Buttu. “Tutto quello che ha sempre detto è che sta per sospendere gli accordi, ma non spiega mai i passi successivi che si stanno per fare. Le sue affermazioni devono essere seguite da fatti, e lui non lo fa mai.”

Se vuoi uccidere qualcuno, forma una commissione”

L’idea di Abbas riguardo al “prossimo passo” nella sospensione del processo, come ha affermato nel suo discorso di giovedì, era di formare una commissione per discutere possibili piani di azione.

Dichiariamo la decisione della dirigenza di smettere di lavorare in base agli accordi firmati con la controparte israeliana e di iniziare a predisporre meccanismi – a cominciare da domani – per formare una commissione per mettere in pratica ciò in accordo con le decisioni del Consiglio Centrale Palestinese,” ha sostenuto alla conclusione del discorso.

L’attivista palestinese e direttore di “BADIL”, il Centro delle Risorse per la Residenza dei Palestinesi e i Diritti dei Rifugiati, Nidal al-Azza, dice a Mondoweiss che l’idea di Abbas di formare una commissione è stata uno dei principali segnali d’allarme e segno rivelatore che non ha intenzione di prendere reali iniziative per appoggiare le sue dichiarazioni.

Oltre a non specificare quali accordi intenda sospendere, secondo al-Azza la concreta applicazione dell’ambigua decisione di Abbas è subordinata a “questa misteriosa commissione”.

(La commissione) non ha una scadenza né uno specifico mandato,” nota al-Azza. “Non sappiamo se una simile commissione ha un potere vincolante o solo quello di consigliare la dirigenza palestinese.”

Sia Hawari che Buttu si sono messe a ridere per il fatto che il primo piano d’azione di Abbas sia stato la formazione di una commissione.”

Quanto tempo si suppone ci vorrà a questa commissione di attuazione?” chiede Hawari. “Abbas ha formato un sacco di commissioni che avrebbero dovuto realizzare un sacco di cose. Non ha alcun significato.”

Riferendosi a un detto comune in arabo, Buttu dice a Mondoweiss: “Se vuoi uccidere un problema, forma una commissione.”

È quello che sta facendo. Vuole dimostrare indignazione senza prendere nessuna iniziativa concreta,” afferma.

Invece di dire ‘Oslo è finito’ e cercare di trovare un altro modo per togliere di mezzo questo giogo attorno al nostro collo, invece di aderire al BDS, cercando di liberare l’economia palestinese da quella israeliana, di insistere realmente perché [Israele] debba rispondere delle sue responsabilità,” dice Buttu, “Abbas sceglie di formare una commissione.”

È tutta la solita strategia meschina nello solito gioco.”

Yumna Patel è l’inviata in Palestina di Mondoweiss.

(traduzione di Amedeo Rossi)