Guerra contro la natura: il colonialismo sionista ha distrutto l’ambiente in Palestina

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

11 febbraio 2019, Middle East Monitor

Le ultime vittime della guerra contro l’ambiente in Palestina sono stati 450 ulivi distrutti la scorsa settimana da bulldozer dell’esercito israeliano. La distruzione di alberi di proprietà palestinese ha avuto luogo nei villaggi di Bardala, nella valle del Giordano, e di Yatta, nel sud della Cisgiordania. Anche altre decine sono state distrutte da coloni ebrei illegali.

È un mito che solo l’Israele sionista abbia “fatto fiorire il deserto.” Al contrario, da quando è stato fondato sulle rovine di più di cinquecento villaggi e cittadine palestinesi che distrusse e cancellò dalla carta geografica, Israele ha fatto l’esatto contrario. Nel lasso di qualche decennio la terra abitata da palestinesi musulmani, cristiani ed ebrei da migliaia di anni è stata sfigurata al di là di ogni immaginazione.

La Palestina contiene un ampio potenziale per la colonizzazione di cui gli arabi non hanno necessità né sono in grado di sfruttare,” scrisse uno dei padri fondatori di Israele e primo capo del governo, David Ben Gurion a suo figlio Amos nel 1937.

Tuttavia l’Israele sionista ha fatto di più che “sfruttare” semplicemente quel “potenziale per la colonizzazione”: ha anche sottoposto la Palestina storica a un’incessante e crudele campagna di distruzione che continua tuttora. È probabile che essa continui finché prevarrà il sionismo, in quanto ideologia razzista, egemonica e sfruttatrice.

Fin dai suoi inizi, a metà e alla fine del XIX^ secolo, il sionismo politico ha ingannato i suoi seguaci con la descrizione della Palestina storica. Per incoraggiare la migrazione ebraica in Palestina e per fornire un simulacro di giustificazione etica per la colonizzazione ebraica, il sionismo ha costruito miti che rimangono tuttora un tema centrale. Secondo i primi sionisti, per esempio, la Palestina era una “terra senza popolo per un popolo senza terra”. Venne anche detto che si trattava di un deserto arido, che attendeva i coloni ebrei dall’Europa e da altre parti con l’urgente missione di “farlo fiorire”.

Tuttavia quello che i sionisti hanno fatto alla Palestina invece è incompatibile con il loro discorso teorico, in quanto razzista, colonialista ed esclusivista, come è sempre stato. La terra di Palestina, circa 16.000 km2 dal fiume Giordano a est fino al mar Mediterraneo, diventò l’oggetto di un crudele esperimento, iniziato nel 1948 con la pulizia etnica del popolo palestinese e con la distruzione dei suoi villaggi, della sua terra e delle sue coltivazioni. Questo sfruttamento della terra e del suo popolo è cresciuto con intenso fervore nelle generazioni successive.

Sradicare alberi, bruciare coltivazioni

Le colonie ebraiche illegali a Gerusalemme est e nella Cisgiordania occupate sono state costruite su terre agricole e da pascolo palestinesi confiscate. L’ impatto immediato di queste azioni è stato lo sradicamento di milioni di ulivi e di alberi da frutto, e la conseguente erosione del suolo in molte parti della Palestina occupata.

Coloni armati aggrediscono contadini palestinesi in tutta la Cisgiordania, spesso con la protezione dell’esercito israeliano. Una delle loro principali missioni è sradicare gli alberi palestinesi e dare alle fiamme le coltivazioni, nel tentativo di obbligare i palestinesi ad andarsene, come primo passo prima di rubare la terra e costruire altre colonie illegali.

Per avere un’idea di quello che ciò significhi a livello locale, si legga parte della testimonianza del contadino palestinese Hussein Abu Alia, pubblicata in uno studio dell’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei territori palestinesi occupati (UNOCHA OPT): “All’inizio abbiamo sorpreso i coloni che rubavano le olive dai nostri alberi. Poi hanno iniziato a spezzare i rami, ma quelli ricrescevano e abbiamo anche piantato nuovi alberi per sostituire quelli danneggiati. Allora tre anni fa, quando siamo andati a raccogliere le nostre olive, siamo rimasti scioccati nel trovare gli alberi tutti gialli e secchi…I coloni hanno forato i tronchi e hanno iniettato una sostanza velenosa che ha ucciso gli alberi fin dalle radici.”

Prosciugare il fiume Giordano

Le colonie ebraiche illegali consumano grandi quantità delle già impoverite risorse idriche palestinesi. Di fatto il controllo dell’acqua è stato una delle prime politiche messe in atto da Israele dopo l’inizio della sua occupazione militare nel 1967. Le politiche discriminatorie di Israele riguardo all’uso e abuso dell’acqua sono note come “apartheid idrico”. Lo sconsiderato consumo di acqua da parte di Israele e l’irregolare uso delle dighe hanno un esteso e forse irreversibile impatto ambientale, alterando profondamente l’ecosistema idrico.

A causa delle nuove dighe costruite nel nord per fornire ai contadini (cioè ai coloni ebrei illegali) accesso all’acqua”, ha informato l’israeliano Ynet News [sito informativo in rete, ndtr.], “la portata del fiume Giordano è significativamente diminuita.”

Queste informazioni dei media sull’impatto distruttivo di Israele sul Giordano sono state per anni importanti notizie.

Spianare il paesaggio

La costruzione per abitazioni, per l’agricoltura e per le infrastrutture da parte e per i coloni ebrei è di per sé un disastro ambientale. C’è un significativo impatto sulla biodiversità locale della Cisgiordania.

Il livellamento del terreno e gli scavi alterano il suolo e hanno un notevole impatto sull’agricoltura. Oltretutto interrompono anche l’uniformità del paesaggio e il rapporto organico tra gli esseri umani e l’ambiente naturale.

Israele non dimostra alcun rispetto per la Palestina e la sua gente. Lo Stato colonialista sionista sta distruggendo l’habitat locale, gli animali e le specie uniche della regione.

 

La spazzatura di Israele

Secondo uno studio condotto dall’Ufficio per l’Ambiente dell’Amministrazione Civile [l’istituzione militare che governa i territori palestinesi occupati, ndtr.] in Cisgiordania, giornalmente vengono prodotte dai coloni israeliani circa 145.000 tonnellate di rifiuti domestici. Come prevedibile, molta di questi rifiuti, comprese le acque reflue, vengono scaricati su terra palestinese senza tenere in alcun conto l’ambiente palestinese o le persone e gli animali che vi vivono.

Nel solo 2016 sono stati sversati in Cisgiordania 83 milioni di m3 di acque di scarico. Questa quantità sta aumentando costantemente e rapidamente.

Strade solo per ebrei

Per di più, i danni inflitti all’ambiente dalle colonie ebraiche vanno oltre lo spazio fisico di quelle colonie illegali. Negli anni Israele ha costruito una fitta rete di strade che uniscono le colonie illegali tra loro e con Israele. Lo scopo è fornire un “transito sicuro” per i coloni ebraici. Queste strade di comunicazione sono solo per l’uso degli ebrei, ai palestinesi è vietato utilizzarle per qualunque ragione.

I cosiddetti “percorsi sicuri” circondano completamente molti villaggi palestinesi nella Cisgiordania occupata e la loro costruzione ha comportato la confisca di centinaia di ettari di terra palestinese fertile. Oltretutto col tempo le fattorie palestinesi situate all’interno di queste strade di collegamento diventano inaccessibili ai loro proprietari e sono quindi lasciate incustodite o occupate da Israele per ragioni “di sicurezza”.

Avvelenare la Striscia di Gaza

La guerra di Israele contro la natura va oltre le colonie ebraiche illegali. L’uso da parte dello Stato sionista di uranio impoverito, fosforo bianco e altri tipi di armi tossiche ha ucciso e ferito migliaia di palestinesi, per lo più civili, nella Striscia di Gaza assediata. Oltretutto esso ha distrutto anche l’ambiente in modo quasi irrimediabile.

Le massicce offensive militari contro i palestinesi a Gaza nel corso dello scorso decennio hanno lasciato terribili ferite sulle persone e sul loro ambiente. L’incalcolabile numero di bombe e missili lanciati da Israele nei bombardamenti del 2008-09, del 2012 e del 2014 ha lasciato nel suolo un’alta concentrazione di metalli tossici.

Secondo il “New Weapons Research Group” [Gruppo di Ricerca sulle Nuove Armi] – un gruppo di scienziati indipendenti e medici con sede in Italia – frammenti metallici lasciati da armi israeliane includono tungsteno, mercurio, molibdeno, cadmio e cobalto. Sono tutti elementi tossici che si sostiene provochino tumori, infertilità e serie malformazioni congenite.

Raccolti rovinati

All’ambiente di Gaza non viene risparmiato un destino terribile neppure quando finiscono le offensive e le incursioni militari, seppur di solito in modo temporaneo. Anzi, l’esercito israeliano spruzza regolarmente erbicidi nei pressi della barriera che separa il territorio assediato da Israele. L’erbicida più comunemente utilizzato è il glifosato.

La Croce Rossa ha avvertito che il danno causato dal frequente uso di erbicidi nelle zone di confine da parte di Israele va al di là della distruzione delle coltivazioni palestinesi. Provoca alle persone che vivono nella Striscia di Gaza anche complicazioni a lungo termine per la salute.

Il prezzo del muro dell’apartheid

Mentre il muro dell’apartheid, che Israele ha costruito sulla terra palestinese nella Cisgiordania occupata, è spesso preso in considerazione da un punto di vista politico o dei diritti umani, il suo impatto sull’ambiente è raramente affrontato.

Tuttavia, perché venisse costruito, sono stati sradicati dai bulldozer israeliani decine di migliaia di ulivi, alcuni vecchi di 600 anni. Il fatto che alcuni di questi alberi fossero protetti dalla legge sul patrimonio culturale internazionale ha semplicemente fatto rallentare l’esercito israeliano. La distruzione continua tuttora.

Per fare posto al muro, anche migliaia di ettari di terra palestinese sono stati bruciati, insieme agli alberi e all’habitat che li circondava. Al loro posto Israele ha costruito un muro alto otto metri massicciamente fortificato, totalmente estraneo al paesaggio palestinese e accompagnato da tutto l’armamentario dell’occupazione, comprese torri di guardia, recinzioni elettrificate e telecamere di sorveglianza.

È questo il “vasto potenziale per la colonizzazione” di cui si vantava Ben Gurion più di 80 anni fa? La verità è che i palestinesi hanno dimostrato di essere molto più “qualificati” a coesistere con la natura piuttosto che a “sfruttarla”, come hanno fatto i sionisti. Il costo di questo sfruttamento, tuttavia, non è solo pagato dal popolo palestinese, ma anche dall’ ambiente. Le prove davanti ai nostri occhi mettono ulteriormente l’accento sulla natura colonialista ed egocentrica del progetto sionista e dei suoi fondatori, totalmente privi di prospettiva.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Falsa giustizia: le responsabilità dell’Alta Corte israeliana per la demolizione di case di palestinesi e la loro spoliazione

B’Tselem

Pubblicazione , Sintesi, febbraio 2019

All’inizio del settembre 2018, dopo anni di azioni legali, i giudici dell’Alta Corte di Giustizia israeliana (ACG) hanno deciso che non sussistevano ostacoli giuridici per la demolizione degli edifici nella comunità di Khan al-Ahmar – situata a circa 2 chilometri a sud della colonia di Kfar Adumim – in quanto le costruzioni del centro abitato erano “fuorilegge”.

La decisione della sentenza, secondo cui la distruzione della comunità non è altro che una questione di “applicazione della legge”, riflette fedelmente il modo in cui Israele ha elaborato per anni la sua politica riguardo alle costruzioni dei palestinesi in Cisgiordania. A livello di dichiarazioni formali, le autorità israeliane considerano la demolizione di case palestinesi in Cisgiordania come una semplice questione di abusi edilizi, come se Israele non avesse obiettivi a lungo termine in Cisgiordania e se la materia non avesse implicazioni di vasta portata per i diritti umani di centinaia di migliaia di individui, compresa la loro possibilità di sopravvivere, guadagnarsi da vivere e gestire la propria vita quotidiana.

La Corte Suprema ha totalmente accolto questo punto di vista. In centinaia di sentenze e decisioni stilate nel corso degli anni sulla demolizione di abitazioni palestinesi in Cisgiordania i giudici hanno considerato la politica urbanistica israeliana come legale e legittima, concentrandosi quasi sempre solo sulla questione tecnica se i ricorrenti avessero permessi edilizi. Di volta in volta i giudici hanno ignorato l’intenzione sottintesa nelle politiche israeliane e il fatto che, in pratica, queste politiche impongono un divieto generalizzato di costruzione per i palestinesi. Hanno anche ignorato le conseguenze di queste politiche per i palestinesi: condizioni di vita più dure – a volte decisamente terribili – per il fatto di essere obbligati a costruire case senza permessi, e l’assoluta incertezza riguardo al futuro.

A. Politica di pianificazione in Cisgiordania

L’apparato che si occupa di pianificazione istituito da Israele in Cisgiordania è al servizio della sua politica di promozione ed espansione dell’appropriazione israeliana della terra in tutta la Cisgiordania. Quando si tratta della pianificazione per i palestinesi, l’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori palestinesi occupati, ndtr.] cerca di ostacolare l’ampliamento, riducendo al minimo la dimensione delle comunità e incentivando la densità delle costruzioni, con lo scopo di impadronirsi di quanto più terreno possibile a beneficio degli interessi israeliani, soprattutto per l’espansione delle colonie. Ma quando pianifica per le colonie, la cui stessa fondazione è in primo luogo illegale, l’Amministrazione Civile agisce esattamente al contrario: la pianificazione riflette le necessità attuali e future delle colonie, e mira ad includere quanta più terra possibile nel piano generale in modo da impossessarsi di quante più risorse della terra possibili. Questa pianificazione porta a uno sviluppo dispendioso di infrastrutture, alla perdita di zone rurali naturali e alla rinuncia di spazi aperti.

Israele ottiene questi risultati con vari mezzi. Primo, proibisce ai palestinesi di costruire su circa il 60% dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.], che equivale a circa il 36% di tutta la Cisgiordania. Lo fa applicando una serie di definizioni giuridiche per vaste aree (con classificazioni che ogni tanto si sovrappongono): “terre dello Stato” (circa il 35% dell’Area C), “zone per l’addestramento militare” (circa il 30% dell’Area C), o “competenza delle colonie” (circa il 16% dell’Area C). Queste classificazioni sono utilizzate per ridurre in modo significativo l’area a disposizione per lo sviluppo dei palestinesi.

Secondo, Israele ha modificato la legge giordana di pianificazione che si applica alla Cisgiordania, sostituendo molte delle sue disposizioni con quelle di un’ordinanza militare che trasferisce ogni potere di pianificazione in Cisgiordania al Consiglio Supremo dell’Amministrazione Civile ed elimina la rappresentanza palestinese nelle commissioni urbanistiche. Di conseguenza, l’Amministrazione Civile è diventata l’unica ed esclusiva autorità per la pianificazione e lo sviluppo in Cisgiordania, sia per le comunità palestinesi che per le colonie.

Terzo, Israele sfrutta il proprio potere esclusivo sul sistema di pianificazione allo scopo di impedire di fatto ogni sviluppo dei palestinesi e incrementare la densità abitativa persino sul rimanente 40% della terra, in cui non vieta a priori la costruzione da parte dei palestinesi. Nell’ottobre 2018, durante un incontro alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], il capo dell’Amministrazione Civile ha detto che, in conformità con le istruzioni di funzionari del governo, attualmente non c’è nessun piano regolatore per i palestinesi.

Tuttavia, per mantenere la parvenza di un sistema di pianificazione che funzioni correttamente, lo Stato sostiene che i piani regolatori per le comunità palestinesi devono rispettare gli schemi stilati dalle autorità del Mandato britannico negli anni ’40 – che definivano la suddivisione in zone per l’uso dei terreni per l’intera Cisgiordania – anche se questi piani sono ad anni luce di distanza dalle attuali necessità della popolazione. Indubbiamente l’Amministrazione Civile ha stilato centinaia di piani schematici speciali per le comunità palestinesi. Ma, mentre l’obiettivo dichiarato era di sostituire i piani del periodo del Mandato, anche quelli nuovi sono stati concepiti per ridurre l’edificazione. Non sono altro che piani di delimitazione, che sostanzialmente tracciano una linea attorno al perimetro delle zone edificate dei villaggi sulla base di fotografie aeree.

I dati illustrano chiaramente i risultati di questa politica:

  • Richieste per ottenere permessi edilizi: secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal gennaio 2000 a metà del 2016 i palestinesi hanno presentato 5.475 richieste per avere una concessione edilizia. Solo 226 (circa il 4%) sono state accolte.

  • Ordini di demolizione: nel corso degli anni, l’Amministrazione Civile ha emesso migliaia di ordini di demolizione per strutture palestinesi. Secondo i dati dell’Amministrazione Civile, dal 1988 al 2017 sono stati emanati 16.796 ordini di demolizione; 3.483 (circa il 20%) sono stati messi in atto e 3.081 (circa il 18%) sono ancora oggetto di procedimenti giudiziari. Fino al 1995 l’Amministrazione Civile ha emesso meno di 100 ordini di demolizione all’anno. Tuttavia, dal 1995 – l’anno in cui è stato firmato l’accordo ad interim [degli accordi di Oslo, ndtr.] – il loro numero è costantemente aumentato. Dal 2009 al 2016 l’Amministrazione Civile ha emesso annualmente una media di 1.000 ordini di demolizione.

  • Demolizioni: secondo i dati di B’Tselem, dal 2006 (l’anno in cui B’Tselem ha iniziato a registrare la demolizione di case) fino al 2018, Israele ha demolito almeno 1.401 unità abitative palestinesi in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), provocando il fatto che almeno 6.207 persone – compresi almeno 3.134 minorenni – abbiano perso le proprie case. Nelle comunità palestinesi non riconosciute dallo Stato, molte delle quali devono affrontare la minaccia di espulsione, Israele distrugge ripetutamente case. Dal 2006 al 2018 Israele ha demolito più di una volta le case di almeno 1.014 persone – compresi 485 minori – che vivono in queste comunità.

La pianificazione per le colonie israeliane è l’esatto contrario della situazione nelle comunità palestinesi. Con la sola eccezione delle colonie nella città di Hebron, tutte le colonie sono state fondate in spazi aperti. Inoltre sono stati predisposti piani regolatori generosi e molto dettagliati praticamente per tutte le colonie, sostituendo gli antiquati piani dell’epoca del Mandato britannico che erano in vigore lì. I nuovi piani includono una nuova definizione delle aree coerente con le necessità di comunità moderne. Includono terre per uso collettivo, spazi verdi e terreni per l’espansione e lo sviluppo, ben oltre quanto necessario in base al tasso di incremento normale della popolazione. L’Amministrazione Civile ha anche costruito una nuova rete di strade per collegare le varie colonie le une con le altre e queste con l’altro lato della Linea Verde (il confine tra il territorio sovrano di Israele e la Cisgiordania), che restringe e limita lo sviluppo dei palestinesi.

B. Le sentenze dell’ACG: totale approvazione del sistema di pianificazione

Nel corso degli anni i palestinesi hanno presentato centinaia di ricorsi all’ACG, chiedendo la revoca degli ordini di demolizione dell’Amministrazione Civile. Nella maggioranza dei casi l’ACG ha emesso provvedimenti inibitori provvisori che proibiscono allo Stato di demolire strutture in attesa di sentenza. Tuttavia c’è un alto prezzo da pagare per questa situazione di stallo. La Corte spesso emette ordini temporanei che non solo vietano le demolizioni da parte di Israele, ma non consentono neanche agli abitanti palestinesi di costruire case o edifici pubblici, collegarsi ai servizi ed effettuare riparazioni, neppure quelle essenziali, su edifici esistenti, condannandoli a un prolungato stato di limbo e all’incertezza riguardo al loro futuro.

Molti ricorsi sono stati bocciati dai giudici, che hanno rigettato ogni argomentazione di principio riguardo alla politica di pianificazione che Israele mette in atto in Cisgiordania. A volte la Corte non ha neppure esaminato le argomentazioni. Altri ricorsi sono stati ritirati dai ricorrenti, a volte dopo che lo Stato ha affermato di non aver intenzione a quel punto di mettere in pratica gli ordini di demolizione e si è impegnato a fornire ai ricorrenti un preavviso nel caso in cui dovesse modificare la propria posizione. Tuttavia, per quanto ne sa B’Tselem, non c’è stato neppure un caso in cui i giudici abbiano accolto un ricorso presentato dai palestinesi contro una demolizione della propria casa.

1. Accettazione dello spossessamento di palestinesi in vaste zone della Cisgiordania

I giudici non hanno trovato niente da ridire nel fatto che la terra della Cisgiordania sia stata dichiarata “terra dello Stato” o “zona di addestramento”. Nonostante abbia ascoltato le argomentazioni che mettono in discussione la legittimità di questo modo di procedere, in ognuno di questi casi la Corte ha accettato gli argomenti dello Stato secondo cui le costruzioni dei palestinesi sono illegali e di conseguenza le strutture devono essere demolite.

La Corte Suprema ha sempre accettato la posizione dello Stato secondo cui i palestinesi, a differenza dei coloni, non hanno il permesso di costruire su “terre dello Stato”. In ricorsi in cui lo Stato ha sostenuto che la costruzione in questione si trova su terre dichiarate “zona di addestramento militare”, la Corte non ha neppure affrontato la reale questione del fatto che la zona sia stata dichiarata area chiusa. Persino quando i ricorrenti hanno esplicitamente sollevato questa argomentazione, non ha neppure preso in esame se questa designazione sia stata giusta o legittima. Al contrario, in questi casi le udienze si sono limitate alla questione se i ricorrenti fossero di fatto “residenti permanenti” delle zone di tiro. In base agli ordini militari solo quella condizione avrebbe consentito loro di stare lì. In tutti i casi in cui finora è stata presa una decisione, i giudici hanno accettato l’argomentazione dello Stato secondo cui i ricorrenti non sono “residenti permanenti” e ha approvato la demolizione delle loro case.

2. Riconoscere ragionevole e legittimo il sistema di pianificazione

I giudici dell’ACG hanno considerato legittimi e necessari i cambiamenti fatti da Israele alla legge di pianificazione giordana, nonostante la proibizione stabilita dalle leggi internazionali contro la potenza occupante di realizzare cambiamenti alle leggi locali, salvo rare eccezioni che non si applicano a questo caso. Nel prendere questa decisione hanno ignorato il fatto che i cambiamenti hanno consentito a Israele di consolidare e prendere il controllo di tutto il sistema di pianificazione, di escludere i palestinesi da ogni commissione e impedire loro di avere un ruolo nel decidere del proprio futuro. Questo cambiamento ha aperto la strada alla successiva istituzione di due sistemi di pianificazione paralleli: uno per i palestinesi e l’altro per i coloni.

Inoltre i giudici hanno stabilito che il sistema di pianificazione per i palestinesi riflette le necessità degli abitanti. I giudici sono stati assolutamente disposti ad accettare che piani regolatori antiquati – disegnati oltre ottant’anni fa dal Mandato britannico – siano ancora applicati ai villaggi palestinesi, ma non alle colonie israeliane; hanno stabilito che gli schemi che l’Amministrazione Civile ha stilato per le comunità palestinesi sono ragionevoli e corrispondono alle necessità degli abitanti. I giudici non hanno dato alcuna importanza al fatto che i piani regolatori siano identici, inflessibili, non presentino alcuno spazio pubblico e che ogni futuro sviluppo debba essere realizzato all’interno dell’area già edificata del villaggio. I giudici hanno anche stabilito che le commissioni edilizie dell’Amministrazione Civile prendono in considerazione in modo corretto e professionale le domande di licenza edilizia dei palestinesi, benché non ci siano rappresentanti dei palestinesi nelle commissioni, e non hanno prestato la minima attenzione allo scarsissimo numero di richieste approvate.

Dato questo punto di partenza, i giudici esaminano i ricorsi come se l’applicazione delle leggi per la pianificazione e la costruzione fosse l’unico problema in questione. Di conseguenza non accettano i ricorsi, come se il problema non fosse altro che una questione di applicazione di leggi edilizie. Chiedono che i ricorrenti esauriscano tutte le inutili procedure che il sistema offre e sono inorriditi quando i ricorrenti “si fanno giustizia da soli” e – in assenza di qualunque altra alternativa – costruiscono senza permesso.

3. Riconoscimento implicito della politica israeliana

La Corte fornisce anche un implicito timbro di approvazione legale alla politica israeliana. Lo fa attraverso due metodi principali.

A. Nasconde le differenze tra i vari schemi di pianificazione: nelle loro sentenze sulla costruzione nelle comunità palestinesi i giudici della Corte Suprema hanno anche citato sentenze che trattano la pianificazione delle colonie o all’interno stesso di Israele. Hanno fatto lo stesso anche nei casi contrari: in sentenze riguardanti la pianificazione per colonie o all’interno di Israele, i giudici hanno citato sentenze riguardanti piani regolatori per la popolazione palestinese. Il rimando a precedenti giuridici è tipico del sistema giudiziario israeliano. Tuttavia i vari sistemi di pianificazione sono sostenuti da valori diversi e sono destinati a salvaguardare interessi in conflitto. Un sistema il cui obiettivo è pianificare a favore della popolazione – come quello applicato alle colonie e alle comunità ebraiche in Israele – non è affatto come uno schema il cui obiettivo è di iniziare, portare avanti e legalizzare la sistematica spoliazione della popolazione, come quello in vigore per le comunità palestinesi. Mettere tutto quanto insieme elimina le differenze, rendendo apparentemente etico e valido un sistema palesemente illegittimo.

B. Riferimenti selettivi alle disposizioni delle leggi internazionali: l’ACG ha anche riconosciuto valido il sistema di pianificazione trasmettendo il messaggio che la pianificazione attuata per i palestinesi rispetta quanto previsto dalle leggi umanitarie internazionali (LUI). Ciò viene ottenuto principalmente citando in modo selettivo le LUI, in modo da creare l’impressione che la politica israeliana sia in linea con esse, e ignorando altre disposizioni, come la proibizione di addestramento militare o di fondazione di colonie nella zona occupata.

È particolarmente evidente l’indifferenza dei giudici rispetto al fatto che la messa in pratica della politica di pianificazione israeliana implica la violazione della proibizione assoluta di trasferimento forzato, benché siano state portate davanti alla Corte denunce riguardanti la violazione di questa norma. La proibizione rimane persino se le persone lasciano le proprie case non per propria libera scelta, per esempio a causa di condizioni di vita insopportabili provocate dalle autorità impedendo loro l’accesso alle reti idrica ed elettrica, trasformando la zona in cui vivono in area per l’addestramento militare o con la ripetuta distruzione delle loro case. La violazione di questo divieto è un crimine di guerra.

C. Una giustizia illusoria.

Nonostante le enormi differenze tra il sistema di pianificazione che Israele ha definito per la popolazione palestinese in Cisgiordania e quello per i coloni, l’ACG le ha considerate identiche. Durante una delle sessioni dell’ACG tenuta nel 2018 sulla questione di ricorsi contro la demolizione di Khan al-Ahmar, il giudice Hanan Melcer ha persino detto – riguardo all’applicazione di leggi di pianificazione per palestinesi e coloni – che “a tutti si applica la stessa legge.”

Eppure la politica di pianificazione ed edificazione di Israele per i coloni è l’esatto contrario di quella applicata ai palestinesi. Nonostante a volte i coloni facciano le vittime – lupi vestiti di agneli – è sufficiente guardare semplicemente alla situazione sul terreno per vedere l’immenso divario tra la pianificazione per i coloni e per i palestinesi. Dall’occupazione della Cisgiordania oltre cinquant’anni fa, Israele ha costruito quasi 250 nuove colonie – la cui stessa fondazione è vietata dalle leggi internazionali – e solo una comunità palestinese. E quest’unica comunità è stata costruita per trasferirvi beduini che vivevano su terre che Israele ha destinato all’espansione di una colonia. In altre parole, persino la fondazione di quest’unica comunità era destinata a rispondere a necessità israeliane. Allo stesso tempo Israele ha fondato un sistema che non consente ai palestinesi di ottenere permessi edilizi e dedica notevoli sforzi per imporre e applicare rigide restrizioni su qualunque costruzione o ampliamento per la popolazione palestinese.

È inimmaginabile il divario tra questa situazione e quella descritta in migliaia di decisioni dell’ACG – in cui i giudici hanno scritto di “mani pulite” e di “faticose misure correttive”, hanno accettato qualunque argomento dello Stato riguardo alla pianificazione per la popolazione palestinese e hanno fatto una sintesi consentendo allo Stato di demolire le case dei ricorrenti e di consegnarli a condizioni di vita disastrose. Mentre la Corte non scrive le leggi, determina le politiche o le applica, i giudici hanno sia l’autorità che il dovere di stabilire che le politiche di Israele sono illegali e di proibire la demolizione delle case. Invece, ripetutamente, hanno scelto di dare alle politiche la loro approvazione e di convalidarle pubblicamente e giuridicamente.

Così facendo non solo i giudici della Corte Suprema non hanno assolto ai loro doveri, hanno anche giocato un ruolo fondamentale nel consolidare ancor di più l’occupazione e l’impresa di colonizzazione e nello spogliare ulteriormente i palestinesi delle loro terre.

È ragionevole pensare che i giudici siano ben consapevoli, o lo dovrebbero essere, delle fondamenta giuridiche che stanno consolidando con le loro sentenze e delle devastanti implicazioni di queste sentenze, comprese le violazioni del divieto delle Leggi Umanitarie Internazionali di trasferimento forzato. Quindi anche loro – insieme al presidente del consiglio, ai ministri, al capo di stato maggiore e ad altri alti gradi dell’esercito – hanno una responsabilità personale nella perpetrazione di tali crimini.

Per Israele, il principale vantaggio di conservare un “sistema di pianificazione” per la popolazione palestinese è che ciò conferisce al sistema una parvenza di correttezza e funzionalità, operando in apparenza in base alle leggi internazionali e israeliane. Ciò consente allo Stato di affermare che i palestinesi scelgono di costruire “illegalmente” e di farsi giustizia da soli – come se avessero alternative – giustificando così la demolizione delle case e le continue restrizioni nella pianificazione. Tuttavia il tentativo di mascherare il sistema di pianificazione nei territori occupati come se fosse corretto non è altro che uno stratagemma propagandistico. Un sistema di pianificazione dovrebbe riflettere gli interessi degli abitanti ed essere al servizio delle loro necessità. Ma per definizione l’equilibrio di potere sotto un regime di occupazione è ineguale. I funzionari del regime di occupazione non rappresentano la popolazione occupata, che non può partecipare al sistema che regola e governa la sua vita, né ai processi di pianificazione e legislativi, né all’emanazione di ordini militari, né alla commissione che nomina i giudici.

A volte pare che lo Stato stesso ne abbia avuto abbastanza dello sforzo insito nel conservare le apparenze. Mappare edifici, passare per le procedure della commissione, scrivere risposte ai ricorsi ecc. ecc., tutto ciò porta via tempo, impegno e risorse preziosi, anche se Israele ha a sua disposizione legioni di avvocati, enormi risorse finanziare, sistemi di pianificazione per fare il suo volere e un sistema giudiziario volontariamente votato alla farsa. Contrapposta a questa potenza congiunta c’è una popolazione con scarsa rappresentanza e poche risorse, persone che hanno vissuto per oltre mezzo secolo sotto un regime militare in cui libertà e sopravvivenza sono precarie. Tuttavia i dirigenti dello Stato sono insoddisfatti del ritmo e del tasso di spoliazione, trovando frustrante dover aspettare mesi e anni perché i tribunali raggiungano il verdetto a cui lo Stato mira.

Pertanto negli ultimi anni Israele ha intensificato i suoi tentativi di evitare – o persino cancellare – le procedure giuridiche relative alla demolizione di strutture palestinesi. La volontà di Israele di fare a meno dell’apparenza testimonia soprattutto la sua sicurezza che non sarà chiamato a dover subire significative conseguenze interne o internazionali per aver violato la legge. La legittimità dei nuovi ordini è stata discussa dall’ACG proprio in questi giorni. Ciò significa che, paradossalmente, alla Corte Suprema viene ora chiesto di considerare la cancellazione della finzione nella cui creazione ha giocato un importante ruolo.

Indipendentemente dal fatto che i giudici dell’ACG scelgano di avallare la cancellazione della finzione, essi hanno costruito un solido edificio per supportare la legittimazione giuridica della spoliazione della terra del popolo palestinese. Quanta cura si prenderanno nell’aggiungere una bella mano di vernice a questa struttura nei prossimi giorni? Insisteranno nel mantenere la finzione? In fin dei conti, questa è una questione di immagine secondaria. Ciò non dovrebbe sviare l’attenzione dalla situazione di furto e spoliazione che Israele ha creato e che i giudici continuano a consentire, giustificare e avvallare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Antisionismo significa essere contrari al nazionalismo ebraico in Palestina

Rima Najjar

Palestine Chronicle – 6 febbraio 2019

Quanti calunniano gli antisionisti accusandoli ingiustamente di antisemitismo sanno molto bene che l’antisionismo significa essere contrari al nazionalismo ebraico come si è manifestato nel territorio della Palestina storica, ora divisa tra Israele, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, ma di fatto controllata dallo Stato ebraico.

Il sionismo è un prodotto della filosofia ebraica e si basa sulla cultura e sul pensiero ebraici, che hanno le loro radici nell’ebraismo. Lo scopo fondamentale del regime sionista del colonialismo di insediamento di Israele è di rimanere uno Stato ebraico. Accuse esagerate e false di antisemitismo intendono creare un clima di paura in cui le campagne per i legittimi diritti umani dei palestinesi vengono soffocate.

La missione sionista, prima di rivendicazione violenta e poi di conservazione di Israele come Stato ebraico per gli ebrei di tutto il mondo in Palestina, impone che Israele possa esistere solo come Stato dell’apartheid, che non possa assolutamente mai essere veramente democratico.

L’idea del nazionalismo ebraico (riunire tutti gli ebrei del mondo in Palestina e rinominarla “la Terra di Israele”) è la causa diretta della pulizia etnica dei palestinesi e della continua guerra di Israele contro la nostra stessa esistenza come popolo indigeno della Palestina (vedi “Palestine: A Four Thousand Year History” [Palestina: una storia di quattromila anni] di Nur Masalha). Il fatto che io abbia sentito il dovere di rinviare il lettore al libro di Masalha dà la misura del livello di successo dell’hasbara [propaganda, ndtr.] avvelenata di Israele.

Il nazionalismo ebraico si manifesta come colonialismo di insediamento. Un concetto (colonialismo di insediamento, che ora è molto più accettato come paradigma per comprendere la Nakba – ma solo se viene inteso come colonialismo di suprematisti bianchi, non di suprematisti ebrei) non ne esclude un altro che opera in Palestina, cioè sionismo ebraico = nazionalismo ebraico = supremazia ebraica = apartheid.

Il linguaggio antisionista rimane problematico perché è necessariamente chiuso nella cappa dell’ebraismo. Joseph Massad definisce il sionismo come “un movimento colonialista…costituito nell’ideologia e nella prassi da un’epistemologia religiosa-razziale.”

È difficile dire la parola “ebreo” o “ebraico” in relazione con la tragedia palestinese senza essere ferocemente calunniati o senza che le nostre idee vengano “contestate”. Lo stesso linguaggio a sostegno del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele] (BDS), cioè per i diritti umani dei palestinesi, è incredibilmente tabù persino per un’istituzione per i diritti civili!

Il comunicato del “Civil Rights Institute” [Istituto per i Diritti Umani] di Birmingham [negli USA, ndtr.] che ripristina il premio ad Angela Davis è stato salutato da molti come una rivendicazione dell’integrità di Angela Davis in quanto attivista dei diritti umani. A mio parere, tuttavia, ha ulteriormente accusato l’istituto, in quanto il linguaggio del comunicato implicitamente condivide una menzogna sionista – cioè il sostegno alla Palestina = sostegno alla violenza (ovvero al terrorismo).

Per quanti sono consapevoli che la revoca del premio è stata determinata da pressioni da parte della comunità ebraica di Birmingham a causa del sostegno di Davis al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, il linguaggio che segue è vergognoso perché nasconde quel fatto:

I membri del consiglio hanno informato delle discussioni che hanno avuto con vari membri della comunità che hanno espresso la propria opposizione per la concessione del premio alla dott.ssa Davis a causa della sua mancata esplicita opposizione alla violenza.”

Il linguaggio usato elimina totalmente la lotta palestinese dall’equazione. Un discorso che ha a che fare con l’appoggio ai diritti umani dei palestinesi non dovrebbe essere controverso e evitato come la peste dal Civil Rights Institute di Birmingham!

Molti di noi attivisti nella lotta per la giustizia in Palestina siamo ora capaci di criticare il sionismo come movimento di colonialismo di insediamento, ma parecchi non si sentono a proprio agio o capaci di districare le importanti radici del sionismo che si trovano nell’ebraismo.

Dagli inizi del secolo,” scrivono Richard Falk e Virginia Tilley nel rapporto dell’ESCWA [Commissione economica e sociale dell’ONU per l’Asia occidentale, ndtr.] sull’apartheid israeliana contro il popolo palestinese, “la storia del movimento sionista si è centrata sulla creazione e la conservazione di uno Stato ebraico in Palestina…Per rimanere uno ‘Stato ebraico’ sono necessarie una indiscussa dominazione nazionalista ebraica sul popolo nativo palestinese – un vantaggio garantito nella democrazia israeliana dalle dimensioni della popolazione – e leggi dello Stato, istituzioni nazionali, pratiche di sviluppo e politiche per la sicurezza tutte centrate su questo obiettivo. A seconda di dove vivono vengono applicati alle popolazioni palestinesi diversi metodi, che richiedono modifiche nella loro amministrazione…La Knesset scoraggia i partiti politici dall’adottare un programma che contenga una qualunque sfida all’identità di Israele come Stato ebraico.”

L’insistenza in malafede che ogni tanto si sente, secondo cui la parola “ebraico” nel brano succitato non si riferisce in nessun modo alla fede e che riguarda solo gli ebrei non religiosi, assimilati, atei, socialisti che hanno fondato il movimento sionista, è un grande ostacolo sul cammino di chiunque sia interessato a smantellare Israele come Stato ebraico – cioè per la realizzazione di uno Stato veramente democratico e secolare nella Palestina storica.

Oggi in tutto il mondo sinagoghe e rabbini sono quelli che indottrinano le proprie comunità ad adorare Israele e un’identità tribale, si potrebbe dire medievale. E alla loro testa c’è il rabbino capo di Israele. Quelli che non lo fanno sono ai margini.

Alcuni, ebrei e non ebrei, soprattutto cristiani cresciuti, come Alice Walker, nella tradizione cristiana che “venera una Bibbia che contiene i Salmi e passaggi profetici su ‘Sion’” e che credono che le persone siano condizionate molto più dalla propria religione, una parte della loro cultura, che da qualunque altra cosa, sono spinti a “tornare indietro” per comprendere il male che noi esseri umani commettiamo – certamente un’introspezione personale, come un dovere:

Dobbiamo andare indietro

Come persone adulte, ora,

Non come gli ingenui bambini che siamo stati una volta,

e studiare la nostra programmazione,

dall’inizio.

Ogni cosa: i cristiani, gli ebrei,

i musulmani; persino i buddisti. Ogni cosa, senza eccezione,

dalle radici.

[dalla poesia del 2017 di Alice Walker “It Is Our (Frightful) Duty” [E’ il nostro (terribile) dovere]

È anticristiano tornare alla Bibbia e interpretare i versetti che ispirano i cristiani evangelici a commettere il male e a provocare indicibili sofferenze al popolo palestinese in “Terra Santa”? È antiebraico (non voglio dire antisemita perché non sono sicura di capire più cosa esso significhi) analizzare quello che nel Talmud possa ispirare i rabbini capo di Israele nel loro razzismo e nella loro crudeltà, nell’avvallare la pulizia etnica e il genocidio?

Come ha commentato Virginia Tilley in una discussione pubblica su Facebook:

Sfortunatamente l’idea che gli ebrei abbiano un diritto esclusivo letteralmente concesso da dio di proteggere se stessi e la ‘loro’ terra dai non ebrei a qualunque costo è una forte tendenza all’interno dell’ideologia nazionalista israeliana (penso che alcuni rabbini dell’esercito abbiano recentemente ribadito questo punto). Gli afrikaner, che avevano anch’essi un’ideologia del ‘popolo eletto’, in Sud Africa la pensavano allo stesso modo riguardo agli ‘altri’. Un interessante libro che confronta varie dottrine sul popolo eletto è ‘Chosen Peoples: Sacred Sources of National Identity’ [Popoli eletti: fonti sacre dell’identità nazionale] di Anthony Smith.”

Un sondaggio del 2016 ha rivelato che circa metà degli ebrei israeliani crede nella pulizia etnica: il presidente israeliano Reuven Rivlin ha definito i risultati “un campanello d’allarme per la società israeliana” – intendendo la società ebreo-israeliana.

Il mondo deve riconoscere e fare i conti con il fatto che i palestinesi sono oppressi da oppressori che sono ebrei, che ci hanno colonizzati in quanto ebrei. Dobbiamo sfidare l’eccezionalismo ebraico e il privilegio ebraico nel movimento.

Criticare lo Stato ebraico, uno Stato basato su un’epistemologia religiosa-razziale e chiedere la sua fine in quanto tale non equivale alla distruzione dell’ebraismo, equivale alla distruzione dell’apartheid e della supremazia ebraica come si manifesta nello Stato ebraico di Israele.

Dato che un’ideologia del ‘popolo eletto’ è fermamente inserita nel nazionalismo ebraico pensato oggi e che tale indottrinamento influisce negativamente su come gli ebrei di Israele ed altri sionisti vedono gli “altri”, soprattutto i palestinesi che pensano abbiano preso “la loro terra” e non il contrario, Israele ha bisogno di più campagne di educazione simili a quelle messe in atto da “Zochrot” [associazione israeliana che sistema cartelli con i nomi arabi dove sorgevano villaggi palestinesi distrutti durante la Nakba, ndtr.] e da “De-Colonizzatore” (ricerca e laboratorio artistico per il cambiamento sociale) per contribuire a smantellare la tossica identità ebraica che il sionismo ha diffuso in lungo e in largo e farci andare tutti verso uno Stato secolare e democratico in tutta la Palestina dal fiume [Giordano, ndtr.] al mare [Mediterraneo, ndtr.].

Rima Najjar è un’ex docente (ora in pensione) all’università Al-Quds, in Palestina. Viene da Lifta, Gerusalemme e Ijzim, Haifa, e attualmente vive negli Stati Uniti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ideologia della “Nakba 2.0” di Benny Morris

Hossam Shaker

2 febbraio 2019 Middle East Monitor

Benny Morris sa benissimo cosa significhi il termine “Nakba”. Tuttavia non pare avere alcun problema a ripeterla, considerandola più adeguata per il XXI^ secolo e, di fatto, un obbligo. Come si può dedurre dalle sue parole, questa dovrebbe essere la “Nakba 2.0” – che sarà una versione più intelligente e più decisiva della prima, avvenuta in Palestina durante la guerra del 1948.

Morris, uno dei più illustri storici israeliani, è famoso per aver riesaminato documenti d’archivio sull’espulsione forzata dei palestinesi. Tuttavia ha smesso di utilizzare il termine “pulizia etnica” per riferirsi alla Nakba, che ha trasformato in profughi la maggior parte dei palestinesi. Il suo lavoro – insieme a quello di altri pensatori noti come “Nuovi Storici”- ha contribuito a smentire la propaganda israeliana, che ha messo in circolazione affermazioni relative ai rifugiati palestinesi e all’espulsione di massa del popolo palestinese.

Tuttavia Morris non ha espresso posizioni di principio. Ha invece rifiutato quello che è successo solo da un punto di vista specifico, che ha deciso di rivelare in seguito, quando ha sostenuto che la pulizia etnica non era terminata. In ciò differisce dall’ altro suo collega che ha mostrato una posizione di principio e un impegno morale, come Ilan Pappé, autore di “Ethnic Cleansing of Palestine” (2006) [“La pulizia etnica della Palestina”, Fazi, 2008, ndtr.]

Benny Morris ha fatto un’apparizione pubblica nel XXI^ secolo con una palese tendenza di estrema destra. Oggi parla come se fosse una guida ideologica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Questa tendenziosità politica ha un enorme significato. Attualmente Morris sta facendo uso della sua competenza e reputazione come illustre storico per giustificare la pulizia etnica dei palestinesi attraverso la sottovalutazione del processo o considerandolo come una necessità per l’esistenza dello Stato di Israele. Morris ritiene che l’espulsione forzata o la pulizia etnica non siano così negative come il mondo e i sostenitori di diritti umani, valori, principi e trattati pensano che sia. Secondo lui, l’unica alternativa a questa scelta è il genocidio.

Morris esprime crescente preoccupazione esistenziale riguardo al “destino di Israele”. Tuttavia la preoccupazione in questo caso pare essere semplicemente una scusa astuta per giustificare il comportamento definitivo che le élite dominanti desiderano adottare riguardo al popolo palestinese, senza prendere in considerazione considerazioni etiche. Quando si tratta della questione “essere o non essere”, ignorare i valori e negare gli obblighi diventa per tali persone una scelta ragionevole.

La giustificazione di Morris è la migliore interpretazione delle dichiarazioni che terrorizzano gli israeliani e che sono state esposte dal settantenne storico a gennaio durante un’intervista con Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.]. In quell’intervista – intitolata “Questo posto è destinato ad affondare e gli ebrei rimarranno una minoranza perseguitata e potrebbero scappare negli USA” – Morris è stato molto pessimista nelle sue previsioni. Ha detto che “questo posto (Israele) sarà un paese mediorientale al collasso con una maggioranza araba e gli ebrei rimarranno come una piccola minoranza all’interno di un grande mare arabo di palestinesi. Una minoranza soggetta all’oppressione o al massacro.”

Morris ha scelto di lanciare il suo avvertimento contro questo terribile destino in occasione del suo pensionamento dalla vita accademica. Tuttavia è un modo consueto di ravvivare il senso israeliano di pericolo esistenziale, che è una tipica premessa ai discorsi di mobilitazione israeliani che incitano ad azioni risolute e crudeli contro l’origine della minaccia, rappresentata dal popolo palestinese sottoposto ad occupazione e non, per esempio, dalle “armi chimiche di Saddam Hussein (l’ex presidente iracheno)” o dall’ “Olocausto (dell’ex presidente iraniano Mahmoud) Ahmadinejad,” o dalla “bomba iraniana.” Questo discorso quindi corrisponde alla crescente retorica fascista nelle posizioni dei dirigenti israeliani.

Le conclusioni di Morris sembrano ideali da adottare per l’élite dominante estremista israeliana per scatenare una campagna finale contro il popolo palestinese – oltre a tutto quello che finora è stato commesso – con il pretesto che “se noi non uccidiamo loro, loro uccideranno noi.”

Nell’intervista Benny Morris ha disegnato un quadro mostruoso dei palestinesi senza osare descriverli come umani, proprio come ogni politico e militare israeliano. Questo è assolutamente adeguato per giustificare il fatto di ucciderli e incolparli del loro stesso destino. Morris non è solo uno storico, è anche un brillante sostenitore dell’espulsione forzata e della pulizia etnica. Ha chiaramente espresso ciò durante un’intervista con Ari Shavit su Haaretz nel 2004, quando ha detto: “Lo Stato ebraico non avrebbe potuto nascere fino a quando 700.000 palestinesi non vennero cacciati. È stato quindi necessario espellerli.”

L’impressione che si ricava dalle successive posizioni di Morris nel corso degli anni è che il fatto di non aver completato il compito di fare una pulizia etnica contro il popolo palestinese sia stato un grave errore.

Come storico è più probabile che comprenda che la sopravvivenza di popoli indigeni nel loro Paese, senza il loro totale sterminio o la loro espulsione, ha portato alla fine di ogni occupazione coloniale a cui il mondo ha assistito in precedenza. Ciò è dovuto al fatto che cercare di stabilire il controllo assoluto su un altro popolo e sottometterlo al potere di un’occupazione militare non è stata una scelta razionale nel passato. Come potrebbe avere successo ora? Morris lo esprime attraverso chiari indicatori demografici, che descrivono la crescente popolazione palestinese nella Palestina mandataria (27.000 km2, di cui la Cisgiordania costituisce solo un quinto) a un ritmo superiore di quello degli ebrei israeliani, nonostante tutti i tentativi generosamente finanziati e incessanti di fondare colonie illegali.

Il problema demografico di Morris non si limita alla Cisgiordania occupata e alla Striscia di Gaza assediata. Invece sembra essere evidentemente angosciato dai palestinesi a cui è stata concessa a forza la cittadinanza israeliana dopo la Nakba – i cosiddetti “arabo-israeliani” o “palestinesi cittadini di Israele” – e questa sensazione è condivisa da alcuni ministri del governo di Netanyahu. Morris arriva a utilizzare espressioni umilianti che lo rivelano come un razzista. Considera la maggior parte del popolo palestinese con un atteggiamento arrogante, che non contempla la logica dei diritti e della giustizia.

Morris appare come un individuo nel mezzo di una trincea ideologica, che utilizza la propria posizione accademica ed espressioni scientifiche a favore di un progetto di occupazione inconsueto in questo mondo. Ha riconosciuto le proprie inclinazioni politiche di destra e è sembrato persino entusiasta di Netanyahu, solo due mesi prima delle elezioni politiche del 9 aprile.

Quello che deliberatamente Morris non menziona è che il governo di Netanyahu – che include coloni e personaggi noti per il loro fascismo – ha già incluso nel proprio programma l’espulsione forzata di palestinesi da alcune città. Ciò riguarda almeno l’Area C della strategicamente importante Cisgiordania, come Khan Al-Ahmar, un villaggio beduino che si trova ad est di Gerusalemme e che è stato ripetutamente previsto di demolire, solo per fare un esempio. I politici israeliani, compreso il dimissionario ministro della Difesa Avigdor Lieberman, hanno tentato di incitare all’espulsione forzata del popolo beduino. A novembre Netanyahu ha annunciato: “Khan Al-Ahmar sarà evacuato molto presto. Non vi dirò quando, ma preparatevi a questo,” ma il problema è che la messa in pratica dell’espulsione forzata in questa zona strategica non sarà una passeggiata.

I palestinesi di Khan Al-Ahmar restano determinati, nonostante le dure condizioni di vita che vengono loro imposte. Hanno lanciato una lotta civile che ha raggiunto il resto del mondo, che in cambio li ha appoggiati. Continuano ad aggrapparsi al luogo che le autorità occupanti vogliono destinare all’espansione delle colonie e a rafforzare il controllo sulle terre che dovrebbero rimanere libere da palestinesi. Le autorità israeliane agiscono allo stesso modo anche con circa 45 villaggi palestinesi che non sono riconosciuti nella regione del deserto del Negev. Spesso ne distruggono qualcuno per cercare di espellerne gli abitanti, come a Al-Araqeeb e a Umm Al-Hiran. Nel contempo la città settentrionale di Umm Al-Fahm, occupata nel 1948 insieme alla sua popolazione palestinese, è stata sottoposta per decenni a successive minacce di deportazione di massa.

Più in generale, il governo israeliano continua a perseguire la sua politica di lenta e silenziosa deportazione forzata, che si basa sull’espansione delle colonie, sulle restrizioni alla vita dei palestinesi, sulla confisca delle terre, sul controllo delle risorse idriche ed economiche e sull’intensificazione delle restrizioni sulle costruzioni residenziali e sull’urbanizzazione. Israele ha anche provocato problemi per loro con quotidiane campagne di arresti e il gran numero di posti di controllo che separano città e villaggi le une dagli altri, oltre al “muro di separazione” costruito attraverso la Cisgiordania, che le autorità occupanti hanno continuato a costruire nonostante le obiezioni del resto del mondo sulla sua costruzione, comprese l’Assemblea generale delle Nazioni Unite e la Corte Internazionale di Giustizia (CIG).

I dirigenti politici israeliani stanno monitorando l’influenza di queste condizioni sui palestinesi in Cisgiordania, come il parlamentare della Knesset Bezalel Smotrich, che sta seguendo con grande interesse come ogni anno la situazione dell’occupazione obblighi circa 20.000 palestinesi della Cisgiordania ad andarsene. Tuttavia sta anche scommettendo sulle tendenze per risolvere la situazione demografica, parlando del 30% della popolazione della Cisgiordania che desidera emigrare, cioè, è più probabile che venga allontanata con maggiori fattori di spinta.

Questi politici che hanno una posizione compulsiva non sono soddisfatti nel vedere le conseguenze delle politiche di occupazione. Stanno piuttosto spingendo per una situazione finale decisiva senza il popolo palestinese sulla sua terra. Smotrich e i suoi colleghi del partito “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, ndtr.] nel settembre 2017 hanno adottato un “piano decisivo” che, secondo loro, sarebbe “meno costoso” delle guerre di Israele ogni qualche anno. Il piano chiede la cacciata di un gran numero di palestinesi dal loro Paese e l’intensificazione delle colonie in Cisgiordania, come l’intento di “determinare un fermo ed eterno destino” in uno Stato che dovrebbe essere solo ebraico, così come un atteggiamento deciso da parte delle autorità e dell’esercito israeliano nei confronti di tutti quelli che rifiutano l’occupazione.

Questo progetto fascista riceve un appoggio ideologico anche da siti “accademici”, come suggerito dalle affermazioni di Benny Morris, che formula pareri sufficienti a far suonare campane d’allarme in tutto il mondo. Per esempio, egli sottovaluta centinaia di massacri commessi dalle forze sioniste durante la Nakba – come quello di Deir Yassin nei pressi di Gerusalemme – che è particolarmente simbolico nella memoria collettiva del popolo palestinese. Pensa anche che l’espulsione forzata sia un’opzione meno pesante dello sterminio.

Le affermazioni scorrette di Morris non sono slegate da importanti sviluppi. Di fatto Morris parla mentre al potere c’è un presidente USA “scelto da dio per questo ruolo”, come la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders ha detto alla CBN in gennaio. Questa è una definizione coerente con l’opinione di circoli USA e israeliani, che vedono il presidente Donald Trump come “un inviato dal cielo per Israele”. A differenza dei suoi predecessori, Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele ed ha trasferito là l’ambasciata USA. I suoi collaboratori stanno partecipando ad attività pubbliche di colonizzazione e la sua amministrazione sta cercando di affamare e impoverire i profughi palestinesi e di spingerli ad emigrare riducendo le risorse UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.]. Sotto il suo governo la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ha anche approvato la legge dello Stato Nazione, che esprime le tendenze razziste nelle posizioni dei decisori politici israeliani.

Benny Morris concorda con queste tendenze con il suo tono prevenuto persino con i palestinesi, che rappresentano circa un quarto della popolazione del suo Paese e la cui nazionalità è stata loro imposta a forza e che non hanno posto nell’identità o nella cultura di questo Stato in base alla stessa legge razzista. Lo storico svolge il suo lavoro ideologico in un Paese che rifiuta di definire i propri confini. Alcuni dei suoi dirigenti politici sono impazienti di intraprendere campagne definitive di pulizia etnica, e, chissà, qualcuno a Washington, commentando la “Nakba 2.0”, potrebbe dire “dio lo vuole!”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Falsi account del partito laburista alimentano la “crisi dell’antisemitismo”

Asa Winstanley

17 gennaio 2019, The Electronic Intifada

Fin dall’inizio le notizie sulla “crisi dell’antisemitismo” nel partito laburista britannico sono state caratterizzate da disonestà, esagerazioni e invenzioni totali.

Il vero bersaglio di questa crisi artificiosa non sono i veri antisemiti, ma Jeremy Corbyn e in generale il movimento di solidarietà con i palestinesi.

Ma ora è emersa una nuova prova della preoccupante tendenza che ha alimentato la polemica fin dalla prima vittoria di Corbyn per la leadership nel settembre 2015.

Un’inchiesta di The Electronic Intifada ha documentato 10 profili twitter falsi che, spacciandosi come sostenitori di Corbyn, hanno postato messaggi violentemente antisemiti.

Gli account presentano somiglianze sufficienti a indicare che li stia gestendo la stessa persona lo stesso gruppo di persone.

Senza il coinvolgimento della polizia o un procedimento giudiziario è impossibile sapere con sicurezza chi ci sia dietro questa rete di finti profili.

Ma comunque sia, stanno chiaramente cercando di calunniare il partito laburista come antisemita.

Responsabili?

Si è ormai appurato che Israele ha condotto tentativi sia segreti che alla luce del sole contro Jeremy Corbyn da quando è diventato capo del partito.

Gruppi anti palestinesi che lavorano in coordinamento con Israele stanno conducendo campagne sotto copertura nei social media.

Un recente esempio è stato rivelato nell’inchiesta di Al Jazeera “The Lobby – Usa” che no è stata mandata in onda.

Come ha mostrato il documentario, “The Israel Project” [Progetto Israele, ndtr.] sta portando avanti una campagna per inserire narrazioni a favore di Israele in pagine facebook popolari e per altri versi innocue.

Ci sono anche cose che facciamo totalmente lontano dai riflettori,” ha detto il direttore esecutivo del gruppo al reporter di Al Jazeera in incognito.

Lo scorso mese un’altra operazione segreta – questa volta condotta dallo Stato britannico – è venuta alla luce dopo che alcuni documenti sono stati rivelati .

La cosiddetta “Integrity Initiative” [Iniziativa Integrità, ndtr.] è stata lanciata nel 2015 ed è diretta da ufficiali dell’intelligence militare britannica.

I suoi documenti suggeriscono che sia coinvolta in quelle che vengono chiamate “tecniche di guerra di informazioni.”

Dopo che le notizie sono filtrate, il governo britannico ha riconosciuto che l’iniziativa è stata finanziata – al momento con 3 milioni di dollari – sia dal ministero degli Esteri che da quello della Difesa.

Tra i bersagli del gruppo segreto c’era il capo del partito laburista Jeremy Corbyn.

Inganno

La rete di account twitter indagata da The Electronic Intifada usa una serie di falsi nomi e foto del profilo.

Anche la lista dei loro follower include molti account che sembrano dubbi, fortemente sospetti di essere falsi follower comprati.

Tutti e dieci gli account sono impegnati in un progetto di inganno, presentandosi come attivisti del partito laburista mentre sono coinvolti nell’antisemitismo.

Molti hanno anche postato violente istigazioni e minacce di morte, spesso contro ebrei.

Tutti e dieci hanno postato i loro contenuti più violenti e antisemiti come risposta ad altri tweet. Ciò significa che è per lo più improbabile che un rapido sguardo alle pagine dei profili riveli qualcosa di evidentemente dubbio.

La maggior parte dei tweet in evidenza é effettivamente del partito laburista o altro materiale politico. Due degli account hanno anche postato vero materiale sulla Palestina.

Una parte del materiale di solidarietà con la Palestina autentico è stato postato o ritwittato da due degli account. Poiché sono stati postati come risposte, i tweet antisemiti potrebbero normalmente essere visti solo da quanti sono in essi citati – o da avversari che stanno attivamente cercando queste risposte per trovare prove dell’“antisemitismo del partito laburista”.

I destinatari della rete di troll [utente di una comunità virtuale, solitamente anonimo, che invia di proposito messaggi provocatori, irritanti o fuori tema, ndtr.] sono stati spesso account di israeliani, filo-israeliani o laburisti importanti. Hanno incluso il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, la deputata della destra laburista Yvette Cooper e lo stesso Jeremy Corbyn.

Finti laburisti

Tutti e dieci gli account si presentano come di sostenitori, attivisti o persino membri dello staff del partito laburista.

Ricerche fatte con il programma di ricerca per immagini di Google confermano che sette delle dieci immagini dei profili sono foto rubate – le altre tre sono probabilmente schermate sottratte da video.

Sei dei dieci profili si presentano come apparentemente musulmani – sono questi profili che hanno postato le frasi antisemite più inquietanti, compresi appelli diretti alla violenza contro gli ebrei.

Questi account hanno nomi arabi, come “Abu Hussein” e “Abu Omar”, e utilizzano foto rubate, alcune di veri o presunti islamisti o estremisti islamici.

Una di queste foto è di Muhammad Qutb, il defunto fratello dell’influente ideologo della Fratellanza Musulmana Sayyid Qutb.

Una prova ancora esistente su twitter mostra che la rete di troll risale almeno al novembre 2015.

La rete

I dieci finti account laburisti che postano discorsi antisemiti analizzati da “the Electronic Intifada” sono:

Tre su dieci sono stati smascherati nel 2017 e nel 2018 dal sito di notizie laburista The Skwawkbox. I tweet della rete di troll sembra intendesse provocare una reazione indignata nei confronti dell’”antisemitismo laburista”, alimentando quindi la crisi.

C’è stata una serie di casi di tali reazioni indignate da parte di parlamentari della destra laburista e in un caso persino di un portavoce del governo israeliano.

Un esempio di come la rete di troll abbia contribuito a guidare la crisi si è avuto l’ultimo giorno della conferenza annuale del partito laburista nel 2016. All’epoca c’era stato un clamore mediatico riguardo al presunto antisemitismo del partito laburista.

Ciò diede come risultato la sospensione dal partito laburista dell’attivista ebrea di colore antisionista Jackie Walker, dopo che si era detta in disaccordo con la definizione di antisemitismo riguardante Israele durante una sessione di formazione che doveva rimanere riservata.

In questa atmosfera febbrile, l’account @dgrintz1ha twittato a Tal Ofer – membro anglo-israeliano del Movimento degli Ebrei Laburisti, filoisraeliano, un gruppo che fin da subito ha sostenuto la narrazione dell’“antisemitismo laburista” – “l’unico sionista buono è quello morto.”

Questo tweet di risposta è stato in seguito ritwittato da Jeremy Newmark – allora presidente del JLM, benché in seguito sia stato obbligato a dare le dimissioni con disonore.

Il JLM ha rapporti strettissimi con l’ambasciata israeliana.

Violento antisemitismo

Un altro esempio tipico ha avuto luogo nel marzo 2018, durante un ulteriore delirio mediatico sulla presunta crisi.

Un nuovo profilo, “Abu Hussein,” ha iniziato a ritwittare Corbyn, il suo importante alleato nel partito laburista John McDonnell ed altri noti account laburisti.

Ma uno sguardo più attento sul profilo @AbuHusseinLab ha rivelato un quadro inquietante.

In una risposta che prendeva di mira gli account ufficiali di Corbyn e McDonnell “Abu Hussein” ha minacciato la “Jihad” contro gli “ebrei”, insieme al disegno di un coltello insanguinato.

Ma l’account aveva rubato la foto del suo profilo da un sito di incontri.

Abu Hussein” è stato segnalato a twitter da chi scrive e da altri utenti per il suo violento razzismo. Ma la rete di troll ha semplicemente aperto altri account – almeno quattro dei suoi presunti account musulmani hanno iniziato a twittare nell’aprile 2018.

Lo stesso mese la crisi sul presunto antisemitismo ha continuato a imperversare nel partito. E l’evidente opposizione di Israele al partito laburista è stata condotta in modo palese, provocando notizie in prima pagina con la sospensione dei rapporti con l’ufficio di Corbyn a causa del suo “odio per le politiche del governo dello Stato di Israele” e del suo presunto antisemitismo.

Nell’ottobre 2018 un nuovo falso account laburista ha iniziato a twittare: @DeanBrownLab.

Dean Brown” ha affermato di essere “un ex membro dello staff del partito laburista” e di far parte di “Momentum” – un gruppo scaturito dalla campagna per l’elezione di Corbyn a leader del partito laburista.

Il 27 ottobre, il giorno del massacro di Pittsburgh negli USA, l’account ha twittato al primo ministro israeliano: “VE LA SIETE CERCATA.”

Da allora il neonazista Robert Bowers è stato imputato della morte quel giorno di 11 fedeli ebrei alla sinagoga “Albero della Vita”. Egli avrebbe detto alla polizia di volere “la morte di tutti gli ebrei.”

L’account è immediatamente scomparso. L’obiettivo di calunniare gli attivisti del partito laburista era stato raggiunto.

Ma, come ha rivelato subito The Skwawkbox, fonti del partito laburista hanno sottolineato che nessun Dean Brown ha mai lavorato per Jeremy Corbyn. Anche “Momentum” ha confermato di non sapere niente dell’iscrizione di un tale Dean Brown.

La foto usata dall’account era di una persona totalmente innocente ed era stata rubata da un articolo sulla stampa locale.

Una montatura

Questa rete di troll dimostra come sia facile per un individuo o un piccolo gruppo di persone trasmettere una falsa immagine sui social media.

Benché non ci siano prove che “Wesley Brown,” “Abu Hussein” o uno qualunque degli altri sia mai esistito – per non parlare del fatto che siano membri del partito laburista – la rete di troll ha ingannato politici di alto profilo.

È stato facile farlo, dato che i falsi profili corrispondono alla narrazione preconcetta secondo cui l’antisemitismo è molto diffuso nel partito laburista, soprattutto nella sinistra favorevole a Corbyn.

Quelli che hanno creato i falsi account hanno anche sfruttato i pregiudizi anti-islamici secondo cui l’antisemitismo è endemico tra i musulmani, compresi gli attivisti all’interno del partito laburista.

Dato che la narrazione predominante nei media è così spesso basata su prove falsificate, si auspicano da tempo un serio riesame e un’estrema prudenza riguardo a future affermazioni.

Asa Winstanley è un giornalista investigativo e un redattore associato di “The Electronic Intifada”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un rapporto riservato dell’UE denuncia l’ ‘apartheid’ giuridico in Cisgiordania

El País

Gerusalemme – 1 febbraio 2019

I rappresentanti europei sostengono che Israele sottopone i palestinesi a una “sistematica discriminazione”

L’adolescente Ahed Tamimi, icona della resistenza palestinese, è stata condannata a otto mesi di carcere per aver schiaffeggiato nel 2017 un militare israeliano nella sua casa di Nabi Saleh, a nord di Ramallah, capitale amministrativa della Cisgiordania. Il soldato Elor Azaria è rimasto dietro le sbarre per 14 mesi dopo essere stato condannato da un consiglio di guerra per aver giustiziato un aggressore palestinese a terra gravemente ferito nella città di Hebron (sud della Cisgiordania) nel 2016. Dopo mezzo secolo di occupazione i rappresentanti diplomatici dei 28 Paesi dell’UE constatano la “sistematica discriminazione giuridica” di cui sono vittime i palestinesi in Cisgiordania. In un rapporto riservato rivolto ai responsabili del Servizio Esteri a Bruxelles e al quale “El País” ha avuto accesso, gli ambasciatori a Gerusalemme est e a Ramallah chiedono che Israele riformi la giustizia militare per “garantire un processo e una sentenza equi in base alle leggi internazionali.”

I diplomatici che firmano il documento rappresentano governi che spesso divergono apertamente in merito al conflitto israelo-palestinese, che però concordano nel descrivere il modo di funzionare concreto dell’occupazione israeliana in Cisgiordania come un “regime duale”. Benché non figuri nel testo l’espressione apartheid giuridico, il suo contenuto dà conto di una giustizia segregata. “Il rapporto è una cartografia della situazione dei diritti nella cosiddetta Area C, sotto totale controllo israeliano e che rappresenta il 60% del territorio occupato, con una serie di raccomandazioni rivolte a Bruxelles sostenute da tutti i capi missione,” precisa una fonte europea a Gerusalemme.

Ai palestinesi vengono applicati la legge marziale e i regolamenti stabiliti da un dipartimento del ministero della Difesa, e sono sottoposti ai tribunali militari di “Giudea e Samaria”, denominazione biblica coniata in Israele per definire il territorio della Cisgiordania. Questi organi esecutivi e giudiziari si basano anche su norme ereditate dai precedenti poteri coloniali o amministrativi. Ci sono ancora in vigore leggi ottomane (per esempio per confiscare terre palestinesi apparentemente non coltivate), britanniche (per operare detenzioni amministrative, senza imputazioni e a tempo indefinito, che ora colpiscono circa 440 prigionieri) e persino giordane, quelle dell’amministrazione presente sul territorio fino al 1967, quando Israele occupò i territori palestinesi dopo la guerra dei Sei Giorni. Secondo il rapporto annuale dei tribunali militari israeliani del 2011, l’ultimo disponibile, i palestinesi sottoposti a processo penale sotto l’occupazione hanno una percentuale di condanne del 99,74%.

Documento riservato

Questo documento riservato dell’UE, con data 31 luglio scorso e che deve ancora essere preso in considerazione a Bruxelles, esamima la “la realtà di un’occupazione quasi permanente.” In Cisgiordania più di 2,5 milioni di palestinesi si vedono “privati dei loro diritti civili fondamentali” e devono far fronte a “numerose restrizioni della loro libertà di movimento.” Oltretutto da cinquant’anni l’economia palestinese è soggetta a un “sostanziale sottosviluppo”.

I rappresentanti diplomatici europei concordano nel difendere la soluzione dei due Stati come il percorso migliore verso una pace regionale. Riconoscono anche di comune accordo che lo sforzo della UE per “il processo di creazione di istituzioni statali e di sviluppo di un’economia palestinese sostenibile,” come prevedono gli accordi di Oslo del 1993, è compromesso dalle limitazioni giuridiche descritte nel rapporto, che tra i suoi destinatari ha anche i governi dei 28 Stati membri.

I 400.000 coloni ebrei che si sono stabiliti in Cisgiordania sono sottoposti solo alle leggi israeliane, in base ad uno status personale ed extraterritoriale. I 300.000 palestinesi che risiedono nell’Area C devono rispondere a una legislazione penale molto più rigida. Un colono deve comparire davanti a un giudice civile israeliano entro 24 ore, mentre un palestinese può essere portato davanti a una corte militare fino a 96 ore dopo.

I palestinesi vengono discriminati anche in materia di libertà civili, come quella d’espressione e di riunione, o di diritti urbanistici di edificazione. Le riunioni di più di 10 persone devono avere il permesso del comandante militare, che di rado lo concede. La pena per aver violato il divieto arriva fino a 10 anni di carcere. “Anche la riunificazione familiare, in particolare quando uno dei membri della famiglia ha doppia cittadinanza, palestinese e di un Paese europeo, viene resa difficile dalle autorità israeliane,” sottolinea la fonte europea consultata.

Tra il 2010 e il 2014 è stato concesso solo l’1,5% delle richieste di licenza edilizia presentate dai palestinesi nell’Area C della Cisgiordania. Di conseguenza più di 12.000 costruzioni sono state demolite in quanto accusate di essere illegali dagli amministratori militari dell’occupazione. L’Ue ha finanziato direttamente 126 progetti urbanistici palestinesi nell’Area C, dei quali sono 5 sono stati approvati da Israele.

I palestinesi della Cisgiordania sono soggetti a meccanismi (legali) sui quali non hanno nessun diritto di rappresentanza”, puntualizza il documento riservato europeo, “dato che i militari israeliani sono un’entità esterna che risponde solo a un governo straniero.” Nel giugno dell’anno scorso circa 6.000 palestinesi (di cui 350 erano minorenni, come Ahed Tamini) si trovavano rinchiusi in carceri situate in territorio israeliano come “prigionieri per questioni di sicurezza”, chiamati così perché si tratta di casi di “violenza di origine nazionalista.”

Diplomatici a Gerusalemme e a Ramallah

Il rapporto dei diplomatici dell’UE a Gerusalemme e Ramallah ritiene che Israele violi la legislazione internazionale per il fatto di spostare prigionieri e detenuti fuori dalla Cisgiordania, e nel contempo rende difficile il diritto di visita dei familiari.

Per delitti identici commessi nello stesso territorio esistono due diversi parametri giuridici. Le inchieste della polizia israeliana del “distretto di Giudea e Samaria” portano ad accuse formali contro coloni ebrei sono nell’8% dei casi di attacchi contro palestinesi o danni alle loro proprietà.

Secondo il giornale [israeliano] “Haaretz” il numero di “delitti dovuti al nazionalismo” commessi da abitanti delle colonie contro i palestinesi in Cisgiordania è aumentato di tre volte l’anno scorso, quando si sono registrati 482 incidenti di questo tipo, rispetto al 2017, durante il quale se ne sono contati 140. Nei due anni precedenti si era determinata una riduzione di questi attacchi in seguito alle conseguenze prodotte nel 2015 dalla morte di un bambino di 18 mesi, bruciato vivo, e dei suoi genitori in seguito a un attacco a Duma, località che si trova a nordest di Ramallah. Due giovani coloni sono in attesa di giudizio per questo attentato incendiario.

Il presidente Abbas volta le spalle alla società civile palestinese

Il rapporto dei capi missione europei presso l’Autorità Nazionale Palestinese che si trovano a Gerusalemme e a Ramallah è critico anche nei confronti del governo del presidente Mahmoud Abbas, che riceve dalla UE aiuti finanziari essenziali per la sua sopravvivenza. La politicizzazione del sistema giudiziario, gli arresti arbitrari (anche di giornalisti), gli abusi e le torture nei centri di detenzione e l’uso sproporzionato della forza contro manifestanti pacifici, tra le altre azioni del governo palestinese, ricevono le critiche del rapporto diplomatico dell’Unione. Il rais Abbas non è sottoposto a controllo parlamentare ed emana leggi attraverso decreti su una società civile molto giovane, ma limitata dall’egemonia del dirigente ottuagenario.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ragazza palestinese colpita a morte ad un checkpoint israeliano

Ali Abunimah

30 gennaio 2019, Electronic Intifada

Mercoledì forze israeliane hanno ucciso una ragazza palestinese al checkpoint di al-Zaayim nella Cisgiordania occupata a est di Gerusalemme.

La polizia israeliana ha sostenuto che Samah Zuhair Mubarak ha tentato di accoltellare una guardia di sicurezza del posto di controllo prima di essere colpita mortalmente.

Il ministero della Sanità dell’Autorità Nazionale Palestinese ha attribuito a Mubarak l’età di 16 anni, e i mezzi di comunicazione hanno informato che era in terza superiore.

Come in molti casi precedenti in cui un presunto aggressore palestinese è stato ucciso, nessun soldato israeliano è rimasto ferito durante l’incidente.

Un portavoce della polizia israeliana ha twittato una foto del coltello che secondo lui portava Mubarak: la polizia israeliana ha anche rilasciato un montaggio video che mostrerebbe parte dell’incidente.

Il filmato mostra una persona tutta vestita di nero e con uno zainetto che si avvicina al checkpoint. Poi mostra da lontano una lite in cui una persona appare inciampare o fare un balzo in avanti, e poi cadere all’indietro a terra come se le avessero sparato.

Il video è tagliato, per cui non mostra quello che è successo nei secondi precedenti alla discussione e agli spari.

Mostra anche un soldato che mette le manette a Mubarak chiaramente inerme stesa a terra, mentre un altro soldato le punta contro un fucile.

Cure mediche negate

In molti casi di attacchi presunti o reali da parte di palestinesi contro soldati israeliani, le forze di occupazione hanno abitualmente utilizzato forza letale – esecuzioni extragiudiziarie – contro persone che non rappresentavano un pericolo imminente o avevano smesso di rappresentare un pericolo.

Dopo gli spari di mercoledì il “Times of Israel” [giornale on line israeliano che si autodefinisce indipendente, ndtr.] ha affermato: “In alcuni casi fonti ufficiali israeliane hanno detto che palestinesi sembravano aver attuato aggressioni o tentato di farlo per essere uccisi dalle forze di sicurezza israeliane, come forma di ‘suicidio per mano di un poliziotto’”.

I media locali hanno informato che le forze israeliane hanno impedito ai primi soccorritori di prestare aiuto a Mubarak dopo che era stata colpita.

Nessuna delle immagini rilasciate dalla polizia israeliana o che hanno circolato nelle reti sociali e visionate da “Electronic Intifada” mostra assistenza a Mubarak da parte di personale medico o che siano stati messi in atto tentativi di salvarle la vita.

Generalmente cure mediche a palestinesi colpiti dalle forze di occupazione israeliane vengono negate o attivamente impedite.

Riguardo a simili incidenti del passato, Amnesty International ha affermato che “in base alle leggi internazionali è un dovere fondamentale fornire soccorso sanitario a un ferito, e non farlo – soprattutto se in modo intenzionale – viola il divieto di tortura e di altre punizioni crudeli, inumane e degradanti.”

Famiglia scioccata

Un membro della famiglia ha detto ai media palestinesi che, in seguito all’uccisione di Mubarak, Israele ha arrestato suo padre Zuhair Mubarak dopo averlo convocato per un interrogatorio alla prigione militare di Ofer.

“Noi sapevamo che Samah stava andando a scuola e siamo rimasti sorpresi dalla notizia della sua morte. Non sappiamo nessun altro dettaglio su quello che è avvenuto al posto di controllo,” ha aggiunto il membro della famiglia.

La famiglia di Mubarak è originaria della Striscia di Gaza, ma vive nella città di al-Ram, nella Cisgiordania occupata a nord di Gerusalemme, dove suo padre si è trasferito all’età di 18 anni.

È la terza minorenne palestinese ad essere uccisa dalle forze israeliane dall’inizio del 2019. “Samah aveva una personalità infantile, non aveva opinioni o ideologie estremiste, era di una famiglia religiosa, siamo tutti religiosi, e non avrebbe mai fatto quello che sostiene Israele,” ha detto alla rivista Donia al-Watan [sito palestinese di notizie in rete, ndtr.] lo zio di Samah, Fathi al-Khalidi.

Candelotto lacrimogeno letale

Nel contempo martedì a Gaza il quarantasettenne Samir Ghazi al-Nabbahin è morto in seguito alle ferite ricevute durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno dello scorso venerdì.

Il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che al-Nabbahin era stato colpito al volto da un candelotto lacrimogeno sparato dalle forze di occupazione israeliane.

Il 14 gennaio un altro palestinese di Gaza, il tredicenne Abd al-Raouf Ismail Salha, era morto in seguito alle lesioni riportate quando giorni prima era stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno israeliano. Al-Nabbahin è stato sepolto mercoledì in mezzo a scene di dolore.

Martedì almeno altri cinque palestinesi sono rimasti feriti dal fuoco israeliano mentre partecipavano a una marcia settimanale nel nord di Gaza contro il blocco marittimo israeliano del territorio.

Tamara Nassar ha contribuito alla ricerca.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I minori palestinesi temono per il loro futuro in quanto Israele intende chiudere scuole

Zena Tahhan

29 gennaio 2019, Middle East Eye

Le strutture educative per i palestinesi a Gerusalemme est sono già tutt’altro che adeguate. Ora potrebbero essere molto peggiori

Campo profughi di Shuafat, Gerusalemme est occupata –Nel trascurato campo profughi di Shuafat, nella Gersualemme est occupata, l’atmosfera è sempre tesa.

Qui i bambini giocano nelle strade piene di spazzatura e acque reflue, mentre giovani adolescenti sono obbligati ad abbandonare la scuola per lavorare in autorimesse e ristoranti per aiutare in casa ad arrivare a fine mese.

Almeno 24.000 persone – la maggioranza delle quali profughi le cui famiglie vennero espulse nel 1948 – vivono in questo angolo di illegalità, rinchiuso tra due posti di controllo e un muro di cemento altro 8 metri che circonda il campo.

Notizie riguardo ai progetti di Israele di chiudere qui le due scuole per rifugiati delle Nazioni Unite hanno solo soffiato sul fuoco.

Le scuole, benché carenti come organizzazione e qualità necessarie, sono gratuite e offrono un piccolo ma significativo barlume di speranza in un contesto difficile.

“Tutte le mie amiche sono nella mia scuola. Amo i miei insegnanti. Passiamo più tempo a scuola che a casa,” dice Zuhoor al-Tawil, una studentessa quattordicenne della scuola femminile di Shuafat, gestita dall’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA.

“Perché non aspettano che ci diplomiamo e poi la chiudono?” chiede a Middle East Eye.

Con l’ennesimo colpo ai profughi palestinesi e al sistema educativo nella Gerusalemme est occupata, la scorsa settimana i media israeliani hanno informato che Israele chiuderà le scuole dell’ONU che forniscono servizi ai campi profughi palestinesi in tutta la città.

Secondo i mezzi di informazione israeliani, dall’inizio del prossimo anno scolastico il Consiglio della Sicurezza Nazionale di Israele revocherà i permessi alle scuole gestite dall’UNRWA.

Le scuole dirette dall’agenzia ONU verrebbero sostituite da scuole alle dipendenze del Comune di Gerusalemme, e seguirebbero il curriculum di studi del ministero dell’Educazione di Israele.

In attività dal 1949, l’UNRWA gestisce sei scuole a Gerusalemme, fornendo servizi a circa 3.000 studenti. L’agenzia gestisce anche centri sanitari e associazioni di donne e giovani, e offre anche servizi di assistenza e protezione.

In merito alla questione, l’UNRWA ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma di non essere informata della decisione di chiudere le scuole.

“In nessun momento dal 1967 le autorità israeliane hanno contestato le basi su cui l’agenzia mantiene e gestisce strutture a Gerusalemme est,” afferma la dichiarazione.

Ipotesi B’

Sebbene l’UNRWA sia preoccupata, sta cercando di non parlare di un’“ipotesi B” se Israele decidesse di chiudere le scuole o di limitare l’operatività dell’agenzia, ha detto il portavoce Sami Mshasha a MEE.

“Ci sono 60.000 rifugiati palestinesi a Gerusalemme. Gran parte di loro vive al di sotto del livello di povertà. C’è un altissimo tasso di disoccupazione, la qualità della vita di queste persone si ridurrà drasticamente e ne soffriranno.”

Mohannad Masalameh, direttore esecutivo del Comitato Popolare del campo di Shuafat, afferma che, mentre le scuole dell’ONU stanno affrontando una grave riduzione del personale a causa dei recenti tagli [ai finanziamenti all’UNRWA, ndtr.] da parte del governo USA, le loro strutture rimangono migliori di altre scuole.

L’amministrazione comunale israeliana di Gerusalemme gestisce una serie di scuole nel campo, dove, nonostante ripetuti tentativi da parte del governo israeliano di introdurre il proprio programma, vengono seguiti i programmi dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania.

“Tu vai in una scuola municipale e non c’è neppure un’atmosfera da scuola. Le scuole dell’UNRWA sono molto più grandi e migliori. C’è un grande cortile. La maggior parte delle scuole municipali è in edifici affittati,” dice Masalameh a MEE.

“Sebbene non sia stata presa nessuna decisione, se un simile progetto venisse messo in pratica avrà conseguenze molto negative. L’UNRWA ha fornito lavoro a circa 85 dipendenti nelle scuole: perderanno il loro lavoro.” E aggiunge: “Penso che la gente si rifiuterà di mettere i propri figli nelle scuole municipali con un programma di studi israeliano. In quanto palestinesi, alcuni potrebbero rifiutarsi di imparare un programma di un altro Paese che è in conflitto con il proprio patriottismo.”

Strutture fatiscenti

Il fatto che Israele prenda di mira le scuole dell’UNRWA è solo uno dei modi in cui le sue politiche hanno un impatto negativo sull’educazione dei palestinesi a Gerusalemme.

In base alle leggi israeliane e internazionali, Israele ha l’obbligo di fornire un’educazione adeguata a tutti i bambini palestinesi della città.

Tuttavia” Ir Amim”, una Ong israeliana che monitora la vita dei palestinesi in città, informa che sarebbero necessarie più di 2.500 aule per fornire servizi adeguati ai minori palestinesi.

Oltretutto si stima che circa 70 aule dovrebbero essere costruite ogni anno per rispondere all’aumento della popolazione palestinese, ma in media Israele ne costruisce annualmente 37.

“Fino a poco tempo fa il Comune di Gerusalemme e il ministero dell’Educazione attribuivano la crescente mancanza di aule alla carenza di terreni disponibili su cui costruire strutture scolastiche a Gerusalemme est,” affermava un rapporto dell’associazione pubblicato nel 2017.

“Di fatto, la scarsità in questione non è una reale mancanza di terreni, quanto piuttosto una mancanza di aree edificabili destinate a edifici pubblici – un risultato diretto della pianificazione urbanistica discriminatoria a Gerusalemme est.”

Israele conquistò Gerusalemme est, l’annesse e mise i suoi quartieri sotto la giurisdizione israeliana nel 1967, con un’iniziativa che violava le leggi internazionali e che non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

Da allora ha destinato il 2,6% di tutta la terra a Gerusalemme est per strutture pubbliche. Al contrario, circa l’86% di Gerusalemme est è stato destinato ad uso dello Stato di Israele e dei coloni.

La mancanza di spazi per l’espansione naturale e la ghettizzazione dei quartieri palestinesi a Gerusalemme est hanno gravemente soffocato il settore dell’educazione.

Ziad al-Shamale, presidente dell’Unione dei Comitati dei Genitori a Gerusalemme est, afferma che la mancanza di spazio è il problema maggiore, con il muro israeliano di separazione tra la città e la Cisgiordania occupata che blocca lo sviluppo.

“Gerusalemme è chiusa dal muro, e le scuole sono già sovraffollate. Il governo israeliano non concede nessun permesso o autorizzazione per costruire una scuola – né lo fa l’Autorità Nazionale Palestinese, né il Waqf [ente religioso musulmano che gestisce i luoghi sacri, ndtr.] islamico di Gerusalemme – nessuno,” dice Shamale a MEE.

“Israele non vuole che il nostro settore educativo si sviluppi. Vogliono persone senza educazione, gente che abbandona la scuola,” continua. “Le persone non possono trovare case in cui abitare, per cui come ci si può aspettare che trovino scuole?”

Almeno il 33% degli studenti palestinesi di Gerusalemme abbandona prima di aver completato i 12 anni di scuola. Secondo il rapporto di “Ir Amir”, ogni anno più di 1.000 studenti lasciano le scuole

L’alta percentuale di abbandoni, dice Shamale, è in parte dovuta alla mancanza di strutture adeguate nelle scuole palestinesi di Gerusalemme.

“Ci sono più di 40 o 45 studenti in ogni classe, con un solo insegnante. C’è una grave carenza di campi sportivi, zone per giocare, aule con i computer e persino libri da leggere per i bambini,” dice.

Una guerra contro i programmi palestinesi

Dopo decenni di disinteresse per la scolarità dei palestinesi, nel maggio 2018 il governo israeliano ha deciso di investire 450 milioni di shekel (oltre 100 milioni di €) nell’educazione a Gerusalemme est.

Tuttavia il denaro è prevalentemente destinato a migliorare la tecnologia e le lezioni di ebraico e per convincere le scuole pubbliche municipali a passare ai programmi israeliani.

Zaid al-Qiq è un insegnante in una scuola privata e ricercatore su questioni educative. Dice che il governo israeliano sta già cercando di convincere i genitori palestinesi e i loro figli a studiare nelle scuole municipali con programmi israeliani.

“Il Comune vuole convincerli a prendere il Bagrut (esami di diploma nelle scuole superiori israeliane) o a fare esami psicometrici (esami di ingresso all’educazione superiore) invece degli esami palestinesi,” dice Qiq a MEE.

Per i palestinesi della città fare gli esami di diploma israeliani significa essere in grado di andare alle università israeliane e l’accesso ad un mercato del lavoro più vasto. Fino a poco tempo fa, quelli che volevano studiare all’Università Ebraica di Gerusalemme dovevano sottoporsi a un programma pre-univesritario di due anni con un esame psicometrico.

Nel contempo il principale campus dell’unica università palestinese di Gerusalemme – la “Al Quds” – è tagliato fuori dalla città dal muro di separazione. Chi desidera accedervi deve viaggiare per una distanza doppia e attraversare un checkpoint.

Qiq afferma che sotto l’occupazione israeliana il settore educativo palestinese è tutt’altro che indipendente: “Persino nelle scuole private il Comune interferisce sull’assunzione di alcuni insegnanti e sugli argomenti che insegniamo,” sostiene.

“Oggi stanno facendo una guerra contro i programmi palestinesi e ora vi stiamo assistendo con le scuole dell’UNRWA.”

Shamale, presidente del comitato dei genitori, è d’accordo.

“Temiamo che un domani il settore educativo ricada tutto sotto i programmi israeliani. Impartiranno ai nostri figli la narrazione israeliana. Dopo 10 o 15 anni questa generazione sarà palestinese di nome, ma non per la sua identità,” dice. “Gli studenti palestinesi sono le vittime di questo sistema.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un generale israeliano lancia la sfida a Netanyahu sbandierando il massacro di Gaza

Jonathan Cook

28 gennaio 2019, Palestine Chronicle

Con l’avvicinarsi delle elezioni di aprile, Benjamin Netanyahu ha buoni motivi di temere Benny Gantz, il suo ex capo di stato maggiore dell’esercito. Gantz ha creato un nuovo partito, chiamato “Resilienza Israeliana”, proprio quando la rete di incriminazioni per corruzione si sta stringendo attorno al primo ministro.

Già ora, all’inizio della campagna, circa il 31% dell’elettorato israeliano opta per Gantz al comando del prossimo governo piuttosto di Netanyahu, a cui mancano solo pochi mesi per diventare il leader rimasto più a lungo in carica nella storia di Israele.

Gantz è indicato come la nuova speranza, un’opportunità di cambiare direzione dopo che negli ultimi decenni una serie di governi guidati da Netanyahu hanno spinto Israele ancor più a destra.

Come i precedenti generali di Israele diventati uomini politici, da Yitzhak Rabin a Ehud Barak e Ariel Sharon, Gantz viene dipinto – e lui stesso si dipinge – come un guerriero forgiato in battaglia, in grado di portare alla pace da una posizione di forza.

Prima ancora che avesse fatto una sola dichiarazione politica, i sondaggi gli hanno attribuito 15 su 120 seggi parlamentari, un segnale incoraggiante per coloro che sperano che una coalizione di centro-sinistra questa volta possa trionfare.

Ma ciò per cui in realtà Gantz si batte – rivelato questa settimana nei suoi primi video elettorali – è ben lungi dall’essere rassicurante.

Nel 2014 ha condotto Israele nell’operazione militare più lunga e più spietata che si ricordi: 50 giorni in cui la stretta enclave costiera di Gaza è stata bombardata incessantemente.

Alla fine, una delle aree più densamente popolate al mondo – con i suoi due milioni di abitanti già intrappolati da un lungo assedio israeliano – versa in rovine. Nell’offensiva sono stati uccisi più di 2.200 palestinesi, un quarto dei quali minori, e decine di migliaia sono rimasti senza casa.

Il mondo ha assistito, sgomento. Indagini da parte di associazioni per i diritti umani, come Amnesty International, hanno concluso che Israele ha commesso crimini di guerra.

Si sarebbe potuto pensare che nella sua campagna elettorale Gantz avrebbe voluto stendere un velo su quell’inquietante periodo della sua carriera militare. Neanche per sogno.

Uno dei video della sua campagna sorvola le macerie di Gaza, dichiarando orgogliosamente che Gantz è stato responsabile della distruzione di molte migliaia di edifici. “Parti di Gaza sono state riportate all’età della pietra”, si vanta il video.

Questo è un riferimento alla dottrina Dahiya, una strategia sviluppata dal comando militare israeliano di cui Gantz era un membro di spicco. Lo scopo è quello di radere al suolo le infrastrutture moderne dei vicini di Israele, costringendo i sopravvissuti a condurre un’esistenza di stenti, piuttosto che resistere a Israele. La punizione collettiva implicita nell’apocalittica dottrina Dahiya è senza dubbio un crimine di guerra.

In particolare, il video inneggia alla distruzione di Rafah, un centro di Gaza che ha subito il più intenso bombardamento dopo che un soldato israeliano è stato rapito da Hamas. In pochi minuti l’ indiscriminato bombardamento israeliano ha ucciso almeno 135 civili palestinesi e distrutto un ospedale.

Secondo le indagini, Israele aveva invocato la ‘Procedura Annibale’, nome in codice per un ordine che consente all’esercito di utilizzare qualunque mezzo per porre fine alla cattura di uno dei suoi soldati. Ciò include l’uccisione di civili, come “danno collaterale” e, cosa più discutibile per gli israeliani, anche del soldato stesso.

Il video di Gantz presenta un numero totale di “1.364 terroristi uccisi”, in cambio di “tre anni e mezzo di calma.” Come ha osservato il quotidiano israeliano progressista Haaretz, il video “esalta un conto delle vittime come se fosse un gioco al computer.”

Ma il numero dei morti citato da Gantz supera persino la stima ufficiale dell’esercito israeliano – mentre ovviamente disumanizza quei “terroristi” che lottano per la loro libertà.

In quanto osservatore più imparziale, l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem stima che i combattenti palestinesi uccisi da Israele ammontavano a 765. Secondo i suoi calcoli, e quelli di altri enti come le Nazioni Unite, quasi due terzi dei gazawi uccisi nell’operazione israeliana del 2014 erano civili.

Inoltre, il “tranquillo” Gantz si attribuisce il merito di ciò che ha beneficiato soprattutto Israele.

A Gaza i palestinesi subiscono sistematici attacchi militari, un assedio continuo che impedisce l’ingresso di beni essenziali e devasta le industrie di esportazione ed una politica di esecuzioni da parte di cecchini israeliani che sparano su manifestanti disarmati presso la barriera che circonda ed imprigiona l’enclave.

Gli slogan della campagna di Gantz, “Solo i forti vincono” e “Israele prima di ogni cosa”, parlano da soli. ‘Ogni cosa’, per Gantz, chiaramente include i diritti umani.

È abbastanza vergognoso che egli creda che la sua consolidata serie di crimini di guerra convincerà gli elettori. Ma lo stesso approccio è stato espresso dal nuovo capo di stato maggiore dell’esercito di Israele.

Aviv Kochavi, soprannominato l’“ufficiale filosofo” per via dei suoi studi universitari, questo mese si è insediato come nuovo capo dell’esercito. In un importante discorso, ha promesso di trasformare il famoso “esercito più morale del mondo” in un esercito “letale, efficiente”.

Nella visione di Kochavi, l’aggressivo esercito un tempo comandato da Gantz ha bisogno di migliorare la sua strategia. Ed egli è un provato esperto in distruzione.

Nelle prime fasi della rivolta palestinese che scoppiò nel 2000, l’esercito israeliano lottò per trovare il modo di annientare i combattenti palestinesi nascosti nelle città densamente popolate sotto occupazione.

A Nablus, dove era comandante di brigata, Kochavi escogitò un’ingegnosa soluzione .L’esercito avrebbe fatto irruzione in una casa palestinese, poi abbattuto i suoi muri, spostandosi da una casa all’altra, penetrando di nascosto in città. Lo spazio palestinese non fu solamente usurpato, ma distrutto da cima a fondo.

Gantz, l’ex generale che spera di guidare il governo, e Kochavi, il generale a capo del suo esercito, sono sintomi di quanto totale sia in realtà la logica militarista che si è impossessata di Israele. Un Israele deciso a diventare una moderna Sparta.

Se dovesse provocare la caduta di Netanyahu, Gantz, come i politici-generali che lo hanno preceduto, si dimostrerà un falso uomo di pace. È stato abituato a comprendere solo la forza, le strategie a somma zero, la conquista e la distruzione, non la pietà o il compromesso.

Cosa ancor più pericolosa, la glorificazione di Gantz del proprio passato militare probabilmente rafforzerà nelle menti israeliane la necessità non della pace, ma in maggior misura della stessa cosa: sostegno ad una destra ultranazionalista intrisa di una filosofia di suprematismo etnico, che respinge ogni riconoscimento dei palestinesi come esseri umani con dei diritti.

(Una versione di questo articolo è comparsa per la prima volta sul National, Abu Dhabi.)

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo. Tra i suoi libri: “Israele e il crollo della civiltà: Iraq, Iran ed il piano per rifare il Medio Oriente” (Pluto Press), e “Palestina scomparsa: esperimenti israeliani in disperazione umana” (Zed Books). Ha fornito questo articolo a PalestineChronicle.com.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Cosa c’è dietro la repressione contro i prigionieri palestinesi?

Yara Hawari

venerdì 25 gennaio 2019, Middle East Eye

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto

Questa settimana le guardie della prigione militare israeliana di Ofer hanno messo in atto pesanti attacchi contro i prigionieri palestinesi.

Le celle sono state messe a soqquadro, effetti personali sono stati distrutti e sono state effettuate perquisizioni corporali invasive. Per molti prigionieri l’aspetto peggiore è stato la confisca di foto, lettere e semplici doni dei membri della famiglia raccolti nel corso degli anni – un’ancora di salvezza per quanti devono scontare decenni di carcere.

I prigionieri sono stati anche obbligati a togliersi i vestiti e ad attendere l’ispezione all’aperto con un freddo intenso.

Non si tratta di nuove tecniche o tattiche, ma piuttosto di quelle che vengono utilizzate periodicamente come forma di punizione collettiva contro i prigionieri palestinesi.

Punizione collettiva.

L’ultima repressione nel carcere di Ofer si è scontrata con la resistenza collettiva dei prigionieri, che si sono rifiutati di collaborare con le forze israeliane. In seguito a ciò, sono stati attaccati con lacrimogeni, taser, pestaggi, cani poliziotto e persino proiettili di acciaio ricoperti di gomma sparati da breve distanza.

Più di 150 hanno dovuto ricevere cure mediche, sei prigionieri hanno subito fratture e più di 40 sono stati feriti alla testa. Molti hanno patito per le gravi conseguenze dell’inalazione di gas lacrimogeni in seguito al fatto che sono stati lanciati candelotti lacrimogeni nelle celle chiuse.

Di conseguenza “Addameer”, l’associazione per il sostegno e i diritti umani dei prigionieri, ha emesso un comunicato in cui chiede al Comitato Internazionale della Croce Rossa di avviare un’inchiesta su queste “gravissime violazioni” delle leggi internazionali e di fornire protezione ai prigionieri palestinesi.

In risposta a queste azioni e in solidarietà con i prigionieri sono state organizzate manifestazioni sia a Ramallah [in Cisgiordania, ndtr.] che ad Haifa [in Israele, ndtr.]. Durante quest’ultima dimostrazione due attivisti palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Torture e maltrattamenti

In effetti nella società palestinese il problema dei prigionieri è importante, e colpisce molte persone. Dal 1967 il 40% della popolazione maschile adulta in Cisgiordania e a Gaza – ossia circa 800.000 persone – è stato sottoposto a una qualche forma di detenzione da parte di Israele. 

La maggior parte delle comunità e delle famiglie è intimamente consapevole di cosa significhi avere un proprio caro in prigione. Attualmente, secondo i dati di “Addameer”, ci sono 5.500 prigionieri politici palestinesi.

Il sistema carcerario dell’esercito israeliano destinato specificamente ai palestinesi dei territori occupati nel 1967 è ingiusto e viola le leggi internazionali. I prigionieri sono sottoposti a torture, molestie sessuali, prolungati periodi in isolamento – a volte per un tempo fino a 10 anni – cure mediche inadeguate e condizioni di vita inumane, in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra, con la negazione dei diritti fondamentali dei detenuti.

Un altro meccanismo utilizzato dal regime israeliano è la detenzione amministrativa, che consente di trattenere i detenuti a tempo indeterminato senza un’imputazione o un processo. La detenzione più lunga di questo tipo è durata otto anni.

Tutto il sistema è essenzialmente destinato a sconvolgere e punire la società palestinese, con una percentuale del 99% di sentenze a lunghe pene detentive.

Violenza di genere

Anche nella prigione di Damon le prigioniere hanno dovuto affrontare la repressione. All’insaputa dei più fuori e dentro la Palestina, lo scorso mese il gruppo di detenute palestinesi (54 persone) è stato spostato dal carcere di Hasharon a quello di Damon, una struttura nei pressi di Haifa. Le condizioni sono significativamente peggiorate, con celle sovraffollate e docce all’esterno e al freddo, e a molte sono stati negati gli effetti personali che avevano nella prigione precedente.

La violenza di genere di Israele contro le detenute è ben documentata da ong e gruppi per i diritti umani palestinesi. Le strategie utilizzate contro di loro includono minacce, molestie sessuali, negazione di assorbenti igienici e umiliazioni generalizzate.

Israele è probabilmente l’unico Paese al mondo che processa metodicamente minorenni nel sistema dei tribunali militari. Migliaia di minori palestinesi sono stati arrestati e giudicati dai tribunali militari durante gli ultimi due decenni.

L’amara ironia è che i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza vivono già in una prigione a cielo aperto. Il loro movimento è limitato a determinate aree e sono costantemente sotto sorveglianza. Praticamente ogni aspetto della loro vita è controllato da Israele, mentre il sistema di incarcerazione continua a violare impunemente le leggi internazionali.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solamente l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)