La falsa rivoluzione di Madonna: Eurovision, egemonia culturale e resistenza

Ramzy Baroud

22 maggio 2019Palestine Chronicle

Lo scorso marzo è mancata all’età di 51 anni Rim Banna, famosa cantante palestinese che ha musicato le poesie palestinesi più commoventi. Banna ha colto nel modo più nobile e melodioso la lotta dei palestinesi per la libertà. Se potessimo immaginare gli angeli che cantano, lo farebbero come lei.

Quando Banna è morta, tutti i palestinesi hanno pianto la sua scomparsa. Benché pochi mezzi di comunicazione internazionali abbiano dato la notizia della sua morte a un’età relativamente giovane, il fatto che sia stata vinta dal cancro non ha ottenuto molta attenzione o discussione. Tristemente la morte di un’icona palestinese di resistenza culturale che ha ispirato un’intera generazione, a cominciare dalla prima Intifada nel 1987, è stata a malapena notata come un fatto degno di nota e di riflessione, persino tra quanti pretendono di perorare la causa palestinese.

Confrontatela con Madonna, un’“artista” che si è impegnata per l’auto-esaltazione, la fama personale e l’arricchimento. Quest’ultima ha rappresentato i valori morali più degradati, utilizzando l’intrattenimento a buon mercato e soddisfacendo le più basse caratteristiche comuni per rimanere il più a lungo possibile famosa nel mondo della musica.

Mentre Banna aveva una causa, Madonna non ne ha nessuna. E, mentre Banna rappresenta la resistenza culturale, Madonna simbolizza l’egemonia culturale globalizzata – in questo caso, l’imposizione della cultura consumistica occidentale sul resto del mondo.

L’egemonia culturale definisce la relazione degli USA e di altre culture occidentali con il resto del mondo. Non è cultura come nelle conquiste intellettuali e artistiche collettive di quelle società, ma come una serie di strumenti ideologici e culturali utilizzati dalle classi dominanti per mantenere la dominazione su [popoli] svantaggiati, colonizzati ed oppressi.

Madonna, Michael Jordan, i Beatles e la Coca-Cola, rappresentano molto più di semplici interpreti e di una bevanda frizzante: sono anche uno strumento per garantire il dominio culturale, quindi economico e politico. Il fatto che in qualche città in giro per il mondo, soprattutto nell’emisfero sud, la Coca Cola scorra “più liberamente dell’acqua” la dice lunga sullo strumento economico e sulla dimensione politica dell’egemonia culturale.

Questa questione è diventata problematica quando Madonna ha deciso di esibirsi in Israele, come ha fatto varie volte in passato, in quanto parte della competizione canora Eurovision. Sapendo chi è e da che parte sta, la sua decisione non dovrebbe aver rappresentato una sorpresa – dopotutto nel suo concerto del settembre 2009 a Tel Aviv cantò avvolta in una bandiera israeliana.

Ovviamente è fondamentale che ad artisti del suo calibro ed ai partecipanti, che rappresentavano 41 diversi Paesi, venga ricordata la loro responsabilità morale verso i palestinesi occupati ed oppressi. È anche importante che ci si opponga ai continui tentativi di Israele di mascherare la sua apartheid e i suoi crimini di guerra in Palestina.

Infatti non si dovrebbe consentire che continui l’insabbiamento delle violazioni israeliane dei diritti umani utilizzando l’arte – noto anche come “art-washing” -, mentre Gaza è sotto assedio e i bambini palestinesi vengono colpiti e uccisi quasi ogni giorno, senza rimorso e senza responsabilità legale.

Questa è la ragione per cui questi eventi artistici sono importanti per il governo e la società israeliani. Israele ha utilizzato l’Eurovision come distrazione rispetto allo spargimento di sangue in evidenza non lontano dalla location di Tel Aviv. Quelli che si sono adoperati per garantire il successo dell’evento, sapendo benissimo come Israele lo stia utilizzando in quanto opportunità per normalizzare la sua guerra contro i palestinesi, dovrebbero seriamente vergognarsi.

Ma, d’altra parte, dovremmo essere sorpresi? Eventi musicali come Eurovision non si trovano forse al cuore dello schema globalizzante dell’egemonia culturale centrata sull’Occidente, con l’unico proposito di imporre una visione capitalistica del mondo, in cui la cultura occidentale è consumata come una merce, non diversamente da un panino McDonald o da un paio di jeans Levi?

Chiedere alla sessantenne Madonna di evitare di intrattenere l’apartheid israeliana può essere considerato utile come strategia mediatica, perché contribuisce a mettere in luce, anche se solo momentaneamente, un problema che altrimenti sarebbe stato assente dai titoli dei giornali. Tuttavia, concentrando l’attenzione su Madonna e qualunque siano i principi dei diritti umani che lei in apparenza appoggia, abbiamo anche assunto il rischio di nobilitare inavvertitamente lei e i valori consumistici che rappresenta. Oltretutto, in questa traiettoria centrata su Madonna, abbiamo anche ignorato la resistenza culturale della Palestina, il nucleo centrale che sta dietro il “sumud” (fermezza) palestinese nel corso di un secolo.

Mentre è importante mantenere pressione su quanti sono impegnati nell’appoggiare politicamente, economicamente e culturalmente Israele, questi sforzi dovrebbero essere secondari rispetto all’appoggio alla cultura della resistenza dei palestinesi. Comportarsi come se le buffonate sul palco di Madonna rappresentassero una cultura vera, ignorando nel suo complesso la cultura palestinese, è fare come gli studiosi che affrontano la decolonizzazione dal punto di vista dei colonizzatori, non dei colonizzati. La verità è che le Nazioni non possono liberarsi realmente della mentalità colonialista senza che le loro narrazioni prendano il centro del palcoscenico in termini di politica, cultura e ogni altro aspetto della conoscenza.

L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza capire e, ancor di più, senza sentire ed appassionarsi,” scrisse l’intellettuale antifascista italiano Antonio Gramsci. Ciò comporta che l’intellettuale e l’artista sentano “le passioni elementari del popolo, le comprendano e, quindi, le spieghino e le giustifichino.”

La verità è che fare appello al senso morale di Madonna senza immergerci appassionatamente nell’arte di Banna non farà, a lungo termine, il bene dei palestinesi. In ultima analisi solo sposare la cultura della resistenza palestinese terrà a bada i messaggi culturali egocentrici, egemonici e a buon mercato delle Madonna di tutto il mondo.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, Università di California, Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dal 2009 Netanyahu ha costruito nelle colonie in Cisgiordania 19.346 unità abitative

14 maggio 2019 – Ma’an News

Il rapporto di Peace Now [organizzazione pacifista israeliana, ndtr.] riguardo alla costruzione nella Cisgiordania occupata afferma che nel 2018 è iniziata la costruzione di circa 2.100 nuove unità abitative, il 9% in più della media annuale dal 2009 (1.935 unità per anno) e che circa il 73% (1.539) delle nuove costruzioni è avvenuto in colonie a est del confine proposto dall’Iniziativa di Ginevra [bozza di accordo di pace stilata nel 2003 da politici israeliani e palestinesi, che però non venne accolta, ndtr.], cioè colonie che probabilmente sarebbero evacuate in un accordo a due Stati.

Nel contempo il rapporto mostra che almeno dieci strutture sono state costruite su terreni privati palestinesi di circa 10 dunam [1 ettaro, ndtr], e almeno 37 dunam [3,7 ettari, ndtr] supplementari di terreni privati sono stati espropriati per costruirvi un parco, una strada e mucchi di detriti abbandonati in conseguenza della costruzione di infrastrutture di colonie.

Riguardo all’Avanzamento di Piani e Gare d’Appalto del 2018 (gennaio-dicembre), Peace Now sostiene che 5.618 unità abitative sono state promosse attraverso progetti in 79 colonie e quasi l’83% (4.672 unità abitative) delle unità previste si trova a est della frontiera proposta dall’Iniziativa di Ginevra.

Sono stati pubblicati bandi di appalto per 3.808 unità abitative, un numero record da almeno due decenni. Inoltre nel 2018 sono stati pubblicati anche bandi di appalto per 603 unità a Gerusalemme est,” sottolinea il rapporto.

Secondo i calcoli di Peace Now, durante il decennio di Benjamin Netanyahu come primo ministro israeliano (2009-2018), si è iniziata la costruzione di 19.346 nuove unità abitative in colonie illegali.

Circa il 70% (13.608 unità abitative) delle nuove costruzioni è avvenuto in colonie a est della frontiera proposta dall’Iniziativa di Ginevra. Ciò si è tradotto in un incremento di oltre 60.000 coloni nelle colonie israeliane illegali.

Peace Now presenta anche dati pubblicati dall’Ufficio Centrale di Statistica israeliano su costruzioni in Israele e nelle colonie durante i dieci anni di Netanyahu al potere, che indicano che 18.502 unità abitative sono state costruite nelle colonie e dalla fine del 2008 fino alla fine del 2017 120.518 coloni si sono aggiunti agli insediamenti.

Il rapporto evidenzia gli investimenti governativi israeliani nell’ultimo decennio, in cui i vari ministeri hanno trasferito più di 10 miliardi di shekel (circa 2,48 miliardi di euro) come bilancio extra per le colonie. Nel 2016 la cifra trasferita alle colonie è stata di 1,189 miliardi di shekel [295 milioni di euro]. Nell’anno seguente, la somma è stata di 1.650 miliardi di shekel [408 milioni di euro, ndtr.] e nella prima metà del 2018 la cifra è stata di 697 milioni di shekel [170 milioni di euro, ndtr.].

Peace Now conclude il suo rapporto concentrandosi sulla costruzione su terreni privati palestinesi, affermando che, a causa di petizioni di Peace Now e di altre organizzazioni contro la costruzione nelle colonie su terreni privati palestinesi, nell’ultimo decennio c’è stata una drastica riduzione di questa attività edilizia. Nel 2018 su terreni privati sono stati costruiti 10 edifici.

Inoltre nella colonia di Naaleh sono stati costruiti su terreni privati campi da gioco e parchi, è stata tracciata una strada nella colonia ricollocata di Migron e in varie colonie continua il fenomeno di scarico su terreni privati di mucchi di detriti risultanti dalla costruzione di colonie. In questo modo sono stati portati via a proprietari palestinesi almeno 37 dunam [3,7 ettari] di terra privata palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché la Germania ha condannato il BDS

Nada Elia

Giovedì 23 maggio 2019 – Middle East Eye

La risoluzione tedesca non è la prima: si aggiunge nella stessa linea di precedenti risoluzioni simili adottate dalla Francia e dal Regno Unito

Il 17 maggio il Bundestag, il parlamento tedesco, ha adottato una mozione che condanna il BDS, definendolo “antisemita”.

Questa risoluzione non vincolante, proposta dai cristiano-democratici e dai socialdemocratici di centro sinistra, che fanno parte della coalizione al potere, ha raccolto l’appoggio di diversi partiti tedeschi, tra cui il partito liberal-democratico e i Verdi.

Il partito di estrema destra AfD (Alternativa per la Germania) ha presentato una propria mozione che chiedeva la messa al bando totale del movimento BDS, mentre il partito di estrema sinistra tedesca, Die Linke, non ha appoggiato la mozione del governo, ma ne ha presentato una propria che chiedeva una condanna di tutte le dichiarazioni antisemite del BDS.

Una spiegazione convincente

Poco dopo hanno iniziato a circolare articoli allarmisti, alcuni dei quali affermavano che la Germania era “il primo Paese al mondo a rendere illegale il BDS.”

Per esempio, un’intervista con l’economista politico che vive a Berlino Shir Hever [studioso israeliano degli aspetti economici dell’occupazione dei territori palestinesi, ndtr.] inizia così: “Il parlamento tedesco, il Bunderstag, ha appena adottato un testo legislativo senza precedenti che condanna il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele], noto con l’acronimo BDS. Ha considerato il BDS antisemita e illegale. Ciò fa della Germania il primo e unico Paese al mondo a rendere illegale il movimento BDS.”

Hever offre una spiegazione molto interessante (per non dire molto convincente) del perché la Germania abbia condannato il BDS. Ricordando che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato per due volte che era stato Hadj Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme, e non Adolf Hitler, ad aver avuto per primo l’idea dello sterminio degli ebrei, Hever suggerisce che Netanyahu offra ai tedeschi una via d’uscita dal loro senso di colpa relativo all’Olocausto.

“Invece di sentirvi colpevoli dell’Olocausto, di dovervi scusare e prendervi la responsabilità dei crimini che sono stati commessi tanti anni fa, in realtà potete attribuire la colpa ai palestinesi,” spiega Hever.

“Ed è un messaggio in codice rivolto alla destra tedesca,” prosegue, aggiungendo: “A quanto pare alcuni partiti di sinistra hanno manifestato il desiderio di liberarsi del proprio senso di colpa per l’Olocausto equiparando il movimento BDS, promosso dai palestinesi, all’antisemitismo. Ovviamente non è un movimento antisemita.

Ma così facendo dicono: «Oh, noi lottiamo contro l’antisemitismo scegliendo di sostenere Israele, lo Stato d’Israele, piuttosto che sentirci responsabili della protezione del popolo ebraico.»

La sinistra tedesca

Un altro militante che vive a Berlino, Ronnie Barkan, dissidente israeliano e sostenitore del BDS, offre una spiegazione più convincente della ragione per cui certi partiti della sinistra tedesca abbiano sostenuto la legge anti-BDS: essa [la sinistra tedesca, ndtr.] è razzista.

Dobbiamo capire che, come il movimento ha recentemente ricordato alla gente, «il BDS prende di mira la complicità e non l’identità.»

Barkan paragona la risoluzione tedesca contro il BDS alla legge israeliana sullo Stato-Nazione. Mentre la legge sullo Stato-Nazione non ha fatto altro che codificare il razzismo latente nel Paese, scrive Barkan, senza cambiare niente, il fatto che sia stata finalmente formulata in termini semplici, spogliata del suo «linguaggio sionista-liberal orwelliano», ha risvegliato tutti gli spettatori in delirio che avevano fino ad allora creduto alla «democrazia israeliana».

Allo stesso modo, sostiene Barkan, la mozione tedesca anti-BDS non fa che evidenziare la vera natura del popolo tedesco, che resta profondamente razzista. La collera di Barkan è però rivolta soprattutto contro la sinistra tedesca, che secondo lui si rende gravemente complice delle azioni intese a far tacere la dissidenza e la militanza a favore dei diritti dei palestinesi.

In effetti l’abbandono del sostegno alla Palestina da parte di un gruppo di sinistra europeo era stato segnalato qualche anno fa in un articolo della rivista “Jacobin” [periodico della sinistra radical americana, ndtr.] intitolato “Il problema palestinese della sinistra tedesca”, che sottolineava, tra i principali tradimenti, come il presidente di “Die Linke” a Berlino, Klaus Lederer, fosse intervenuto ad un raduno filo-israeliano durante la guerra contro Gaza [l’operazione “Piombo Fuso”, ndtr.] del 2008-2009.

Non si era trattato di un caso isolato. In quanto “senatore per la cultura”, Lederer ha anche cercato di annullare altre manifestazioni filo-palestinesi, come ad esempio la “conversazione con Manal Tamimi [zia di Ahed, la ragazza palestinese condannata da Israele per aver schiaffeggiato due soldati, ndtr.]” dell’anno scorso, organizzata dal gruppo “Donne sotto occupazione”.

Con Stavit Sinai e Majed Abusalama, Barkan è membro di “Humboldt 3” [i tre attivisti denunciati per aver manifestato contro un incontro all’università Humboldt, ndtr.], che di recente è stato imputato per aver interrotto la conferenza di un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliano che aveva appoggiato l’attacco israeliano contro Gaza nel 2014 [operazione “Margine protettivo”] all’università Humboldt. Nella sua dichiarazione al tribunale, Abusalama ha spiegato: «Migliaia di musulmani e di palestinesi in Germania non si sentono liberi di esprimersi senza rischi. Hanno la sensazione che potrebbero essere perseguitati in qualunque momento semplicemente per aver gridato ‘Liberate la Palestina’, o per sognare di tornare liberamente nel proprio Paese, in base al diritto al ritorno imposto dall’ONU. Temono le persecuzioni per aver chiesto l’uguaglianza, la dignità, la libertà e la giustizia a Gaza.»

Combattere le menzogne

Qualunque siano le ragioni complesse che spiegano l’abbandono da parte della sinistra tedesca del sostegno popolare ai diritti dei palestinesi, è necessario contrastare alcune menzogne contenute in quest’ultima risoluzione. In primo luogo, come sottolinea Middle East Eye, questa iniziativa non è vincolante, è assolutamente simbolica.

In altri termini la Germania non ha “reso illegale” il BDS, ha adottato una risoluzione che lo condanna (a torto) come antisemita. In secondo luogo, la risoluzione tedesca non è la prima, si iscrive nella linea tracciata da precedenti risoluzioni simili prese dalla Francia e dall’Inghilterra.

Nel 2015 la Francia aveva condannato un collettivo di attivisti del BDS a una ammenda di 14.000 euro, più le spese legali, per aver promosso il BDS in un supermercato, affermando che è un reato promuovere il boicottaggio in quanto esso è intrinsecamente «discriminatorio» in base alla Nazione di provenienza.

E nel 2016 la Gran Bretagna ha emanato una legge per vietare a enti pubblici di boicottare i prodotti israeliani. Così finora solo la Francia ha «reso illegale» il BDS, infliggendo un’ammenda a dei militanti.

Tuttavia, nonostante la dichiarazione del sistema giuridico francese secondo cui il BDS è intrinsecamente discriminatorio, bisogna capire che, come ha ricordato di recente il movimento BDS, «esso prende di mira la complicità e non l’identità».

In effetti numerose industrie boicottate, come Caterpillar, Hewlett-Packard e G4S, non sono israeliane.

Negli Stati Uniti ogni tentativo di applicazione di risoluzioni statali che vietano il BDS è stato contestato con sentenze favorevoli nei tribunali, come dimostra un recente articolo del “Washington Post “ intitolato giustamente: «Le leggi contro il BDS sono popolari. Ciò non vuol dire che siano costituzionali».

La più recente causa vinta contro un divieto imposto dallo Stato contro il BDS ha avuto luogo a Pflugerville, in Texas, dove un’insegnante, Bahia Amawi, ha denunciato il distretto scolastico per non aver voluto rinnovare il suo contratto quando lei ha rifiutato di firmare una clausola in cui dichiarava di non si sarebbe impegnata nel movimento BDS.

Nell’aprile 2019 Amawi ha ottenuto un’importante vittoria quando il giudice ha emesso un’ordinanza contro la legge anti-BDS che la priverebbe dei suoi diritti civili e del suo lavoro.

Obiettivi del BDS

Tuttavia, siccome ci si può aspettare che delle leggi contro il BDS vengano discusse e votate in diversi Paesi d’Europa e nord America (anche il governo canadese ha condannato il BDS), certi punti meritano di essere ripetuti e chiariti.

Più precisamente, gli obiettivi del movimento BDS sono i seguenti: mettere fine all’occupazione illegale della terra palestinese e smantellare il muro illegale dell’apartheid, concedere ai cittadini palestinesi di Israele l’uguaglianza dei diritti e riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Ne consegue che affermare che il movimento BDS sia “antisemita” equivale ad affermare che il “semitismo” (famiglia linguistica condivisa tecnicamente da numerosi gruppi nazionali ed etnici, ma a tutti gli effetti, in questo caso, un’etnia) sia di per sé un sotto-gruppo razziale colonialista suprematista che viola il diritto internazionale.

Chiaramente la logica stessa di una tale rivendicazione è sbagliata a diversi livelli. In secondo luogo, trattandosi dell’affermazione secondo cui il BDS cerca di “delegittimare” Israele, mentre non fa altro che esercitare una pressione su di esso perché rispetti il diritto internazionale, bisogna chiedersi perché un Paese si senta minacciato quando gli si chiede di rispettare i diritti dell’uomo. La giustizia è una minaccia solo nei confronti dell’ingiustizia. Se Israele, in quanto Paese, è minacciato, si sente “delegittimato” dalle richieste che si adegui alle leggi internazionali – quello che il BDS cerca di ottenere –, allora chiaramente questo Paese rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale. In fin dei conti, che il boicottaggio di Israele sia illegale o meno, la “legalità” di un movimento, di un’ideologia, di una politica o di una prassi non è un indicatore della sua integrità morale. Fino alla sua abolizione l’apartheid era legge.

Come la schiavitù. E per tornare al contesto tedesco, è stato lo stesso per l’Olocausto. Anche se il BDS diventasse illegale, un reato, non sarebbe immorale. Quando la legge si schiera dalla parte dell’oppressore, quelli che vi resistono e cercano di cambiarla hanno la morale dalla loro parte.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Nada Elia

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica della diaspora palestinese che attualmente lavora sul suo secondo libro “Who You Callin’ “Demographic Threat?” [Chi definisci ‘minaccia demografica’? Note dall’intifada globale]. Docente di Studi di Genere e Globali (in pensione), fa parte del gruppo dirigente della campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI).

(traduzione di Amedeo Rossi)




La pulizia etnica di Israele in Palestina non è storia – continua ad avvenire

Ben White

22 Maggio 2019 – Middle East Eye

Ciò che avviene in Cisgiordania e a Gerusalemme est non è solo un’occupazione militare.

Le congetture riguardo al “piano di pace per il Medio Oriente” della Casa Bianca continuano a dominare le informazioni sui media israeliani e dei palestinesi; l’ultimo esempio è dato dall’annuncio di un “workshop” a giugno ospitato dal Bahrein per incoraggiare gli investimenti nell’economia palestinese.

Tuttavia, con l’eccezione della Striscia di Gaza – e solo parzialmente e in modo selettivo – viene posta una minima attenzione agli sviluppi sul terreno nei territori palestinesi occupati.

In Cisgiordania e Gerusalemme est il paradigma dell’occupazione militare è insufficiente da solo per comprendere che cosa stia accadendo –vale a dire, una pulizia etnica.

Che cos’è una pulizia etnica?

La recente Giornata della Nakba ha portato – almeno in alcuni ambiti – ad una riflessione sulle espulsioni di massa e sulle atrocità che hanno accompagnato la fondazione dello Stato di Israele. Ma la pulizia etnica non è un evento storico in Palestina: sta succedendo adesso.

In un saggio del 1994 sulla definizione di pulizia etnica, il giurista Drazen Petrovic ha evidenziato “l’esistenza di una sofisticata politica che sottende a singoli eventi”, eventi, o prassi, che possono comprendere diverse “misure amministrative”, come anche violenze sul territorio da parte di attori statali e non statali.

Lo scopo, ha scritto Petrovic, potrebbe essere definito come “una modificazione irreversibile della struttura demografica” di una particolare area, e “il conseguimento di una posizione più favorevole per uno specifico gruppo etnico risultante da negoziati politici basati sulla logica della divisione lungo linee etniche.”

Questa è una corretta descrizione di ciò che sta avvenendo oggi in tutti i territori palestinesi occupati per mano delle forze dello Stato israeliano e dei coloni israeliani.

In parecchie località lo Stato e i coloni stanno lavorando congiuntamente per modificare forzatamente – attraverso “misure amministrative” e violenze – la composizione demografica locale.

Prendete la Valle del Giordano, lungo il lato orientale della Cisgiordania, dove le famiglie palestinesi sono costantemente e ripetutamente evacuate con la forza dalle loro case, a volte per giorni, dalle forze di occupazione israeliane, per esercitazioni di addestramento militare.

Secondo un reportage di Haaretz, gli abitanti di Humsa – per fare un esempio – sono stati evacuati con la forza dalle loro case decine di volte negli ultimi anni. “Anche se ogni volta ritornano”, sottolinea l’articolo, “alcuni di loro sono esausti ed abbandonano le loro case per sempre.”

Non sono incidenti isolati

Nell’aprile 2014 un colonnello israeliano ha detto in una riunione della commissione parlamentare che nelle zone della Valle del Giordano “dove abbiamo significativamente ridotto la quantità di addestramenti, sono cresciute le erbacce” –intendendo indicare con questo termine le comunità palestinesi. “È qualcosa che dovrebbe essere presa in considerazione”, ha detto.

Recentemente un abitante di Khirbet Humsa al-Fawqa – una piccola comunità nel nord della Valle del Giordano – ha detto a Middle East Eye: “Non so se stanno realmente svolgendo un’esercitazione militare. A volte ci fanno evacuare e non fanno niente. Il loro scopo è costringerci a lasciare la zona definitivamente.”

Intanto l’Ong israeliana per i diritti umani B’Tselem all’inizio del mese ha riferito di un “aumento della frequenza e della gravità degli attacchi da parte dei coloni” contro i palestinesi nella Valle del Giordano.

I coloni “minacciano I pastori, li cacciano, li aggrediscono fisicamente, guidano a tutta velocità in mezzo alle greggi per spaventare le pecore e addirittura le travolgono o le rubano”, ha dichiarato B’Tselem, aggiungendo che “i soldati sono di solito presenti durante questi attacchi e a volte vi prendono anche parte.”

B’Tselem ha detto che questi attacchi “non sono incidenti isolati, ma piuttosto parte della politica che Israele applica nella Valle del Giordano.”

Lo scopo è “impadronirsi di più terra possibile, spingendo i palestinesi ad andarsene, scopo raggiunto con varie misure, incluso rendere la vita in quei luoghi così insostenibile e sconfortante che i palestinesi non abbiano altra scelta che lasciare le proprie case, apparentemente ‘per scelta’”.

Questa situazione, sintetizza la Ong, “è fatta di attacchi coordinati di soldati e coloni”, e anche di “un divieto assoluto di sviluppare le comunità palestinesi con la costruzione e l’edificazione di infrastrutture vitali, incluse acqua, elettricità e strade.”

Le comunità palestinesi nella Valle del Giordano sono solo alcune di quelle minacciate dalla politica israeliana di pulizia etnica. Si possono trovare altri esempi nei quartieri palestinesi di Gerusalemme est occupata, come Sheikh Jarrah e Silwan.

Fatti sul terreno

Il 3 maggio Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario dell’ONU in Palestina, ha avvertito che le demolizioni a Gerusalemme est da parte delle autorità israeliane “sono aumentate a una velocità impressionante”, con 111 strutture di proprietà palestinese distrutte a Gerusalemme est nei primi quattro mesi del 2019.

In queste comunità palestinesi lo Stato israeliano, la magistratura e le organizzazioni dei coloni fanno sforzi congiunti per espellere – e rimpiazzare – le famiglie palestinesi.

Lo scorso novembre la Corte Suprema israeliana “ha aperto la strada al gruppo di coloni Ateret Cohanim [che intende creare una maggioranza ebraica nei quartieri arabi di Gerusalemme, ndtr.] per proseguire i procedimenti legali per espellere almeno 700 palestinesi che vivono nella zona di Batn al- Hawa” di Silwan. La Ong Ir Amim [associazione israeliana che difende i diritti di tutti gli abitanti di Gerusalemme, ndtr.] afferma che le espulsioni sono fondamentali per “una rapida diffusione di nuovi fatti sul terreno”.

In base a qualunque ragionevole definizione del termine, qui Israele sta portando avanti la pulizia etnica: l’uso di misure amministrative e della violenza da parte di forze statali e di coloni per cacciare i palestinesi dalle loro terre ed infine produrre una trasformazione demografica irreversibile di diverse località.

Così, il governo israeliano – da tempo abituato all’assenza di una chiamata alla responsabilità a livello internazionale per queste prassi – sarà solo molto felice non solo dei contenuti del “piano di pace” USA, ma anche dall’opportuna distrazione che esso fornisce riguardo alla terribile realtà che sta dietro ad ancor più numerosi “fatti sul terreno.”

Ben White

Ben White è l’autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian e altri.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Perché i palestinesi devono ripensare alla propria organizzazione di governo

Alaa Tartir

19 maggio 2019 – Middle East Eye

Un modello di leadership collettiva, lontana dalle strutture fallimentari di ANP e OLP, potrebbe portare i palestinesi sul cammino verso l’autodeterminazione.

Mentre imperversano voci sulle condizioni di salute di Mahmoud Abbas, nei circoli politici statunitensi e israeliani infuria il dibattito su chi succederà al presidente palestinese, che ha 83 anni. Vi si sono aggiunti anche mezzi di comunicazione e centri di ricerca, discutendo nomi e presentando candidati, speculando in merito a come sarebbe un possibile processo di transizione, o la sua assenza. Con i mantra riguardo alla priorità da assegnare alla stabilità, i dirigenti della sicurezza palestinese sono i primi della lista.

Ma dal punto di vista palestinese, questa dinamica dovrebbe attivare un serio dibattito a lungo atteso sulla revisione dei sistemi politico e di governo palestinesi, così come su tutta la questione della leadership politica.

Smantellare il comando di un solo uomo

Tre cose potrebbero aiutare a costruire un sistema politico inclusivo e partecipativo, che potrebbe rafforzare i palestinesi nel loro percorso verso l’autodeterminazione, lo Stato e una democrazia efficace.

Primo, il modello del potere di un uomo solo dovrebbe essere sostituito con una forma di leadership collettiva. Il modello del “leader supremo” non solo è obsoleto, disfunzionale e antidemocratico, ma ha anche danneggiato la lotta palestinese e il progetto di liberazione nazionale.

Nel corso degli anni i palestinesi e il loro percorso verso l’autodeterminazione hanno sofferto di gravi conseguenze negative in seguito ai contrastanti stili di governo personalistici (dall’Arafatismo, al Fayyadismo all’Abbasismo) e i paradigmi dell’uomo solo al comando che hanno adottato. È tempo di seppellire quel modo di governare e adottare un modello di leadership collettiva.

Benché in teoria il modello di leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sia per sua natura collettivo, in pratica non lo è per niente. Per questo l’OLP è stata cooptata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), e poi l’ANP è stata cooptata da Israele – il potere occupante – spogliando il popolo palestinese della Cisgiordania e di Gaza del proprio potenziale di trasformazione.

È anche la ragione per cui i palestinesi sono stati tenuti lontani dal cuore del sistema politico palestinese e in ultima analisi continuano a rimanere soggetti all’occupazione israeliana e all’autoritarismo palestinese. Il modello del leader unico – che sia il padre della Nazione (Yasser Arafat), il partner per la pace (Abbas) o il tecnocrate appoggiato a livello internazionale (Salam Fayyad) – ha deluso miseramente il popolo palestinese.

Consigli di supervisione

Di conseguenza è tempo di ripensare alle stesse posizioni e titoli del capo dell’OLP e del presidente dell’ANP e ai loro simbolici orpelli di statualità, e di abolirli del tutto.

Al contrario, il popolo palestinese necessita di un comitato elettivo di dirigenti – un piccolo gruppo (l’ideale sarebbe di quattro, con la presenza di entrambi i sessi) che possa formare un ufficio politico, ognuno dei quali assuma responsabilità diverse ma complementari e con lo stesso peso politico. Uno potrebbe occuparsi di questioni interne e sociali, un altro di affari esteri, un terzo di questioni economiche e di sviluppo e un quarto di educazione e giovani.

Questa divisione del lavoro a livello di leadership garantirebbe che il progetto nazionale non possa essere monopolizzato da un leader e dal suo partito politico, dalla sua visione e dal suo programma. Ciò garantirebbe miglior controllo, trasparenza, inclusività e positivi effetti a cascata sulla vita quotidiana dei palestinesi.

L’ufficio politico non funzionerebbe nel vuoto, ma piuttosto sarebbe supportato e controllato da due diversi consigli di supervisione: uno formato da anziani e l’altro da giovani (da 35 anni in giù). I due consigli, con equilibrio di genere e rappresentanti di diversi gruppi di soggetti interessati, classi e provenienza geografica – non più di 15 membri per consiglio, in carica per un massimo di tre anni – giocherebbero un ruolo fondamentale nella formulazione di strategie e nella verifica della loro messa in pratica.

Un governo ombra

Certamente ci si potrebbe giustamente chiedere: che ne sarebbe del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) [il parlamento dell’ANP, ndtr.] e del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, ndtr.] (PNC)? Perché aggiungere ulteriore burocrazia a quella delle strutture e del sistema amministrativo simili già esistenti?

Sono domande legittime, ma ritengo che, proprio a causa dell’assenza di tali consigli, né il PLC né il PNC siano efficienti, efficaci, rappresentativi o persino legittimi. Il PLC e il PNC sono anche stati facilmente divorati da politiche di fazione e da stili di governo personalistici.

I due consigli di anziani e giovani contribuirebbero a consolidare i pilastri del controllo all’interno del sistema politico palestinese, aggiungendo un sistema di pesi e contrappesi estremamente necessario. Il loro ruolo sarebbe per sua natura di supervisione e consulenza; non sarebbero organi legislativi, esecutivi o giudiziari. Ma il loro potere deriverebbe dalla loro capacità di indicare i leader, sostenere una visione su scala nazionale e rendere chiunque responsabile.

Terzo, i vari organi succitati nominerebbero un primo ministro che formi un governo e un vice primo ministro, con una di queste cariche affidata a una donna. Poiché il primo ministro nomina membri del parlamento e altri dirigenti, l’opposizione dovrebbe organizzarsi in un governo parallelo con ministri ombra, come nel modello inglese.

Questo governo ombra non sarebbe un vero e proprio governo, come nelle democrazie consolidate, ma sarebbe costituito in base alle condizioni reali palestinesi. L’idea sarebbe quella di garantire un miglior controllo e ulteriore inclusività nelle strutture politiche palestinesi.

Il cammino futuro

Questo triangolo di dirigenza collettiva, consiglio di anziani e consiglio di giovani, e un governo ombra possono sembrare irrealizzabili data l’attuale situazione di occupazione israeliana, divisioni tra i palestinesi, frammentazione verticale e orizzontale, il quadro degli accordi di Oslo e la prospettata soluzione dei due Stati. Un simile progetto sembrerebbe irrealistico, estraneo alla situazione di oggi e persino in gran parte da sinistra moderata e ingenua.

Eppure è altrettanto ovvio che né i modelli di governo dell’OLP/ANP né la cornice degli accordi di Oslo hanno funzionato a favore del popolo palestinese – perciò, perché continuare a muoversi all’interno di questo quadro tentando di salvare ciò che non può essere salvato?

È tempo di un nuovo e innovativo modello di leadership palestinese – una visione futura per la quale i palestinesi dovrebbero lavorare, invece di rimanere intrappolati all’interno di un contesto politico corrotto che non riesce a fornire soluzioni sensate o durature.

Le tre idee summenzionate sollevano una serie di domande, tra cui quali prerequisiti sarebbero necessari per garantire la loro concretizzazione, come potrebbe essere chiaramente stabilito un piano d’azione, quali attori guiderebbero il processo di cambiamento, se funzionerebbe nonostante l’occupazione israeliana e come si applicherebbe a partire da Gaza e la Cisgiordania fino ai palestinesi in Israele e nella diaspora, tra gli altri problemi.

È per questo che abbiamo bisogno di un serio dibattito sul sistema politico e di governo palestinese. Questo processo è intrinsecamente legato a quello per realizzare la libertà e l’autodeterminazione: solo quando immaginiamo modelli e strutture politiche differenti possiamo sperare di trasformare questa visione in realtà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Alaa Tartir

Alaa Tartir è consulente di programma per Al-Shabaka, la Rete di Politica Palestinese, ricercatore associato presso il Centre on Conflict, Development and Peace-building [Centro su Conflitto, Sviluppo e Costruzione della Pace] (CCDP) al Graduate Institute of International and Development Studies [Istituto Universitario di Studi Internazionali e dello Sviluppo] (IHEID) di Ginevra, Svizzera, e professore ospite alla Paris School of International Affairs [Scuola di Parigi di Affari Internazionali] (PSIA) alla facoltà di scienze politiche. Tartir è co-autore di Palestine and Rule of Power: Local Dissent vs. International Governance [Palestina e Gestione del Potere: dissenso locale e governance internazionale] (Palgrave Macmillan, 2019).

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’incremento dei discorsi di odio contro i palestinesi nelle reti sociali israeliane

 Nadim Nashif

21 maggio 2019 – Al Shabaka

Israele è uno dei Paesi di punta a livello mondiale nelle tecnologie e nella sorveglianza della sicurezza informatica e, su piattaforme come Facebook e Twitter, usa sistemi di polizia preventiva nelle reti sociali per limitare sempre di più la libertà di espressione dei palestinesi. Questi sistemi individuano gli utenti accostando caratteristiche come età, genere e localizzazione con parole chiave come “resistenza” e “martire”. Le autorità israeliane allora prendono di mira questi utenti censurando i loro post e le loro pagine, cancellando i loro account e, nei casi peggiori, arrestandoli.

Ciò avviene mentre è in aumento il numero di attacchi in rete contro palestinesi da parte di israeliani. Il governo e la polizia israeliani ignorano questi attacchi, accentuando il rischio che i palestinesi vengano presi di mira offline da attori non statali.

7amleh – the Arab Center for the Advancement of Social Media [Il Centro Arabo per la Promozione delle Reti Sociali] monitora e documenta discorsi razzisti e discriminatori in rete e negli ultimi tre anni ha compilato un “Indice del Razzismo sui Media Sociali Israeliani”. L’ultima edizione, pubblicata nel marzo 2019, mostra un aumento nelle reti sociali israeliane dei post che incitano all’odio contro i palestinesi, con contenuti simili postati ogni 66 secondi, rispetto ai 71 secondi del 2017.

Facebook è la principale piattaforma su cui hanno luogo le istigazioni contro i palestinesi (66%), seguito da Twitter (16%), in cui il numero di post che incitano all’odio sono più che raddoppiati dal 2017. Durante il 2018 i media sociali israeliani hanno pubblicato un totale di 474.250 post offensivi, razzisti e che incitano all’odio contro i palestinesi, soprattutto in riferimento all’approvazione nel luglio 2018 della legge dello Stato-Nazione, che ha dichiarato Israele uno Stato del popolo ebraico ed ha declassato l’arabo da lingua ufficiale a lingua con uno “status speciale”.

Su Facebook esempi di istigazione sono concentrati soprattutto sulle pagine dei siti di notizie israeliani e di gruppi di destra. Questi post sono in larga parte diretti contro membri palestinesi della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], politici palestinesi e i loro partiti politici e cittadini palestinesi di Israele, comprese anche importanti figure come la giornalista televisiva Lucy Harish [che ha sposato un attore israeliano ebreo, ndtr.]. Un post su dieci sui social media contro “arabi”, il termine usato dagli israeliani per negare l’identità palestinese, contiene discorsi di odio o appelli ad atti di violenza, come stupro e assassinio.

Nel contempo Israele non ha mai smesso di cercare di biasimare aziende di social media e di minacciarle di [emanare] leggi coercitive per l’incremento di “incitamento” palestinese in rete. Quelli che Israele ha attaccato come esempi di incitamento all’odio da parte palestinese sono spesso dubbi. Un esempio importante sono stati i versi di Dareen Tatour, una cittadina palestinese di Israele il cui appello a “resistere” contro l’occupante in una poesia che ha postato online nell’ottobre 2015 ha avuto come conseguenza circa tre anni di arresti domiciliari e cinque mesi di prigione. Il governo israeliano ha accusato Tatour di incitamento alla violenza e al terrorismo, dimostrando l’uso di una terminologia vaga per criminalizzare l’attività in rete, quando ciò serve ai suoi interessi di discriminazione, da parte di Israele.

Nel gennaio 2017 la Knesset ha approvato in prima lettura la legge “Facebook”, che concederebbe ai tribunali amministrativi israeliani il potere di bloccare contenuti in internet che rappresentino “incitamento” in rete. La legge autorizzerebbe la cancellazione di un testo “se danneggia la sicurezza degli esseri umani e di vitali infrastrutture pubbliche, economiche o statali.” Ciò riguarda giganti dei media sociali come Facebook, Twitter e YouTube, così come motori di ricerca come Google, e includerebbe multe o persino il loro divieto di operare nel Paese.”

La legge è arrivata fino alla lettura finale nel luglio 2018, quando il primo ministro Benjamin Netanyahu ha chiesto che venga riconsiderata a causa delle critiche nazionali e internazionali secondo cui ridurrebbe la libertà di espressione. Le critiche alla legge affermano che avrebbe in primo luogo un effetto negativo sulla libertà di parola dei palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in Israele, ma anche di altri cittadini israeliani, a causa della definizione ampia e generica di “incitamento” e “sicurezza nazionale”.

La legge esemplifica l’influenza che Stati potenti come Israele possono esercitare su imprese private perché accolgano e portino avanti i loro progetti politici discriminatori – così come la sicurezza e il benessere dei palestinesi siano ignorati e minacciati dalle autorità israeliane.

Suggerimenti di politiche

  • Facebook e le altre piattaforme di social media devono sviluppare e applicare politiche corrette ed efficaci di moderazione dei contenuti.

  • Il governo israeliano dovrebbe agire contro discorsi razzisti in rete e applicare misure che proteggano i palestinesi.

  • La società civile e gli attivisti dovrebbero perseguire sforzi coordinati per monitorare, documentare, analizzare e informare sul razzismo online e su discorsi d’odio.

  • La comunità dei donatori dovrebbe finanziare progetti che sostengano lo sviluppo di reti di monitoraggio indipendente e di attivisti per la sicurezza digitale. Questi comportamenti incentiverebbero la capacità dei palestinesi di esercitare il proprio diritto di esprimersi liberamente in rete.

Nadim Nashif

Membro di Al-Shabaka esperto in politiche, Nadim Nashif è il direttore esecutivo e co-fondatore di 7amleh: The Arab Center for the Advancement of Social Media. Nadim è un impegnato difensore dei diritti digitali e da molto tempo organizzatore di comunità, che ha lavorato su questioni dei giovani e di sviluppo di comunità da oltre 20 anni. Nadim ha fondato e in precedenza ha lavorato come direttore di Baladna, The Association for Arab Youth [Associazione per la Gioventù Araba]. Ha fondato e coordinato l’ala giovanile del partito politico Balad [partito arabo-israeliano antisionista, ndtr.] prima di diventare direttore del Comitato per la Guida Educativa degli Studenti Arabi. È anche cofondatore di Wusol Digital Academy, un centro educativo per il commercio digitale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’assassinio della memoria palestinese: un altro strumento di pulizia etnica

Samah Jabr

Middle East Monitor, 18 maggio 2019

Mentre Israele celebrava la Giornata dell’Indipendenza, all’inizio di questa settimana, ho saputo di due episodi.

Uno mi è stato raccontato da alcuni amici di Gerusalemme che lavorano nelle istituzioni israeliane, che mi hanno parlato del loro disagio durante lo Yom HaZikaron – il Giorno del Ricordo, durante il quale si rende omaggio ai soldati caduti e agli altri israeliani morti a causa del “terrorismo”. Quel giorno, in Israele, suona una sirena in tutto il Paese e tutti devono interrompere qualsiasi tipo di attività stiano facendo – anche guidare una macchina – per dimostrare, con due minuti di silenzio, il proprio ricordo e rispetto per i morti. Una mia amica mi ha detto che il suo capo le ha intimato di alzarsi in piedi durante il suono della sirena, oppure poteva fare proprio a meno di andare al lavoro. Un’altra amica mi ha raccontato di essersi spostata, in quel momento, nello spogliatoio dei dipendenti e di avervi trovato altre dodici lavoratrici palestinesi. Tutte stavano evitando di dover rendere omaggio a quelle stesse persone che ci hanno perseguitato sin da quando è nata l’idea di stabilire lo Stato di Israele sulla nostra terra.

Il secondo episodio ha avuto luogo in una scuola superiore di Gerusalemme, in cui studiano, tutti insieme, palestinesi di Gerusalemme, palestinesi con la cittadinanza israeliana ed ebrei israeliani. In questa scuola è stata collocato un tabellone/cartellone come memoriale dedicato ai soldati israeliani caduti, in modo che gli studenti potessero scrivere il nome “dei loro cari e accendere una candela in loro ricordo”, come ha spiegato il sindacato degli studenti. Senonché, un giorno l’installazione commemorativa è stata trovata con le candele spente e, proprio sul cartellone, la scritta “Ramadan Kareem” (augurio di “buon Ramadan”, ndt.). A quel punto, sono stati coinvolti polizia e partiti di destra. Una ragazza di Gerusalemme è accusata di aver messo in atto questo “atto vandalico” e altri sei (studenti, ndt) di averla sostenuta; tutti e sette sono ora in attesa di punizione. Pare che la condanna dell’atto stia colpendo “tutti gli arabi” della scuola, da cui ci si aspetta una condivisione di colpevolezza e vergogna. Nessuno ha commentato che la presenza del tabellone/cartellone cancella, prima di tutto, la memoria e la storia nazionale dei palestinesi.

Recentemente, Israele ha lanciato contro le scuole palestinesi accuse e provocazioni che sono state portate all’attenzione dell’Unione Europea. Con una risposta scritta sulla questione, Francesca Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, ha confermato che è in programma un’indagine sui programmi scolastici palestinesi: “I criteri di riferimento sono in fase di elaborazione, nell’ottica di identificare il possibile incitamento all’odio e alla violenza, e ogni eventuale mancanza di conformità agli standard di pace e tolleranza nell’educazione stabiliti dall’UNESCO.” Sui programmi scolastici israeliani, però, non è prevista alcuna indagine del genere! A quanto pare, gli israeliani chiedono che i programmi scolastici palestinesi cancellino completamente la storia e la geografia della Palestina e, al lor posto, insegnino la storia dell’Olocausto europeo ai più giovani, già sopraffatti dallo strazio delle loro esperienze dirette di vita.

Io sono totalmente a favore di uno studio accademico e della riforma dei programmi scolastici palestinesi – uno studio che prenda in esame fino a che punto i programmi palestinesi insegnino il pensiero critico, l’autonomia e la rappresentanza, e una riforma che aiuti i giovani palestinesi a comprendere la loro attuale esperienza nel contesto generale di un’autentica storia palestinese. Una tale riforma non riprenderà la versione deformata e amputata della storia palestinese cucita su misura su “desideri e valori” dei donatori. Abbiamo bisogno di un’indagine sui nostri programmi scolastici e di una loro riforma che siano fatte dai palestinesi per i palestinesi.

Di recente, il Ministro palestinese dell’Educazione primaria e secondaria, alla presenza di alti funzionari palestinesi come Azzam e Saeb Erekat, ha presentato un libro intitolato “Il nostro Presidente è il nostro esempio”, che ha una foto di Mahmoud Abbas in copertina e dovrebbe contenere, pare, citazioni dai suoi discorsi. Gli alti funzionari inizialmente avevano lodato il libro e annunciato che sarebbe stato distribuito nelle scuole palestinesi di ogni ordine e grado. L’iniziativa, però, è stata accolta da così tante critiche e scherno sui media accademici e popolari che il governo ha fatto marcia indietro e ha annunciato che il libro, alla fine, non farà parte del programma scolastico.

Questo è un momento dell’anno angosciante per noi – un momento in cui ricordiamo i tragici eventi che hanno portato all’occupazione della Palestina e immaginiamo quel che ancora dovrà succedere con “l’Accordo del Secolo”. Cerchiamo tra le pieghe della storia non detta dei vinti e lì apprendiamo della malvagità del progetto sionista e delle potenze internazionali che hanno fornito agli ebrei colonizzatori gli strumenti necessari per la conquista della nazione palestinese; del tradimento della leadership araba ufficiale che ha indebolito i palestinesi, e dell’ingenuità e dell’inadeguatezza della leadership palestinese che ha riposto la propria fiducia in questa leadership araba e nelle potenze occidentali. La Nakba è cominciata molti anni prima dell’effettivo insediamento di Israele e continua ancora oggi, riflessa nelle nostre profonde preoccupazioni riguardo all’ “Accordo del Secolo” e nella consapevolezza che, dalle origini, le dinamiche del potere a livello globale non si sono sostanzialmente sviluppate.

La Nakba non riguarda solo i palestinesi, ma l’intero mondo arabo, perché l’intera regione viene indebolita e danneggiata dall’occupazione israeliana, anche se è capitato ai palestinesi di “essere tra i piedi” e di dover essere uccisi o dislocati per fare spazio alla nuova colonia degli Imperi Occidentali. Lo Stato di Israele è nato grazie a pulizia etnica, massacri e crimini molto simili a quelli che oggi vengono commessi dallo Stato Islamico nel percorso verso la creazione dell’ennesimo Stato religioso. La differenza è che Israele è riuscito a cancellare la memoria. Chi si ricorda di quando l’Hagana, tra il 22 e il 23 maggio 1948, costrinse i palestinesi a scavare le proprie fosse comuni a Tantoura, dopodiché sparò e li seppellì lì? Questa è la storia dell’ “esercito più morale del mondo”. I capi terroristi del passato sono oggi uomini di Stato e hanno vinto premi Nobel, anche se il manifesto da ricercato di Menachem Begin dovrebbe servire da promemoria.

Oggi, l’Eurovision Song Contest che si svolge a Tel Aviv nell’anniversario dei crimini israeliani dell’ “indipendenza” è un esempio della strategia di lavaggio del cervello che Israele utilizza da sempre per indurre la gente a dimenticare la storia, anche quella più recente, nella quale l’esercito israeliano ha ucciso 60 palestinesi e ne ha feriti 2.700 in un sol giorno, mentre manifestavano al confine di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, per protestare contro il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme.

E mentre la cultura e la politica di Israele sono in grado di ricordare in modo ipersensibile e maniacale la propria storia, Israele è implacabile nel suo attacco contro di noi. La guerra contro la nostra storia è parte della guerra al nostro pensiero, nonché un muto proseguimento della pulizia etnica della Palestina. Noi conserviamo ricordi carichi di dolore tanto quanto la speranza per il futuro; si dice che coloro che non ricordano il passato sono condannati a riviverlo. L’opinione espressa in questo articolo appartiene all’autore e non necessariamente rispecchia la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Elena Bellini)




“Questo è ‘art-washing’”: attivisti israeliani protestano contro l’Eurovision

Megan Giovannetti da Tel Aviv, Israele

17 maggio 2019 – Middle East Eye

Decisi a denunciare la situazione dell’occupazione e dell’assedio di Gaza da parte di Israele, un gruppo di israeliani ha organizzato manifestazioni quotidiane

Questa settimana centinaia di persone hanno affollato ogni giorno il villaggio Eurovision sulla spiaggia di Tel Aviv, godendosi i festeggiamenti che hanno circondato la competizione musicale che quest’anno è arrivata in Israele.

Ma, mentre l’ambiente potrebbe sembrare benevolo e accogliente, un gruppo di attivisti israeliani ha preso l’impegno di svelare un lato molto diverso della competizione canora Eurovision 2019.

Shahaf Weinstein, 26 anni, ha detto a Middle East Eye: “Siamo qui perché Eurovision, e naturalmente Eurovillage, sono una grande e lucrativa attività che aiuta Israele a promuovere i suoi cosiddetti valori di luogo giovane, alla moda, multiculturale, ospitale con gli LGBTQ, quando di fatto è uno Stato dell’apartheid.”

Questo è pink-washing, art-washing [utilizzo di tematiche omosessuali o artistiche per trasmettere un’immagine positiva, ndtr.], e noi siamo contrari.”

Eurovision 2019: perché Israele ospita la competizione musicale?

Il nome della competizione canora suggerisce che si tratti di una questione europea, quindi perché Israele, un Paese mediorientale, può parteciparvi e perché ospita la gara di quest’anno?

L’ammissione all’Eurovision non è basata sulla geografia ma sul fatto di essere membro della “European Broadcasting Union [Unione Europea di Radiodiffusione] (EBU), che organizza l’evento, e l’“Israeli Public Broadcasting Corporation” [Compagnia Pubblica Israeliana di Radiodiffusione] ne fa parte.

Tecnicamente ciò significa che anche Paesi arabi come Egitto, Giordania, Libano, Siria, Marocco e Tunisia hanno i titoli per parteciparvi.

In effetti il Marocco vi partecipò nel 1980, dopo che Israele si era ritirato perché la data della competizione si sovrapponeva alla festa della Pasqua ebraica.

Israele è entrato per la prima volta nell’Eurovision nel 1973 ed ha vinto la competizione quattro volte, compreso lo scorso anno, quando Netta Barzilai ha vinto in Portogallo. In precedenza ha ospitato l’evento nel 1979 e nel 1999, tutte e due le volte a Gerusalemme.

Weinstein, ebrea israeliana, fa parte di un collettivo di attivisti di vari gruppi che ha organizzato proteste quotidiane contro il fatto che Israele ospiti l’Eurovision e la positiva ribalta internazionale che ne deriva.

Mercoledì, mentre israeliani e turisti stavano festeggiando su una spiaggia del villaggio del festival Eurovision, i palestinesi stavano commemorando il 71° anniversario della Nakba – la “catastrofe” in arabo – quando centinaia di migliaia [di palestinesi] vennero cacciati dalle proprie case nel conflitto che ha accompagnato la creazione di Israele.

Lo stesso giorno Weinstein e altri 12 attivisti hanno messo in scena presso la sede [dell’Eurovision] “die-in” [una protesta in cui i partecipanti simulano la propria morte, ndtr.], manifestando contro la Nakba e la continua uccisione di manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza assediata.

Indossando magliette con la scritta sulla schiena “Gaza libera”, gli attivisti hanno recitato le morti stendendosi per terra. Avevano appeso al collo foto di palestinesi uccisi durante la violenta repressione da parte di Israele contro il movimento di protesta della Grande Marcia del Ritorno di Gaza durata un anno.

Essendo stata rafforzata la sicurezza in previsione di queste proteste, a cinque attivisti è stato negato l’ingresso nel villaggio Eurovision e sono stati tolti i documenti di identità. Altri otto sono riusciti a superare i controlli di sicurezza e a mettere in pratica il piano.

Sono ebreo. Ho il privilegio di essere qui e protestare mentre ai palestinesi di Gaza che protestano viene sparato,” ha detto Omer Shamir, un ventiseienne di Tel Aviv.

Io rischio molto poco, ho la ‘democrazia’ – quella democrazia che stanno cercando di mostrare al mondo,” ha detto Shamir. “Ce l’ho in quanto ebreo, ma i palestinesi non ce l’hanno.”

In quanto israeliani siamo responsabili”

La sera prima, durante un corteo a Tel Aviv, Nimrod Flashenberg ha esposto le proprie ragioni per scendere in piazza.

Penso che noi, in quanto israeliani, lo Stato di Israele, siamo responsabili delle sofferenze (dei palestinesi),” ha detto Flachenberg, 28 anni, a MEE. “Quindi dobbiamo dire ‘basta con l’occupazione e con l’assedio.’”

La manifestazione di martedì notte ha coinciso di proposito con il giorno in cui la cantante israeliana Netta Barzilai ha vinto l’Eurovision 2018, consentendo che Israele ospitasse la gara canora di quest’anno.

È stato anche il primo anniversario dello spostamento ufficiale dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, mentre in contemporanea 68 palestinesi venivano colpiti a morte durante le proteste.

Il corteo ha coinvolto 300 sostenitori, e Flashenberg ha denunciato una mancanza di sentimenti contrari all’occupazione tra gli ebrei israeliani come una ragione della scarsa partecipazione.

In Israele la popolazione ebraica sta andando verso destra,” ha detto. “Si sta chiudendo. Sta chiudendo gli occhi alle sofferenze dei palestinesi attorno a noi.”

Weinstein crede che la conquista della politica israeliana da parte della destra sia “parte del processo internazionale di neo-fascistizzazione che stiamo vedendo avvenire in molti Paesi, compresi gli USA (e) l’Europa.

In molti posti la popolazione sta diventando più rancorosa, più islamofoba e più razzista. La gente sta ascoltando sempre meno.”

Secondo Weinstein “l’occupazione continua a causa della complicità della comunità internazionale,” che secondo lei è la ragione per cui la protesta e le azioni di boicottaggio dell’Eurovision in Israele sono importanti nella lotta per i diritti dei palestinesi.

In effetti Israele sta lavorante senza sosta con la sua hasbara,” ha detto Flashenberg, utilizzando il termine ebraico per intendere la diffusione di informazioni positive [riguardo a Israele], “ed ha avuto molto successo nel suo tentativo di mettere da parte la questione palestinese nell’agenda internazionale.”

Secondo Flashenberg ospitare l’Eurovisione è solo un esempio del tentativo di Israele di normalizzare la sua occupazione delle terre palestinesi.

Shamir, che ha manifestato martedì notte, è d’accordo.

Ospitare la competizione dell’Eurovision vuol dire pretendere che (Israele) sia un normale Paese europeo, progressista e ospitale per i gay,” ha detto.

Per cui l’unico modo per svegliarsi da questo inganno è la pressione internazionale, che avviene nella forma delle sanzioni e del boicottaggio.”

Ma Shamir non pensa che le persone attorno a lui siano sufficientemente “scosse” da far scoppiare la bolla del comfort.

In genere direi che Tel Aviv è considerata piuttosto di sinistra, ma molti dei miei amici, i miei coetanei, non vengonoa protestare,” ha detto.

Il fatto che siano occupanti è ancora molto comodo (per loro), il che penso ci riporti al punto del perché sia importante ora sottolineare che (Israele) non è un posto normale.”

Dovrebbero divertirsi”

Le proteste giornaliere nel periodo che ha preceduto la finale dell’Eurovisione di sabato sono un modo per cercare di ricordare alla gente la realtà della vita dei palestinesi sotto occupazione israeliana, ha affermato Shamir. Anche se si tratta solo di “un pizzicotto”.

Lunedì Shamir e altri attivisti hanno proiettato inquietanti immagini da Gaza su un grande schermo davanti al principale palco del villaggio dell’Eurovision. Lentamente una folla danzante sotto di esso ha iniziato a capire quello che stavano vedendo, e le cose hanno preso una piega violenta.

È stato tutto un po’ ironico per Shamir, che ha detto che l’Eurovision doveva mostrare quanto pacifico e “normale” sia Israele. Invece “alcune persone ci hanno picchiati, hanno rubato il nostro proiettore e sono scappati,” ha detto.

Weinstein ha sperimentato una reazione simile mercoledì.

Subito dopo il “die-in”, circa una decina di israeliani l’ha circondata, gridando insulti volgari e facendo rumore per impedirle di essere intervistata dalla stampa.

Dicevano che i miei genitori dovevano vergognarsi di me – cosa che non fanno,” dice Weinstein. “Dicevano che dovrei vivere ad Ashkelon (una città del sud vicino a Gaza), e che dovrei andare a Gaza. Mi hanno detto un sacco di orribili insulti.”

Nani, una donna di Ashkelon, ha detto a MEE di essersi unita alla folla che gridava contro Weinstein perché la giovane attivista è israeliana e considera questo comportamento come un tradimento.

Sta contro e non con Israele perché vuole liberare la Palestina,” ha detto Nani.

Ruthie, 42 anni, pensa che sia una vergogna che attivisti siano andati al villaggio dell’Eurovision per protestare.

Sono venuti qui, quindi dovrebbero divertirsi,” ha affermato.

Ruthie è arrivata dal lontano confine del deserto meridionale per godersi dei festeggiamenti e crede che ospitare la competizione musicale sia una buona cosa per l’immagine di Israele.

Penso che stiano protestando perché non conoscono davvero la situazione e quello che succede realmente,” ha detto Ruthie a MEE. “Come puoi vedere qui va tutto bene, questa è la situazione qui. Impariamo a conviverci.

Siamo venuti per divertirci e accogliamo chiunque perché venga in Israele e si diverta. È un posto veramente sicuro.”

Flashenberg vive vicino al villaggio Eurovision e sente ogni notte i gioiosi festeggiamenti, che trova fastidiosi.

C’è qualcosa in questa accettazione ed esaltazione internazionale riguardo a Israele che ovviamente è, agli occhi dei palestinesi e di chi vuole la pace, sconvolgente,” ha detto.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Facebook censura un’importante operazione di fake news condotta da Israele

Ali Abunimah

17 maggio 2019, Electronic Intifada

Facebook ha scoperto un’importante campagna israeliana per influenzare politici ed elezioni in tutti i Paesi del mondo.

Giovedì il gigante dei social media ha annunciato di aver rimosso 265 accounts di Facebook e Instagram con un seguito complessivo di 2.8 milioni di utenti, per coinvolgimento in “comportamento fraudolento coordinato.”

“Questa attività ha avuto origine in Israele e si è concentrata su Nigeria, Senegal, Togo, Angola, Niger e Tunisia, oltre ad alcune azioni in America Latina e sudest asiatico”, ha affermato Facebook.

Coloro che agiscono in rete si sono falsamente “presentati come soggetti locali, incluse agenzie di notizie locali, e hanno pubblicato presunte indiscrezioni su politici” e su “elezioni in diversi Paesi, opinioni di candidati e critiche di oppositori politici.”

Facebook ha detto che “i soggetti che stanno dietro a questa rete hanno cercato di nascondere la propria identità”, ma l’indagine della compagnia li ha collegati a “un ente commerciale israeliano” chiamato Gruppo Archimede.

Venezuela connection?

Il Gruppo Archimede è una società di consulenza con sede a Tel Aviv, che si vanta sul suo sito web di “condurre campagne vincenti in tutto il mondo”, ma fornisce poche altre informazioni su di sé.

Interessante notare che uno dei filmati sul suo sito web mostra una manifestazione in Venezuela, suggerendo un segreto ruolo di Israele nel tentativo a guida statunitense di rovesciare il governo del presidente Nicolas Maduro.

Il Times of Israel [quotidiano israeliano on-line in lingua inglese, ndtr.] ha individuato l’amministratore delegato del Gruppo Archimede in Elinadav Heymann, citando la società svizzera di consulenza ‘Negotiations.CH’ che lo annovera tra i suoi consulenti.

“Una biografia pubblicata sul sito web della compagnia lo descrive come ex direttore del gruppo lobbistico ‘Amici europei di Israele’, con sede a Buxelles, ex consulente politico del parlamento israeliano ed ex agente segreto delle forze aeree israeliane.”

Comunque dopo quell’articolo ‘Negotiations.CH’ sembra aver rimosso la biografia di Heymann dal suo sito web.

Sembra che Heymann stia cercando di far perdere le proprie tracce.

Su internet è ancora visibile una copia archiviata della sua biografia.

All’inizio di questo decennio Heymann era uno dei principali lobbisti a favore di Israele a Bruxelles. L’organizzazione che guidava, ‘Amici Europei di Israele’, era un’alleanza interpartitica di politici ostili ai diritti dei palestinesi.

Al momento apparentemente inattiva, ‘Amici europei di Israele’ è stata modellata sull’esempio di gruppi analoghi attivi a Washington. Heymann ha anche lavorato come consulente di politica estera per rappresentanti del partito conservatore britannico nel Parlamento Europeo.

Più grande del Russiagate

Secondo Facebook la campagna di condizionamento israeliana dal 2012 ha speso più di 800.000 dollari per annunci falsi – otto volte di più di quanto si dice abbia speso un’azienda gigante russa per inserzioni sui social media, soprattutto dopo le elezioni USA del 2016, un intervento insignificante che i politici USA e gli opinionisti favorevoli a Hillary Clinton hanno pubblicizzato come paragonabile all’attacco a Pearl Harbour.

Eppure è certo che l’ultima prova dell’inganno ideato da Israele attirerà una minima parte dell’attenzione suscitata dalla sterile ricerca di una presunta interferenza e collusione russa che ha ossessionato i media e le elite politiche americane negli ultimi tre anni.

Ma questa operazione è ben lungi dall’essere solo un tentativo nascosto di Israele di influenzare e sabotare le politiche e l’attivismo in tutto il mondo.

L’annuncio di Facebook di aver fermato l’operazione di ‘Archimede’ giunge solo pochi giorni dopo che WhatsApp, di proprietà di Facebook, ha rivelato che aveva identificato una grave falla nel sistema che l’azienda di spionaggio israeliano NSO Group stava usando per installare programmi spia sugli smartphone delle persone.

Il documentario riservato di Al Jazeera sulla lobby israeliana, reso pubblico l’anno scorso da The Electronic Intifada nonostante gli sforzi per censurarlo, ha rivelato che diversi gruppi lobbistici con sede negli USA stanno lavorando in segreto in coordinamento con il Ministero israeliano per gli Affari Strategici per spiare e monitorare cittadini statunitensi impegnati nel sostegno di cause legittime.

Il documentario ha mostrato che uno di quei gruppi lobbistici, ‘Il Progetto Israele’, ha condotto un’importante campagna segreta di condizionamento su Facebook.

Ma, in contrasto con la sua pronta azione di interruzione dell’operazione Archimede, Facebook ha detto a The Electronic Intifada di non aver riscontrato alcuna violazione nel modo in cui ‘Il Progetto Israele’ stava utilizzando segretamente la sua piattaforma.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Nakba nella Valle del Giordano: le esercitazioni dell’esercito israeliano gettano il caos tra i palestinesi

Shatha Hammad da Khirbet Humsa al-Fawqa, Cisgiordania occupata

15 maggio 2019 – Middle East Eye

Cacciati dalle loro case perché Israele testa le proprie armi, la commemorazione di quest’anno degli avvenimenti del 1948 vede nuove espulsioni.

A Khirbet Humsa al-Fawqa, sul pavimento di una tenda abitata giacciono giocattoli sparpagliati. Per i bambini del villaggio i giochi sono finiti quando l’esercito israeliano ha dichiarato l’area zona militare proibita e nelle prime ore di domenica ha obbligato la comunità palestinese ad andarsene dalle proprie abitazioni.

In seguito a un ordine di espulsione di quattro giorni prima, ai 98 abitanti è stato vietato l’accesso alle loro abitazioni per tre giorni. L’esercito li ha informati che tra maggio e giugno verranno cacciati 12 volte per tre giorni ciascuna.

Ai palestinesi è stato detto che le abitazioni sarebbero state nel raggio di gittata dei proiettili dei carri armati poiché l’esercito israeliano utilizza l’area per effettuare esercitazioni militari.

La mattina dell’espulsione Mohammed Sulaiman Abu Qabbash, padre di cinque figli, li ha accompagnati in una vicina comunità ed è corso indietro nel tentativo di proteggere le tende e le pecore. Il trentacinquenne è andato avanti e indietro controllando ansiosamente la zona. Ha aspettato che i soldati israeliani arrivassero e lo buttassero fuori.

Nei prossimi tre giorni dormiremo all’aperto. Non abbiamo alternative, non possiamo opporci a una potenza simile,” ha detto Mohammed a Middle East Eye.

Se la comunità rifiuta di andarsene quando gli viene ordinato rischia l’espulsione con la forza, l’esproprio delle greggi e una multa retroattiva.

In base alle leggi internazionali cacciare dalle proprie case gli abitanti di un territorio occupato è considerato trasferimento forzato di persone protette, il che costituisce un crimine di guerra. Ma gli abitanti delle comunità palestinesi nella Valle del Giordano conoscono bene tali devastanti politiche israeliane.

La valle, una striscia di terra fertile che corre a ovest lungo il fiume Giordano, è abitata da circa 65.000 palestinesi.

Dal 1967, quando l’esercito israeliano ha occupato la Cisgiordania, Israele ha trasferito almeno 11.000 suoi cittadini ebrei nella Valle del Giordano. Alcune delle colonie in cui vivono sono state interamente costruite su terre palestinesi di proprietà privata.

Da quando è iniziata l’occupazione, circa il 46% della Valle del Giordano è stata dichiarata dall’esercito israeliano zona militare proibita.

Circa 6.200 palestinesi risiedono in 38 comunità in luoghi destinati a usi militari e devono ottenere un permesso delle autorità israeliane per entrare e vivere nelle loro comunità.

In violazione del diritto internazionale l’esercito israeliano non solo scaccia regolarmente in modo temporaneo le comunità, ma a volte demolisce anche case e infrastrutture.

Oltre a subire espulsioni temporanee, le famiglie palestinesi che vi vivono devono affrontare una miriade di limitazioni nell’accesso a risorse e servizi. Nel contempo la confisca di terre da parte di Israele ha espropriato risorse naturali a favore dei coloni.

Vivere la Nakba

Il digiuno durante l’espulsione e le temperature che hanno raggiunto i 40° hanno raddoppiato le difficoltà di questo Ramadan, dice Khadija Abu Qabbash mentre si prepara ad andarsene. La donna incinta, madre di cinque figli, la mattina ha lavato a mano una pila di vestiti. La sua figlia di 15 anni, Deema, l’ha aiutata a stendere in gran fretta i panni ad asciugare prima che arrivassero i soldati israeliani.

Questa mattina abbiamo accompagnato fuori i bambini ed ora la macchina è tornata a prenderci,” dice a MEE mentre piange. “Non potrò cucinare niente per iftar [pasto serale che interrompe il digiuno del Ramadan, ndtr.]. Ci dovremo accontentare di cibo in scatola.”

Le forze israeliane espellono regolarmente le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa. Tuttavia in genere le espulsioni avvengono durante il giorno, mentre agli abitanti è consentito tornare alla sera.

Non so se stanno effettivamente facendo esercitazioni militari. A volte ci cacciano e non fanno niente. Intendono obbligarci ad andarcene per sempre,” dice Khadija.

Le attività di Israele nella Valle del Giordano sono state ben documentate da gruppi per i diritti umani e da Ong locali, che affermano che l’obiettivo di queste misure è cacciare i palestinesi e soffocare il loro sviluppo nella zona.

Essendo assolutamente strategica, i politici israeliani, anche prima delle recenti affermazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riguardo ai suoi progetti di annettere zone della Cisgiordania occupata, hanno chiarito in varie occasioni che la Valle del Giordano rimarrà in ogni caso sotto il loro controllo.

Nel 2013 negoziati di pace sono stati rifiutati da Israele quando è stata ipotizzaa la cessione di parte del controllo sulla valle.

Commentando l’evacuazione di Khirbet Humsa al-Fawqa di domenica, Walid Assaf, capo della Commissione Nazionale per la Resistenza al Muro e alle Colonie dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha detto in un comunicato che ci sono stati tentativi con l’intervento di legali per bloccare l’espulsione temporanea, ma non si è potuto mettere in discussione l’ordine militare israeliano.

Proprio come hanno cacciato i palestinesi dale loro case nel 1948, oggi stanno facendo lo stesso. Non cederemo,” ha aggiunto Khadija, riferendosi alla Nakba, la pulizia etnica della Palestina storica da parte delle milizie sioniste 71 anni fa, che si commemora ogni anno il 15 maggio.

Qui non vogliono palestinesi”

Principalmente composte di pastori, le famiglie di Khirbet Humsa al-Fawqa si alzano alle 3 del mattino per mungere le proprie pecore e preparare il formaggio prima di andare ai mercati della vicina cittadina di Tubas.

Harb Abu Qabbash, 40 anni, dice a MEE che ogni famiglia possiede circa 300 pecore. Dato che è difficile spostarle fuori dalla zona, quando i palestinesi vengono evacuati molti degli agnelli rimangono indietro e spesso muoiono di fame senza nessuno che si occupi di loro.

Aggiunge che durante le esercitazioni militari migliaia di ettari di orzo e grano rischiano di essere bruciati. Secondo Harb ciò avviene regolarmente. “Il nostro maggior timore è che una bomba cada su una delle nostre tende. Se ciò accadesse sarebbe una catastrofe e perderemmo tutto,” dice Harb.

Gli israeliani vogliono impossessarsi della zona e svuotarla dei suoi abitanti. Non vogliono palestinesi qui,” aggiunge.

Nel 2005 hanno demolito le nostre tende e infrastrutture con il pretesto che erano state costruite senza permesso. Quando facciamo richiesta di un permesso loro non lo concedono.”

Quando non devono affrontare un’evacuazione, le esercitazioni militari e le demolizioni, i palestinesi della comunità lottano per approvvigionarsi dell’acqua sufficiente per le loro necessità sotto l’occupazione israeliana.

Ogni famiglia con le sue pecore utilizza un totale di due o tre serbatoi d’acqua al giorno,” dice Harb.

Per trasportare il camion cisterna alla comunità ci vogliono due ore. C’è un pozzo d’acqua a cinque minuti da qui, ma l’esercito israeliano ci ha vietato di utilizzarlo e lo ha destinato all’uso esclusivo dei coloni israeliani.”

(traduzione di Amedeo Rossi)