JNF Canada sottoposto a controllo per aver utilizzato donazioni per finanziare progetti dell’esercito israeliano: un rapporto

Redazione di MEE

4 gennaio 2019, Middle East Eye

CBC News informa che il Jewish National Fund del Canada è stato sottoposto a un’indagine per aver utilizzato donazioni in beneficienza per finanziare progetti dell’esercito israeliano

La Canadian Broadcasting Corporation [l’Ente televisivo canadese] ha riferito che il Jewish National Fund [Fondo Nazionale Ebraico, ente no profit dell’Organizzazione Sionista Mondiale, ndtr.] del Canada è stato sottoposto a un’indagine da parte dell’ufficio federale delle imposte del Paese perché avrebbe destinato donazioni in beneficienza al finanziamento di progetti dell’esercito israeliano.

Venerdì [4 gennaio] CBS News ha detto che JNF Canada, una delle principali associazioni di beneficienza del Canada, ha finanziato progetti infrastrutturali dell’esercito israeliano, basi aeree e navali.

CBC ha informato che lo scorso anno l’organizzazione ha comunicato ai suoi donatori di essere sottoposta a un’inchiesta da parte della Canada Revenue Agency [Agenzia delle entrate canadese, ndtr.].

Mentre nessuna legge impedisce a un cittadino canadese di intestare un assegno direttamente al ministero della Difesa israeliano, le norme vietano a enti di beneficienza esenti da tasse di destinare entrate fiscali per tali donazioni e proibisce anche ai donatori di chiedere riduzioni fiscali per questo,” ha affermato la televisione nazionale.

CBC ha informato che JNF Canada ha aiutato a finanziare, tra i vari progetti, una zona di fitness all’aria aperta nella base militare di Gadna a Sde Boker, nella regione desertica del Negev nel sud di Israele.

Citando documenti prodotti da Keren Kayemeth LeIsrael (KKL), la società madre in Israele dell’organizzazione JNF Canada, CBC News ha detto che la sezione canadese di JNF ha anche contribuito a finanziare “la nuova cittadella di addestramento dell’IDF [esercito israeliano] nel Negev.”

Le donazioni del JNF Canada sono state destinate anche ad appoggiare lo sviluppo di un complesso di addestramento e un auditorium nella base navale di Bat Galim, come anche addestramento e conferenze nella stessa base e una “specie di refettorio” per reparti nelle basi dell’aviazione di Palmachim e di Nevatim.

Nel reportage di CBC News figura anche il coinvolgimento di JNF Canada in progetti nei territori palestinesi occupati

Il mezzo di informazione ha affermato che le missioni dell’organizzazione hanno contribuito direttamente alla costruzione almeno di un avamposto di coloni su una collina, Givat Oz VeGaon, che è illegale in base alle leggi internazionali ed israeliane.

JNF Canada afferma di aver smesso di finanziare progetti dell’esercito nel 2016

In una mail, l’amministratore delegato di JNF Canada Lance Davis ha detto alla CBC che l’organizzazione ha smesso di finanziare progetti legati all’esercito israeliano nel 2016, dopo essere stata informata delle linee guida della CRA.

Per essere chiari, non abbiamo più finanziato progetti su terreni dell’IDF e JNF Canada ha agito in accordo con le norme della CRA che definiscono il suo status di organizzazione caritativa,” ha scritto Davis.

Comunque le sezioni sia israeliana che canadese del JNF sono state accusate per decenni di essere complici dell’espulsione forzata di palestinesi dalle loro case da parte di Israele, così come di politiche discriminatorie nella destinazione delle terre.

JNF Canada finanziò la creazione del Canada Park, un’estesa riserva naturale a circa 25 km da Gerusalemme, costruita sulle rovine di 3 villaggi palestinesi che vennero spopolati con la forza dall’esercito israeliano nella guerra del 1967.

Gli originari abitanti palestinesi di quei villaggi – Yalu, Imwas and Beit Nuba – vennero espulsi con la forza dalla zona e a molti, se non a tutti, venne impedito di tornarvi.

Independent Jewish Voices Canada” [Voci ebraiche indipendenti del Canada], un gruppo che sostiene i diritti dei palestinesi, ha guidato una campagna “Stop al JNF”, con l’intenzione di togliere all’organizzazione lo status di ente benefico in Canada.

Nel 2017 il gruppo ha aiutato quattro canadesi a presentare un ricorso presso la CRA e il ministero delle Finanze canadese in cui si chiedeva che a JNF Canada non venisse più consentito di operare come associazione di beneficienza.

“Solo negli ultimi anni JNF Canada ha finanziato ben più di una decina di progetti di appoggio all’IDF ed è partner ufficiale dell’IDF e del ministero della Difesa israeliano,” afferma il gruppo nel suo sito web.

IJV-Canada ha anche affermato che il JNF ha piantato alberi nei territori palestinesi occupati, contribuendo quindi al fatto che Israele rafforzasse il proprio controllo su quelle aree, in violazione delle leggi internazionali.

Prendendo il controllo di terre nei (territori palestinesi occupati), questi progetti rafforzano la cinquantennale occupazione militare di Israele, rendendo molto più difficile da raggiungere una giusta pace,” sostiene il gruppo.

Nessuna organizzazione canadese, per non parlare di un’associazione con lo status di ente benefico, dovrebbe sponsorizzare progetti che creano fatti sul terreno in favore di una potenza occupante e che – in violazione delle leggi internazionali – modifica le caratteristiche fisiche del territorio occupato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Com’è cresciuta la campagna per il boicottaggio di Israele nel 2018?

Nora Barrows-Friedman

31 dicembre 2018, Electronic Intifada

Il 2018 è stato un anno di vittorie degli attivisti per i diritti umani nonostante pesanti pressioni, attacchi e tentativi propagandistici da parte di Israele e dei suoi gruppi lobbistici di ripulire la sua immagine.

All’inizio dell’anno si è appreso che l’alleanza del presidente USA Donald Trump con gruppi suprematisti bianchi e personaggi antisemiti ha spinto verso il basso l’appoggio nei confronti di Israele, soprattutto tra i giovani ebrei americani.

In ottobre un altro sondaggio ha confermato che il sostegno a favore di Israele viene soprattutto dalla base di Trump, un ricettacolo di opinioni di estrema destra, di nazionalisti bianchi e di cristiani sionisti, mentre quello da parte di altri americani continua a ridursi.

All’inizio dell’anno l’AIPAC, il più potente gruppo della lobby israeliana al Congresso [USA], ha dovuto ammettere di dover affrontare crescenti difficoltà nei suoi tentativi di consolidare l’appoggio a Israele tra i dirigenti progressisti americani.

Tuttavia l’AIPAC, insieme all’“Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione, ndtr.] e gruppi di pressione simili, hanno continuato a insistere a favore di una legge federale – l’“Israel Anti-Boycott Act” [Legge contro il Boicottaggio di Israele, ndtr.] – che intende criminalizzare i sostenitori del movimento per il boicottaggio, anche se a porte chiuse l’ADL è giunto alla conclusione che tali leggi sono inefficaci e incostituzionali.

Ma ci sono segnali che persino i sostenitori più accaniti di Israele al Congresso hanno iniziato a tirarsi indietro.

Proprio nelle scorse settimane i senatori Bernie Sanders del Vermont e Dianne Feinstein della California hanno esortato i principali leader del Congresso a togliere l’Israel Anti-Boycott Act da un pacchetto di norme di bilancio, facendo riferimento a palesi violazioni del Primo Emendamento [primo articolo della Costituzione USA, ndtr.].

Ali Abunimah, di “The Electronic Intifada”, ha sottolineato che , dopo il premeditato massacro di palestinesi a Gaza del 30 marzo da parte di Israele, nessun democratico di entrambe le Camere del Congresso USA ha parlato in difesa delle azioni di Israele, una notevole differenza nella politica di parlamentari che nel passato lo hanno immediatamente fatto.

Ciò riflette il riconoscimento della sempre più negativa immagine di Israele, soprattutto tra la base democratica.

Gli attacchi di Israele contro gli attivisti del BDS sono stati a volte assurdi – come quando alla fine del 2017 un gruppo israeliano sostenuto dal Mossad per la lotta giudiziaria ha denunciato due attivisti neozelandesi per aver spinto con successo la pop star Lorde ad annullare la sua esibizione a Tel Aviv.

Gli attivisti citati in quell’azione legale – che secondo esperti di diritto non potrebbe essere applicata – hanno sfruttato la pubblicità derivante dal caso per raccogliere fondi a sostegno di un centro per l’assistenza psichiatrica a Gaza e per suscitare maggiore attenzione sulla crisi umanitaria in tutta la Palestina.

La diffusione da parte di “The Electronic Intifada” di un documentario censurato prodotto da Al Jazeera sulle strategie della lobby israeliana negli USA ha contribuito a svelare i tentativi di Israele e dei suoi lobbisti di spiare, calunniare e intimidire i cittadini USA che appoggiano i diritti umani dei palestinesi, soprattutto del movimento BDS.

Nonostante attacchi, calunnie e minacce da parte di Israele, gli attivisti a favore del boicottaggio continuano a ottenere notevoli risultati – con sommo sgomento dei dirigenti israeliani.

Stiamo evidenziando i crimini e le politiche di apartheid di Israele e facendo pressione per porvi fine,” hanno rilevato importanti attivisti del movimento BDS nella loro riunione annuale sui risultati più importanti del boicottaggio.

Ecco alcune delle principali vittorie del BDS su cui “The Electronic Intifada” ha informato nel corso dell’anno.

Israele continua ad avere un’immagine negativa

Nel 2018 alcuni artisti hanno continuato a rinunciare ad esibirsi in Israele, in seguito a insistenti appelli da parte di attivisti per i diritti umani in Palestina e in tutto il mondo.

Shakira e Gilberto Gil hanno guidato una lista di importanti cancellazioni, mentre decine di DJ e produttori musicali si sono pubblicamente impegnati a non esibirsi nello Stato dell’apartheid.

Durante l’estate il festival israeliano “Meteor” si è chiuso senza la sua artista più importante, Lana del Rey, che ha rinunciato al suo spettacolo pochi giorni prima che il festival iniziasse, affermando di voler “trattare tutti i suoi fan allo stesso modo.”

Altre sedici esibizioni del festival “Meteor”, compreso quello di “Of Montreal” [gruppo musicale USA, ndtr.] sono state annullate dal festival in seguito a pressanti appelli da parte di attivisti palestinesi e internazionali a rispettare la richiesta di boicottaggio.

In aprile l’attrice israelo-americana Natalie Portman si è rifiutata di ricevere un premio a Gerusalemme, a quanto pare in seguito ai massacri di palestinesi da parte di Israele, con grande sdegno e sconcerto dei dirigenti israeliani.

In giugno 11 registi LGBTQ si sono rifiutati di consentire a Israele di utilizzarli per occultare i suoi crimini, unendosi al boicottaggio del TLVFest – il festival internazionale LGBT di Tel Aviv.

Alcuni artisti hanno boicottato anche il Film Festival di Istanbul, dopo che si è saputo che Israele lo stava sponsorizzando.

Il boicottaggio culturale ha ottenuto successi anche nel mondo dello sport, in quanto in giugno la nazionale di calcio argentina ha annullato una partita molto importante con Israele dopo un’intensa campagna internazionale iniziata in Argentina e che ha travolto l’America latina e la Spagna. Tifosi e attivisti hanno sollecitato l’Argentina e la stella della squadra, Lionel Messi, a non aiutare Israele a nascondere i massacri di civili disarmati a Gaza.

All’inizio dell’anno una corsa motociclistica sponsorizzata dalla Honda in Israele è stata annullata in seguito a pressioni di attivisti BDS.

In autunno altri tentativi propagandistici di Israele sono falliti e grandi cuochi a livello internazionale hanno rinunciato al festival “Tavole Rotonde”, mentre una fonte diplomatica israeliana ha ammesso che centinaia di eventi culturali inclusi nella “Saison France-Israël” [Stagione Francia-Israele], “non hanno avuto nessun successo riguardo all’immagine di Israele in Francia, o a quella della Francia qui [in Israele, ndtr.].”

Nel contempo in tutta Europa gli attivisti continuano a fare pressione sulle emittenti televisive per non consentire a Israele di ospitare la competizione canora “Eurovision” come parte della sua campagna di riverniciatura della sua immagine.

Manifestanti hanno tenuto regolarmente proteste fuori dalle esibizioni di Netta Barzilai, la vincitrice israeliana dell’Eurovisione 2018 che è stata utilizzata come parte dei tentativi di propaganda a livello internazionale sostenuti ufficialmente dal Paese.

Chiese, imprese e sindacati lasciano Israele

A dicembre il gigante bancario HSBC [primo istituto di credito europeo, con sede a Londra, ndtr.] ha confermato di aver disinvestito dall’impresa bellica israeliana Elbit Systems in seguito a una campagna dal basso.

L’impresa [israeliana, ndtr] è già stata esclusa da fondi pensione e di investimento in tutto il mondo per il suo coinvolgimento nella fornitura di sistemi di sorveglianza e altre tecnologie al muro di Israele e alle colonie nella Cisgiordania occupata.

Affermando di essere la prima chiesa britannica a prendere una simile iniziativa, in novembre la chiesa dei quaccheri ha annunciato che non avrebbe investito alcun fondo posseduto a livello centrale che tragga profitto dalle violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

Unendosi ad altre congregazioni religiose cristiane degli USA, la chiesa episcopale ha votato per l’adozione di un controllo sugli investimenti per evitare di trarre profitto da violazioni dei diritti umani contro i palestinesi. Ha anche deciso di tutelare i diritti dei minori palestinesi e dei palestinesi di Gaza, di appoggiare l’autodeterminazione dei palestinesi e di chiedere la prosecuzione dell’aiuto USA ai rifugiati palestinesi.

Un’altra risoluzione chiede un giusto accesso a Gerusalemme e si oppone allo spostamento dell’ambasciata USA in città da parte dell’amministrazione Trump.

In agosto lavoratori del sindacato e attivisti del boicottaggio nel mondo arabo hanno obbligato la compagnia di navigazione israeliana “Zim” a interrompere a tempo indefinito i suoi viaggi verso la Tunisia.

La principale federazione sindacale tunisina, la UGTT, ha chiesto ai propri membri di impedire alla nave “Cornelius A”, legata ad Israele, di fare scalo in Tunisia ed ha appoggiato le richieste di un’inchiesta ufficiale sul commercio clandestino con Israele.

Lavoratori giordani hanno rifiutato di fornire materiale per il gasdotto Giordania-Israele, mentre l’impresa francese Systra si è impegnata a ritirarsi dai piani di espansione del progetto della metropolitana leggera di Israele [a Gerusalemme, ndtr.].

E a novembre il gigante dell’affitto per turisti Airbnb ha annunciato che avrebbe tolto dal suo elenco di offerte proprietà in colonie israeliane nella Cisgiordania occupata. In base alle leggi internazionali ogni colonia israeliana nei territori occupati è illegale.

Benché a questo proposito chi sia stata una certa confusione riguardo a se – e quando – questo cambiamento di politica aziendale verrà messo in pratica o se l’impresa, sotto pressione di Israele, farà marcia indietro rispetto al suo annuncio, ciò è servito a mettere in luce la complicità dell’impresa rispetto ai crimini di guerra israeliani.

Amministrazioni locali sostengono il boicottaggio

Nonostante i tentativi della lobby israeliana di interferire sulle politiche locali e nazionali, consigli comunali in Europa e in America Latina hanno approvato dure risoluzioni di appoggio alla campagna BDS, con una crescente ondata di resistenza ai crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In giugno Monaghan è diventato il quinto consiglio provinciale o comunale irlandese a dichiarare il proprio sostegno al BDS. Ha fatto seguito al voto in aprile di Dublino, diventata la prima capitale europea a farlo, che ha aderito a un boicottaggio contro Israele e di conseguenza ha interrotto un contratto con HP, una ditta di computer da lungo tempo complice dell’occupazione militare di Israele.

Più o meno nello stesso periodo il consiglio comunale di Valdivia, in Cile, ha approvato una mozione che sostiene la campagna BDS e ha dichiarato la città “zona libera dall’apartheid”.

Una serie di iniziative di “zona libera dall’apartheid” simili è stata approvata da più di 30 città spagnole.

A maggio anche Bologna, la settima città d’Italia per numero di abitanti, ha chiesto un embargo militare contro Israele [sulla scia di Bologna anche i consigli comunali di Torino e Napoli hanno approvato la stessa richiesta. ndtr]

A giugno la Norvegia ha approvato una mozione che appoggia il diritto di singole città di boicottare colonie israeliane, assestando un duro colpo a politici di destra che avevano cercato di opporsi ai boicottaggi approvati nelle città di Trondheim and Tromsø.

Nel Regno Unito membri del partito Laburista hanno votato a larga maggioranza l’appoggio al congelamento della vendita di armi contro Israele.

Leggi contro il BDS sono state bloccate o contestate

Nel 2018 nelgi USA sono state bloccate leggi che cercavano di zittire il diritto al boicottaggio.

Tribunali federali hanno sentenziato contro leggi anti-BDS in Arizona e nel Kansas, mentre ricorsi legali sono stati presentati a tribunali del Texas e dell’Arkansas contro l’imposizione del giuramento di lealtà verso Israele.

In febbraio attivisti dei diritti umani nella città di Maplewood, in New Jersey, hanno contribuito a sconfiggere una decisione locale che avrebbe condannato il movimento BDS. La risoluzione era stata presentata al consiglio comunale da rappresentanti di gruppi di sostegno a Israele che hanno fatto pressione su altre città vicine perché adottassero risoluzioni simili.

E attivisti in Missouri e in Massachusetts hanno fatto con successo una campagna per bloccare misure contro il BDS a livello statale.

In Germania – che è stata ostile all’attivismo BDS e ha stabilito di equiparare il sostegno ai diritti della Palestina con l’antisemitismo – a settembre attivisti locali del boicottaggio hanno ottenuto una significativa vittoria che potrebbe costituire un precedente legale in tutto il Paese.

Il tribunale municipale di Oldenburg ha sentenziato che una precedente decisione del consiglio comunale di annullare un evento del BDS nel 2016 era illegale e violava la libertà di espressione e di riunione. È stata la prima volta che un tribunale amministrativo tedesco ha dichiarato illegale vietare un evento del BDS.

Studenti approvano risoluzioni radicali che proteggono i diritti dei palestinesi.

Resistendo a pressioni della lobby israeliana, di siti web che in modo oscuro stilano liste di proscrizione e di campagne di vessazioni mirate, attivisti studenteschi in tutti gli USA, in Canada e in Europa si sono mantenuti fermi nel sostenere i diritti dei palestinesi e hanno chiesto ad amministrazioni universitarie di disinvestire dai crimini israeliani di occupazione e apartheid.

In maggio studenti dell’università statale della California, East Bay, hanno votato all’unanimità a favore di una mozione che chiede il disinvestimento da imprese che siano state riconosciute complici delle violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi, comprese Caterpillar, HP, la G4S e Motorola.

E rappresentanti degli studenti nel senato accademico dell’università dell’Oregon hanno approvato una mozione per accertarsi che i fondi degli studenti vengano disinvestiti da 10 imprese che traggono profitto dalle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.

Un referendum in favore del disinvestimento è stato approvato al Barnard College [storico college femminile, ndtr.] di New York. La misura è stata approvata nonostante tentativi recenti e passati da parte dell’amministrazione e dei gruppi della lobby israeliana di intimidire e calunniare studentesse e docenti che appoggiano i diritti dei palestinesi presso il Barnard e il suo partner, la Columbia University.

All’inizio di dicembre anche studenti dell’università di New York hanno votato in massa a favore del disinvestimento con più di 60 gruppi nei campus e 35 membri del corpo docente che hanno appoggiato l’iniziativa.

All’università del Minnesota gli studenti hanno approvato un referendum che invita l’amministrazione a prendere iniziative riguardo alla sua politica di investimenti socialmente responsabili e di disinvestire da imprese che traggano profitto dalle violazioni dei diritti umani da parte di Israele, come anche da prigioni, centri di detenzione per immigrati e imprese che violino la sovranità di comunità indigene.

La Federazione Canadese degli Studenti, la maggiore organizzazione studentesca del Canada, a novembre ha votato l’adesione al movimento BDS, la condanna della continua occupazione e delle atrocità israeliane a Gaza e l’elargizione di donazioni finanziarie a varie organizzazioni palestinesi di solidarietà.

La federazione, che rappresenta più di 500.000 studenti in tutto il Canada, ha affermato anche che avrebbe appoggiato le sezioni locali per iniziare campagne di disinvestimento dalle armi nelle singole amministrazioni universitarie.

In Irlanda l’Unione degli Studenti, che rappresenta 374.000 studenti dell’educazione superiore, ha votato l’adesione al movimento BDS ed ha condannato la “brutale” occupazione militare e la violazione dei diritti umani da parte di Israele.

L’Unione ha deciso di boicottare le istituzioni israeliane che sono “complici nel normalizzare, fornire copertura dal punto di vista intellettuale e sostenere il colonialismo di insediamento” e di fare pressione sulle università irlandesi perché disinvestano da imprese che traggono profitto dalla violazione dei diritti da parte di Israele. Hanno anche ribadito il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi da Israele.

Il voto ha fatto seguito al provvedimento votato in marzo dagli studenti del Trinity College di Dublino in appoggio alla campagna BDS.

In primavera anche dirigenti studenteschi dell’università di Pisa, in Italia, hanno adottato una mozione con un voto quasi unanime che chiede l’attenzione da parte della comunità accademica verso le politiche di apartheid di Israele e il sostegno alla campagna di boicottaggio accademico.

A novembre quella di Leeds è diventata la prima università del Regno Unito a disinvestire da imprese coinvolte nella vendita di armi ad Israele, dopo una campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni da parte di attivisti in solidarietà con la Palestina.

Nel 2018 anche alcuni professori hanno continuato a dimostrare il proprio appoggio ai diritti dei palestinesi.

In marzo un sindacato che rappresenta il corpo docente della “Los Rios College Federation” [Federazione dei college del distretto di Los Rios] in California ha votato quasi all’unanimità il sostegno al disinvestimento dei fondi pensione da imprese che traggono profitto dall’occupazione israeliana.

Due insegnanti dell’università del Michigan hanno resistito agli attacchi della lobby israeliana ed hanno difeso la loro decisione di non scrivere lettere di presentazione per studenti che desideravano frequentare programmi di studio discriminatori all’estero in Israele.

E in California i docenti dell’università Pitzer [un’università privata. ndtr] hanno chiesto la sospensione dei programmi di studio all’estero in Israele con l’università di Haifa, facendo riferimento alle politiche discriminatorie di Israele in base all’origine e alle opinioni politiche. Il corpo docente ha anche appoggiato il diritto degli studenti ad aderire alla campagna del BDS.

Brindiamo alle vittorie del 2018, mentre gli attivisti si organizzano per quelle che arriveranno nel 2019.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Esportare la tecnologia dell’occupazione

Antony Loewenstein

4 gennaio 2019 The New York Review of Books

Parlando recentemente via satellite da Mosca ad un pubblico di Tel Aviv poco dopo l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato dell’Arabia Saudita ad Istanbul, l’informatore della National Security Agency [ente governativo USA che si occupa di sicurezza nazionale, ndtr.] Edward Snowden ha sostenuto che l’Arabia Saudita ha utilizzato un software-spia prodotto in Israele per tracciare i movimenti di Khashoggi prima della sua morte. Snowden ha detto che l’agenzia israeliana di intelligence informatica ‘NSO Group Technologies’ ha sviluppato un software noto come Pegasus che è stato venduto ai sauditi ed ha consentito che Khashoggi fosse monitorato infettando lo smartphone di uno dei suoi contatti, un altro oppositore del regime saudita, che vive in Canada.

Questo dissidente, Omar Abdulaziz, alla fine del 2018 ha promosso un’azione legale in Israele sostenendo che il gruppo NSO ha violato le leggi internazionali vendendo la propria tecnologia a regimi oppressivi. “NSO dovrebbe rispondere riguardo alla protezione delle vite di dissidenti politici, giornalisti ed attivisti per i diritti umani”, ha detto il suo avvocato di Gerusalemme, Alaa Mahajna. Il gruppo NSO risulta di proprietà di un’impresa americana, la Francisco Partners, e sia Goldman Sachs che Blackstone vi investono. Il giornalista di The Washington Post David Ignatius, da tempo sostenitore dei sauditi, ha confermato le affermazioni di Snowden circa gli affari dell’impresa israeliana con il Regno [saudita].

Questo è solo uno dei tanti sinistri esempi di un lucroso affare. Secondo il Jerusalem Post, Israele recentemente ha venduto all’Arabia Saudita sofisticati impianti di spionaggio per un valore di 250 milioni di dollari, e Haaretz ha anche riferito che al Regno è stato offerto un software per intercettazioni telefoniche del gruppo NSO poco prima che il principe ereditario Mohammed Bin Salman iniziasse le purghe contro gli oppositori nel 2017. Sia Israele che l’Arabia Saudita considerano l’Iran come un’eccezionale minaccia che giustifica la loro cooperazione.

Oltre a software di spionaggio e strumenti informatici, Israele ha sviluppato una crescente industria nell’ambito della sorveglianza, inclusi spionaggio, operazioni psicologiche e disinformazione. Una di queste imprese, Black Cube, un’agenzia di intelligence privata con legami con il governo israeliano (due ex capi del Mossad hanno fatto parte del suo comitato consultivo internazionale), di recente ha acquisito notorietà – soprattutto per aver spiato donne che avevano accusato il magnate di Hollywood Harvey Weinstein di violenza sessuale. Alcuni reportage hanno anche rivelato l’attività dell’impresa per il governo autoritario ungherese, così come una presunta campagna di ‘operazioni sporche’ contro funzionari dell’amministrazione Obama legati all’accordo nucleare iraniano e contro un ricercatore anti-corruzione in Romania. Black Cube ed altre agenzie simili hanno stretti legami con lo Stato di Israele in quanto impiegano molti dipendenti che hanno fatto parte dell’intelligence.

In più di mezzo secolo di occupazione Israele ha perfezionato l’arte di monitorare e sorvegliare milioni di palestinesi in Cisgiordania, Gaza e nello stesso Israele. Adesso confeziona e vende queste conoscenze a governi che ammirano la capacità del Paese di reprimere e gestire la resistenza. Così l’occupazione israeliana è diventata globale. Le esportazioni del Paese per la difesa hanno raggiunto un record di 9,2 miliardi di dollari nel 2017, il 40% in più del 2016 (in un mercato di armamenti globale che ha registrato le vendite più alte di sempre nel 2017, con la cifra di 398,2 miliardi di dollari). La maggioranza di queste vendite sono avvenute in Asia e nella regione del Pacifico. I sistemi militari, come missili e difesa aerea, sono stati il settore principale con il 31%, mentre i sistemi di intelligence, informatici e di spionaggio hanno rappresentato il 5%. L’industria di Israele è sostenuta da un’abbondante spesa interna: nel 2016 la spesa per la difesa ha rappresentato il 5,8% del PIL del Paese. A titolo di confronto, nel 2017 il settore della difesa americano ha assorbito il 3,6% del PIL degli USA. 

Nonostante i loro occasionali gesti diplomatici di opposizione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, molte Nazioni sono diventate acquirenti bendisposti di armamenti informatici israeliani e di know-how per lo spionaggio. Secondo il New York Times, anche il governo messicano ha utilizzato, almeno in un caso, strumenti del gruppo NSO, verosimilmente per spiare un giornalista d’inchiesta che è stato in seguito ucciso; sono stati presi di mira anche avvocati per i diritti umani ed attivisti anti-corruzione. Amnesty International ha accusato il gruppo NSO di aver cercato di spiare uno dei suoi dipendenti. Un gruppo di ricerca canadese, ‘The Citizen Lab’, ha scoperto che sono comparsi apparecchi telefonici infettati in Bahrein, Brasile, Egitto, Palestina, Turchia, Emirati Arabi, Regno Unito, USA e altrove.

Durante le recenti proteste a Gaza un ex amministratore delegato dell’impresa che ha costruito la barriera che circonda parte della Striscia di Gaza, Saar Korush della ‘Magal Security Systems’, ha detto all’agenzia Bloomberg che Gaza era una vetrina per la sua “recinzione intelligente”, perché i clienti apprezzavano che fosse stata sperimentata sul campo di battaglia e si fosse dimostrata in grado di tenere i palestinesi fuori da Israele. La Magal (insieme ad un’altra impresa israeliana) è tra le imprese candidate a costruire il muro di confine col Messico del presidente Trump ed ha creato un business internazionale sulla base della sua capacità di bloccare gli “infiltrati”, un termine comunemente usato in Israele per definire i rifugiati. Un’altra nuova arma utilizzata lungo la barriera tra Israele e Gaza è il “Mare di Lacrime”, un drone che sgancia candelotti lacrimogeni sui dimostranti. Secondo il sito israeliano Ynet il suo produttore ha presto ricevuto centinaia di ordini per questi droni. La Germania sta già noleggiando droni israeliani, mentre l’agenzia europea Frontex sta testando droni simili per sorvegliare i confini europei nel tentativo di impedire l’ingresso di migranti e rifugiati.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nel corso dei suoi quasi dieci anni al potere, ha favorito la trasformazione del suo Paese in una potenza tecnologica che promuove orgogliosamente i suoi strumenti di occupazione sul mercato mondiale e interno. Parlando a novembre ai suoi colleghi parlamentari in Israele, Netanyahu ha detto che “il potere è la componente più importante della politica estera. ‘L’occupazione’ è una cavolata. Ci sono Paesi che hanno conquistato e deportato intere popolazioni ed il mondo resta in silenzio. La chiave è la forza, fa la differenza nella nostra politica verso il mondo arabo.” Ha concluso che ogni accordo di pace con i palestinesi potrebbe avvenire solamente con “interessi comuni basati sulla potenza tecnologica.”

Nel 2017 Israele ha ammorbidito le sue regole per concedere licenze di esportazione ad una serie di produttori di strumenti di spionaggio, sorveglianza e armamenti, benché sostenga di farlo tenendo conto delle implicazioni per i diritti umani. Ma questo non è credibile, dato che proprio negli scorsi anni Israele ha venduto armi a Paesi che commettono gravi violazioni, come Filippine, Sud Sudan e Myanmar. Netanyahu ha stretto amicizia con il dittatore del Ciad Idriss Déby, e i prossimi della lista potrebbero essere il regime del Bahrein e il dittatore sudanese Omar al-Bashir, che è ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità.

Il ministero della Difesa israeliano rilascia difficilmente informazioni su come o perché le sue esportazioni vengano concesse. Haaretz ha recentemente scoperto che sono stati venduti sistemi di spionaggio a parecchi regimi non democratici, compresi Bangladesh, Angola, Bahrein, Nigeria, Emirati Arabi, Vietnam ed altri. In alcuni casi, questi governi ed altri hanno usato i sistemi per prendere di mira dissidenti e cittadini LGBTQ e anche per fabbricare false accuse di blasfemia. All’inizio del 2019 Haaretz ha anche rivelato l’esistenza di un’altra azienda israeliana di sicurezza informatica, di nome Candiru, che commercializza strumenti di hackeraggio e si basa ampiamente sul reclutamento di veterani dell’esercito del reparto d’elite dello spionaggio Unit 8200.

Da quando è scoppiata la bolla tecnologica nel 2000, il governo israeliano ha spinto imprese locali ad investire nelle industrie di sicurezza e di intelligence. Secondo un rapporto di “Privacy International” [organizzazione inglese che si occupa delle garanzie della privacy in tutto il mondo, ndtr.] del 2016, il risultato è stato che, su 528 imprese attive nel mondo in questo settore, 27 hanno sede in Israele –facendo del Paese quello con il tasso di imprese di sorveglianza e di intelligence pro capite di gran lunga più alto al mondo. E nel 2016, riferisce Haaretz, il 20% degli investimenti mondiali nel settore sono stati in start-up israeliane.

In quello stesso anno l’avvocato per i diritti umani Eitay Mack, uno dei pochi israeliani famosi che sfidi pubblicamente la politica di esportazione di armi di Israele, e Tamar Zandberg, presidentessa del partito di sinistra Meretz, si sono rivolti all’Alta Corte di Giustizia israeliana nel tentativo di ottenere una sospensione della licenza all’esportazione del gruppo NSO. Il governo ha chiesto che il processo si tenesse a porte chiuse e la sentenza della corte non è stata resa pubblica. La giudice che presiede la Corte Suprema Esther Hayut ha spiegato che “la nostra economia, guarda caso, si basa non poco su quelle esportazioni.”

Infatti nel 2017 Israele è stato secondo solo agli USA, raggiungendo quasi 1 miliardo di dollari in capitale di rischio e azioni private per imprese di sicurezza informatica. Informazioni diffuse l’anno scorso dall’impresa di dati di New York “CB Insights” mostrano che Israele è stato il secondo maggior firmatario di accordi di sicurezza informatica al mondo dopo gli USA. Benché gli USA siano i primi con largo margine, con il 69% del mercato globale, il 7% di Israele lo piazza davanti al Regno Unito.

L’occupazione ha quindi alimentato la politica israeliana dell’industria e della difesa attraverso un boom economico che ha beneficiato le imprese che costruiscono, conducono e gestiscono l’impresa coloniale. Ma per Shir Hever, autore di ‘The privatization of israeli security’ [La privatizzazione della sicurezza israeliana] (2017) ed esperto mondiale del commercio di armi israeliano, l’occupazione sta diventando meno un’opportunità che un peso. Molti venditori di armi israeliani, mi ha detto, “stanno esprimendo la loro frustrazione per il fatto che i clienti non sono entusiasti dei prodotti israeliani perché non riescono a fermare la resistenza palestinese. La Russia ha sviluppato un sistema di vendita equa di armi ‘collaudate in battaglia’ nella guerra in Siria ed è riuscita ad aumentare le vendite in Turchia e India, entrambi mercati molto importanti per le imprese israeliane. Quindi perché gli importatori di armi dovrebbero considerare speciali gli armamenti israeliani?”

Hever riconosce che “i regimi autoritari vogliono sicuramente ancora imparare come Israele gestisce e controlla i palestinesi, ma più imparano, più si rendono conto che Israele in realtà non controlla i palestinesi molto efficacemente. Il sostegno ad Israele da parte dei gruppi e dei politici di destra nel mondo è ancora forte – il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, ne è un esempio particolarmente deprimente – ma io penso che vi sia più attenzione al razzismo, alla discriminazione razziale e al nazionalismo, e meno attenzione e ammirazione per ‘l’esercito più forte del mondo.”” Egli mette anche in discussione la narrazione del governo israeliano riguardo al successo del settore degli armamenti e dell’intelligence e sostiene che l’industria sia in declino perché è troppo dipendente da alleanze di breve termine e ad hoc.

Il Sudafrica dell’apartheid e il suo declino sono un avvertimento della storia che Israele sarebbe incauto ad ignorare. Al suo apice, il Sudafrica è stato uno dei maggiori mercanti di armi al mondo, dopo il Brasile e Israele, e questo è stato ottenuto attraverso ingenti sussidi statali. Nonostante un embargo ONU sulle armi, secondo un recente volume, ‘Apartheid guns and money: a tale of profit’ (Fucili e denaro dell’apartheid: una storia di profitto), di Hennie van Vuuren, direttore dell’organizzazione di controllo sudafricana non profit ‘Open Secrets’, il regime sudafricano alla fine degli anni ’80 ha speso il 28% del bilancio statale nella sua industria della difesa. Un’economia costruita sul know-how militare e sulla competenza nelle tecniche di repressione interna può sembrare una fonte di invincibile potenza, ma l’apartheid è finita meno di cinque anni dopo.

Oggi un crescente numero di ebrei americani sta prendendo le distanze da Israele, rifiutando l’adesione del governo al nazionalismo etnico e sostenendo invece una soluzione di uno Stato unico. Per il momento Israele appare nella posizione di restare un importante soggetto mondiale nella produzione e vendita di sistemi di armi e di dispositivi e competenze di sorveglianza – che è ora uno dei modi principali in cui il Paese si autodefinisce sul piano internazionale. Ma l’opposizione internazionale sta crescendo, grazie soprattutto agli appelli del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) per un embargo militare contro Israele e la sua industria della difesa. Una delle imprese del settore della difesa più grandi del Paese, Elbit Systems, ha già subito boicottaggi alle sue attività nel mondo. Pochi giorni fa il colosso bancario HSBC ha annunciato il proprio disinvestimento da Elbit Systems. Campagne di alto profilo come questa inizieranno sicuramente a modificare i calcoli sui costi economici e morali dell’occupazione – ancor di più se Israele proseguirà il suo attuale percorso politico verso l’annessione de facto della Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Amos Oz: il mito tenace del sionismo progressista

Ben White

1 gennaio 2018, Middle East Eye

L’ammirazione dell’Occidente per Amos Oz è collegata al romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sul processo di pace e, soprattutto, al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina

Da molto tempo emarginata dalla destra nazionalista in forte ascesa in Israele, all’estero la cosiddetta “sinistra sionista” ha conservato un’influenza morale e intellettuale di prima grandezza.

Lo scrittore Amos Oz, deceduto lo scorso 28 dicembre all’età di 79 anni, era forse l’incarnazione più conosciuta di questa corrente politica. Noto come il “padrino dei pacifisti israeliani” –come l’ha presentato il “New Yorker” [settimanale di politica e cultura USA di tendenza progressista, ndtr.] nel 2004 -, era ammirato da molti a livello internazionale.

Tuttavia questa immagine dell’artista o del profeta progressista – alla quale hanno contribuito in buona misura i cambiamenti politici in Israele, che hanno fatto sì che persino i critici più clementi siamo ormai definiti “traditori” – contrasta chiaramente con le opinioni di Amos Oz su eventi passati e presenti, e in particolare su quello che il sionismo ha rappresentato per i palestinesi.

Giustificare la Nakba

La sinistra sionista, a cui Amos Oz apparteneva, ha dedicato un notevole impegno per giustificare la pulizia etnica della Palestina. La seguente metafora è stata alla base del contributo di Amos Oz a questi sforzi: “La giustificazione (del sionismo) per quanto riguarda gli arabi che vivevano su questa terra è il giusto diritto del naufrago che si aggrappa all’unica tavola che trova”, ha scritto nel suo libro “In terra di Israele” [Marietti, Torino, 1992, ndtr.].

E ogni regola di giustizia naturale, obiettiva e universale autorizza l’uomo che annega e che si aggrappa a quell’asse a ritagliarvisi uno spazio, anche se per questo deve spingere un po’ gli altri. Anche se gli altri, seduti su quella stessa tavola, non gli lasciano altra alternativa che la forza.”

Solo che i palestinesi non sono stati invitati a “condividere un asse”: sono stati espulsi in massa, i loro villaggi sono stati rasi al suolo e i loro centri urbani spopolati, e continuano ad essere esclusi dalla loro patria semplicemente perché non sono ebrei.

Inoltre chi, a parte un mostro, rifiuterebbe a un naufrago un posto su una tavola a cui aggrapparsi? La metafora di Amos Oz ha una duplice funzione: fa sparire la Nakba e rimprovera alle sue vittime di essere dei bruti senza pietà che hanno dovuto essere “obbligati” a “condividere una tavola”.

La falsa simmetria dell’occupazione

Amos Oz ha creato numerose metafore per presentare una falsa simmetria tra palestinesi e israeliani e sottrarsi a qualunque responsabilità politica. I palestinesi e gli israeliani sono dei “vicini” che hanno bisogno di “buone recinzioni”, una coppia di sposi che ha bisogno di un “divorzio equo”, un paziente che ha bisogno di una “dolorosa” operazione chirurgica.

Nel 2005 Amos Oz ha dichiarato a Libération [quotidiano francese di sinistra, ndtr.]: “Israele e Palestina (…) somigliano a un carceriere e al suo prigioniero, ammanettati uno all’altro. Dopo tanti anni, non c’è praticamente più nessuna differenza tra di loro: il carceriere non è libero più del suo prigioniero.” Questa cancellazione delle strutture di potere, questa mescolanza tra la realtà dell’occupato e la soggettività dell’occupante erano tipici dell’autore.

Lo scontro tra gli ebrei che ritornano a Sion e gli abitanti arabi del luogo non assomiglia ad un western o a un’epopea, ma piuttosto a una tragedia greca”, ha scritto (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]). Le variazioni su questo tema sono state numerose: “Il conflitto tra un ebreo israeliano e un arabo palestinese (…) è uno scontro tra una ragione e un’altra ragione (…), un conflitto tra vittime.”

Ora, parlare di “tragedia” equivale a confondere deliberatamente i rapporti di causa e effetto e a sostituire le responsabilità con una spiacevole disgrazia e, verosimilmente, a presentare il movimento sionista (ossia lo stesso Oz) come un eroe tragico che, benché le sue azioni abbiano delle conseguenze deleterie per gli altri, è nobilitato dalla propria auto consapevolezza

In effetti, come ha sottolineato il critico letterario americano di origine palestinese Saree Makdisi, “non è per niente vero che per Oz in questo conflitto esistano due contendenti più o meno ugualmente colpevoli. In fin dei conti, i veri cattivi nella versione della storia secondo Oz sono i palestinesi, che avrebbero dovuto riconoscere il sionismo come un movimento di liberazione nazionale (e) accoglierlo a braccia aperte.”

In un articolo apparso qualche anno fa Amos Oz affermava che “l’esistenza o la distruzione di Israele non sono mai state una questione di vita o di morte,” in particolare per Paesi come la Siria, la Libia, l’Egitto e l’Iran, prima di aggiungere con disinvoltura una frase rivelatrice: “Può darsi che questa sia stata l’ipotesi per i palestinesi – ma, per nostra fortuna, essi sono troppo deboli per sconfiggerci.”

Il colonialismo è sempre una “questione di vita o di morte” per i colonizzati – e Amos Oz lo sapeva.

Proteggere Israele dalle critiche all’estero

Nonostante la sua fama di detrattore delle azioni del governo israeliano, Amos Oz ha giocato un ruolo importante nella giustificazione dei crimini di guerra di Israele sulla scena internazionale.

Come ricorda un necrologio a lui dedicato, durante l’invasione del Libano e l’annientamento delle due Intifada palestinesi da parte di Israele, quest’ultimo “aveva bisogno di voci per parlare al mondo esterno e mostrare un volto più altruistico di quello di Ariel Sharon.” Tre settimane dopo l’inizio della Seconda Intifada, quando erano già stati uccisi circa 90 palestinesi, Amos Oz è servito in questo modo di un articolo sul Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndtr.] per attaccare “il popolo palestinese”, definendolo “soffocato e avvelenato da un odio cieco.”

In seguito, durante l’assalto devastante di Israele contro la Striscia di Gaza nel 2014, Amos Oz si è affrettato a condividere le frasi fatte promosse dal suo governo presso i media internazionali: “Cosa fareste voi se il vostro vicino di fronte si sedesse sul balcone, mettesse il suo ragazzino sulle ginocchia e cominciasse a sparare con una mitragliatrice contro la stanza del vostro bambino?”

Amos Oz ha anche respinto i tentativi, anche modesti, intesi a chiedere conto a Israele: nel 2010 ha scritto insieme ad altri una lettera per opporsi alla petizione, formulata da studenti ebrei e palestinesi presso l’università californiana di Berkeley affinché essa cessasse gli investimenti in due imprese di armamenti che avevano come cliente l’esercito israeliano. Amos Oz ha anche accusato di antisemitismo la mozione per il disinvestimento.

Un argomento noto

Di fatto Amos Oz ha creduto e ribadito un buon numero di argomenti anti-palestinesi avanzati dai governi israeliani che si sono succeduti e dalla destra nazionalista del Paese. In una postfazione del 1993 al suo libro “In terra di Israele” Oz ha denunciato “il movimento nazionale palestinese (…) come uno dei movimenti nazionalisti più estremisti e intransigenti della nostra epoca,” che è stato causa della miseria “del suo stesso popolo.”

Nella medesima postfazione Amos Oz ha respinto le affermazioni palestinesi secondo le quali il sionismo sarebbe un “fenomeno colonialista”, scrivendo con involontaria ironia: “I primi sionisti arrivati in terra d’Israele alla fine del secolo non avevano niente da colonizzarvi.” Nel 2013 Oz ha dichiarato: “Gli membri dei kibbutz non volevano impadronirsi della terra di nessuno. Si sono deliberatamente installati negli spazi vuoti del Paese, nelle zone interne e disabitate, dove non viveva nessuno.”

In un editoriale del 2015 lo scrittore israeliano ha espresso il proprio orrore di fronte all’idea di una maggioranza palestinese all’interno di un unico Stato democratico: “Iniziamo con una questione di vita o di morte. Se non ci sono due Stati, ce ne sarà uno. Se ce ne sarà uno, sarà arabo. Se sarà arabo, è impossibile prevedere la sorte dei nostri figli e dei loro.”

Molto è stato detto sul l’“itinerario” politico di Amos Oz, a partire dalla sua infanzia in una famiglia di sionisti revisionisti [nazionalisti di destra, ndtr.]. Tuttavia il suo rifiuto di una soluzione sulla base di uno Stato unico ricorda le parole del dirigente revisionista Vladimir Jabotinsky, che affermava: “Il nome della malattia è minoranza, il nome della cura è maggioranza.”

Colonialismo di insediamento

L’immagine politica di Amos Oz in Occidente non si limita alla vita e al lavoro di un solo uomo. Deriva anche anche dal romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sulla realtà degli accordi di Oslo e del processo di pace promosso dagli USA. Soprattutto, forse, è collegata al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina e alla tenace forza della mitologia sionista.

Un recente articolo del New York Times [principale quotidiano statunitense, ndtr.] sulla vita di Amos Oz afferma che Israele è “nato da un sogno, da un desiderio” e descrive Oz come “per molti aspetti, il perfetto nuovo ebreo che il sionismo aveva sperato di creare. Adolescente ha lasciato da solo Gerusalemme (…) e si è insediato in un kibbutz, una delle comunità agricole socialiste in cui gli israeliani hanno realizzato i propri sogni più radicati: coltivare se stessi e la terra in modo da diventare robusti e generosi.” (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]).

Il colonialismo di insediamento è sempre stato sinonimo di incremento della soggettività del colono e di eliminazione brutale del colonizzato. La storia del movimento sionista in Palestina non è diversa.

Così la Palestina non era presentata come un luogo nel tempo, con la propria storia, i propri costumi, i propri popoli e le proprie narrazioni, ma piuttosto come un ambiente favorevole alla realizzazione della visione di “restaurazione” dei coloni. I palestinesi non erano presentati come individui reali, vivi, ma come dei buoni selvaggi, dei barbari e dei fanatici religiosi.

Come ha dichiarato il regista israeliano Udi Aloni, “la sinistra ebraica israeliana (…) non considera i palestinesi come soggetti della lotta, non vede che se stessa.”

Dans une critique cinglante du livre d’Amos Oz, Dear Zealots, publié en 2017, l’ancien président de la Knesset Avraham Burg a décrit Oz comme « un partisan fanatique de la partition, qui piétine tout sur son passage pour parvenir à sa solution surannée [à deux États] ». Pour Amos Oz, « un seul État arabe est inconcevable » ; ses « opinions des Arabes, qui affleurent ici et là, ne sont pas vraiment flatteuses ». Comme l’a résumé Burg : « Il y a beaucoup de questions, et ce petit livre d’Amos Oz n’offre aucune solution. »

In una sferzante critica al libro di Amos Oz Cari fanatici [Feltrinelli, Milano, 2017, ndtr.], pubblicato nel 2017, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg ha descritto Oz come “un sostenitore fanatico della spartizione, che lungo il suo passaggio calpesta tutto per raggiungere la propria soluzione ormai superata (a due Stati).” Per Amos Oz “uno Stato unico arabo è inconcepibile”; le sue “opinioni sugli arabi, che affiorano qua e là, non sono davvero lusinghiere.” Come ha riassunto Burg: “Ci sono numerosi problemi, e questo libriccino di Amos Oz non offre alcuna soluzione.”

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Eye e i suoi articoli sono stati pubblicati anche da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, e nella rubrica del “The Guardian” “Comment for Free” [Commento gratis] ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Nel 2018 finalmente è caduta la maschera di Israele

Gideon Levy

1 gennaio 2018, Middle East Eye

Avendo consolidato dal punto di vista legislativo la sua natura di apartheid, Israele ha creato la copertura giuridica per l’annessione formale dei territori occupati al di là delle frontiere riconosciute dello Stato

Il 2018 non è stato un buon anno per Israele. Ovviamente per i palestinesi è stato persino peggiore.

In apparenza non è stato un anno particolarmente drammatico – solo un po’ più del solito, senza nuove guerre significative e senza molto spargimento di sangue, se confrontato con gli anni precedenti. Le cose sembrano bloccate. L’occupazione è continuata senza ostacoli, come l’impresa di colonizzazione. Gaza ha cercato di resistere energicamente da dentro la sua miserabile gabbia, facendo uso delle sue misere e limitate forze.

Il mondo ha distolto gli occhi dall’occupazione, come ha fatto solitamente negli ultimi anni, e si è concentrato totalmente su altre cose.

Gli israeliani, come il resto del mondo, non si sono interessati dell’occupazione, come ormai hanno fatto da decenni. Hanno silenziosamente continuato con la loro vita quotidiana ed è buona, prospera. L’obiettivo dell’attuale governo – il più di destra, religioso e nazionalista nella storia di Israele – di conservare lo status quo in ogni modo è stato totalmente raggiunto. Non è successo niente che interferisse con la cinquantennale dura occupazione.

Verso un’annessione formale

Tuttavia sarebbe un grave errore pensare che ogni cosa sia rimasta uguale. Non c’è nessuno status quo riguardo all’occupazione o all’apartheid, anche se a volte così sembra.

Il 2018 è stato l’anno in cui è stata predisposta l’infrastruttura giuridica per quello che sta per avvenire. Un passo alla volta, con una legge dopo l’altra, sono state poste le fondamenta della legislazione per una situazione che esiste già in pratica da molto tempo. Poche proposte di legge hanno provocato una discussione, a volte persino con un dissenso chiassoso – ma anche questo non ha lasciato traccia.

Sarebbe un errore occuparsi separatamente di ogni iniziativa legislativa, per quanto drastica e antidemocratica. Ognuna è parte di una sequenza calcolata, funesta e pericolosa. Il suo obiettivo: l’annessione formale dei territori, iniziando dall’Area C [più del 60% della Cisgiordania, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.]

Finora le fondamenta pratiche sono state poste sul terreno. La Linea Verde è stata cancellata molto tempo fa, i territori sono stati annessi di fatto. Ma ciò non è sufficiente per la Destra, che ha deciso che dovessero essere prese iniziative giuridiche e legislative per rendere permanente l’occupazione.

Prima hanno costruito colonie, in cui ora risiedono più di 700.000 ebrei, compresa Gerusalemme est, per creare una situazione irreversibile nei territori. Questa impresa è stata completata, e la vittoria dei coloni e dei loro sostenitori è chiara ed inequivocabile. Lo scopo delle colonie – sventare ogni prospettiva di fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967 ed eliminare dalle trattative una soluzione dei due Stati – è stato pienamente raggiunto: hanno vinto. Ora, vogliono che questa situazione irrevocabile debba essere anche inserita nella legge, per neutralizzare l’opposizione all’annessione.

Contrastare l’opposizione

Questo è il principale obiettivo di ogni legge discriminatoria e nazionalista approvata nel 2018 dalla ventesima Knesset [parlamento, ndtr.] israeliana. Ognuna di esse intende contrastare ciò che resta dell’opposizione all’annessione dei territori.

Ci si aspettava una resistenza da parte del sistema giuridico israeliano e anche dai piccoli e rinsecchiti resti della sinistra nella società civile. Contro entrambi è stata dichiarata una guerra per indebolirli e sconfiggerli una volta per tutte, mentre ci avviciniamo all’annessione. Fino a quel momento, e se questa tendenza continuerà nel prossimo governo, non ci sarà nessuna ulteriore resistenza significativa nella società civile, e Israele potrà continuare a mettere a punto il suo nuovo regime.

L’apartheid è stata istituita nei territori da molto tempo e ora sarà anche nelle leggi. Quelli che negano che ci sia un’apartheid israeliana – i propagandisti pro-sionisti che affermano che, a differenza del Sud Africa, in Israele non ci sono leggi razziste o una discriminazione istituzionalizzata dal punto di vista legislativo – non saranno più in grado di diffondere i loro argomenti privi di fondamento.

Alcune delle leggi approvate quest’anno e quelle in via di approvazione, minano l’affermazione che Israele sia una democrazia egualitaria. Eppure tali norme hanno anche un aspetto positivo: queste leggi e quelle che arriveranno strapperanno la maschera e una delle più lunghe finzioni nella storia finalmente avrà termine. Israele non sarà più in grado di continuare a definirsi una democrazia – “l’unica del Medio Oriente”.

Con leggi come queste non sarà in grado di smentire l’etichetta di apartheid. Il prediletto dell’Occidente svelerà il suo vero volto: non democratico, non egualitario, non l’unico in Medio Oriente. Non è più possibile fingere.

L’apparenza dell’uguaglianza

È vero che una delle prime leggi mai adottate in Israele – e forse la più importante e funesta di tutte, la Legge del Ritorno, approvata nel 1950 –ha segnato molto tempo fa la direzione nella maniera più chiara possibile: Israele sarebbe stato uno Stato che privilegia un gruppo etnico sugli altri. La Legge del Ritorno era rivolta solo agli ebrei.

Ma la parvenza di uguaglianza in qualche modo ha resistito. Neppure i lunghi anni di occupazione l’hanno alterata: Israele ha sostenuto che l’occupazione era temporanea, che la sua fine era imminente e non faceva quindi parte dello Stato egualitario e democratico che era stato così orgogliosamente fondato. Ma dopo i primi 50 anni di occupazione, e con la massa critica di cittadini ebrei che sono andati a vivere nei territori occupati su terre rubate ai palestinesi, l’affermazione riguardo alla sua provvisorietà non avrebbe più potuto essere presa sul serio.

Fino a poco tempo fa i tentativi di Israele erano soprattutto diretti a fondare ed allargare le colonie, reprimendo al contempo la resistenza dei palestinesi all’occupazione e rendendo il più possibile penose le loro vite, nella speranza che ne traessero le necessarie conclusioni: alzarsi e andarsene dal Paese che era stato il loro. Nel 2018 fulcro di questi sforzi è passato al contesto giuridico.

La più importante è la legge dello Stato-Nazione, approvata in luglio. Dopo la Legge del Ritorno, che automaticamente consente a qualunque ebreo di immigrare in Israele e una legislazione che consente al Fondo Nazionale Ebraico di vendere terra solo agli ebrei, la legge dello Stato-Nazione è diventata la prima della lista per lo Stato di apartheid che sta arrivando. Essa conferisce formalmente uno status privilegiato agli ebrei, anche alla loro lingua e ai loro insediamenti, rispetto ai diritti dei nativi arabi. Non contiene nessun riferimento all’uguaglianza, in uno Stato in cui in ogni caso non ce n’è affatto.

Contemporaneamente la Knesset ha approvato qualche altra legge ed ha iniziato alcune ulteriori misure nella stessa ottica.

Prendere di mira i sostenitori del BDS

In luglio è stato approvato un emendamento alla legge sull’educazione pubblica. In Israele è chiamata la legge di “Breaking the Silence” [“Rompere il silenzio”, associazione di militari ed ex militari che denuncia quanto avviene nei territori occupati, ndtr.], perché il suo vero proposito è impedire alle organizzazioni di sinistra di entrare nelle scuole israeliane per parlare agli studenti. Ha come scopo spezzare la resistenza all’annessione.

Allo stesso modo un emendamento alla legge sul boicottaggio, che consente di intraprendere un’azione legale contro israeliani che abbiano appoggiato pubblicamente il movimento Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), renderà possibile intentare una causa per danni contro sostenitori del boicottaggio, anche senza dover dimostrare un danno economico.

Un altro governo di destra come questo e sarà vietato appoggiare il boicottaggio in Israele, punto. Quindi verrà vietato anche criticare i soldati israeliani o il loro ingiusto comportamento nei territori. Proposte di legge come queste stanno già circolando e il loro giorno arriverà piuttosto rapidamente.

Un’altra legge approvata quest’anno trasferisce i ricorsi da parte di palestinesi contro gli abusi dell’occupazione dalla Corte Suprema Israeliana, che comunque non gli è poi stata così d’aiuto, al tribunale distrettuale di Gerusalemme, dove ci si aspetta che riceveranno un sostegno legale ancora minore.

Una legge per espellere le famiglie di terroristi ha superato la prima lettura alla Kensset, contro il parere della procura generale; consentirà punizioni collettive nei territori, solo per gli arabi. Stanno anche discutendo della pena di morte per i terroristi.

Ed è stata approvata anche la legge sugli accordi, che legalizza decine di avamposti delle colonie che sono illegali persino secondo il governo israeliano. Solo la legge sulla lealtà culturale, il livello legislativo più basso, che intende imporre la fedeltà verso lo Stato come precondizione per ottenere finanziamenti governativi a istituzioni culturali e artistiche, per il momento è stata congelata – ma non per sempre.

Copertura legale

Le leggi approvate quest’anno non devono essere viste solo come norme antidemocratiche che compromettono la democrazia in Israele, come la situazione viene di solito descritta dai circoli progressisti in Israele. Sono pensate per fare qualcosa di molto più pericoloso. Non intendono solo minare la fittizia democrazia, per imporre ulteriori discriminazioni contro i cittadini palestinesi di Israele e trasformarli per legge in cittadini di seconda classe. Il loro vero scopo è fornire una copertura legale per l’atto di annessione formale dei territori oltre i confini riconosciuti dello Stato di Israele.

Nel 2018 Israele si è avvicinato alla realizzazione di questi obiettivi. La calma relativa che è prevalsa nel Paese è ingannevole. Sta iniziando lo Stato di apartheid di diritto, non solo di fatto.

– Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy ha iniziato a collaborare con Haaretz nel 1982, ed è stato per quattro anni vice-direttore del giornale. Nel 2015 è stato insignito dell’Olof Palme human rights [premio Olof Palme per i diritti umani] e destinatario dell’Euro-Med Journalist Prize [Premio per il Giornalista Euro-mediterraneo] del 2008; del Leipzig Freedom Prize [Premio Leipzig per la Libertà] nel 2001; dell’ Israeli Journalists’ Union Prize [Premio dell’Unione dei Giornalisti Israeliani] nel 1997; dell’ Association of Human Rights in Israel Award [Premio dell’Associazione per i Diritti Umani in Israele] nel 1996. Il suo libro The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza] è stato pubblicato da Verso nel 2010.

Le opinioni espresso in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’IDF non indaga sulle morti di palestinesi ma le insabbia

Hagai El-Ad

1 gennaio 2019, + 972

L’esercito israeliano vorrebbe condurre indagini sui palestinesi che uccide o ferisce. L’unico problema? Non è in grado di farlo seriamente.

Poco più di un anno fa, l’ultimo giorno dell’ottobre 2017, Muhammad Musa e sua sorella Latifah stavano viaggiando verso Ramallah per fare delle commissioni. Poco dopo che si erano filmati in un corto video lungo il percorso, alcuni soldati aprivano il fuoco contro la loro auto nei pressi dell’incrocio di Halamish. Latifah rimaneva ferita, Muhammad ucciso. Lui aveva 26 anni.

L’inchiesta di B’Tselem sulla sua uccisione è stata resa pubblica circa 5 settimane dopo e includeva una serie di racconti di testimoni oculari come dichiarazioni di paramedici che erano arrivati sul posto. Uno di questi testimoni, Muhammad Nafe’a, è stato identificato con nome e cognome, foto, indirizzo e occupazione.

Eppure circa sei mesi dopo, nel maggio 2018, la “Military Police Investigations Unit” [Unità Investigativa della Polizia Militare] (MPIU) stranamente ha scritto a B’Tselem che sarebbe stata molto grata “di avere le informazioni personali complete di Muhammad Nafe’a per contattarlo e per fare in modo che rilasciasse la sua dichiarazione in materia.”

Benvenuti nell’universo parallelo noto come “inchieste della MPIU”. In questo universo le “inchieste” procedono alla velocità della luce e l’esercito – che controlla totalmente la Cisgiordania e non ha molti problemi ad avere nelle sue mani i palestinesi – agisce come se non potesse individuare un testimone senza l’assistenza di un’organizzazione per i diritti umani, persino quando i suoi dati sono a disposizione di chiunque, insieme al resto delle prove di un’inchiesta indipendente resa pubblica da molto tempo.

Se questa fosse una commedia, la goffaggine e l’assurdità di tutto ciò sarebbero veramente divertenti. Ma questa è realtà, non teatro. Fare indagini sulle uccisioni è estremamente importante, sia in termini di giustizia per le vittime che per evitare il ripetersi di altri incidenti.

La penosa esibizione nell’”inchiesta” sull’uccisione di Muhammad Musa non è un’eccezione – è parte di una politica di lunga data di un sistema di applicazione delle leggi militari che colpisce centinaia, se non più, di casi di uccisioni, ferimenti e violenze. La vasta esperienza acquisita da B’Tselem nel corso di decenni, mentre cercava di promuovere l’assunzione di responsabilità, ha dimostrato che il sistema non ha nessun interesse reale nel promuovere indagini e nel rendere giustizia alle vittime. Il suo principale obiettivo è creare l’apparenza di un sistema giudiziario funzionante, mentre in realtà insabbia i reati e protegge quelli che provocano danni senza giustificazione.

Ecco i dati: dall’inizio della Seconda Intifada, alla fine del 2000, fino al 2015 B’Tselem ha chiesto alla MPIU di aprire un’inchiesta su 739 casi in cui soldati hanno ucciso o in qualche modo danneggiato palestinesi. Il 97% di questi casi sono stati chiusi sia dopo che è stata condotta un’“inchiesta”, sia persino senza che fosse neppure iniziata. Solo in 25 casi sono stati presentati capi d’accusa. Il numero di sentenze è naturalmente persino molto più basso. Inutile dire che quasi nessuno è stato ritenuto colpevole.

Questi dati sono il risultato diretto del modo in cui funziona il sistema. In primo luogo, esso è inaccessibile ai palestinesi che presentano una denuncia – le vittime che si suppone protegga. In secondo luogo, le indagini si trascinano per mesi, persino per anni, e sono quasi esclusivamente basate su interrogatori con i sospetti e in qualche caso con le vittime, invece che su prove esterne. Senza prove la Procura Militare per le Questioni Operative, che riceve le pratiche delle inchieste, può chiuderle proprio per questa ragione.

La Procura Generale militare, che è incaricata sia di dare indicazioni all’esercito in merito alla legalità delle sue azioni e direttive, sia di decidere se iniziare un’indagine sugli incidenti scaturiti da quelle stesse azioni e direttive, si trova in un conflitto di interessi. Come se non bastasse, l’intero sistema si limita a verificare la condotta dei soldati sul terreno invece di quella degli alti ufficiali e dei decisori politici. In queste circostanze la sua idoneità a fare realmente giustizia è estremamente ridotta.

Circa due anni e mezzo fa B’Tselem ha deciso di smettere di chiedere all’esercito israeliano di aprire inchieste e di essere complice degli insabbiamenti della MPIU. Da allora l’organizzazione ha continuato a condurre indagini indipendenti sui casi in cui le forze di sicurezza colpiscono palestinesi ed ha fatto inchieste sulla maggior parte degli incidenti in cui civili palestinesi sono stati uccisi. B’Tselem non contatta più la MPIU, ma rende noti i propri risultati all’opinione pubblica, come per la morte di Muhammad Musa e di centinaia di persone come lui.

Benché la posizione di B’Tselem sia pubblica e ben nota, i funzionari della MPIU occasionalmente inviano ancora all’organizzazione ogni sorta di richieste riguardanti loro “indagini”. A volte chiedono informazioni che sono già state rese pubbliche, altre volte chiedono di aiutarli a trovare testimoni che l’esercito non ha nessuna difficoltà a trovare, e così via.

B’Tselem ha ricevuto simili richieste riguardanti l’uccisione di Ahmad Zidani, un palestinese diciassettenne che è stato ucciso dalle forze di sicurezza mentre stava scappando da loro; o di Ali Qinu, anche lui di 17 anni, che è stato colpito alla testa dai soldati; o di Ahmad Salim, 28 anni, colpito a morte in testa; o di Muhammad Musa.

Recentemente B’Tselem ha ricevuto un’altra lettera dalla MPIU relativa a quello che questa definisce “le circostanze della morte di Muhammad Habali,” un palestinese con problemi mentali che è stato colpito alla testa da soldati all’inizio di dicembre. I soldati hanno sparato da una distanza di circa 80 metri mentre Habali si stava allontanando di corsa da loro; non rappresentava un pericolo. Nella lettera l’investigatore della MPIU afferma che condurrà un’”inchiesta approfondita”, e chiede le riprese video e le informazioni per prendere contatto con un testimone. B’Tselem ha già messo in rete le riprese video inedite complete. La ripetuta richiesta della MPIU di informazioni per avere dati personali la dice lunga sulla vera natura delle sue inchieste.

Ed ecco la risposta che B’Tselem ha inviato al comandante della MPIU col. Gil Mamon:

Nella sua lettera lei ci ha contattato riguardo all’‘avvenimento riguardante la morte di Muahammad Habali’ a Tulkarem il 4 dicembre 2018.

A quanto pare la carta non arrossisce. Tuttavia, dato che lei si è superato, è necessario mettere le cose in chiaro e precisare che quello a cui lei si riferisce come la ‘circostanza della morte’ è stata l’uccisione da lontano di un passante da parte di un soldato.

Inoltre nella sua lettera lei sottolinea che ha intenzione di condurre un’‘inchiesta approfondita’ per ‘scoprire la verità’. Tuttavia, dati i nostri anni di esperienza con il meccanismo di insabbiamento denominato MPIU, la prima parte non è vera, e la seconda non avverrà.

Per inciso, notiamo che, contrariamente al modo in cui nella sua lettera ha scritto il nome dell’organizzazione, non si tratta di un acronimo. Il nostro nome è una parola biblica, B’Tselem, ‘nell’immagine di’. Vedi Genesi 1:27: ‘E dio creò l’uomo a sua immagine. Nell’immagine di dio lo creò.’”

B’Tselem è impegnata a continuare il suo lavoro indipendente documentando le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza nei territori occupati e la mancanza dell’obbligo di rendere conto di questi atti da parte delle autorità dello Stato. L’organizzazione tuttavia continuerà il suo lavoro senza il sistema di applicazione delle leggi militari, che perpetua questa violenza sul terreno. Collaborare con questo inganno non è solo semplicemente inutile, ma è dannoso, in quanto conferisce credibilità a un sistema che dovrebbe essere condannato, consentendogli di continuare a legittimare violazioni dei diritti umani.

Non si tratta solo di una questione teorica. La totale mancanza di responsabilizzazione per l’uccisione e la violenza significa che esse verranno sicuramente ripetute. È per questo che B’Tselem continuerà a fare indagini, a renderle pubbliche e a svelare la verità riguardo all’insabbiamento della cosiddetta applicazione della legge – finché l’occupazione non avrà termine.

L’autore è il direttore esecutivo di B’Tselem, il Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [Chiamata Locale, sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




La Betlemme dell’immaginario cristiano occidentale contrasta fortemente con la realtà dell’occupazione

Ghada Karmi

26 dicembre 2018, Middle East Eye

Presunto luogo di nascita di Gesù Cristo, Betlemme occupa un posto centrale nella fede cristiana. Eppure sono molti i fedeli che ignorano che questa città si trova in Palestina e che è soggetta alla spietata occupazione di Israele

O little town of Bethlehem/How still we see thee lie/Above thy deep and dreamless sleep/The silent stars go by” (“Oh, piccola città di Betlemme/Dormi tranquillamente/Al di sopra del tuo sonno profondo e senza sogni/ passano le stelle silenziose”), intona il celebre canto natalizio anglosassone. La vigilia di Natale, la messa di mezzanotte ha risuonato nella chiesa della Natività a Betlemme, secondo la leggenda luogo di nascita di Gesù Cristo, che proclamò che avrebbe portato “la pace agli uomini sulla Terra”.

La vera Betlemme

Niente è più lontano dalla verità dell’immagine di una Betlemme calma e tranquilla trasmessa da questo canto di Natale scaturito dalla pia immaginazione di un cristiano occidentale dell’epoca vittoriana. Generazioni di bambini cristiani l’hanno imparata e il suo potere mitico è tale per cui pochi tra loro sanno dove si trovi Betlemme e quale sia la vera situazione.

Recentemente un’amica inglese molto colta che conosco da anni è rimasta sorpresa di sapere che Betlemme si trova in Palestina. Nella sua mente la città era più una leggenda che un luogo reale e, se avesse dovuto associarla a una comunità, sarebbe stato a quella ebraica.

Ora, la città che ho visto durante una visita in Palestina all’inizio dell’anno era un simulacro del luogo evocato da questo canto di Natale e una messa in discussione senza appello del cristianesimo occidentale per avere vilmente fallito nel sostenere uno dei suoi santuari più sacri. Nella Betlemme di oggi, il sonno “senza sogni” sembra piuttosto un incubo, e la città non potrà essere “calma” che quando finirà l’occupazione israeliana.

Il vandalismo brutale di Israele

Betlemme ed i villaggi che la circondano, Beit Jala e Beit Sahour, figurano tradizionalmente tra i luoghi più cristiani della Palestina, anche se oggi Betlemme è abitata da una maggioranza di musulmani.

Prima dell’occupazione israeliana del 1967 la città era un importante centro sociale, culturale ed economico, così come uno dei luoghi più antichi della Palestina. Il suo nome, Beit Lahem (Casa di Lahem) risale all’epoca cananea [dalla popolazione che visse in Palestina prima degli ebrei, ndtr.], quando ospitava il santuario del dio cananeo Lahem.

L’architettura di Betlemme testimonia della sua ricca storia. Al periodo romano e poi bizantino, al quale risale la costruzione nel 327 della chiesa della Natività da parte dell’imperatrice Elena sopra la grotta dove sarebbe nato Gesù, fecero seguito le conquiste musulmane nel 637, l’occupazione dei crociati nel 1099 fino alla riconquista della Palestina da parte del Saladino nel 1187, poi all’inizio del XVI secolo la dominazione degli ottomani, che costruirono i bastioni della città, fino al Mandato britannico dal 1922 al 1948.

Nel 1967 Israele occupò Betlemme e il resto della Cisgiordania durante la guerra dei Sei Giorni e nel 1995, in seguito agli accordi di Oslo, la città venne trasferita all’Autorità Nazionale Palestinese, anche se rimase sotto il complessivo controllo di Israele. Nessuno dei periodi storici che hanno preceduto l’occupazione israeliana ha avuto un livello di vandalismo e di distruzioni simile a quello che avviene attualmente.

Mentre percorrevo in auto i 9 km che separano Gerusalemme da Betlemme ho sbagliato strada e mi sono ritrovata su un’autostrada moderna dove non si vedeva nessun automobilista palestinese. Ero finita per caso su una circonvallazione riservata agli ebrei, una delle due che circondano Betlemme per servire le colonie dei dintorni.

Ho subito capito lo scopo dell’operazione: affermare che nella regione vivono solo gli ebrei.

Un luogo triste

Ventidue colonie israeliane circondano Betlemme, tagliando le sue uscite e confiscando le sue terre agricole. Dominando le colline attorno, queste colonie ospitano più abitanti di tutta Betlemme e dei suoi dintorni. A nord si trova Har Homa, una colonia costruita nel 2000 su una collina una volta densamente ricoperta di boschi, Jabal Abu Ghneim.

Israele ha sradicato gli alberi di Jabal Abu Ghneim e li ha sostituiti con delle case monotone, tutte identiche, minacciando inoltre di trasformare il luogo in una copia di Betlemme per turisti. Nokidim, a est, è l’attuale luogo di residenza dell’ex-ministro della Difesa israeliano, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman.

Dal 2015 Israele ha chiuso l’accesso alla fertile valle di Betlemme, Cremisan, ai suoi proprietari palestinesi, e lo scorso giugno ha annunciato uno sviluppo massiccio delle colonie situate lungo la strada che unisce Gerusalemme a Betlemme.

La tomba di Rachele, monumento storico di Betlemme sulla strada principale che porta a Gerusalemme e zona tradizionalmente animata da negozi e ristoranti, ora è riservata esclusivamente agli ebrei e il suo acceso è impedito ai palestinesi dal muro di separazione.

I fedeli musulmani che venerano la tomba (e che l’hanno costruita) non possono più andarci. È un luogo triste, deserto, senza vita. All’ombra del muro la maggior parte dei negozi ha chiuso le porte e, man mano che il cerchio di stringe attorno a Betlemme, presto non ne resterà più nessuno.

L’implacabile penetrazione di Israele nel cuore di Betlemme è senza appello. La città è deliberatamente isolata dietro l’impressionante barriera di separazione, circondata da posti di controllo, e la sua economia è strangolata. Una volta la sua principale risorsa era il turismo, che richiamava due milioni di visitatori all’anno e vantava un prospero mercato di souvenir, soprattutto di sculture di legno d’ulivo e di madreperla fatte a mano.

Era anche una ricca regione agricola, dotata di una prospera industria vinicola. Oggi la maggior parte delle sue terre è stata confiscata da Israele e le restrizioni draconiane imposte dalle autorità israeliane agli spostamenti verso e da Betlemme hanno notevolmente ridotto il numero di turisti e di pellegrini.

Attualmente, con una popolazione di 220.000 abitanti, di cui 20.000 rifugiati, Betlemme ha il tasso di disoccupazione più alto dei territori palestinesi occupati, subito dopo Gaza.

Salvare Betlemme

Durante il mio ultimo soggiorno a Betlemme sono andata all’hotel Walled Off, all’entrata di Betlemme. Lì ho vissuto un’esperienza impressionante dell’occupazione israeliana. L’hotel in effetti è un’installazione creata dall’artista britannico Banksy per mettere in luce la tragica sorte di Betlemme.

L’unica vista che si possa contemplare dalle finestre dell’hotel è quella dell’orrendo muro costruito da Israele, le cui immense lastre grigie non sono che a qualche metro. Sporgendosi in avanti si possono quasi toccare. Mi ricordo di come le sue sinistre torri di guardia e le sue telecamere di sorveglianza mi abbiano oppressa. Era una scena uscita direttamente da un film dell’orrore.

Per ora, e nonostante le delegazioni della Chiesa, le visite papali e le pubbliche espressioni di preoccupazione, niente di quanto hanno fatto i cristiani ha frenato o arrestato la distruzione da parte di Israele di una città particolarmente sacra per la cristianità. E allora, se non possono fare niente per salvare Betlemme, smettano almeno di intonare un canto che si prende gioco della triste realtà della città.

– Ghada Karmi è medico, docente universitaria e scrittrice palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Una questione che ogni americano deve affrontare: apartheid israeliana o democrazia USA?

Ramzy Baroud

25 dicembre 2018, Middle East Monitor

Bahia Amawai è una cittadina statunitense e una logopedista texana che aiuta bambini autistici e non udenti a superare la loro disabilità.

Nonostante la fondamentale e nobile natura del suo lavoro, è stata licenziata dal distretto scolastico indipendente di Pflugerville, che fornisce servizi nella zona di Austin.

Ogni anno Amawai firma un contratto annuale che le consente di svolgere la propria attività senza interruzioni. Tuttavia quest’anno qualcosa è cambiato.

Incredibilmente il distretto scolastico ha deciso di aggiungere al contratto una clausola che chiede agli insegnanti e ad altri dipendenti di impegnarsi a non boicottare Israele “per tutta la durata del loro contratto.”

L’“impegno” ora è parte della sezione 2270.001 del codice del governo del Texas ed è stabilito nel contratto con una formulazione chiara, in modo che chi desidera lavorare o continuare a conservare un impiego con il governo del Texas non trovi alcuna scappatoia per evitare di essere penalizzato:

“‘Boicottare Israele’ significa rifiutarsi di aver a che fare con, interrompere attività economiche con o comunque prendere qualunque iniziativa che intenda penalizzare, infliggere un danno economico o limitare i rapporti commerciali espressamente con Israele o con una persona o un ente che faccia affari in Israele o nel territorio controllato da Israele…”

Il fatto che il Texas consideri inaccettabile persino il boicottaggio di attività economiche che avvengono nelle colonie ebraiche illegali nella Cisgiordania occupata lo mette in contrasto con le leggi internazionali e di conseguenza con la grande maggioranza della comunità internazionale.

Ma non esprimiamo subito un giudizio affrettato, condannando il Texas per essere l’infame e stereotipato “selvaggio West”, come dipinto persino negli stessi mezzi di comunicazione degli Stati Uniti. Infatti il Texas non è che una piccola parte di una massiccia campagna governativa americana intesa a soffocare la libertà di parola come sancita dalla stessa costituzione del Paese.

Venticinque Stati degli USA hanno già approvato leggi contro il boicottaggio di Israele o hanno emesso decreti che prendono di mira le reti di appoggio al boicottaggio, mentre altri Stati stanno per seguirne l’esempio.

A livello del governo federale, la legge contro il boicottaggio di Israele del Congresso, accolta con entusiasmo dai parlamentari USA, intende sanzionare e incarcerare chi boicotta Israele.

Mentre c’è una forte opposizione della società civile contro così evidenti violazioni dei principi basilari della libertà di parola, quelli che fanno campagna a favore di Israele sono impazziti.

Il Texas – che ha approvato e messo in pratica leggi che criminalizzano l’appoggio al boicottaggio di Israele, come sostenuto dal movimento della società civile palestinese per il Boicottaggio il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) – continua a indicare la strada ad altri Stati.

Nella città texana di Dickinson, che lo scorso anno è stata devastata dall’uragano Harvey, alle vittime dell’uragano è stato chiesto di firmare un impegno a non boicottare Israele in cambio di aiuti umanitari di primo soccorso.

Per gli abitanti sfollati della città dev’essere stato assolutamente sconcertante apprendere che le misere provviste che stavano per ricevere dipendevano dal loro appoggio al governo di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Ma al momento questo è il triste stato della democrazia negli USA, in cui gli interessi di un Paese relativamente piccolo e lontano sono diventati il centro delle politiche del governo USA, in patria e all’estero.

I facoltosi sostenitori di Israele stanno lavorando mano nella mano con gli influenti gruppi della lobby israeliana a Washington, ma anche a livello statale e persino cittadino per fare in modo che il boicottaggio di Israele sia punibile per legge.

Molti politici USA stanno rispondendo all’insensata richiesta della lobby di criminalizzare in tutto il Paese il dissenso politico. Benché in realtà a molti di loro non interessi affatto o non comprendano neppure realmente la natura del dibattito relativo al BDS, essi sono disposti a fare uno sforzo in più (fino a violare la sacralità del loro stesso sistema democratico) per guadagnarsi il favore della lobby, o almeno per evitarne la collera.

Negli USA la campagna contro il BDS è iniziata seriamente pochi anni fa e, a differenza della strategia del BDS, ha evitato tentativi dal basso, concentrandosi invece sulla rapida creazione di un organismo ufficiale per il lavoro legale che metta sul banco degli imputati chi boicotta Israele.

Benché il linguaggio giuridico messo insieme in fretta e furia sia stato coraggiosamente sfidato e, a volte, completamente ribaltato dagli avvocati e dalle organizzazioni della società civile, la strategia israeliana è riuscita a mettere sulla difensiva i sostenitori del BDS.

Questo limitato successo può essere attribuito ai potenti amici di Israele che hanno risposto generosamente ed energicamente ai tamburi di guerra di Tel Aviv.

Il magnate del gioco d’azzardo di Las Vegas Sheldon Adelson ha impugnato le redini del comando. Ha preso l’iniziativa formando l’“Unità Operativa Maccabea”, che ha raccolto milioni di dollari per lottare contro quello che fonti ufficiali israeliane definiscono come una minaccia letale per Israele e la delegittimazione del Paese come “Stato ebraico”.

Una delle principali strategie che il campo israeliano ha proposto nella discussione è l’ingannevole nozione che il BDS chieda di boicottare gli ebrei, invece del boicottaggio di Israele in quanto Stato che viola le leggi internazionali e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite.

Un Paese che pratica il razzismo come se nulla fosse, difende la segregazione razziale e costruisce muri dell’apartheid non merita altro che il boicottaggio totale. Questo è il livello minimo di responsabilità morale, politica e giuridica, considerando che gli USA, come altri Paesi, hanno l’obbligo di onorare e rispettare le legge internazionali a questo proposito.

Tuttavia gli USA, incoraggiati dalla mancanza dell’obbligo di pagarne le conseguenze, continuano a comportarsi allo stesso modo di Paesi che Washington attacca in continuazione per il loro comportamento antidemocratico e per la violazione dei diritti umani.

Se eventi così bizzarri – il licenziamento di insegnanti e il fatto di subordinare l’aiuto in base a prese di posizione politiche – avvenissero per esempio in Cina, Washington avrebbe guidato una campagna internazionale di condanna dell’intransigenza e della violazione dei diritti umani da parte di Pechino.

Molti americani devono ancora comprendere come la sudditanza degli Stati Uniti ai voleri politici di Israele stia pregiudicando la loro vita quotidiana. Ma con sempre maggiori restrizioni legali di questo tipo, persino l’americano medio si ritroverà presto a lottare per diritti politici basilari che, come Bahia Amawai, ha sempre dato per scontati.

Sicuramente Israele può aver avuto successo nell’obbligare alcune persone a non impegnarsi apertamente nell’appoggiare il BDS, ma alla fine perderà anche questa battaglia.

Soffocare le voci della società civile raramente funziona per molto tempo, e la campagna anti-BDS, che ora è arrivata al cuore del governo USA, è destinata prima o poi a suscitare un dibattito a livello nazionale.

Difendere l’apartheid israeliana è più importante per gli americani che conservare la natura fondamentale della loro democrazia?

Questa è una domanda a cui ogni americano, indipendentemente da quello che pensa dell’apparentemente lontano conflitto mediorientale, deve rispondere, e con urgenza.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Amira Hass: perchè “La fabbrica del consenso” di Chomsky è ancora importante

Al-Jazeera – 22 dicembre 2018

La giornalista israeliana che informa su Gaza e sulla Cisgiordania condivide le sue idee su “La fabbrica del consenso” di Chomsky

Listening Post [“Postazione d’ascolto”, programma della rete televisiva Al-Jazeera] ha intervistato la giornalista israeliana Amira Hass sulla sua opinione riguardo al libro di Noam Chomsky “La fabbrica del consenso”. Hass ha passato buona parte della sua carriera professionale vivendo ed informando da Gaza e dalla Cisgiordania –una dei pochissimi giornalisti israeliani ad averlo fatto. Qui di seguito la trascrizione completa della nostra intervista con lei.

The Listening Post: “La popolazione in generale non sa cosa stia avvenendo e non sa neppure cosa non sa.” Questa è la sintesi concisa di Noam Chomsky sulla comprensione dell’opinione pubblica in generale riguardo a quali decisioni vengano prese in suo nome. Quanto le sembra vero questo oggi?

Amira Hass: È un’affermazione molto umanistica e ottimistica, la convinzione che la gente voglia avere accesso alle informazioni e con l’accesso alle informazioni possa agire, possa cambiare. Posso dire che questo tipo di approccio ha guidato molte persone come me.

In ebraico le parole comprensione, informazione e consapevolezza hanno tutte la stessa radice. È così che ho iniziato a lavorare a Gaza all’inizio degli anni ’90 ed ho scritto di Gaza, pensando che l’opinione pubblica israeliana non sapesse niente dell’occupazione e di cosa ciò significasse, della vita dei gazawi.

Mi aspettavo che i miei reportage raggiungessero altri e cambiassero la consapevolezza. Ho scoperto molto presto che non era così.

Lo stesso Noam Chomsky ha detto che quando scrive delle politiche di Israele si basa in buona misura su informazioni pubblicate dalla stampa israeliana, che non ha mai effettivamente informato sulla gravità delle politiche israeliane e della repressione.

Fino agli accordi di Oslo in Israele c’era una certa visibilità persino nei media più importanti. Ma ciò non ha cambiato la consapevolezza della gente. Ed è molto peggio oggi, quando nell’era di internet abbiamo una grande quantità di mezzi di comunicazione. Queste informazioni sono in circolazione – da parte di attivisti, organizzazioni per i diritti umani -, è tutto alla luce del sole. Ma la gente non le va a leggere. Vi hanno accesso ma scelgono di non andarle a vedere.

The Listening Post: “Chomsky ha sostenuto che normalmente i giornalisti non sono tenuti sotto controllo attraverso interventi dall’alto, ma dalla “selezione di personale che pensa quello che deve e dall’interiorizzazione, da parte dei redattori e dei giornalisti sul campo, delle priorità e delle definizioni di quello su cui vale la pena informare che sia conforme alla politica istituzionale.” Nella sua esperienza, come succede questo quando si informa sull’occupazione israeliana?

Hass: Ciò è quanto percepisce chi scrive. Ogni giornalista capisce molto rapidamente che c’è una serie di filtri mentre scrivi il tuo articolo. Possono essere problemi molto innocui come la lunghezza, il tempo, le scadenze. Hai a disposizione 300 parole. No, 400.

Ma qualcuno decide quante parole avrai per ogni argomento. Qualcuno deciderà se sarà in prima pagina o da qualche parte in fondo al giornale. O alla fine delle notizie lette alla radio o alla televisione.

Quindi, chi decide sulla gerarchia delle notizie? Cos’è importante? Cosa non lo è? Chi decide cosa sia giornalismo investigativo e cosa non lo sia?

Molto spesso mi rendo conto che se hai un’informazione ufficiale, quello viene chiamato giornalismo investigativo. Ma se tu in realtà hai informazioni direttamente dalla gente – diciamo sui pericoli di inquinamento dell’acqua a Gaza – ciò non è visto come qualcosa di serio come quando [la notizia] arriva da una fonte ufficiale.

The Listening Post: “La censura è in buona misura auto-censura” – gli inviati accettano e interiorizzano i limiti imposti dal mercato e dal potere esercitato su di loro. Ci parli di quando si è resa conto che ciò era vero e come questa consapevolezza ha influito su di lei, l’ha ispirata, l’ha frustrata.

Hass: In Israele i giornalisti non vivono ancora soggetti a una censura di Stato. C’è una censura militare ma quella non ha mai seriamente influito sul mio lavoro. Ma c’è la socializzazione. Lo si vede nei principali mezzi di comunicazione israeliani che dedicano sempre meno spazio e attenzione alla situazione dell’occupazione.

Ciò è andato peggiorando dagli accordi di Oslo. Hanno consentito alla gente di pensare che l’occupazione non esistesse. ‘Oh, ora hanno gli accordi. C’è un governo palestinese. Non c’è occupazione. Di fatto, c’è solo il terrorismo palestinese contro di noi.’ Perciò le persone hanno ancor meno interesse ad accedere a informazioni disponibili e la maggior parte dei mass media israeliani ascolta il pubblico, dà ascolto al loro desiderio di non sapere.

The Listening Post: Nel suo libro Chomsky afferma che “la ragione dell’esistenza dei mezzi di informazione è inculcare e difendere l’agenda economica, sociale e politica di gruppi privilegiati che dominano la società nazionale e lo Stato,” e lo fanno attraverso la selezione degli argomenti, la definizione dei problemi, il filtro delle informazioni e mantenendo la discussione all’interno “dei confini del consentito” nei media. Ci può parlare dello scontro con i “confini del consentito” nel contesto in cui lavora?

Hass: Sono fortunata per aver lavorato in un giornale israeliano il cui editore e proprietario è liberale nel vero senso della parola ed è anche decisamente contrario all’occupazione israeliana. Perciò ho la libertà che penso che non hanno i miei colleghi che informano su questo in altri giornali e in altri mezzi di comunicazione, che potrebbero anche essere contrari alle politiche israeliane.

Credo che, venendo dalla sinistra, dalla mia famiglia, dal mio contesto, mi sono abituata ad essere respinta. Ma ho insistito e sono anche fortunata perché c’è una comunità molto importante, non molto grande ma molto decisa, di attivisti anche israeliani contro l’occupazione e contro le politiche israeliane in generale, politiche israeliane colonialiste – forse questo è un termine migliore di occupazione.

The Listening Post: Sono passati trent’anni dalla pubblicazione di “La fabbrica del consenso”. Perché oggi è ancora importante?

Hass: Sono importanti, il libro ed il concetto sono importanti perché offrono ad ogni giornalista una sorta di faro. Sono importanti perché vediamo come nel corso degli anni i magnati hanno preso sempre più il controllo di sempre più mezzi di comunicazione, di imprese e piattaforme mediatiche.

Notizie che sono considerate degne di essere stampate non sono necessariamente quelle che sono positive per la gente e per l’opinione pubblica. Perciò il libro fa appello allo scetticismo delle persone e ciò è sempre importante. Tuttavia, come ho detto prima, oggi il problema è che la gente non è interessata a quello che non serve immediatamente ai suoi interessi. E questa è una constatazione molto triste.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Airbnb e Israele: il voltafaccia sulla presenza nelle colonie sarebbe peggio che stare zitti

Kieron Monks

Domenica 23 dicembre 2018, Middle East Eye

Il caso di Airbnb potrebbe rivelarsi uno spartiacque che potrebbe consolidare e far progredire il movimento BDS oppure renderlo di nuovo marginale

In base a standard particolarmente bassi, l’iniziale decisione di Airbnb di interrompere le attività nelle colonie illegali della Cisgiordania è sembrata lodevole. La non complicità in crimini di guerra non dovrebbe costituire un livello molto alto in termini di responsabilità sociale d’impresa, ma decine di imprese internazionali che tranquillamente fanno profitti nelle colonie non lo soddisfano.

Perciò va riconosciuto qualche merito a Airbnb per aver almeno ammesso la realtà.

Una pratica dannosa

Molta più fiducia, ovviamente, è dovuta agli attivisti e ai gruppi per i diritti umani che hanno passato anni a spiegare al colosso globale degli annunci quanto sbagliate e dannose fossero le sue attività nei territori occupati e quanto gravemente contraddicessero i valori progressisti professati dall’azienda.

Organizzazioni come Human Rights Watch (HRW) e la US Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi] (USCPR) sono state capaci di rompere la cortina fumogena di espressioni come “territorio conteso” e “status controverso”, per mostrare che le colonie sulla terra palestinese occupata non sono nient’altro che un’impresa criminale in base all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra.

Nessuna seria autorità, dalla Corte Internazionale di Giustizia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, lo mette in discussione.

La decisione di Airbnb ha coinciso con lo storico rapporto di HRW ‘Bed and Breakfast su terra rubata’, che dettagliava la provenienza oscura degli annunci messi a disposizione dei turisti, che offrono viste favolose e servizi moderni. Molti si trovano in colonie su terreni di proprietà privata palestinese che sono stati rubati da banditi armati, sia coloni che soldati.

I veri proprietari, esclusi da quelli che ora sono diventati terreni vietati, devono vedere la loro proprietà data in affitto a stranieri.  Il rapporto di HRW segnala che i profitti derivanti dagli annunci di Airbnb producono un notevole flusso di introiti che aiuta a sostenere l’impresa criminale.  

Feroce reazione violenta

Sembra ragionevole ipotizzare, come fa Michael Koplow del Forum sulla Politica di Israele, che Airbnb non sapesse veramente in che cosa si stesse cacciando con la sua avventura in una delle dispute più aspre e accese del mondo.

La successiva, feroce reazione da parte di dirigenti del governo e di gruppi di pressione statunitensi ed israeliani, comprese minacce di querela e aperte accuse di antisemitismo, era ovviamente difficile da ignorare. La notizia che i dirigenti di Airbnb avevano iniziato colloqui di controllo dei danni con il ministero israeliano del Turismo, che aveva fatto della questione un’assoluta priorità, non ha destato sorpresa.

Ma adesso l’azienda si trova messa all’angolo, e rilascia dichiarazioni contraddittorie con due discorsi diversi, il che le procura solo disprezzo da entrambe le parti. Ogni ambiguo tentativo di placare la situazione non fa che aumentare la pressione e la visibilità del caso. Al momento, gli annunci per le colonie si trovano ancora sul sito di Airbnb.

È diventato un problema gigantesco. Questo episodio, inizialmente una storica vittoria per il BDS, potrebbe però trasformarsi in una sconfitta che accelera un più ampio ridimensionamento del movimento che ha fucili puntati su di esso in termini legali negli Stati Uniti e in Europa. L’appoggio al boicottaggio di Israele viene rapidamente criminalizzato, dal ‘Decreto contro il boicottaggio di Israele’ del senatore Ben Cardin fino a leggi dei singoli Stati che obbligano i logopedisti a firmare giuramenti di fedeltà.

Mentre il movimento BDS ha conseguito straordinari risultati, quali l’entrata nel Congresso di sostenitori del BDS come Ilhan Omar e Rashida Tlaib [due parlamentari elette nelle ultime elezioni di medio termine, ndtr.], non ha mai affrontato grandi minacce.

Il caso di Airbnb potrebbe essere uno spartiacque che consolida e promuove il movimento di boicottaggio, oppure renderlo di nuovo marginale, ponendo anche un’interessante domanda strategica agli attivisti BDS, se possa valere la pena focalizzare la loro campagna sulle colonie, se è quello che può far guadagnare terreno.  

Pesante responsabilità

Ora che Airbnb è finita, forse inconsapevolmente, in mezzo a un plotone di esecuzione che la circonda, l’ impresa si è trovata con una responsabilità poco invidiabile.

Qualunque altra cinica impresa che opera in Cisgiordania può borbottare delle scuse per “non venire coinvolta in questioni politiche”, abbassare la testa e continuare a fare soldi. Ma Airbnb ha alzato la testa, ha riconosciuto i fatti e l’ingiustizia messa in luce dai promotori della campagna, ed ha affermato – anche se non esattamente con queste parole – di non voler far parte di un’impresa criminale. 

Fare marcia indietro adesso, con la completa consapevolezza della realtà dei fatti, dopo una serie di incontri segreti con dirigenti del governo israeliano, impegnati a fondo a vendere all’ingrosso crimini di guerra, e con leader della stessa criminale impresa coloniale, sarebbe molto più vergognoso delle azioni di altre aziende che operano in Cisgiordania, che non hanno mai preteso di rispondere alla propria coscienza. 

Non esiste una via d’uscita facile. Se Airbnb “sospendesse l’attuazione” della politica di disdetta, si potrebbe comunque aspettare un’altra violenta reazione da parte di gruppi per i diritti umani e di attivisti della solidarietà con la Palestina, che potrebbe mettere in luce la bancarotta morale dell’azienda ed essere in sintonia con i giovani cittadini progressisti delle aree metropolitane che costituiscono buona parte del mercato principale dell’azienda.

Airbnb deve soppesare questo rispetto alla furia e ai colpi degli apologeti delle colonie, che faranno del loro meglio per dare una punizione esemplare. Con la prospettiva di una IPO (Offerta Pubblica Iniziale, per quotarsi in borsa) attesa per l’anno prossimo, gli imperativi commerciali peseranno fortemente sul giudizio.

Quando Airbnb è stata contattata da MEE per un commento, ha rilasciato la stessa dichiarazione del 17 dicembre, che dice: “Airbnb ha espresso il suo inequivocabile rifiuto del movimento BDS ed ha comunicato il proprio impegno a sviluppare i propri affari in Israele, permettendo a più turisti da tutto il mondo di godere delle meraviglie del Paese e del suo popolo.”

Un grave biasimo

Possiamo solo sperare che vengano fatte anche altre considerazioni. Per un colosso internazionale da molti miliardi di dollari come Airbnb, dichiarare aperto sostegno a flagranti crimini di guerra e violazioni di diritti umani sarebbe un grave insulto al concetto stesso di leggi internazionali e diritti umani.

Una simile decisione darebbe legittimità all’impresa coloniale israeliana e delegittimerebbe i suoi oppositori. Comunicherebbe ai governi e agli uomini d’affari in tutto il mondo che le leggi sono un optional e le violazioni possono essere convenienti.

Spereremmo probabilmente troppo se ci aspettassimo un comportamento etico da parte di un’azienda senza priorità che vadano oltre il suo bilancio. La direzione deve provenire dal basso, così come gli attivisti e i gruppi per i diritti umani che sono stati una spina nel fianco dell’impresa coloniale, con alleanze solo transitorie e di convenienza con le potenze commerciali.

Ma se Airbnb decidesse di dare la sua approvazione ai crimini di guerra apponendo il proprio logo su proprietà rubate mentre i proprietari non hanno prospettive di giustizia, l’ impresa potrebbe almeno smettere di pretendere di avere valori degni di questo nome e tenere la bocca chiusa la prossima volta che si pone la questione.

Kieron Monks vive a Londra e scrive per testate tra cui CNN, The Guardian e Prospect Magazine, occupandosi di movimenti sociali, sport e i rapporti reciproci tra questi due ambiti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)