Netanyahu regna sovrano e la sinistra è annientata

Jonathan Cook

10 aprile 2019, Middle East Eye

Un pareggio alle elezioni non può mascherare il fatto che Israele si sia spostato radicalmente a destra – e che ogni opposizione sia annientata.

Il partito del Likud di Benjamin Netanyahu è uscito dalle elezioni israeliane di martedì alla pari con il partito Blue and White, guidato da Benny Gantz e altri generali molto potenti.

Sebbene i due partiti abbiano ognuno 35 dei 120 seggi in parlamento, Netanyahu è ora saldamente al posto di guida.

I piccoli partiti estremisti religiosi e di destra necessari a formare una maggioranza parlamentare non hanno perso tempo nel dichiarare il loro sostegno a Netanyahu. Il che gli permetterà di guidare il suo quarto governo consecutivo.

Netanyahu si gode ora il lusso di scegliere tra un governo ristretto con quei partiti di estrema destra o un governo di unità nazionale a destra che comprenda Gantz. Quest’ultima opzione potrebbe avere il controllo sui quattro quinti dei seggi nella Knesset (parlamento) israeliana.

Qualunque cosa deciderà, Netanyahu è ora nella posizione di diventare questa estate il primo ministro israeliano con il più lungo mandato, battendo il record stabilito dal padre fondatore di Israele, David Ben Gurion.

Richiesta di una legge per l’ “immunità”

L’unico ostacolo all’orizzonte – una serie di accuse di corruzione contro Netanyahu, rese pubbliche dal procuratore generale durante la campagna – è certo che verrà spazzato via una volta che Netanyahu sia stato formalmente insediato come capo del prossimo governo dal presidente israeliano Reuven Rivlin.

I partner della coalizione di Netanyahu stanno già insistendo, come condizione per il loro sostegno, sull’approvazione di una speciale legge di “immunità” che renderebbe impossibile incriminare un primo ministro in carica.

Bezalel Smotrich, dell’estremista Unione dei Partiti della Destra, ha affermato che una simile legge “darà fiducia ai membri della coalizione che il prossimo governo possa governare per un intero mandato” – poiché capiscono che Netanyahu, con il suo curriculum, è il miglior buono pasto per un piazzamento a lungo termine nel governo.

E gli stessi elettori di Netanyahu hanno dimostrato di non preoccuparsi del fatto che sia corrotto, purché continui a promuovere un programma di supremazia ebraica.

Celebrando la violenza su Gaza

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Il successo di Gantz, che ottiene lo stesso numero di seggi di Netanyahu, è impressionante, visto che presiedeva un nuovo partito la cui unica politica sembrava essere: “È ora di sbarazzarsi di Netanyahu”.

Il che dimostra come una parte significativa della società israeliana fosse stanca di un decennio di governo Netanyahu e della corruzione politica e personale che egli incarna.

Ma ha anche evidenziato la perenne venerazione degli ebrei israeliani nei confronti dell’esercito, e il desiderio di trovare soluzioni esclusivamente militari a problemi politici – non ultimo, come arrivare ad un accordo con i palestinesi e la loro pretesa di avere uno stato.

Certamente non indica, come alcuni osservatori hanno affermato, un desiderio degli ebrei israeliani per una politica di sinistra. Gantz e i suoi compagni generali non sono affatto colombe.

Dopotutto, il principale punto di forza del partito Blue and White è stata la distruzione di Gaza nel 2014 con Gantz a capo dell’esercito, in un’operazione militare che ha ucciso più di 500 bambini palestinesi.

Il crollo dell’opposizione

La vittoria di Netanyahu è sottolineata da due tendenze molto evidenti nelle elezioni, che consistono nel crollo dell’opposizione alle destre – sia tra l’elettorato ebraico, sia tra gli elettori appartenenti alla minoranza palestinese, un quinto della popolazione israeliana.

Per molti versi, il risultato più scioccante è la riduzione del Partito Laburista, che ha fondato Israele e lo ha governato per decenni, a soli sei seggi. Ciò lo trasforma in un partito marginale di interessi particolari.

Insieme ai quattro seggi del partito moderato Meretz, quello che in Israele viene comunemente chiamato “centro-sinistra” si riduce a soli 10 seggi. Secondo un recente sondaggio dell’Istituto Israeliano per la Democrazia, solo il 12% degli ebrei israeliani è ancora disposto a descriversi come di sinistra.

È difficile pensare che i laburisti si riprendano. Se questa tendenza persiste, il Labour e Meretz potrebbero doversi unire nelle future elezioni per assicurarsi di superare la soglia del voto.

La “minaccia di sinistra”

La falsa descrizione del Labour come partito di sinistra è un’eredità derivante dalle sue prime connessioni con i partiti socialisti europei e dallo sviluppo di un’economia pianificata nei primi decenni di Israele.

L’enfasi del Labour sulle politiche etniche e sulla segregazione nella sfera civile – l’idea che i cittadini ebrei e palestinesi dovrebbero vivere e studiare separatamente – gli avrebbe guadagnato una classificazione di partito ultra-nazionalista ovunque tranne che in Israele.

Eliminare lo Stato israeliano”

La cosa era già stata messa in evidenza alle elezioni precedenti, quando Netanyahu non solo diffuse tra gli elettori ebrei la paura che i cittadini palestinesi andassero a votare “a frotte”, ma anche falsamente accusò la sinistra di “portarli in bus” ai seggi elettorali.

Questa prassi ha raggiunto nuovi livelli di assurdità – e pericolo – nella recente campagna elettorale.

Netanyahu ha ripetutamente messo in guardia che il partito di Gantz – dominato da generali e rivendicante un primato in sicurezza nello schiacciare i palestinesi – facesse parte del centro-sinistra.

Netanyahu ha sostenuto che un voto per Gantz si sarebbe tradotto in partiti israelo-palestinesi che avrebbero agito influentemente nel prossimo governo e dunque contribuito ad “eliminare” lo Stato di Israele.

Una bassa affluenza storica

Anche i quattro partiti palestinesi in corsa, che questa volta hanno presentato due liste piuttosto che un’unica lista comune, hanno faticato. Sembravano pronti a racimolare un totale di 10 seggi, in calo rispetto ai 13 dell’ultima Knesset.

Questo perché in queste elezioni l’affluenza dei cittadini palestinesi di Israele ha toccato un minimo storico; le previsioni iniziali suggerivano che potrebbe essere inferiore al 50%. È stata la campagna più fiacca mai vista nella comunità palestinese di Israele.

Le cifre degli exit poll contrastano nettamente con il tasso di voto della minoranza di circa il 90% negli anni ’60 e del 75% solo due decenni fa, e anche dell’85% alle elezioni delle amministrazioni comunali di pochi mesi fa.

Il crollo nel voto segna la quasi completa disillusione della minoranza nei confronti della politica nazionale israeliana, e la conclusione che una spaccatura fondamentale e irreversibile ha avuto luogo con la maggioranza ebraica.

Telecamere nascoste spiano gli elettori

Questo è risultato chiaro la scorsa estate, quando Israele ha approvato la legge dello Stato-Nazione, rendendo esplicito come Israele sia uno Stato appartenente esclusivamente agli ebrei, piuttosto che a tutti i cittadini israeliani – cementando così lo status dei cittadini minoritari come spettatori non graditi in una “democrazia ebraica” .

Come ha notato un analista palestinese sul quotidiano Haaretz, la politica israeliana è ora come una perversa partita di calcio, con due squadre ebraiche e i cittadini palestinesi a fare da palla. “Tutti ci prendono a calci e nessuno dei due ci vuole”, ha detto.

Netanyahu ha sottolineato il fatto nel giorno stesso delle elezioni, quando ha sparato un’altra delle sue acrobatiche provocazioni contro la minoranza palestinese. Ha inviato più di 1.000 attivisti armati di videocamere nascoste per monitorare i seggi elettorali delle comunità palestinesi.

È stata una grave violazione delle leggi elettorali di Israele. Ma la pubblicità sulla confisca delle telecamere da parte della polizia è stata un altro colpo per la politica di Netanyahu basata sulla paura.

Il quale ha difeso la mossa assicurando che lo svolgimento delle elezioni era “kosher”, il termine usato per indicare il cibo che segue le rigide leggi alimentari ebraiche.

Come col suo precedente commento sulle “frotte”, ha inviato il chiaro messaggio che la presenza stessa degli elettori palestinesi avrebbe sovvertito un processo democratico destinato esclusivamente agli ebrei, e che l’estrema destra che egli rappresenta è l’unica forza capace di intraprendere le azioni necessarie a difendere uno stato ebraico.

Partiti palestinesi ostracizzati

Netanyahu, tuttavia, non può essere l’unico incolpato di questo stato di cose. In precedenza il partito laburista, e ora il partito dei generali di Gantz, hanno contribuito attivamente alla narrativa attentamente elaborata da Netanyahu, di presentare i cittadini palestinesi come una quinta colonna.

Gantz ha ripetutamente preso le distanze dai partiti palestinesi come reazione alla provocazione di Netanyahu, promettendo di sedere in parlamento solo con partiti “ebrei e sionisti”.

In effetti, con questa promessa, ha sparato al cuore non solo alla minoranza palestinese, ma anche a se stesso. Significa che non ha mai avuto fiducia di vincere abbastanza seggi da fornire un’alternativa a Netanyahu.

Ora, a quanto pare, gli 1,8 milioni di cittadini palestinesi di Israele hanno completamente recepito la lezione: che tutti i partiti ebraici, tranne il Meretz con quattro seggi, li hanno privati di qualsiasi possibile legittima rivendicazione di diritti politici all’interno di uno stato ebraico.

Contrattare sull’annessione

Ci sono alcuni altri significativi guadagni nei risultati.

I partiti estremisti religiosi sono ora molto influenti a destra. Insieme, hanno conquistato più di un quinto del parlamento. Netanyahu avrà quasi certamente bisogno di loro nel governo e dunque essi richiederanno ministeri socialmente influenti, accelerando ulteriormente il passaggio di Israele al fondamentalismo religioso.

Nella corsa ai negoziati per la costruzione della coalizione, uno dei partiti che rappresentano i coloni religiosi ha già chiesto i ministeri dell’Istruzione e della Giustizia.

Netanyahu è anche in una posizione debole per resistere – posto che lo voglia – alle richieste dei partiti di estrema destra di iniziare il processo di annessione formale di parti consistenti della Cisgiordania.

Alcuni interventi sui media stanno già suggerendo che la contrattazione post-elettorale si concentrerà sulle richieste da parte di quei partiti di estrema destra di una qualche forma di annessione, in cambio del loro appoggio all’approvazione di una legge sull’immunità che protegga Netanyahu dalle accuse di corruzione.

Ciò spiega i suoi commenti negli ultimi giorni della campagna, in cui ha promesso di annettere le porzioni della Cisgiordania in cui si trovano gli insediamenti.

La presa di potere di Netanyahu si è fatta chiara martedì, in un discorso che condensava il suo modo di parlare con lingua biforcuta. Ha detto alla folla: “Intendo essere il primo ministro di tutti i cittadini di Israele, di destra e di sinistra, ebrei e non ebrei”.

A chi non ne sa nulla, potrebbe sembrare conciliante. Per chi in Israele conosca Netanyahu, è sembrata piuttosto una minaccia da parte di uno che sa che non c’è nessuno in Israele – di destra o sinistra, ebreo o non ebreo – in grado di resistere ai suoi dettami.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook, giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth, è l’autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. È stato vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism. Il suo sito web e il suo blog sono disponibili su: www.jonathan-cook.net

(traduzione di Luciana Galliano)




Democrazia secondo Israele

Hagai El Ad

7 aprile 2019  New York Times

Un’elezione, un piano di pace e un’occupazione senza fine

[El-Ad è il direttore esecutivo dell’organizzazione per i diritti umani israeliana B’Tselem]

GERUSALEMME. Quando sarà “svelato” l’accordo del secolo”,come il presidente Trump ha definito il suo prossimo piano per la pace israelo-palestinese?
Certamente non prima del 9 aprile, quando si terranno le prossime elezioni in Israele. Ma quanto tempo dopo? “In meno di 20 anni”, ha detto evasivamente il segretario di Stato Mike Pompeo di recente a una commissione parlamentare.

In ogni caso, i piani di pace americani non sono una novità. Qualcuno ricorda, ad esempio, i Piani Rogers, dal nome del Segretario di Stato William P. Rogers, in servizio sotto il presidente Richard Nixon 50 anni fa? Quando il secondo dei suoi piani fu discusso alla Knesset nel 1970, un parlamentare israeliano prefigurò fiduciosamente che “non ci vorrà molto tempo – un anno, un anno e mezzo, due al massimo – perché quella cosa chiamata ‘territori occupati’ non esista più, e l’esercito israeliano possa tornare nei confini di Israele”.
Inutile dire che quella “cosa” è lungi dal “non esistere più”. Mentre i Piani Rogers sono quasi del tutto scomparsi dalla memoria, cancellati da una serie di piani presentati dai successivi presidenti americani, la realtà dei territori palestinesi occupati semplicemente non si è fermata. L’occupazione di Israele si è approfondita e trasformata. Gaza è diventata la più grande prigione a cielo aperto del mondo, ogni tanto bombardata per sottometterla; Gerusalemme Est è stata formalmente annessa ad Israele; la Cisgiordania è diventata un arcipelago di Bantustan palestinesi, circondato da insediamenti, mura e posti di blocco, soggetto a una combinazione di violenza di Stato e dei coloni. Eppure la vera prodezza di Israele è stata non solo di portare a termine tutto questo, ma di farlo impunemente, provocando reazioni minime da parte del resto del mondo, aggrappandosi in qualche modo nelle pubbliche relazioni alla preziosa etichetta di “vivace democrazia”.

È la storia di questi ultimi 50 anni che dovremmo riconoscere come il vero accordo: quello che è già in vigore, l’accordo del mezzo secolo. In questo accordo, finché Israele procede nell’impresa dell’occupazione con un livello di brutalità appena al di sotto di quello che susciterebbe l’indignazione internazionale, gli è permesso di continuare, godendo ancora di vari privilegi internazionali corroborati – come ha recentemente affermato il primo ministro Benjamin Netanyahu – dal grandioso impegno, ovviamente falso, verso i “valori condivisi di libertà e democrazia”.

Il che ci porta al 9 aprile, quando gli israeliani voteranno per un parlamento che governa sia i cittadini israeliani che milioni di soggetti palestinesi a cui è negato lo stesso diritto. I coloni israeliani in Cisgiordania non hanno nemmeno bisogno di andare fino ad un seggio elettorale in Israele per votare sul destino dei loro vicini palestinesi. Anche i coloni nel cuore di Hebron possono votare proprio lì, con 285 elettori registrati (su una popolazione totale di circa 1.000 coloni), circondati da circa 200.000 palestinesi senza voto. O come la definisce Israele, “democrazia”.

Questa è la quindicesima elezione nazionale dall’inizio dell’occupazione, e forse quella in cui le vite dei palestinesi contano meno, tranne che per conteggiarne i morti e celebrarne la distruzione. All’inizio di quest’anno, il generale Benny Gantz, ora leader del nuovo partito “centrista” che rappresenta la maggiore sfida al primo ministro Benjamin Netanyahu, ha pubblicato un video che mette in evidenza quanti “terroristi” palestinesi siano stati uccisi a Gaza nell’estate del 2014, quando Il signor Gantz era a capo dei comandi militari. (Secondo una ricerca condotta da B’Tselem, la maggior parte delle vittime dell’esercito israeliano quell’estate erano civili, di cui oltre 500 bambini.) Da parte sua, il signor Netanyahu ha promesso che se rimarrà in carica l’occupazione continuerà. “Non dividerò Gerusalemme, non evacuerò alcuna comunità e farò in modo di controllare il territorio a ovest della Giordania”, ha detto in un’intervista nel fine settimana.
Invece dei diritti e della libertà per i palestinesi, la campagna elettorale si è concentrata sul probabile rinvio a giudizio di Netanyahu per accuse di corruzione. Ma è davvero importante per una famiglia palestinese il cui figlio sarà ucciso impunemente o la cui casa sarà rasa al suolo se il primo ministro responsabile di quelle politiche è corrotto o irreprensibile?
Ad un certo punto, dopo il 9 aprile, potremo finalmente sapere che “piano” abbia in mente l’amministrazione Trump. In effetti, non si può fare a meno di chiedersi se non stia già prendendo forma sotto i nostri occhi: lo scorso maggio, l’amministrazione Trump spostò l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme; pochi mesi dopo, interruppe gli aiuti ai palestinesi e all’agenzia delle Nazioni Unite che aiuta i profughi palestinesi; più recentemente, ha esteso il riconoscimento della sovranità di Israele sulle alture del Golan, mossa celebrata da una fonte ufficiale israeliana come segno di ciò che accadrà riguardo al futuro della Cisgiordania.

È difficile credere che “l’accordo del secolo” sarà qualcosa di diverso da una continuazione dell’accordo di mezzo secolo. David M. Friedman, ambasciatore dell’amministrazione Trump in Israele, lo ha più o meno ammesso in un’intervista a The Washington Examiner [sito di notizie e rivista gratuita di destra, ndt.], quando ha affermato che l’amministrazione vorrebbe “vedere l’autonomia palestinese migliorare in modo significativo, a patto che non metta a rischio la sicurezza israeliana “. Ma i palestinesi meritano piena libertà, non una maggiore autonomia spacciata dall’America, che suggerisce null’altro che il proseguimento dell’occupazione israeliana. Il che significa un futuro basato non sulla giustizia né sul diritto internazionale, ma su maggior controllo, oppressione e violenza di Stato.

A meno che la comunità internazionale non tolga di mezzo l’accordo del mezzo secolo, facendo sì che Israele scelga finalmente tra l’ulteriore oppressione dei palestinesi o il subire delle effettive conseguenze, l’occupazione continuerà. L’amministrazione Trump, chiaramente, non è all’altezza di questo compito. Ma le Nazioni Unite, tra cui il Consiglio di Sicurezza, i principali Stati membri dell’Unione Europea – principale partner commerciale di Israele – e l’opinione pubblica internazionale hanno tutti una notevole possibilità di intervento. E gli americani che credono sinceramente nei diritti umani e nella democrazia, non solo come vuoti slogan o elementi di una contrattazione, ma come rivendicazioni autentiche, non hanno bisogno di aspettare fino al 2020 per mostrare il loro potere politico.

Insieme all’occupazione sistematica delle terre e all’imposizione di restrizioni sulla libertà di movimento, la negazione dei diritti politici è stata una delle pietre angolari dell’apartheid in Sudafrica. Anche quel paese si considerava una democrazia.

Molti israeliani considerano il 9 aprile una festa della democrazia. Non lo è. Questo giorno di elezioni non dovrebbe essere altro che il doloroso ricordo di una realtà profondamente antidemocratica, che l’amministrazione Trump sembra felice di perpetuare – e che il resto della comunità internazionale continuerà a permettere finché non smetterà finalmente di guardare dall’altra parte. Noi, i quasi 14 milioni di esseri umani che vivono in questa terra, abbiamo bisogno di un futuro per cui valga la pena di combattere: basato sulla comune umanità di palestinesi e israeliani che credono in un futuro di giustizia, uguaglianza, diritti umani e democrazia – per tutti noi.

(traduzione di Luciana. Galliano)




I palestinesi cittadini di Israele discutono se boicottare le elezioni

Henriette Chacar e Edo Konrad

7 aprile 2019 +972 Magazine

Dopo quattro anni di uno dei governi più ostili ai palestinesi in Israele, i cittadini arabi stanno discutendo quale sia il modo migliore per far progredire la loro lotta, se partecipare o boicottare le prossime elezioni della Knesset [parlamento israeliano].

Molti palestinesi cittadini di Israele, frustrati dal fallimento delle politiche interne dei partiti arabi e vessati da attacchi continui da parte di politici di tutto lo spettro partitico, stanno esprimendo riserve sul votare alle elezioni di questa settimana. Nonostante un tasso di partecipazione al voto storicamente elevato, un piccolo ma rilevante movimento sta spingendo i cittadini palestinesi a boicottare le elezioni.

L’aspro dibattito contrappone i palestinesi che chiedono il boicottaggio delle elezioni a quelli che vedono la partecipazione al sistema politico come uno dei pochi strumenti disponibili per contrastare la persecuzione israeliana contro i palestinesi – sia il 20% della sua popolazione che Israele definisce una “minaccia demografica”, sia i milioni di palestinesi nei territori occupati che vivono sotto il governo israeliano ma non possono votare.

La discussione è antica quanto lo è Israele. Ma quest’anno gli appelli al boicottaggio si sono fatti più rilevanti e accesi di quanto lo siano stati per anni. Gli attivisti hanno attaccato manifesti in tutte le città di Israele incoraggiando i cittadini palestinesi a restare a casa nel giorno delle elezioni, e importanti politici, giornalisti e addirittura stelle dell’hip hop palestinesi hanno dato il loro appoggio.

Il contrasto è sconvolgente, se si considera quanto i cittadini palestinesi fossero elettrizzati nel recarsi alle urne nelle elezioni del 2015. Dopo che la destra israeliana innalzò la soglia elettorale nel tentativo di escludere i partiti palestinesi, i quattro maggiori partiti palestinesi si unirono in un’unica coalizione per poter sopravvivere. La Lista Unita promise di dare priorità alle esigenze dei palestinesi cittadini di Israele dopo decenni di divisioni e lotte politiche intestine. Fu uno spartiacque per i palestinesi in Israele – la Lista Unita conquistò 13 dei 120 seggi della Knesset, il miglior risultato dalla fondazione dello Stato.

Tuttavia la promessa di unità coincise con uno dei più pericolosi governi israeliani che i cittadini palestinesi abbiano mai visto. L’ultimo governo Netanyahu ha cercato di demolire interi villaggi, ha approvato leggi che sancivano la segregazione etnica e razziale ed ha fomentato una nuova ondata di razzismo contro i cittadini arabi. Poi, nel giugno 2018, la Knesset ha approvato la legge sullo Stato-Nazione ebraico, che sancisce a livello costituzionale la supremazia ebraica in Israele. Il crescendo è arrivato quando la Lista Unita – che comprendeva palestinesi comunisti, islamisti e nazionalisti – si è scissa in due.

“Nel momento stesso in cui loro diventano più oppressivi noi dobbiamo rispondere con ancora maggior forza”, ha detto a +972 Magazine la parlamentare Aida Touma-Sliman, del partito ebreo-arabo Hadash. La comunità palestinese, in quanto “minoranza oppressa e perseguitata”, ha bisogno di essere rappresentata in parlamento, ha sostenuto Touma-Sliman, se non per promuovere i diritti e le esigenze dei palestinesi, per “smascherare l’ipocrisia e gli atteggiamenti razzisti (del governo)”.

“Stiamo aiutando l’opinione pubblica a capire che questa non è democrazia”, ha detto Touma-Sliman.

Punto e a capo

Nasreen Hadad Haj-Yahya, un’attivista sociale e politica che vive a Taybeh, una cittadina nel centro di Israele, ritiene che l’astensione palestinese dal voto sia ciò che vuole la destra – “per far finta che noi non esistiamo”, ha spiegato. “Purtroppo siamo stati delegittimati a tal punto che, oggi, persino la sinistra preferisce perdere un altro turno elettorale piuttosto che collegarsi agli elettori arabi.”

“Non biasimo (chi boicotta le elezioni) perché so quanto sia difficile votare quando sai che il tuo voto non conta niente”, ha detto Hadad Haj-Yahya. I partiti palestinesi sono sempre stati all’opposizione, il che significa che non hanno mai appoggiato alcuna politica governativa, per non parlare di quelle di grandi conseguenze. “Moralmente, è molto difficile far parte di un governo che continua ad opprimere il popolo palestinese in Cisgiordania e a Gaza.”

E’ proprio per questo che Hadad Haj-Yahya è contraria al boicottaggio. “Questa mancanza di speranza, la sensazione che non vinceremo mai – non fa che indebolirci. Non possiamo permetterci di alzare le mani e dire che aspetteremo di vedere che cosa accadrà in questo Paese. Dobbiamo prendere in mano le cose e cercare di promuovere i nostri interessi”, ha sostenuto.

Ma per i palestinesi che invitano al boicottaggio, la lotta riguarda qualcosa di più grande del mettere semplicemente in crisi il governo. Rifiutano l’idea stessa di far parte di un’istituzione che incarna la supremazia ebraica.

“Se partecipo alle elezioni della Knesset, questo significa che attribuirgli legittimità”, ha detto Nizar Hawari, organizzatrice sociale e politica di Tarshiha, una cittadina della Galilea. Hawari, che ha 58 anni, ha detto di aver boicottato le elezioni fin da quando ha avuto il diritto di votare. Non l’ha convinta ad andare a votare nemmeno la Lista Unita, che lei ritiene abbia unito gli elettori palestinesi con la promessa di una maggior rappresentanza, non con un programma politico.

Hawari ha aggiunto che andare a votare non ha fatto che peggiorare le cose, frenando le lotte popolari e creando “un ostacolo al progetto di liberazione nazionale palestinese.”

Secondo Hawari l’alternativa sta nel tornare alla mobilitazione locale, di base. Il movimento di boicottaggio rappresenta un risveglio politico che potrebbe dare nuova energia alla popolazione palestinese e “riportare la nostra lotta al punto di partenza.” La campagna non terminerà martedì, ha affermato, e i militanti del boicottaggio “trasformeranno i nostri principi in un’azione continua.”

Gli attivisti per il boicottaggio hanno appeso manifesti in tutte le città di Israele che invitano i cittadini palestinesi a non partecipare alla “democrazia militare” di Israele. Alcuni di loro hanno costituito un gruppo che si è denominato ‘Campagna popolare per il boicottaggio delle elezioni del parlamento sionista’.

“Lo Stato ebraico ci priva dei diritti civili, non perché sia diminuito il numero di coloro che dicono di rappresentarci nella Knesset, ma perché ci tratta come un problema demografico”, stava scritto in un post sulla pagina Facebook del gruppo fin da fine febbraio.

Gli organizzatori della campagna di boicottaggio non hanno accettato di essere intervistati per questo articolo.

Un altro post diceva: “I partiti politici arabi si stanno inserendo nel sistema coloniale israeliano e ne stanno minando gli stessi fondamenti per la liberazione dal colonialismo, attraverso un’alternativa che coinvolga tutti i mezzi politici, sociali ed economici.”

Votare in massa

Nonostante ciò che credono i leader ebrei israeliani di tutto lo spettro politico, i cittadini palestinesi storicamente hanno preso molto sul serio la loro cittadinanza e il loro diritto al voto, ha detto Hillel Cohen, che è a capo del Dipartimento di Studi Islamici e del Medio Oriente presso l’università ebraica di Gerusalemme.

Nei 18 anni seguenti alla creazione di Israele, il nascente Stato ha posto i palestinesi che erano riusciti a restare nel Paese dopo il 1948 sotto un regime militare, che ha limitato la loro libertà di movimento ed espropriato la loro terra.

Cohen ha spiegato che, mentre alcuni volevano privare completamente o parzialmente i nuovi cittadini arabi del diritto di voto, il primo ministro David Ben Gurion premette perché invece ottenessero il diritto a votare, una decisione che prese in parte per ottenere il sostegno della comunità internazionale.

La posizione di Ben Gurion prevalse, ha detto Cohen. E benché il governo militare non vietasse tecnicamente agli arabi di votare, interferì pesantemente nel processo, anche incarcerando o deportando gli attivisti in prossimità delle elezioni.

Al tempo stesso, la dirigenza israeliana creò diversi partiti arabi satellite guidati da leader locali con stretti legami col Mapai [partito di sinistra israeliano, antecedente del partito laburista, ndtr.]. Attraverso questi partiti strettamente controllati, il governo era in grado di garantire un’alta affluenza di elettori che avrebbe costituito un affidabile bacino di sostegno.

La media dell’affluenza al voto tra i palestinesi si aggirava intorno all’85% fino alla fine del governo militare. Ma anche dopo che non furono più sotto il giogo del governo militare, i palestinesi continuarono a partecipare alla elezioni israeliane in numero relativamente alto. Alla fine degli anni ’80 i cittadini palestinesi formarono i primi partiti arabi non satelliti e nel 1992 queste liste arabe indipendenti ebbero la funzione di un blocco parlamentare di sostegno per l’affermazione del governo di minoranza di Yitzhak Rabin quando sosteneva gli Accordi di Oslo nella Knesset.

I cittadini palestinesi per la maggior parte hanno continuato a partecipare al processo democratico nel corso degli anni. Tuttavia l’affluenza palestinese al voto registrò un crollo all’inizio degli anni 2000, dopo che la polizia uccise 13 palestinesi – 12 dei quali cittadini di Israele – in quelli che sono diventati famosi come i fatti dell’ottobre 2000.

Da allora, la violenza della polizia, spesso letale, e la mancata attribuzione delle responsabilità incisero profondamente nella comunità palestinese in Israele. Ci vollero 15 anni e la creazione della Lista Unita per riportare i numeri dei palestinesi votanti ai livelli precedenti all’ottobre del 2000.

Secondo Yousef Makladeh, che è a capo di Statnet, un istituto di ricerca che si occupa della comunità araba in Israele, quel numero potrebbe nuovamente diminuire in occasione delle elezioni di quest’anno. Il recente sondaggio di Makladeh segnala che solo il 55% dei cittadini palestinesi intende votare martedì – il 9% in meno rispetto al 2015. Inoltre Makladeh ha detto che, mentre solo il 18% degli elettori arabi hanno sostenuto i partiti sionisti nelle ultime elezioni, il suo sondaggio mostra che tale percentuale è salita al 30%.

“Ci sono 940.000 arabi che possono votare in Israele”, ha detto Makladeh. “Se si considera l’accanimento contro i palestinesi di Israele, iniziato con gli incendi nel 2016, proseguito con l’uccisione di Umm al-Hiran e culminato con la legge sullo Stato-Nazione ebraico – tutto ciò ha spinto i cittadini palestinesi a stare a casa e non votare.” Non intendono più cercare di integrarsi nella società israeliana, ha aggiunto.

Intanto, oltre il 70% degli arabi afferma di volere che i loro rappresentanti eletti facciano parte di una coalizione di governo, cosa che Makladeh spiega come risultato della delusione per la Lista Unita. “Molti elettori arabi ritengono che la Lista Unita non sia riuscita a migliorare le loro condizioni di vita, che non li abbia aiutati a mettere più cibo in tavola. Si sono stancati di loro ed ora chiedono politiche pragmatiche.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’essenza di essere palestinese: qual è il vero significato della Grande Marcia del Ritorno

Ramzy Baroud

5 aprile 2019,

Ma’an News

Gli obiettivi delle proteste della Grande Marcia del Ritorno, iniziata a Gaza il 30 marzo 2018, sono porre fine all’asfissiante assedio israeliano e la realizzazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che furono espulsi dalle loro case e città nella Palestina storica 70 anni fa.

Ma per la Marcia del Ritorno c’è molto più di qualche richiesta, soprattutto se si tiene a mente l’alto costo umano ad essa legato.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza, oltre 250 persone sono state uccise e 6.500 ferite, compresi minori, personale sanitario e giornalisti.

A parte gli eccessivamente citati ‘aquiloni incendiari’ e i giovani che tagliano simbolicamente la

recinzione che li ha rinchiusi per molti anni, la Marcia è stata generalmente nonviolenta. Ciononostante Israele ha impunemente ucciso e menomato manifestanti.

Lo scorso mese una commissione d’inchiesta ONU per i diritti umani ha rilevato che Israele potrebbe aver commesso crimini di guerra contro i dimostranti, con l’uccisione di 189 palestinesi nel periodo dal 30 marzo al 31 dicembre 2018.

L’inchiesta ha trovato “fondati motivi per credere che i cecchini israeliani abbiano sparato a minori, personale sanitario e giornalisti, benché essi fossero chiaramente riconoscibili come tali,” hanno concluso i membri della commissione come riportato dalla BBC online.

Tuttavia molti nei media non capiscono ancora quello che la Grande Marcia del Ritorno significa realmente per i palestinesi.

Un reportage cinicamente titolato del Washington Post ha tentato di dare una risposta. L’articolo, “I gazawi hanno pagato con il sangue un anno di proteste. Ora molti si chiedono per cosa,” cita in modo selettivo palestinesi feriti che, si suppone, hanno la sensazione che il loro sacrificio sia stato inutile.

Oltre a fornire all’esercito israeliano un fondamento per incolpare il movimento Hamas per la Marcia durata un anno, il lungo articolo termina con queste due citazioni:

La Marcia del Ritorno “non ha ottenuto niente,” secondo un palestinese ferito.

L’unica cosa che posso riscontrare è che ciò ha fatto in modo che la gente vi dedicasse attenzione,” dice un altro.

Se il Washington Post lo avesse fatto, avrebbe capito che l’atmosfera tra i palestinesi non è né cinica né disperata.

Il [Washington] Post avrebbe dovuto chiedere: se la Marcia “non ha ottenuto niente”, perché i gazawi continuano a protestare e la natura popolare e inclusiva della marcia non ne è stata compromessa?

Il diritto al ritorno è più di una posizione politica,” afferma Sabreen al-Najjar, la madre della giovane dottoressa palestinese, Razan, che, il 1 giugno 2018, è stata colpita a morte dall’esercito israeliano mentre cercava di aiutare manifestanti palestinesi feriti. È più di un principio: avvolta in essa e riflessa nella letteratura, nell’arte e nella musica, c’è l’essenza di cosa significhi essere palestinese. È nel nostro sangue.”

Infatti, che cos’è la “Grande Marcia del Ritorno” se non un popolo che cerca di rivendicare il proprio ruolo ed essere riconosciuto ed ascoltato nella lotta per la liberazione della Palestina?

Quello che è per lo più assente nel dibattito su Gaza è la psicologia collettiva che sta dietro questo tipo di mobilitazione, e perché è essenziale per centinaia di migliaia di persone assediate riscoprire la propria forza e comprendere la propria reale situazione, non come vittime indifese ma come attori di cambiamento nella propria società.

La lettura ottusa, o il travisamento della Marcia del Ritorno, la dice lunga sulla complessiva sottovalutazione del ruolo del popolo palestinese nella sua lotta, durata un secolo, per la libertà, la giustizia e la liberazione nazionale.

La storia della Palestina è la storia del popolo palestinese, in quanto è vittima di oppressione e il principale canale di resistenza, a iniziare dalla Nakba – la creazione di Israele sulle rovine di città e villaggi palestinesi nel 1948. Se i palestinesi non avessero resistito, la loro storia si sarebbe conclusa allora, e anche loro sarebbero scomparsi.

Quelli che rimproverano la resistenza palestinese o, come il [Washington] Post, non capiscono il valore latente del movimento popolare e dei sacrifici, hanno una scarsa comprensione delle ramificazioni psicologiche della resistenza – il senso di emancipazione collettiva e di speranza che si diffonde tra le persone. Nella sua introduzione al libro di Frantz Fanon “I dannati della terra”, Jean-Paul Sartre descrive la resistenza, appassionatamente rivendicata da Fanon, come un processo attraverso il quale “un uomo ricrea se stesso.”

Per 70 anni i palestinesi hanno intrapreso quel percorso di ri-creazione di se stessi. Hanno resistito, e la loro resistenza in tutte le sue forme ha plasmato un senso di unità collettiva, nonostante le numerose divisioni che sono state erette in mezzo al popolo.

La Marcia del Ritorno è l’ultima manifestazione dell’incessante resistenza palestinese.

È evidente che le interpretazioni elitiste della Palestina sono fallite – Oslo si è dimostrato un inutile esercizio di vuoti cliché, tesi a conservare il dominio politico americano in Palestina così come nel resto del Medio Oriente.

Ma la firma degli accordi di Oslo nel 1993 ha sconvolto la relativa coesione del discorso palestinese, indebolendo e dividendo di conseguenza il popolo palestinese.

Nella narrazione sionista israeliana i palestinesi sono descritti come squilibrati vagabondi, un intralcio che ostacola il cammino del progresso – una descrizione che definisce sempre i rapporti tra ogni potenza coloniale occidentale e i nativi colonizzati che resistono.

All’interno di qualche circolo politico e accademico israeliano i palestinesi semplicemente “esistevano” per essere “scacciati”, per fare posto a un popolo diverso e più degno. Dalla prospettiva sionista, l’“esistenza” dei nativi è intesa come temporanea. “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto,” scrisse il padre fondatore di Israele, David Ben Gurion.

Assegnare al popolo palestinese il ruolo dell’espulso, diseredato e nomade, senza prendere in considerazione le implicazioni etiche e politiche di tale percezione, ha erroneamente presentato i palestinesi come una collettività docile e sottomessa.

Pertanto è fondamentale che noi sviluppiamo una maggiore comprensione dei significati a vari livelli della Grande Marcia del Ritorno. Centinaia di migliaia di palestinesi a Gaza non hanno rischiato la vita e gli arti durante lo scorso anno solo perché chiedono rifornimenti urgenti di medicine e cibo.

I palestinesi lo hanno fatto perché comprendono la propria centralità nella lotta. Le loro proteste sono un’affermazione collettiva, un grido per la giustizia, un’estrema rivendicazione della loro narrazione come popolo – che ancora resiste, ancora forte e che ancora spera dopo 70 anni di Nakba, 50 di occupazione militare e 12 di assedio senza interruzione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è uno studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il ‘kahanismo’: la logica conclusione del sionismo

Asa Winstanley

2 aprile 2019, Middle East Monitor

Tutti sanno che Kahane aveva ragione’

Nelle elezioni israeliane che si terranno questo mese una coalizione di estrema destra, guidata dall’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, sarà probabilmente vincente.

L’attuale compagine di parlamentari probabilmente includerà i kahanisti del partito ‘Otzma Yehudit’ (Potere Ebraico).

Il rabbino Meir Kahane era un fanatico razzista antiarabo e antipalestinese. Chiedeva esplicitamente che i palestinesi fossero espulsi dalla Palestina storica – che definiva la “terra di Israele”, dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo).

Il suo libro del 1981 era un sermone diretto e vero e proprio che sosteneva la pulizia etnica esplicitamente razzista della Palestina. Si intitolava “Devono andarsene”.

Kahane, come molti sionisti, era talmente razzista che si rifiutava di usare il termine “palestinesi”, sostenendo che essi non esistevano realmente ed erano semplicemente “arabi” che erano arrivati nella terra di Israele in periodi successivi – un comune mito sionista.

“Gli ebrei e gli arabi della terra di Israele sostanzialmente non possono coesistere”, ha scritto. “Per noi c’è solo una strada percorribile: il trasferimento immediato degli arabi da Eretz Yisrael, la Terra di Israele, verso le loro terre.”

A New York nel 1968 aveva fondato la cosiddetta “Jewish Defence League” [Lega di Difesa Ebraica] (JDL). Questo gruppo di estremisti sionisti era violentemente razzista nei confronti degli afro-americani, dei palestinesi e degli altri arabi.

Per anni ha condotto una campagna interna di terrore contro obbiettivi civili – soprattutto palestinesi, altri arabi e sovietici – ma a volte anche contro altri ebrei e addirittura sionisti, quando doveva risolvere conflitti intestini.

Furono presi di mira gli uffici del famoso intellettuale palestinese Edward Said. E’ stata messa una bomba nell’ufficio dell’attivista palestinese-americano per i diritti civili Alex Odeh, provocando l’uccisione di Odeh.

I principali sospettati dall’FBI fuggirono in Israele, dove alcuni di loro sono tuttora nascosti.

Nel 1971 Kahane si trasferì in Israele, dove fondò il partito Kach ed iniziò a partecipare alle elezioni. Kahane affermò che il Kach era la sezione israeliana della JDL. Questa venne infine giudicata un’organizzazione terroristica dall’FBI e il Kach venne messo fuorilegge persino da Israele.

Alla fine nel 1984 Kahane entrò alla Knesset, il parlamento israeliano. Probabilmente il suo partito avrebbe guadagnato più seggi nelle elezioni del 1988, ma gli fu proibito di presentarsi dopo essere stato messo fuorilegge.

Kahane fu assassinato a New York nel 1990, ma il suo pensiero politico sopravvive oggi in molti partiti politici israeliani. Non si tratta solo di ‘Potere ebraico’, benché sia già abbastanza cattivo.

I capi di ‘Potere ebraico’ sono Michael Ben-Ari e Baruch Marzel.

Marzel è uno dei coloni israeliani più violentemente radicali della Cisgiordania. Vive nella colonia di Tel Rumeida, nella città occupata di Hebron, ed ha partecipato alla creazione di molte colonie simili, espellendo con la violenza i palestinesi e colonizzando la loro terra.

I sostenitori di Marzel hanno scritto che lui è stato, per 25 anni, “la mano destra del rabbino Meir Kahane”, entrando nel Kach quando era giovane e fungendo da suo portavoce per un decennio.

Ha anche “guidato il fronte militare in Giudea e Samaria (la Cisgiordania), agendo con mano ferma e senza compromessi contro il nemico arabo”, come si è vantato un tempo in un “Curriculum Vitae ed esposizione delle attività pubbliche”, ora cancellato.

Marzel per decenni ha celebrato una commemorazione presso la tomba di Baruch Goldstein – un noto seguace americano di Kahane, che massacrò 29 civili palestinesi nel 1994 nella moschea di Ibrahim a Hebron.

Questi sono i sionisti estremisti che adesso pare che Netanyahu farà entrare nel governo. Netanyahu ha spinto perché ‘Potere ebraico’ venisse integrato in un’ampia coalizione di estrema destra, rendendone molto più probabile la partecipazione nel suo governo di coalizione.

Le lobby israeliane negli Stati Uniti hanno stranamente condannato ‘Potere ebraico’. Per esempio, l’“American Jewish Committee” [Commissione Ebraica Americana] ha affermato che “le opinioni di ‘Potere ebraico’ sono deplorevoli. Non rispecchiano i valori fondamentali che stanno alla base della creazione dello Stato di Israele.”

Quest’ultima affermazione è tuttavia palesemente falsa, considerando il fatto che lo Stato di Israele è stato fondato sulla pulizia etnica di oltre 750.000 palestinesi espulsi dalla Palestina.

A quanto pare, solo la “Zionist Organisation of America” [Organizzazione Sionista Americana] (ZOA) di Morton Klein, apertamente razzista nei confronti dei palestinesi, ha spalleggiato Netanyahu sulla questione di ‘Potere ebraico’.

Secondo il quotidiano liberale israeliano Haaretz, questo è dovuto al fatto che la ZOA ha rapporti finanziari più stretti e diretti con il donatore miliardario sionista americano di estrema destra antipalestinese Sheldon Adelson.

Benché la dichiarazione di ZOA – che di per sé è palesemente razzista– non vada presa del tutto sul serio, bisogna riconoscere che il presidente di ZOA Morton Klein ha ragione quando afferma che la condanna da parte di AIPAC, ADL, AJC e delle altre lobby filoisraeliane è “ipocrita”.

Assomiglia alla condanna fatta a marzo nei confronti di Netanyahu per aver detto che Israele non è uno Stato per tutti i suoi cittadini, ma solo per gli ebrei. In entrambi i casi, l’indignazione non si riferisce alla sostanza del razzismo israeliano, ma al fatto che i leader dell’estrema destra israeliana accampano la pretesa e la finzione che Israele non sia uno Stato razzista e che il sionismo non sia razzismo.

Sono menzogne difficili da sostenere quando i tuoi politici seguono come un guru l’uomo che ha asserito che gli arabi se ne debbano andare.

Uno degli slogan popolari tra i coloni israeliani è “Oggi tutti sanno che Kahane aveva ragione”. Non c’era bisogno che Netanyahu togliesse il bando sul partito Kach, perché la maggior parte di ciò che Kahane sosteneva è stata adottata in toto dai principali partiti politici israeliani.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Elezioni israeliane: creare un fronte contro l’apartheid

Oren Yiftachel

3 aprile 2019, Middle East Eye

È urgentemente necessario un nuovo discorso che rifletta la situazione sul terreno per stimolare le forze democratiche sia in Israele/Palestina che all’estero**

La campagna elettorale israeliana, in pieno svolgimento a meno di due settimane dal voto, ha oscillato tra le discussioni sulla corruzione e sul terrorismo.

Tuttavia criticamente pare aver evitato a tutti i costi la questione centrale che determinerà il futuro di Israele: il sistema di apartheid che gradualmente sta plasmando i rapporti tra ebrei e palestinesi.

Quelli che hanno fatto della pace il loro programma – come l’ex-ministra degli Esteri Tzipi Livni – sono stati messi da parte. Persino il recente intervento del presidente USA Donald Trump, che ha riconosciuto le pretese di sovranità israeliane sulle Alture del Golan, ha infiammato il dibattito più sul futuro del fronte settentrionale che sulla probabile futura annessione di terre palestinesi.

Il fatto di tacere su questa questione rende solo più grave il suo impatto a lungo termine, come una malattia non curata. Il campo democratico deve creare un fronte locale e internazionale contro l’apartheid per salvare il Paese da questo cupo futuro, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu e dai suoi alleati.

Cecità geografica

Lunghi anni di incitamenti contro l’idea stessa di pace e di uno Stato palestinese – contro le organizzazioni per i diritti umani e la “sinistra” in generale – stanno avendo effetto. Molti israeliani progressisti hanno sollevato nuove (e importanti) bandiere, come i diritti delle donne e dei gay, la protezione ambientale e la giustizia sociale. Pare che la resistenza all’oppressione israeliana da parte dei palestinesi possa attendere un altro giorno. Ma si tratta di un’illusione pericolosa.

Questa noncuranza produce una cecità geografica, senza eguali in qualunque altra campagna elettorale nel suo complesso. Per un verso milioni di palestinesi controllati da Israele non sono tra i votanti e non hanno voce in capitolo nel decidere il governo che determinerà le loro vite. Dall’altro centinaia di migliaia di coloni ebrei – che risiedono nella stessa zona – sono considerati cittadini a tutti gli effetti e probabilmente saranno determinanti per stabilire chi farà parte del prossimo governo.

È importante ricordare che i territori palestinesi e i loro cinque milioni di abitanti non se ne andranno da nessuna parte. Israele colonizza questi territori con un continuo progetto coloniale, governando i palestinesi con un violento pugno di ferro. Nonostante la burla dell’“autodeterminazione” palestinese in piccole enclave, note come aree A e B [in base agli accordi di Oslo, ndt.], i recenti interventi israeliani hanno messo in evidenza chi siano i veri padroni della Palestina.

Questi hanno incluso il blocco del trasferimento delle imposte all’Autorità Nazionale Palestinese, le continue incursioni e le frequenti uccisioni dell’esercito israeliano nelle aree palestinesi “autogovernate”, il trasferimento e la distribuzione da parte di Israele dei soldi del Qatar a Gaza e il bombardamento a discrezione di decine di obiettivi palestinesi dopo attacchi con i razzi.

Apartheid strisciante

Israele controlla la zona tra il Giordano e il mar Mediterraneo in modo praticamente totale. Ma la cecità geografica attraverso cui le politiche elettorali “vedono” gli ebrei ma non i palestinesi tende a una trasformazione più profonda, meglio definita come apartheid strisciante.

In base a questo sistema durato decenni è stata creata e istituzionalizzata una serie di tipologie principali di cittadinanza come “separate e diseguali”. Gli ebrei possiedono ovunque sulla terra piena cittadinanza, mentre i palestinesi sono frammentati in categorie giuridiche inferiori: cittadini israeliani di seconda classe, “residenti” di Gerusalemme est, “sudditi” della Cisgiordania e di Gaza, rifugiati nei campi.

I paralleli con l’apartheid sudafricano sono chiari: gli ebrei sono simili ai “bianchi”, i palestinesi in Israele sono i “coloured” [definizione che in Sudafrica comprendeva la popolazione non bianca ma neppure nera, come indiani e mulatti, ndt.], e i loro fratelli in Cisgiordania e a Gaza sono i “neri”.

Geograficamente le centinaia di colonie in Cisgiordania sono state collegate al resto di Israele, mentre i palestinesi sono chiusi nelle loro enclave, che sembrano bantustan [territori in cui le popolazioni native del Sudafrica esercitavano un autogoverno formale, ndt.], dai due lati della Linea Verde [il confine tra il territorio israeliano e quello palestinese occupato, ndt.].

Ciò ha trasformato l’occupazione militare – che si presumeva “esterna” e “temporanea” – in un dominio interno, civile e permanente. Questo fatto è stato di recente codificato con la legge dello Stato-Nazione, che ha dichiarato Israele patria degli ebrei, dove solo essi godono del diritto all’autodeterminazione, e che promuove la colonizzazione ebraica in tutta la zona.

La politica economica di Israele – che destina la grande maggioranza delle risorse agli ebrei, ebraicizzando la terra e soffocando lo sviluppo palestinese – è un altro caposaldo della struttura “separata e ineguale”. I palestinesi hanno contribuito alla situazione di stallo con anni di terrorismo, ma il potere di cambiare direzione rimane fermamente nelle sue [di Israele] mani.

Definizioni distorte

Ciò richiede la riconfigurazione delle definizioni politiche e delle lotte. Il linguaggio della “destra contro la sinistra” è distorto, dipingendo Israele come uno Stato normale con un campo nazionalista conservatore in competizione con un campo liberale più progressista. In tali Stati “normali”, la lotta tra destra e sinistra è contenuta in confini demografici e politici chiari. Nessun campo chiede la rottura di questi confini, di annettere nuovi territori o assoggettare milioni di persone al potere coloniale contro la loro volontà.

Eppure nelle imminenti elezioni israeliane questo è esattamente il programma di tutti i partiti associati alla cerchia del Likud e oltre, compresi tutti i partiti religiosi ebrei, che sommano più di metà del parlamento (ma che rappresentano forse un quarto delle persone sottoposte al governo israeliano).

Questi politici si oppongono alla fondazione di uno Stato palestinese e appoggiano la prosecuzione del controllo israeliano su tutta la terra, contro le leggi internazionali e la volontà dei palestinesi.

Ciò è stato reso ancora più evidente con l’inclusione del partito razzista Otzma Yehudit (Potere Ebraico) nel campo conservatore “legittimo”, dopo decenni in cui tutti i partiti ebraici hanno rifiutato una simile alleanza.

Quindi la maschera è caduta – questo è un progetto colonialista contro i diritti dei palestinesi e quanti ne appoggiano la lotta, e lo strumento principale è l’emergere di uno Stato dell’apartheid.

La lotta contro questo progetto inizia dandogli il nome corretto. Questo non è un “programma di destra”, ma l’emergere di un blocco dell’apartheid. Questa non è una semplice lotta tra due movimenti nazionali, questo è colonialismo. È probabile che, dopo le elezioni, la situazione di apartheid si accentui, creando maggiori barriere geografiche, legali ed economiche all’uguaglianza e alla democrazia. 

La nuova mappa politica dei territori palestinesi sembrerà probabilmente sempre più simile ai bantustan neri del Sudafrica prima del 1994 [data della fine formale del sistema di apartheid sudafricano, ndt.], con il previsto appoggio del regime USA e la silenziosa accettazione da parte di Russia, India e persino Europa.

Coalizioni internazionali

Cosa dovrebbero fare le forze democratiche e progressiste? Innanzitutto, a breve termine prima delle elezioni, l’ovvia situazione di apartheid dovrebbe essere denunciata ovunque. Chiunque creda nella democrazia deve creare un fronte unito contro l’apartheid.

Questo è un comune denominatore che può unire le forze, dalla destra moderata ai partiti arabi, nonostante le notevoli differenze su altre questioni. Chiedere un fronte contro l’apartheid metterà la questione sotto i riflettori, rompendo l’attuale cecità geografica e politica. La vecchia retorica della “democrazia qui e occupazione là” o “sinistra contro destra” è morta.

Il discorso di Bar-Ilan [università nei pressi di Tel Aviv, ndt.], in cui Netanyahu ha parlato di una soluzione dei due Stati un decennio fa, è morto. È urgentemente necessario un nuovo discorso che rifletta la situazione sul terreno per stimolare le forze democratiche sia in Israele/Palestina che all’estero. Ciò è particolarmente significativo per le comunità ebraiche in tutto il mondo che sono spesso in prima fila nella lotta per la democrazia e i diritti umani, ma che in genere tacciono sui crimini israeliani. È altrettanto importante per i sostenitori della lotta dei palestinesi per la giustizia affrontare la nuova situazione.

I discorsi pubblici non cambiano da un momento all’altro. Il fronte contro l’apartheid dovrà lavorare dopo le elezioni e raccogliere ogni possibile minimo appoggio per combattere i pericoli che si trova di fronte. Dovrà creare coalizioni tra ebrei, palestinesi ed internazionali, mobilitare le leggi internazionali, attirare l’attenzione dei media e occupare le piazze.

Le soluzioni all’attuale scenario di apartheid possono variare. Conflitti di lungo termine simili in Irlanda del Nord, Bosnia, Macedonia, Colombia e Sudafrica hanno indicato una serie di soluzioni: partizione, confederazione, federazione, Stato unitario binazionale o liberal-democratico.

Tutte sono possibili in Israele-Palestina, anche se la federazione sembra la più probabile. Ma prima si deve costituire un fronte contro l’apartheid per bloccare la degenerazione – e al più presto.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Oren Yiftachel è professore ospite [della cattedra] Leverhulme nel dipartimento di geografia dell’University College di Londra.

(traduzione di Amedeo Rossi)

**Nota redazionale: abbiamo deciso di tradurre questo articolo in quanto ci sembra interessante come parte del dibattito relativo alle imminenti elezioni israeliane.  Yiftachel è un noto studioso ed intellettuale israeliano, autore dell’importante saggio “Ethnocracy”, relativo alle politiche discriminatorie, anche su base territoriale, praticate dall’élite askenazita in Israele. Tuttavia la redazione non concorda con alcune valutazioni espresse in questo intervento. Non riteniamo che Tzipi Livni, né tanto meno il resto dello spettro politico israeliano, possa essere considerato il campo favorevole alla pace. In questo senso il fatto di non citare esplicitamente il principale sfidante di Netanyahu e della sua coalizione, il generale Benny Gantz e la sua alleanza di centro come sostenitori delle politiche di apartheid sembra indicare la destra estrema come unica responsabile. Infine già esiste una coalizione internazionale tra palestinesi, militanti israeliani di sinistra e internazionali che lotta contro le politiche israeliane e contro il sistema di apartheid: il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), di cui l’autore non fa parola.

 




Come la Grande Marcia del Ritorno ha rivitalizzato la resistenza palestinese

Ahmed Abu Artema

30 marzo 2019, Al Jazeera

La marcia che abbiamo iniziato un anno fa ha sfidato i nostri due maggiori nemici: la divisione palestinese tra fazioni e la propaganda israeliana.

Il 30 marzo 2018 ho assistito a una cosa che non dimenticherò mai. Ho visto decine di migliaia di persone con diverse affiliazioni politiche e posizioni ideologiche, stare tutte dalla stessa parte, alzare la bandiera palestinese e cartelli con i nomi dei villaggi e delle città da cui Israele li ha cacciati.

Quel giorno le divisioni tra palestinesi sono scomparse e la gente è andata insieme a rivendicare i propri inalienabili diritti.

La Grande Marcia del Ritorno ha aperto un capitolo nuovo nella lotta palestinese per la libertà. Ha dato al popolo palestinese una nuova opportunità per ribellarsi collettivamente contro l’occupazione israeliana.

Da allora abbiamo pagato un prezzo durissimo per la nostra resistenza pacifica.

Circa 266 palestinesi sono stati uccisi e più di 6.557 sono stati feriti da proiettili veri; 124 hanno avuto un arto amputato.

Ma abbiamo perseverato. Ogni venerdì migliaia di noi, donne e uomini, giovani e anziani, hanno continuato ad affluire verso la barriera di confine con Israele per chiedere il nostro diritto sancito dalle leggi di tornare alla nostra patria e hanno dimostrato che non accetteranno una morte lenta all’interno delle mura della prigione della Striscia di Gaza.

La Grande Marcia del Ritorno ha riacceso il nostro spirito di resistenza, ci ha dato potere, ci ha resi più forti e più uniti.

Quando, più di un anno fa, io e i miei amici per la prima volta abbiamo iniziato a discutere dell’idea di una marcia non mi sarei mai aspettato che avremmo ottenuto così tanto.

L’idea ci è venuta in un momento in cui la resistenza popolare in Palestina stava subendo una notevole crisi. Dalla fine della Seconda Intifada nel 2005 ci sono state proteste sporadiche, ma non movimenti di massa spontanei.

Invece molte fazioni politiche hanno occupato le piazze con manifestazioni pianificate, convocando i propri membri e sostenitori. Questo attivismo organizzato in base a tendenze politiche ha ridotto molti palestinesi a spettatori passivi e li ha tenuti lontani.

Ciò è stato molto deprimente per la causa nazionale, perché ha reso il movimento di resistenza una questione di fazioni. Dato che l’occupazione prende di mira il popolo palestinese come un tutto unico e non solo una specifica fazione politica, la lotta nazionale può avere successo solo se coinvolge ogni singolo palestinese.

Inoltre le guerre israeliane contro Gaza nel 2008, 2012 e 2014 hanno spostato i riflettori sulle fazioni armate e lontano dalla resistenza popolare. Questi scontri militari hanno anche consentito a Israele di raddoppiare i suoi tentativi di giustificare l’uso eccessivo della forza contro la popolazione palestinese con il pretesto di proteggersi dagli attacchi di gruppi armati.

Di conseguenza l’attenzione internazionale si è allontanata dalle violazioni dei diritti da parte di Israele e si è concentrata sulle sue pretese di sicurezza. Questo ha ulteriormente escluso il palestinese comune e le sue rivendicazioni per la fine dell’occupazione e per il diritto al ritorno.

Ma tutto questo è cambiato con la Grande Marcia del Ritorno.

Ciò che l’ha distinta dalle proteste e scontri del recente passato non è stata solo la sua natura popolare e pacifica, ma anche il modo in cui è stata concepita. L’idea della marcia è venuta ai giovani di Gaza – i miei amici ed io abbiamo preso l’iniziativa e diffuso l’idea sulle reti sociali. I palestinesi comuni l’hanno discussa e hanno contribuito a farla maturare e a trasformarla in qualcosa che potesse essere adottata da tutti i componenti della società palestinese.

La Grande Marcia del Ritorno, in quanto idea concepita dal popolo, è riuscita ad attraversare tutte le differenze tra le fazioni e a costruire un fronte unitario. Ha intercettato l’energia del popolo palestinese che non trova spazio nelle attività delle fazioni tradizionali.

Singole persone e famiglie senza alcuna affiliazione politica, che nel passato sentivano che non avrebbero potuto trovare un posto in molte altre proteste, hanno partecipato attivamente a questa marcia. Anche organizzazioni della società civile e attivisti si sono uniti, come anche alcune associazioni di clan.

La Grande Marcia del Ritorno ha attirato anche molti giovani disillusi e depoliticizzati a causa della condizione disastrosa della politica interna palestinese ed ha riacceso il loro spirito di resistenza. Ha contribuito al fatto che una nuova generazione di palestinesi abbia abbracciato la lotta palestinese per il diritto al ritorno.

La marcia – con la sua ispirazione popolare e la sua natura pacifica – è riuscita anche a minare i tentativi israeliani di presentare Gaza come una “questione di sicurezza”. Le continue proteste sono state fonte di disappunto, fastidio e imbarazzo per l’occupazione israeliana.

La violenta risposta di Israele alla Grande Marcia del Ritorno ha dimostrato che non vuole che i palestinesi adottino l’opzione pacifista. Timoroso che la nostra resistenza pacifica possa danneggiare i suoi tentativi propagandistici che ci dipingono come aggressori, Israele ha scelto di attaccare manifestanti che non rappresentavano un pericolo diretto per il suo popolo. E mentre i suoi soldati uccidevano, mutilavano e facevano tacere i dimostranti pacifici, lo Stato israeliano ha cercato di gettare la colpa dello spargimento di sangue sulle vittime.

Tuttavia questa volta gli occupanti non hanno avuto successo. Questa marcia ha contribuito al fatto che sempre più persone nel mondo vedano la nostra tragedia e ascoltino le nostre richieste di libertà e dignità. La Grande Marcia del Ritorno ha ridato credibilità al concetto di lotta pacifista. Se la resistenza armata si scontra contro l’occupazione con le pallottole, la lotta non violenta vi si oppone con il potere delle parole e con la giustizia della propria causa.

Israele può avere la forza militare, ma è eticamente debole. Ha espulso un popolo, occupato la sua terra e continua fino ad oggi a conculcarne la libertà e la dignità. Quindi in questa lotta i palestinesi sono naturalmente dalla parte moralmente giusta e le loro proteste pacifiche sferrano a Israele i colpi più duri di qualunque altra arma.

Un anno dopo l’inizio della nostra marcia provo un misto di tristezza e di determinazione. Per queste manifestazioni pacifiche abbiamo pagato con le vite e i corpi di molti palestinesi. Ad ogni singola pallottola israeliana che ha colpito uno dei manifestanti i nostri lutti e le nostre sofferenze come popolo si sono moltiplicati. Tuttavia non ci siamo arresi per 70 anni e non abbiamo intenzione di farlo ora.

La Grande Marcia del Ritorno è la risposta di una Nazione orgogliosa a decenni di occupazione, aggressione e furto. Prendendo questa posizione pacifista, stiamo annunciando al mondo che, nonostante i tentativi israeliani di spazzarci via, stiamo ancora resistendo forti e uniti.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Ahmed Abu Artema è un giornalista e attivista per la pace palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Samah Jabr parla del fatto di essere una dei solo 22 psichiatri in Cisgiordania

Jehan Alfarra

17 dicembre 2017, Middle East Monitor

Samah Jabr è una delle prime donne psichiatra in Palestina e una dei solo 22 psichiatri che assistono i 2.5 milioni di abitanti nella Cisgiordania occupata.

Nata a Gerusalemme, Jabr è cresciuta come abitante senza diritti di cittadinanza. Nella sua vita ha vissuto sotto occupazione militare, assistendo all’impatto sul benessere psicologico dei palestinesi di avvenimenti traumatici come l’arresto e la demolizione di case.

Crescere in Palestina come abitante di Gerusalemme mi ha resa consapevole della vulnerabilità della mia situazione e mi ha fatto capire che l’ingiustizia è un agente patogeno che danneggia il benessere del popolo palestinese sotto occupazione,” dice Jabr a MEMO.

Dopo essersi laureata alla facoltà di medicina dell’università Al-Quds, Jabr ha seguito corsi di specializzazione in psichiatria e psicoterapia infantile in Francia, Inghilterra e Palestina. Oltre al lavoro clinico, dal 1998 ha anche documentato la sua esperienza scrivendo per organi di stampa e pubblicando articoli accademici su riviste specializzate.

Il mio lavoro di medico mi ha portata a contatto con le esperienze della gente,” dice, “e sento la responsabilità morale di fornire una testimonianza dei casi e delle esperienze dei palestinesi.”

Jabr mi racconta che nel corso della sua carriera ha incontrato molte vittime di torture fisiche e psicologiche, ma che quello che più la colpisce sono sempre le ferite meno visibili, meno evidenti.

Si riferisce al caso di un giovane che ora dorme con una borsa di indumenti intimi vicino al letto perché ha il costante timore di essere riarrestato. Un altro caso che ha segnato Jabr è quello di alcune sorelle la cui madre è stata arrestata dai soldati israeliani durante una perquisizione in casa. Temendo un’altra incursione le ragazze hanno dormito per mesi nella stanza centrale dell’abitazione invece che nelle loro camere da letto, totalmente vestite e con il velo.

Le persone sono più interessate alle ferite fisiche, all’amputazione di una gamba o a un trauma cranico,” spiega,” e spesso quando non c’è sangue non prestiamo attenzione.”

Parliamo di quante persone sono state uccise e di quante sono rimaste ferite, ma qui c’è molta sofferenza invisibile, nascosta.

Sento la mia responsabilità morale di non fare solo il lavoro palliativo necessario a gestire le conseguenze di maltrattamenti, ma anche di informare e di fare quanto è possibile per fermare maltrattamenti e ingiustizia.”

Continua raccontando un’altra storia di un ragazzo palestinese che le ha detto che le guardie in prigione erano più brave di suo padre perché gli davano una sigaretta da fumare mentre suo padre non voleva. “In seguito ho saputo da questo ragazzino come suo padre non ha saputo proteggerlo dall’arresto,” continua.

Questo è un piccolo esempio del tipo di danni invisibili che patiscono le persone vulnerabili e del tipo di violenza che possono avere subito nella propria cerchia familiare, ciò che può disturbare i loro sentimenti e il loro sistema di valori,” dice, “e questi esempi sono molto comuni.”

Documentare il trauma in un film

Gli incontri e le idee di Jabr riguardo all’impatto psicologico della vita in Palestina sono stati il soggetto di un documentario presentato in alcuni cinema francesi il mese scorso. Nel film, “Beyond the Frontlines: Tales of Resistance and Resilience in Palestine” [Oltre la linea del fronte: racconti di resistenza e resilienza in Palestina], Jabr racconta brani scelti dai suoi scritti riguardanti cosa significhi resistenza nel contesto dell’occupazione israeliana.

La regista francese del film, Alexandra Dols, aveva contattato Jabr verso la fine del 2012 perché voleva usare i suoi scritti come base del documentario dopo aver trovato un articolo che Jabr aveva scritto nel 2007 per il “Washington Report on Middle East affairs” [rivista USA di studi sul Medio Oriente, ndt.] intitolato “Ballare per percussionisti diversi – ma comunque ballare”, che indagava il significato di un’azione per soggetti differenti. L’articolo parte dall’incontro con una paziente che le aveva raccontato come avesse “ballato come una gallina sgozzata” quando suo figlio era stato ucciso; seguono altri incontri di quel giorno con soldati israeliani che ballavano a un posto di blocco e di se stessa che danzava durante un matrimonio in famiglia.

Inizialmente esitante, Jabr ha risposto ad Alexandra nel 2013 accettando di partecipare al documentario. La troupe è arrivata in Palestina verso la fine dell’anno.

Dols è arrivata con due volontari,” spiega Jabr, sottolineando le difficoltà incontrate dal gruppo per garantirsi i fondi per il montaggio. “Ma il fatto che non fossero finanziati da una grande istituzione per me era rassicurante,” afferma Jabr, riferendosi alle sue preoccupazioni sulla censura delle istituzioni più importanti riguardo al suo discorso. Spiega:

Vedo la resistenza come una risposta sana alla violenza della situazione e all’occupazione, in cui le persone sono soggette all’ingiustizia.”

Questa idea viene ripresa da varie voci palestinesi intervistate nel film, provenienti da una grande varietà di contesti dello spettro politico e ideologico.

Le interviste e le registrazioni dei miei articoli hanno richiesto molto tempo,” aggiunge Jabs, “ma sono soddisfatta del film.

Mi è piaciuto il modo in cui Dols ha reso i miei articoli dal punto di vista visivo. Li ha fatti leggere a me e ha proposto immagini e fotografie che li rendono più visibili e più evidenti, gli argomenti e le idee su cui avevo scritto.”

Avendo partecipato alla prima settimana di proiezioni in Francia, Jabr dice di aver trovato che il film è un grande strumento di discussione, aggiungendo che le reazioni sono state incoraggianti. “É’ un film di due ore, ma le persone sono rimaste altre due ore per discutere e fare domande,” afferma.

Alcuni operatori nel campo della salute mentale che erano presenti mi hanno messo in discussione riguardo alla neutralità e all’imparzialità,” continua. “Alcuni di loro se ne sono usciti con l’affermazione che avere delle convinzioni politiche non è professionale e ciò mi ha permesso di ragionare sulla responsabilità morale che ritengo necessaria e sull’importanza di comprendere il contesto…senza ignorare i conflitti intimi degli individui.”

In seguito alle proiezioni, Jabr ha ricevuto una lettera in cui uno spettatore le ha scritto che Israele deve volersi suicidare per aver consentito alla regista del film di entrare a Gerusalemme e a Jabr di andare all’estero per criticarlo. Ha parlato di questo scambio in un articolo scritto in seguito alla proiezione.

Il film è stato proiettato anche in Palestina ed è stato accettato al festival cinematografico “Giorni di Cinema” [che si tiene in Palestina, ndt.]. In seguito ha vinto il premio “Sunbird” [attribuito dallo stesso festival] come miglior documentario.

Anche il gruppo israeliano di operatori della salute mentale per i diritti umani “PsychoActive” ha ospitato una proiezione del film. “C’è stata ogni sorta di reazioni diverse,” afferma Jabr, “ma la prima reazione sono stati silenzio e tristezza.”

Mentre alcuni israeliani sono stati incoraggiati non solo a farsi un’idea dell’occupazione ma ad agire contro di essa, altri hanno accusato il film di essere di parte e di non presentare la prospettiva israeliana.

La regista ha chiarito fin dalla prima scena, in cui c’è una conversazione tra un israeliano e un palestinese, che aveva deciso di seguire la storia dei palestinesi,” spiega Jabr.

La salute mentale in Palestina

Cinquant’anni di occupazione hanno lasciato i palestinesi con una delle percentuali più alte di disturbi mentali in Medio Oriente, eppure i servizi di salute mentale continuano ad essere tra le aree con meno risorse a disposizione per le prestazioni sanitarie, con finanziamenti e personale insufficienti. “Queste carenze non sono solo influenzate dalla situazione sul terreno, ma anche dalla mentalità dei responsabili politici della sanità,” dice Jabr. “Ma, nonostante questi limiti, c’è stata una crescita in questa professione e stiamo facendo molto per migliorarla.”

Nella sua veste di responsabile dei servizi di salute mentale in Cisgiordania, Jabr sta cercando di sviluppare un modello di servizi che risponda alle risorse a disposizione. “Sto cercando di promuovere una gerarchia nei servizi, per cui dottori generalisti, infermieri e insegnanti possano fornire interventi a bassa intensità per appoggiare la resilienza e il benessere delle persone,” aggiunge, “per identificare quelli che hanno necessità di aiuto e indirizzare chi ha bisogno di interventi più specialistici al personale specializzato.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Il nostro popolo non cederà’: Gaza celebra l’anniversario delle proteste

Rana Shubair e Maram Humaid

30 marzo 2019, Al Jazeera

Quattro persone uccise, centinaia ferite dalle forze israeliane che utilizzano proiettili veri e gas lacrimogeni contro i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno

Decine di migliaia di palestinesi si sono radunati alla barriera tra Israele e Gaza per celebrare il primo anniversario delle proteste della Grande Marcia del Ritorno, affrontando i carri armati e le truppe israeliane ammassati lungo il perimetro fortificato.

Secondo fonti del ministero della Salute di Gaza, sabato le forze israeliane hanno impiegato proiettili veri, pallottole rivestite di gomma e gas lacrimogeni contro i manifestanti, uccidendo tre diciassettenni e ferendo almeno 207 persone.

Tamer Aby el-Khair è stato colpito al petto ad est di Khan Younis nel sud di Gaza ed è morto in ospedale, ha comunicato il ministero. Il secondo ragazzo, Adham Amara, è deceduto dopo essere stato colpito al volto ad est di Gaza City.

Il terzo, Belal al-Najjar, secondo funzionari di Gaza è stato ucciso da un colpo di fucile israeliano. Un quarto palestinese, identificato come il ventenne Mohamed Jihad Saad, è stato ucciso durante una protesta nella notte precedente alla manifestazione principale.

I palestinesi chiedono il diritto al ritorno nelle terre da cui le loro famiglie furono espulse con la forza durante la creazione di Israele nel 1948. Chiedono anche la fine dell’assedio israeliano ed egiziano a Gaza che dura da 12 anni.

Marceremo verso il confine anche se moriremo”, ha detto Yusef Ziyada, di 21 anni, con il volto dipinto coi colori della bandiera palestinese. “Non ce ne andremo. Ritorneremo nella nostra terra.” Nonostante la forte pioggia, circa 40.000 persone si sono radunate nella zona di confine, ha detto l’esercito israeliano.

[Ashraf Amra/Anadolu]

La maggior parte dei manifestanti si è tenuta lontana dalla barriera, ma alcuni hanno lanciato pietre e ordigni esplosivi verso la struttura e hanno incendiato copertoni, ha dichiarato l’esercito, aggiungendo di aver reagito con “mezzi antisommossa e spari, conformemente alle procedure operative standard.”

Descrivendo la marcia come “del tutto pacifica”, Mohammed Ridwan, un manifestante di 34 anni che lavora in un gruppo di esperti a Gaza, ha detto a Al Jazeera che l’enorme affluenza di sabato è stata “una chiara dimostrazione che il nostro popolo non tornerà indietro fino a che non otterrà i propri legittimi diritti.”

Bahaa Abu Shammal, un attivista ventiseienne, ha detto che si trovava nel luogo della protesta “a grande distanza dalla barriera di separazione”, eppure è stato quasi “soffocato dai gas lacrimogeni israeliani”.

Ha detto ad Al Jazeera: “Dobbiamo rompere il brutale assedio che stiamo subendo. Vogliamo tornare nelle nostre terre occupate.”

Minori uccisi’

L’anno scorso la barriera è stata teatro di proteste di massa e di una grande carneficina in cui sono stati uccisi più di 260 palestinesi, soprattutto dal fuoco di cecchini. Secondo il ministero della Salute di Gaza circa altri 7000 sono stati colpiti e feriti.

L’associazione per i diritti Save the Children ha dichiarato che tra gli uccisi vi sono 50 minori. Altri 21 adolescenti hanno avuto le gambe amputate e molti altri sono stati resi disabili permanenti, ha detto il direttore regionale dell’associazione, Jeremy Stoner.

Giovedì, esprimendo profonda preoccupazione per la morte dei ragazzini palestinesi, Stoner ha detto: “Temiamo che oggi altri minorenni potrebbero essere feriti o uccisi.”

La tregua tra Hamas e Israele

L’anniversario della Grande Marcia del Ritorno cade a pochi giorni di distanza da un grave scoppio di violenze tra Israele e Hamas, che governa Gaza. L’Egitto ha cercato di mediare tra le due parti nel tentativo di frenare le violenze ed evitare il tipo di risposta letale da parte dell’esercito israeliano che ha accompagnato le precedenti proteste.

Harry Fawcett di Al Jazeera, citando il giornale al-Risalah legato a Hamas, ha detto che l’organizzazione ha raggiunto un accordo con Israele per ridurre le tensioni nella Striscia di Gaza.

Secondo il giornale al-Risalah, le concessioni israeliane comprendono l’aumento del finanziamento del Qatar da 15 a 40 milioni di dollari al mese per il pagamento dei salari; l’estensione della zona di pesca da 9 a 12 miglia nautiche; l’incremento della fornitura di elettricità da Israele a Gaza; l’approvazione di un importante progetto di desalinizzazione”, ha detto Fawcett, che scrive da una zona a est di Gaza City.

In cambio, Israele ha chiesto lo stop al lancio di razzi, come quello che lunedì ha distrutto la casa di una famiglia a nord di Tel Aviv, ferendo sette persone e scatenando una nuova escalation.”

Abdullatif al-Kanoo, un portavoce di Hamas, ha confermato questo accordo, dicendo che i mediatori egiziani “sono riusciti ad ottenere l’approvazione” di Israele all’alleggerimento delle restrizioni sul lavoro, la pesca, l’elettricità e gli aiuti dal Qatar.

Nei prossimi giorni verrà stabilito un calendario per l’attuazione di quanto è stato concordato”, ha detto ad Al-Jazeera.

Nel frattempo, alla vigilia delle proteste per l’anniversario, gli organizzatori hanno diffuso istruzioni ai manifestanti invitandoli a tenersi a distanza di sicurezza dai fucili israeliani, a seguire le indicazioni degli organizzatori sul campo, ad astenersi da azioni aggressive e a non bruciare copertoni, una mossa considerata un segnale che l’accordo mediato dall’Egitto potrebbe essere rispettato.

I funzionari della sicurezza di Hamas sul luogo della protesta sono stati visti indossare per la prima volta uniformi militari, mentre raccoglievano le gomme e le portavano via.

Sembra che siano qui per rafforzare l’accordo, per assicurare che nessuno dia fuoco a queste gomme”, ha detto Fawcett.

Israele, che ha inviato altre truppe e carri armati al confine, vuole anche la fine dei lanci degli aquiloni incendiari e la garanzia di calma vicino alla barriera.

Non vi è stato alcun commento da parte israeliana al presunto accordo.

Tra quanti anni le nostre vite saranno migliori?

Le proteste della Grande Marcia del Ritorno sono iniziate il 30 marzo dell’anno scorso dopo che le associazioni della società civile a Gaza hanno chiamato ad un’azione contro il durissimo assedio di 12 anni contro l’enclave.

Le agenzie umanitarie accusano l’assedio di aver impoverito Gaza, dove i tassi di povertà e di disoccupazione sono alti. Secondo le Nazioni Unite più del 90% dell’acqua non è potabile, mentre i due milioni di abitanti di Gaza ricevono meno di 12 ore di elettricità al giorno.

Il 30 marzo segna anche il Giorno della Terra – la commemorazione annuale della morte nel 1976 di sei palestinesi che protestavano contro la confisca della loro terra per costruire comunità ebraiche.

Entro un anno finirò la scuola. Mio padre è disoccupato, per cui non potrò andare all’università. Chi ne è responsabile? Israele”, ha detto il manifestante Mohammed Ali, di 16 anni. “Non so quanti anni ci vorranno prima che le nostre vite migliorino, ma continueremo (le proteste) fino a quando ci saranno l’occupazione e l’assedio”, ha detto all’agenzia di stampa Reuters. L’uso di forza letale da parte di Israele contro i manifestanti è stato censurato dalle Nazioni Unite e dalle associazioni per i diritti.

Un’indagine dell’ONU ha riscontrato che, mentre alcuni dimostranti hanno usato la violenza, la grande maggioranza era disarmata e pacifica. Essa afferma che le forze israeliane potrebbero essere incolpate di crimini di guerra per l’uso eccessivo della forza.

Tutti gli israeliani devono sapere che, se sarà necessaria una campagna [militare] complessiva, noi la condurremo con forza e in sicurezza e dopo aver esaurito tutte le altre opzioni”, ha detto Netanyahu. Anche Hamas è sotto pressione politica interna.

All’inizio del mese, invece di andare al confine, i manifestanti sono scesi in piazza contro gli aumenti dei prezzi e delle tasse. Le forze di sicurezza di Hamas hanno represso le manifestazioni con pestaggi e arresti.

Al centro di queste proteste c’era lo stesso senso di frustrazione che da un anno ha spinto migliaia di persone sul confine, settimana dopo settimana.

Rana Shubair e Maram Humaid hanno contribuito al reportage da Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gaza oggi. Ancora sangue sulla Grande Marcia

Patrizia Cecconi

30 marzo 2019, L’Antidiplomatico

Oggi in Palestina è la Giornata della Terra, cioè la ricorrenza di una delle tante stragi impunite commesse da Israele contro un gruppo di palestinesi che tentavano di opporsi a un ulteriore furto delle loro terre in “alta Galilea”. Una giornata celebrativa che a Gaza coincide con il primo anniversario della Grande Marcia del Ritorno. Una giornata che potrebbe essere una carneficina come molti temono e i cui esiti non saranno importanti solo per Gaza ma, ci dicono più voci, per il futuro del Medio Oriente perché Gaza, pur sotto assedio e forse proprio perché sott’assedio, è diventata una “piazza” speciale, su cui arrivano e da cui partono messaggi politicamente complessi . Questo si diceva stamattina quando il sole si era appena levato e si discuteva di ciò che sarebbe stato.

Verso le 10 di questa stamattina, quando la marcia non era ancora cominciata, già si contava il primo martire. Mohammad J. Saad, 20 anni, ucciso da una granata alla testa nell’accampamento di Malaka nella zona centrale della Striscia. Lo stesso accampamento dove qualche mese fa, in uno dei venerdì della marcia, Taaghreed in un bellissimo abito bianco e Ahmad in elegante abito scuro decisero di sposarsi dando al loro gesto il significato altamente simbolico di partecipazione al sogno comune di libertà e di riconoscimento del diritto al ritorno nella loro terra. Era diversi mesi fa, e da allora sulla sabbia di Malaka, come su quella degli altri quattro accampamenti delle tende del ritorno, non sono più caduti confetti ma sangue.

Sempre a Malaka, nel pomeriggio, c’è stato il secondo omicidio. Un lacrimogeno – sparatogli in bocca come già successo per altri martire nei mesi scorsi – ha stroncato la vita di Adhan Nedal Saqr Amara, 17 anni, altri sogni spezzati prima ancora di raggiungere la maggiore età. Abbiamo ragione di supporre che non si tratti di errori ma del sadismo di chi sa di essere impunito perché protetto dal potere di quelle stesse lobby che garantiscono furti e o regali di terre altrui allo Stato ebraico.

La Marcia sta concludendosi e si tirano le somme. Due martiri e 112 feriti ospedalizzati secondo i dati ufficiali del Ministero della Salute, di questi circa la metà seriamente intossicati dai nuovi lacrimogeni usati da Israele che, come si sa, usa Gaza anche come laboratorio di sperimentazione delle sue armi. Questi nuovi lacrimogeni, uno dei quali ha ucciso il giovane Adhan, non sembra abbiano provocato convulsioni come altri usati precedentemente, ma violenta irritazione agli occhi e serie difficoltà di respirazione ottenendo più facilmente la dispersione dei manifestanti.

Tra le azioni di cui i manifestanti vanno fieri c’è quella di un gruppo di giovani che a Khan Younis ha sfidato la morte per andare a issare la bandiera palestinese sulla recinzione che definisce l’assedio. Piccola cosa dirà qualcuno, certo che è piccola cosa, ma grande simbolo, significa che pur in questa situazione, dove si sa che si può cadere come sagome di un tirassegno, c’è qualcosa che resiste alla legittima paura, qualcosa che i palestinesi chiamano al karameh, cioè sentimento di dignità. Quella che non permette ai gruppi di resistenti, con e senza orientamenti partitici, di accettare le concessioni fatte da Israele grazie alla mediazione egiziana. “Concessioni” e non riconoscimento di diritti dovuti, ciò per cui Gaza manifesta dal 30 marzo dello scorso anno.

I dirigenti di Hamas hanno partecipato alle manifestazioni di oggi in compagnia della delegazione egiziana. Il messaggio sembrerebbe chiaro ma le interpretazioni di natura politica in questo spicchio di mondo non sono mai lineari. Ci dicono alcuni gazawi che questo voleva significare che Hamas intende accettare l’invito a spegnere gradualmente la marcia con le rivendicazioni che l’hanno fatta nascere. Altri dicono che è una partita che Hamas sta giocando per non essere messo all’angolo e per garantire il miglioramento delle condizioni di vita veramente penose di una parte della popolazione gazawa ed evitare altre manifestazioni di malcontento popolare. Comunque, come ci hanno già detto ieri attivisti, medici, giornalisti e cittadini “qualunque” tutte le concessioni ottenute dalla delegazione egiziana sono interne alla logica dell’assediante. Non dovrebbero essere concessioni ma diritti che già spettano ai gazawi e che Israele non riconosce. Non è questo che vogliono i gazawi e lo hanno ben spiegato con la loro presenza al border i 30 – 40 mila che hanno sfidato i mezzi corazzati schierati in massa lungo la recinzione e i tiratori scelti dislocati lungo tutta la linea dell’assedio.

Rispetto alle previsioni di ieri le cose sono andate meglio del previsto. 112 feriti non sono cosa da niente, ma si temeva di peggio, si temeva la pesante carneficina che avrebbe potuto far scattare la reazione che da più parti si ipotizzava. Gli ospedali erano allertati e i timori espressi dal dr. Said dell’Al Awda Hospital e dal dr. Raed dell’UHCC che temevano di trovarsi nuovamente a soccorrere centinaia di feriti senza averne i mezzi , per fortuna sono stati fugati. I 112 feriti sono stati dislocati in 5 ospedali da nord a sud della Striscia e il Ministero della Salute ha comunicato che tra loro ci sono ben 26 bambini, un paio di giornalisti e due soccorritori e che anche un’ambulanza è stata danneggiata. Tutte cosucce che si configurano come pesanti violazioni del Diritto universale ma che in pochi si illudono che porteranno Israele sul banco degli imputati.

Ora che la giornata si è conclusa si aspettano le conseguenze politiche di quest’ultima manifestazione. Una cosa è chiara e ci è stata ripetuta da tante persone che oggi, pur non seguendo alcuna fazione politica, sono andate al border convinte di dover rischiare: i palestinesi di Gaza, per quanto coraggiosi e un po’ folli, non vanno a farsi ammazzare per nessun partito ma per quell’idea che ha dato il via alla marcia a partire dalle riflessioni di Abu Hartema, un po’ poeta, un po’ utopista, che si sono allargate a macchia d’olio e che, nonostante i tentativi di controllo e direzione di Hamas, restano la spina dorsale della Grande marcia la quale, al momento, non si sa come si evolverà e se si evolverà. Le valutazioni che emergono in proposito sono diverse. ma qui tutto e è estremamente variabile e ora la parola passa alla sfera istituzionale. I gazawi vogliono la libertà e il diritto al ritorno. Accetteranno le concessioni ottenute grazie all’Egitto nel caso in cui le istituzioni locali, ovvero Hamas, le accettasse?

I gazawi non sono Hamas, e i prossimi giorni si capirà se la Marcia si sarà chiusa come si chiuse la prima intifada nel 1993 o se i diritti irrinunciabili per cui circa 270 martiri hanno perso la vita sono ancora irrinunciabili e nessun accordo li metterà all’angolo.

Patrizia Cecconi

Betlemme 30 marzo 2019