Perché tanta indignazione? Il partito Potere Ebraico è il nuovo modello della politica israeliana

Ramzy Baroud

6 marzo 2019 Ma’an News

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha stretto un’alleanza con un gruppo politico minore, Otzma Yehudit (Potere Ebraico), e subito ne è seguita una larga indignazione.

La rabbia non proviene solo dal centro, dalla sinistra e dai partiti arabi, ma anche da destra. Persino la lobby filo-israeliana statunitense, nota per le sue posizioni politiche aggressive, si è dichiarata contro questa sinistra unione.

“Le opinioni di Otzma Yehudit”, ha scritto su Twitter l’American Israeli Public Affairs Committee (AIPAC) [la maggiore lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.], “sono riprovevoli. Non riflettono i valori fondamentali che sono alla base dello Stato di Israele “.

Ma se invece lo facessero? E se “Otzma Yehudit” non fosse altro che una diversa articolazione politica delle tradizionali idee israeliane, e riflettesse perfettamente i “valori fondamentali” che persino l’AIPAC ha ciecamente difeso sin dagli inizi nel 1953?

Già prima dell’alleanza tra Likud, il partito di destra di Netanyahu, Jewish Home (Casa Ebraica) di estrema destra di Rafi Peretz, e Otzma Yehudit, sancita il 20 febbraio, Israele non era certo una democrazia liberale che escludesse il razzismo e sposasse il pluralismo politico. In effetti bisogna capire che l’inclusione di Otzma Yehudit nella principale scena politica israeliana è coerente con la corruzione morale della politica israeliana in generale.

Protestare contro l’alleanza tra Netanyahu e i fanatici capi di Otzma Yehudit è suggerire che i più influenti politici israeliani non rappresentino gli ideali profondamente sciovinisti, razzisti e violenti che il partito estremista ha difeso fin dalla sua formazione nel 2012.

Otzma Yehudit è stato resuscitato dai seguaci del rabbino nato a Brooklyn Meir Kahane, che ha sostenuto la pulizia etnica dei palestinesi e ha guidato i suoi seguaci in molte incursioni violente contro le comunità arabe palestinesi, in Israele e nei territori palestinesi occupati.

Il suo partito Kach, messo al bando in Israele quattro anni dopo la sua formazione nel 1984, non fu allora rifiutato per le sue “politiche razziste” come oggi molti media suggeriscono. Il partito operava fuori dai confini dell’agenda del governo israeliano, quindi è stato costretto a uscirne, ma le sue idee violente persistono nella Knesset [il parlamento israeliano] a tutt’oggi. Se il razzismo contro i palestinesi era davvero un’anomalia politica sostenuta da Kach, come si spiega la legge razzista dello Stato-Nazione, che definisce Israele come “lo Stato-Nazione del popolo ebraico” – esaltando tutto ciò che è ebreo e umiliando tutto ciò che è palestinese?

La legge non si stacca molto dalla costituzione di Otzma Yehudit, che definisce Israele come uno “Stato ebraico nel suo carattere, nei suoi simboli nazionali e nei suoi valori legali”, definendo inoltre l’ebraico “unica lingua ufficiale” di Israele.

In effetti, ad una attenta lettura, la costituzione del partito e il testo della legge dello Stato-Nazione rivelano somiglianze sorprendenti. Ciò suggerisce che, dai tempi di Meir Kahane, è la società israeliana ad avvicinarsi alle opinioni degli estremisti ebrei, non viceversa.

In effetti, Kahane è stato assassinato nel 1990 ma le sue idee sono sopravvissute, espandendosi insieme agli insediamenti ebraici per conquistare infine l’immaginazione generale. L’indignazione contro l’alleanza Netanyahu-Otzma Yehudit è probabilmente motivata da un po’ di paura nel mostrare al mondo tutta la brutta faccia del sionismo.

Quanto all’AIPAC, è chiaro che neanche il più attento linguaggio diplomatico basterà a spiegare perché il governo israeliano debba essere popolato dai membri di un partito che dal 1994 compare nelle liste del Dipartimento di Stato americano come organizzazione terroristica.

Netanyahu è disperato e, come ci insegna la storia, quando il primo ministro israeliano si trova in una situazione di impaccio politico, si abbassa a qualsiasi espediente per salvarsi. Nelle ultime elezioni generali del 2015, Netanyahu ha rivolto un appello finale ai suoi sostenitori. “Gli elettori arabi si stanno dirigendo in massa verso i seggi”, ha detto, ricorrendo al suo tipico stile terroristico. Non sorprende che abbia vinto.

Netanyahu è ora più disperato che mai. I suoi avversari al Centro stanno unendo le forze in una nuova lista, Kahol Lavan o “Bianco e blu”, che ha il potenziale di spodestarlo il 9 aprile.

Peggio ancora, il procuratore generale israeliano ha deliberato il 28 febbraio di incriminare Netanyahu per “corruzione e frode”. Un sondaggio pubblicato il giorno seguente ha rilevato che due terzi degli israeliani pensano che se Netanyahu fosse incriminato dovrebbe dimettersi.

Il retaggio opportunistico di Netanyahu è più che sufficiente a spiegare la sua decisione di arrivare fino a Otzma Yehudit, ma ciò che è davvero sconvolgente è l’indignazione scatenatasi per una mossa politica che sembra perfettamente adatta alla attuale politica di Israele.

Anche se il Comitato Elettorale Centrale di Israele decidesse di impedire a Otzma Yehudit di partecipare alle prossime elezioni, cambierà poco nei termini dei valori e ideali che il partito rappresenta, principi che, in un modo o nell’altro, definiscono anche Jewish Home, Nuova Destra , Likud e altri.

La piattaforma di Otzma Yehudit invoca una guerra contro i “nemici di Israele” che deve “essere totale, senza negoziati, senza concessioni e senza compromessi”.

Ma non è sostanzialmente lo stesso punto di vista di Ayelet Shaked, ministra della Giustizia nella coalizione di Netanyahu, e ora una dei leader del neoformato partito Nuova Destra?

Nel 2014, poco prima che Israele scatenasse la sua guerra più distruttiva sulla Striscia di Gaza occupata, Shaked dichiarò la necessità di una guerra totale. “Non un’operazione, non una cosa lenta, non un’escalation a bassa intensità, senza controllo … Questa è una guerra … Questa è una guerra tra due popoli. Chi è il nemico? Il popolo palestinese … “

Più di 2.139 palestinesi, per lo più civili, sono stati uccisi nella guerra israeliana che seguì quella dichiarazione e oltre 11.000 sono stati i feriti.

Perché l’indignazione, quindi, quando la missione di quel partito marginale è di “ristabilire la sovranità e la proprietà sul Monte del Tempio” – cioè la Moschea di Al-Aqsa -, coerentemente con le opinioni di gran parte di israeliani, religiosi e laici allo stesso modo? I membri della Knesset hanno ripetuto questo appello, spesso proprio da Al-Aqsa, circondati da decine di soldati e coloni ebrei armati.

Per quel che riguarda la confisca delle terre palestinesi e l’espansione degli insediamenti illegali ebraici, di cui Otzma Yehudit è un fautore, anche questo è un ideale comune sfacciatamente caldeggiato dalla maggior parte dei gruppi politici israeliani, da destra sino a sinistra.

L’AIPAC non è solo ipocrita nel suggerire che Otzma Yehudit violi i “valori fondamentali alla base dello Stato di Israele”, ma è anche intenzionalmente in errore.

In effetti, la piattaforma di Otzma Yehudit non fa altro che rinforzare i “valori fondamentali” esistenti in Israele, gli stessi valori che proprio l’AIPAC difende senza il minimo riguardo per i diritti umani, il diritto internazionale e i principi dei veri valori democratici.

Ramzy Baroud è giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra, 2018). Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è uno studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli studi globali e internazionali, UCSB.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale della Ma’an News Agency.

(traduzione di Luciana Galliano)




Come sarebbe uno Stato di Israele non coloniale?

Nasim Ahmed

3 marzo 2019 – Middle East Monitor

Mentre si avvicinano le elezioni [israeliane, ndt.] del 9 aprile, MEMO intervista i parlamentari ed ex parlamentari arabi della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] in merito alla loro esperienza di lavoro all’interno del sistema politico israeliano e alle loro speranze per il futuro.

Il contrasto tra democrazia ed etnocrazia è al centro della narrazione israeliana. I fondatori dello Stato erano convinti di gettare le basi di uno Stato democratico, che si sarebbe impegnato per il bene di “tutto il suo popolo”. La Dichiarazione di Indipendenza israeliana era chiara sul fatto che si sarebbe trattato di uno Stato fondato sui principi di “libertà, giustizia e pace, guidato dalle visioni dei profeti di Israele; avrebbe garantito pieni ed eguali diritti sociali e politici a tutti i suoi cittadini, senza distinzioni in base a differenze di fede religiosa, razza o sesso; avrebbe garantito libertà di religione, coscienza, lingua, educazione e cultura”.

Nobili ideali, certo, tuttavia la narrazione ufficiale è servita non solo a nascondere il razzismo insito nel sionismo, ma anche le sfide inconciliabili che nascono dall’imposizione di un’etnocrazia in una terra già popolata da un popolo appartenente a un diverso gruppo etnico. Coloro che hanno capito cosa avrebbe comportato il sionismo, come ad esempio il compianto giornalista Christopher Hitchens, si sono opposti ad esso per principio: “Sono un anti-sionista, sono una di quelle persone di origine ebraica che credono che il sionismo sarebbe un errore anche se non ci fossero i palestinesi”. Hitchens, che molti considerano uno dei più forti sostenitori dei valori liberali occidentali e un altrettanto strenuo oppositore del dogmatismo, ha inoltre dichiarato che non avrebbe mai potuto accettare il presupposto di uno Stato ebraico, perché si trattava di “un’idea stupida, messianica e superstiziosa”.

Il contrasto tra quell’idea e gli ideali dei padri fondatori di Israele è stato un tema ricorrente sia per i sostenitori dello Stato che per i suoi oppositori. Di solito, i sostenitori di Israele sono segnati da dogmatismo. Il ministro degli Interni britannico, Sajid Javed [del partito Conservatore, di origine pakistana, ndt.], per esempio, ha citato la narrazione della fondazione di Israele quando ha dichiarato “Se dovessi andare a vivere in Medio Oriente, c‘è solo un posto in cui potrei andare. Israele!” Spiegando perché non andrebbe in nessun Paese a maggioranza musulmana, ha aggiunto che Israele è “l’unica Nazione in Medio Oriente che condivide gli stessi valori democratici della Gran Bretagna e l’unica Nazione in Medio Oriente in cui la mia famiglia sentirebbe il caloroso abbraccio della libertà e dell’indipendenza“.

Javed è un simbolo per coloro che sono pro-Israele e scattano in sua difesa armati di nient’altro che frasi fatte per affrontare la realtà di undici milioni di palestinesi che non hanno mai provato alcun “caloroso abbraccio di libertà e indipendenza” da parte di Israele. Essi sono la prova vivente dell’inconciliabile contrasto tra democrazia ed etnocrazia intessuto nel paradosso sionista, emerso in modo così catastrofico che perfino ex primi ministri dello Stato sionista hanno manifestato la loro preoccupazione per la tendenza (di Israele) a diventare uno Stato di apartheid.

Quasi nessuno ha conosciuto tale contrasto in Israele meglio di Haneen Zoabi. La parlamentare della Knesset ha deciso di non partecipare alle prossime elezioni, in aprile. Nonostante ciò, mi ha detto che spera di risolvere un giorno la situazione e trasformare Israele da regime coloniale a democrazia piena, che non discrimini sulla base di chi è o non è ebreo. Membro del partito arabo-israeliano Balad, Zoabi è parlamentare dal 2009 e al centro della tensione che scuote il cuore di Israele, i cui sostenitori non hanno mai smesso di ricordarci, a sostegno della loro tesi, che “l’unica democrazia del Medio Oriente” ha Zoabi e un’altra decina di membri arabi in parlamento.

Come riesce a conciliare il fatto di essere una parlamentare della Knesset con l’aver denunciato che Israele non è una vera democrazia? “Quando gli Stati Uniti hanno permesso agli afroamericani di salire in autobus, ma hanno preteso che sedessero solo nei posti in fondo, ecco, questa era forse uguaglianza?” ha risposto tuonando. “Sei nella Knesset, ma non nel posto dal quale è possibile cambiare qualcosa, cambiare effettivamente qualcosa”.

In questo metaforico autobus, aggiunge, esistono 85 leggi razziste che ti impediscono di cambiare davvero le cose. “Siamo sempre seduti più in basso. Tu sali sull’autobus, ma devi sederti dietro. L’autobus su cui sali assicura speciali privilegi agli ebrei. Puoi gridare, ma non hai niente come il Primo Emendamento della Costituzione americana a proteggerti. C’è razzismo, ci sono articoli di legge razzisti, ma non c’è alcuna Costituzione a difendere i tuoi diritti.”

Le leggi razziali menzionate sono state al centro di campagne da parte di gruppi per la promozione dei diritti come “Adalah”, Centro per i Diritti della Minoranza Araba (Legal Centre of Arab Minority Rights) in Israele. Il gruppo per i diritti umani, con sede ad Haifa, ha documentato ogni legge discriminatoria all’interno del Paese. Più della metà pare siano state adottate dopo le elezioni del 2009, che portarono al potere la coalizione più di destra nella storia dello Stato, guidata dal primo ministro Benjamin Netanyahu. La più recente tra le leggi discriminatorie è la legge sullo Stato-Nazione [Jewish Nation-State Law], che è stata denunciata perché codifica l’apartheid in Israele.

Secondo Zoabi, l’apartheid di tipo israeliano è stata occultata da una potente narrazione che presenta al resto del mondo lo Stato come una democrazia liberale, con un ragionamento di giustificazione di carattere colonialista. “C’è un forte sentimento di giustificazione che permette a Israele di discriminare i suoi stessi cittadini palestinesi,” spiega. “Esiste un discorso morale che ti fa sentire in dovere di apprezzare il Paese anche se ti viene riconosciuto solo il 10% dei tuoi diritti”.

Utilizzando la classica dinamica del colonizzatore contro il colonizzato, la parlamentare di Nazareth aggiunge che Israele fa anche un ragionamento morale per spiegare perché può negare ai palestinesi i loro diritti nazionali. “Esiste una ragione etica per cui dovrebbero negare la tua storia e identità di palestinese, anche se ci riconoscono il 20% dei nostri diritti civili e nessuno di quelli nazionali. Ed esiste un ragionamento che illustra perché dovremmo accettare la nostra inferiorità e la posizione di popolo oppresso.” Il tragico impatto di tale potente narrazione, spiega Zoabi, è il motivo per cui Israele non considera la sofferenza dei palestinesi e la loro discriminazione come vera sofferenza e reale discriminazione.

La funzione dello Stato di Israele non è essere neutrale verso tutti i suoi cittadini, ma riconoscere un ruolo dominante agli ebrei a spese della popolazione autoctona”, ribadisce. “Israele non può garantire diritti individuali a tutti i suoi cittadini, perché lo Stato si definisce come Stato ebraico”.

Anche se non si ricandiderà alle elezioni legislative di aprile, Zoabi dice di essere determinata a restare in politica; mi ha detto che è tempo di sviluppare il programma politico del partito Balad e il suo progetto: “L’idea è di fare una campagna per uno Stato di tutti i cittadini, e contestare la concezione di uno Stato ebraico e democratico. Non esiste un modo democratico di essere uno Stato ebraico”. Il suo obiettivo, ribadisce, è di trasformare Israele in uno Stato non coloniale. “Il sionismo è un’ideologia coloniale e l’unico modo di avere una democrazia è di separare lo Stato dal sionismo”.

Come sarebbe Israele come Stato non coloniale, non sionista? “Immaginiamo una democrazia. Non diciamo che chi è arrivato come colonizzatore ora se ne deve andare; diciamo che chi è arrivato come colonizzatore oggi ha la possibilità di vivere insieme a noi”.

Israele, insiste Zoabi, non deve continuare con i tentativi di spostamento e sostituzione dei palestinesi – la popolazione autoctona – ma deve cercare di coesistere con loro. “L’unico modo di coesistere con noi è eliminare dall’agenda gli obiettivi coloniali e sviluppare uno Stato per tutti i cittadini di Israele. Non a spese della nostra identità e del nostro legame con i palestinesi nel resto del mondo.

Contemporaneamente, Balad ha una visione democratica di accettazione di tutti gli israeliani come normali esseri umani in uno Stato normale. Il suo messaggio agli ebrei israeliani, dice Haneen Zoabi, è semplice: “Vorremmo riconoscervi come collettività, però all’interno di uno Stato che non si identifichi esclusivamente con voi, ma che si identifichi con me e con voi allo stesso livello.” Uno Stato del genere sarà uno Stato diverso con una diversa simbologia, e sarà una democrazia. “Su questa base, io non difendo solo i miei diritti, ma anche il diritto degli ebrei come popolo, perché anche loro hanno il diritto di vivere in un Paese normale. Forse non hanno scelto di vivere in uno Stato razzista, di apartheid, ma nessuno ha dato loro un’alternativa. Balad offre una vera alternativa.”

(traduzione di Elena Bellini)




Khalida Jarrar lascia il carcere israeliano con “messaggi di libertà”

Tamara Nassar

2 marzo 2019, Electronic Intifada

Giovedì Israele ha rilasciato la parlamentare [del Consiglio Legislativo Palestinese dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] di sinistra Khalida Jarrar, dopo averla tenuta in carcere senza accuse né processo per 20 mesi.

È stata portata via da casa sua il 2 luglio 2017 durante un’incursione prima dell’alba nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Israele ha incarcerato Jarrar molte volte.

“Hanno detto alla mia famiglia che sarei stata rilasciata a mezzogiorno al checkpoint militare di al-Jalameh, ma l’autorità penitenziaria ha fatto arrivare un bosta speciale e ha deciso di portarmi al checkpoint di Salem e di rilasciarmi al mattino presto”, ha detto Jarrar in un video.

Bosta è il nome di un veicolo usato per trasferire i prigionieri in piccole gabbie di metallo con braccia e gambe incatenate, spesso per lunghe ore – una crudele forma di violenza.

“Hanno rilasciato la mamma molto presto al mattino e in un luogo diverso e l’hanno lasciata a camminare da sola in mezzo al nulla. A dispetto dei tentativi di Israele di disturbare la festa [per accogliere il suo rilascio], la mamma è libera!”, ha detto sui social media la figlia di Jarrar, Yafa, secondo quanto riportato dall’associazione per i diritti dei prigionieri “Samidoun”.

Dopo il suo rilascio Khalida Jarrar ha fatto visita alla tomba del padre.

“ In definitiva, ci auguriamo il rilascio di tutti i prigionieri e portiamo i loro messaggi di libertà”, ha aggiunto Jarrar.

Le condizioni dei prigionieri

La parlamentare ha sottolineato “le difficili condizioni in cui vivono le donne detenute, soprattutto dopo che sono state raggruppate e trasferite dal carcere HaSharon a quello di Damon, dove vivono in condizioni disumane.”

La commissione per i prigionieri dell’Autorità Nazionale Palestinese ha dichiarato che le autorità penitenziarie israeliane distribuivano alle detenute di Damon cibo avariato e scaduto.

Ha aggiunto che vi sono ancora telecamere di sorveglianza installate nel cortile, che costringono le donne a indossare l’hijab – il velo sul capo – anche dentro le loro stanze.

Intanto i palestinesi delle prigioni israeliane nella regione del Naqab (Negev) nel sud di Israele stanno sciogliendo le organizzazioni dei prigionieri per protesta contro le repressioni delle autorità carcerarie israeliane.

Le donne palestinesi detenute nel carcere di HaSharon hanno contestato la decisione delle autorità di installare a settembre telecamere di sorveglianza nel cortile del carcere, rifiutandosi di andare in cortile.

Secondo The Times of Israel, Jarrar ha parlato del piano di peggiorare le condizioni dei palestinesi nelle prigioni israeliane e riportare il loro livello di vita al “minimo indispensabile” , annunciato il mese scorso, del ministro israeliano per la Pubblica Sicurezza Gilad Erdan.

Erdan fa parte di una commissione composta da diversi membri del parlamento israeliano, come anche lo Shin Bet [servizio di sicurezza interno, ndtr.], che stabilisce le condizioni dei prigionieri palestinesi ed impone loro ulteriori restrizioni.

“Parte dell’attacco è stato contro le donne detenute”, ha detto Jarrar alla rete televisiva Wattan dopo il suo rilascio. “Stanno cercando di ridurre le detenute in una situazione in cui ricomincino la loro lotta dal punto di partenza.”

“Le celle sono molto umide, le installazioni elettriche sono pericolose perché sono bagnate, soprattutto d’inverno, e questo provoca incendi”, ha detto Jarrar. “Il cortile è pieno di telecamere. Non abbiamo una biblioteca, non abbiamo un’aula scolastica. Non esiste cucina e le detenute sono costrette a cucinare nelle loro umide celle.”

Erdan ha annunciato il blocco dei fondi destinati dall’Autorità Nazionale Palestinese ai servizi per i detenuti, riducendo la loro autonomia e limitando le forniture d’acqua.

Secondo Haaretz, ha sostenuto che il consumo d’acqua dei prigionieri è “folle” ed è un loro modo “di sovvertire lo Stato”.

Il quotidiano non ha specificato quanta acqua si presume consumino i prigionieri palestinesi.

Citati in un rapporto del governo

Allo scopo di screditare e diffamare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele] (BDS) per i diritti dei palestinesi, il governo israeliano il mese scorso ha pubblicato un rapporto intitolato “Terroristi in giacca: i legami tra le ONG che promuovono il BDS e le organizzazioni terroriste”.

Il rapporto definisce Jarrar, che fa parte del consiglio direttivo dell’associazione “Addameer” per i diritti dei prigionieri, come una dei “numerosi membri e agenti terroristi che sono diventati figure dirigenti in organizzazioni non governative che delegittimano e promuovono boicottaggi contro Israele, mentre nascondono o minimizzano il loro passato di terroristi.”

È da notare che Israele non ha mai formulato accuse contro Jarrar negli scorsi 20 mesi, nonostante sostenga che lei abbia legami “col terrorismo”.

Jarrar è membro del Consiglio Legislativo Palestinese e ex leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

Israele considera quella fazione politica, come praticamente tutti gli altri partiti politici palestinesi, un’organizzazione “terroristica”. Attualmente ci sono otto parlamentari palestinesi nelle carceri israeliane, cinque dei quali in detenzione amministrativa [cioè senza accuse e senza processo, ndtr.].

Anche l’artista palestinese Mustapha Awad è citato nel rapporto.

E’ in carcere da luglio e a novembre è stato condannato ad una pena di un anno in una prigione israeliana.

Awad, che ha 36 anni, è nato nel campo profughi di Ein al-Hilweh in Libano e a 20 anni ha ottenuto asilo in Belgio.

Come molti rifugiati palestinesi, Awad non era mai stato in Palestina e ha deciso di visitarla la scorsa estate, ma è stato arrestato dalle autorità israeliane quando ha cercato di entrare nella Cisgiordania occupata dalla Giordania, e da allora è in carcere.

Israele accusa Awad, che è co-fondatore di un gruppo di danza popolare, di appartenere al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

L’Egitto rilascia membri di Hamas

Giovedì le autorità egiziane hanno rilasciato quattro membri di Hamas, che erano stati rapiti da uomini armati in Egitto nell’agosto 2015, e altri quattro palestinesi della Striscia di Gaza.

I membri di Hamas Abdeldayim Abu Libdah, Abdullah Abu al-Jubain, Hussein al-Zibdah e Yasir Zannoun sono arrivati attraverso il valico di Rafah nella Striscia di Gaza accompagnati dal membro dell’ufficio politico di Hamas Rawhi Mushtaha.

Il leader di Hamas Ismail Haniyeh, che era tornato nella Striscia il giorno prima, avrebbe ringraziato le autorità egiziane per aver rilasciato gli uomini.

I quattro membri di Hamas sono stati rapiti da uomini mascherati dopo essere entrati in Egitto da Gaza attraverso il valico di Rafah e si trovavano su un autobus diretto all’aeroporto internazionale del Cairo quando è avvenuto il rapimento.

L’Egitto non ha mai ammesso ufficialmente di detenerli in carcere.

Tamara Nassar è assistente di redazione di ‘The Electronic Intifada’

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La strategia di Trump in Medio Oriente è destinata a fallire

Joe Macaron

28 febbraio 2019, Al Jazeera

Far pagare ai palestinesi l’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran sarà un disastro per gli USA e per i loro alleati arabi

Appena una settimana dopo aver partecipato a Varsavia all’inizio di questo mese a quella che è stata universalmente vista come una conferenza contro l’Iran, Jared Kushner, consigliere del presidente USA Donald Trump, ha intrapreso un viaggio diplomatico speciale in Medio Oriente per promuovere e cercare finanziamenti per il suo piano di pace per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Com’era prevedibile, nel suo giro nella regione ha portato con sé il rappresentante speciale USA per l’Iran Brian Hook.

L’incontro di Varsavia e il viaggio di Kushner in Medio Oriente riflettono quello che sembra essere un pilastro fondamentale della politica estera dell’amministrazione Trump, che lega il molto atteso “accordo del secolo” alla formazione di un’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran.

La Casa Bianca si aspetta che gli arabi firmino l’accordo di Kushner, normalizzino le relazioni con gli israeliani e lavorino con loro contro l’Iran. Questa è la ragione per cui, mentre molti hanno considerato un fallimento la conferenza di Varsavia, in quanto non ha convinto gli alleati europei a sostenere appieno le politiche USA contro il regime iraniano, l’amministrazione Trump l’ha vista come un successo, in quanto ha riunito allo stesso tavolo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e rappresentanti di vari Paesi arabi.

Tuttavia questa strategia piuttosto miope di politica estera per il Medio Oriente ignora importanti realtà sul terreno ed è, di conseguenza, destinata a fallire.

Un Iran spavaldo

Da quando nel gennaio 2017 è arrivato alla Casa Bianca, Trump ha fatto in modo di distruggere sistematicamente la politica messa a punto dal suo predecessore nei confronti dell’Iran.

Il presidente Barack Obama pensava che gli USA non dovessero scontrarsi con l’Iran per conto degli alleati arabi e ha cercato di coinvolgere l’Iran. La sua amministrazione ha accentuato la pressione attraverso sanzioni internazionali e al contempo ha spinto per il dialogo.

Tra il 2014 e il 2016 gli USA e l’Iran hanno tacitamente lavorato insieme per lottare contro la comune minaccia dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL o ISIS), appoggiando i governi in Iraq e in Libano mentre evitavano uno scontro in Siria. Il tentativo di coinvolgimento dell’Iran è culminato con il “Joint Comprehensive Plan of Action” [Piano Complessivo Comune di Azione] (JCPOA), che ovviamente non era gradito a Israele e all’Arabia Saudita.

Dopo che Trump ha preso il potere, si è ritirato dallo JCPOA ed ha di nuovo imposto pesanti sanzioni all’Iran, cercando di far pressione su Teheran perché faccia concessioni sul programma di missili balistici e sulle sue attività regionali. Ma finora l’escalation ha solo reso l’Iran più spavaldo.

Il regime iraniano ha ripetutamente chiarito che non ha intenzione di negoziare a queste condizioni. Recentemente il leader supremo iraniano Ali Khamenei ha affermato che per il suo regime parlare con gli USA nell’attuale contesto è come “andare in ginocchio davanti al nemico”.

Nonostante l’escalation dell’amministrazione Trump contro l’Iran, le regole di condotta dell’era Obama rimangono in vigore in Iraq, Siria e Libano, dove gli USA continuano ad evitare uno scontro diretto con le forze iraniane e i loro alleati.

Tuttavia a Teheran l’attuale guerra psicologica sta alimentando la paranoia, il che incrementa il rischio di un errore di calcolo. Se Washington e Teheran continuano a spingersi troppo oltre, i loro alleati ne pagheranno le conseguenze.

Un regime iraniano messo all’angolo potrebbe facilmente diventare un ostacolo per le politiche Usa in Medio Oriente. Potrebbe motivare le sue risorse a Gaza ad agire contro Israele o forzare la mano del governo iracheno o libanese per prendere l’iniziativa contro interessi USA.

Attività sovversive iraniane possono non solo indebolire gli alleati USA nella regione, ma anche sabotare i tentativi statunitensi di far progredire i colloqui tra palestinesi e israeliani.

Un traballante tentativo di normalizzazione tra arabi e israeliani

Trump ha anche rovesciato la tradizionale politica USA riguardo al processo di pace israelo-palestinese. La sua amministrazione ora sta spingendo per rompere un principio base della politica araba, che lega la normalizzazione con Israele a un equo accordo israelo-palestinese che riconosca uno Stato palestinese sostenibile, preveda un ritiro di Israele sui confini del 1967 e definisca lo status di Gerusalemme. Gli alleati arabi degli USA vogliono un accordo che rispetti queste esigenze fondamentali; in patria sarebbe difficile far accettare qualunque cosa meno di questo.

I dirigenti arabi continuano a sentirsi a disagio riguardo a una normalizzazione ufficiale con Israele, dato che l’opinione pubblica araba rimane sensibile all’idea che flirtino con Israele. Se i dirigenti arabi appoggiassero un accordo tra palestinesi e israeliani percepito come sbagliato potrebbero facilmente scoppiare rivolte popolari in tutto il mondo arabo.

Riconoscendo questo pericolo, il re saudita Salman ha recentemente ripreso da suo figlio, il principe Mohammed bin Salman, il dossier sulla Palestina e riproposto la posizione tradizionale di Ryad sulla questione palestinese. Questa posizione è stata espressa il 13 febbraio in un’intervista con il Canale 13 israeliano dall’ex-capo dell’intelligence saudita, il principe Turki bin Faisal al-Saud, che ha lasciato intendere che l’Arabia Saudita sta aspettando a braccia aperte Israele se e quando farà un giusto accordo con i palestinesi.

L’altro rischio che i leader arabi devono affrontare nell’intraprendere una normalizzazione prematura con Israele è che in cambio l’amministrazione Trump potrebbe non volere andare al di là delle parole e delle sanzioni per tenere a bada l’Iran nella regione.

Una palude palestinese

Tuttavia la questione palestinese rimane la sfida fondamentale per la normalizzazione tra gli arabi e Israele e la costruzione di una coalizione contro l’Iran.

Jared Kushner ha imbastito un accordo di pace che dovrebbe essere reso pubblico in aprile dopo le elezioni politiche israeliane. Il cosiddetto “accordo del secolo” è probabilmente il primo tentativo di risolvere il conflitto di cui la parte palestinese non è stata informata o resa partecipe.

Ciò che è interessante in questo piano è il suo approccio alla politica palestinese. Dopo che Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, la politica dell’amministrazione Bush è stata di punire la Striscia bloccando ogni aiuto e al contempo assistere l’Autorità Nazionale Palestinese per mostrare come la Cisgiordania poteva prosperare rispettando le norme internazionali ed accettando negoziati con Israele.

Trump sta invertendo questo approccio, punendo l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania per aver rifiutato di accettare l’“accordo del secolo” dopo che lui ha spostato l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.

Nel contempo la Casa Bianca sta corteggiando Hamas con finanziamenti per importanti progetti economici a Gaza, che, come l’atteggiamento dell’amministrazione Bush, incoraggiano le divisioni palestinesi invece di rafforzarne l’unità.

Trump ha bisogno di un fronte palestinese unito che approvi il piano di pace che suo genero sta proponendo, ma sia Fatah che Hamas hanno puntato sulla divisione tra Cisgiordania e Gaza e vedono la possibile riunificazione in base all’accordo come dannosa per i propri interessi.

Benché non tutte le condizioni dell’accordo siano state ancora divulgate, i dettagli già noti al pubblico indicano che non rispetteranno l’interesse superiore dei palestinesi.

Il 25 febbraio, in un’intervista per la rete televisiva Sky News Arabia degli Emirati, Kushner ha dichiarato: “Se puoi eliminare il confine e avere pace e meno timori del terrorismo, potresti avere un flusso più libero di prodotti, di persone, e ciò creerebbe molte opportunità.”

Ciò che questa dichiarazione criptica significa è che la debole economia palestinese verrà ancora più integrata in quella israeliana, rendendo i palestinesi ancora più dipendenti dallo Stato di Israele, che continuerà ad avere il totale controllo sulla sicurezza, e di conseguenza la possibilità di reprimere il dissenso politico palestinese.

Quindi Trump sta legando la normalizzazione tra gli arabi e Israele e la deterrenza contro l’Iran a un accordo tra palestinesi e israeliani in termini che istituzionalizzerebbero il controllo israeliano sui territori palestinesi e avrebbe conseguenze disastrose per i palestinesi.

Far pagare ai palestinesi l’alleanza arabo-israeliana probabilmente creerà in futuro problemi ai dirigenti arabi. Potrebbe compromettere la deterrenza nei confronti di Teheran, rafforzando la popolarità del regime iraniano nella regione e delegittimando ulteriormente i già deboli regimi arabi.

In questo senso la strategia dell’amministrazione Trump di legare un accordo israelo-palestinese sbagliato a un’alleanza tra arabi e israeliani come deterrente nei confronti dell’Iran pregiudica questi due obiettivi USA in Medio Oriente e potrebbe persino ritorcersi contro gli alleati e gli interessi USA nella regione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Joe Macaron

Joe Macaron è borsista presso il Centro Arabo di Washington DC [centro di ricerca USA sui Paesi arabi, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Antisemitismo francese: lo strumento di Macron per zittire la solidarietà con i palestinesi

Malia Bouattia

28 febbraio 2019, Middle East Eye

Confondendo antisionismo e antisemitismo, Macron sta tentando di proteggere il governo dalle critiche per la sua attiva partecipazione ad altre forme di razzismo

Il presidente francese Emmanuel Macron si è impegnato a rendere illegale l’antisionismo considerandolo equivalente – dal punto di vista giuridico –all’antisemitismo, e di conseguenza un reato di istigazione all’odio razziale.

Questa annuncio fa seguito a un’aggressione verbale contro lo scrittore francese filo-israeliano Alain Finkielkraut durante una protesta dei “gilet gialli”, in cui un manifestante ha gridato le parole “sporco sionista”. Lo scontro è stato descritto dal presidente e da molti commentatori come antisemita.

Questo mese è stato anche vandalizzato un cimitero ebraico con svastiche naziste, con circa 80 tombe prese di mira nel villaggio di Quatzenheim, nella Francia orientale, mentre il ritratto di Simone Weil, sopravvissuta francese all’Olocausto, è stato sfigurato con simboli nazisti.

Attaccare i movimenti politici

L’allarmante incremento dell’antisemitismo non ha colpito solo la Francia, ma tutto il continente, con gruppi di estrema destra che conquistano terreno nelle urne e nelle piazze. Solo in Francia lo scorso anno gli attacchi antisemiti sono aumentati del 74%.

Ma il problema riguardo alla risposta dello Stato francese – che non è diversa da quella di altri governi, come quelli di GB e USA – è che prende di mira movimenti politici legittimi invece di occuparsi di una forma di oppressione intrinseca al tessuto delle istituzioni francesi.

Colpisce che non siano l’estrema destra e i suoi numerosi gruppuscoli ad essere bersaglio del presidente, né la crescente normalizzazione dei discorsi razzisti, anche da parte dello stesso leader francese.  

Al contrario, sono la solidarietà con il popolo palestinese e l’opposizione al sionismo – l’ideologia che giustifica la sua spoliazione – ad essere considerati responsabili.

Macron ci sta mostrando proprio quello che non si deve fare di fronte al crescente fascismo. Egli sta di fatto cooptando l’aumento dell’antisemitismo per colpire il dissenso politico nell’ambito dell’impegno filo-palestinese e antisionista.

Razzismo e fascismo sono forme strutturali di oppressione che si manifestano nelle piazze solo perché sono state legittimate, sdoganate e normalizzate attraverso le istituzioni dello Stato.

Sicuramente Macron è consapevole che durante la Seconda Guerra Mondiale l’antisemitismo e la conseguente disumanizzazione di interi popoli si diffusero in modo così capillare perché il discorso del partito nazista conquistò influenza all’interno delle istituzioni politiche.

Storia di occultamento

È particolarmente significativo che Macron stia tentando di equiparare antisionismo e antisemitismo quando solo pochi mesi fa è stato duramente criticato per aver difeso progetti per rendere omaggio a Philippe Petain, collaborazionista dei nazisti. Infatti egli ha sostenuto che ciò sarebbe legittimo perché Petain fu uno dei generali che portarono l’esercito francese alla vittoria un secolo fa [durante la Prima Guerra Mondiale, ndt.].

Tuttavia quando era alla guida del governo di Vichy, Petain e il suo governo agevolarono la deportazione nei campi della morte di migliaia di ebrei. Molto di tutto ciò in seguito è stato occultato, e quelli che erano stati complici vennero inseriti nell’amministrazione postbellica della repubblica [francese].

Anche il fatto che lo Stato colpisca tutto il movimento dei “gilet gialli” in base ad un singolo incidente scredita i tentativi di lottare contro il razzismo. Il movimento, che non ha una gerarchia ed è stato descritto come senza leader, include anche dimostranti di estrema destra – un punto di grande discussione politica interna negli scorsi mesi. Gruppi antirazzisti hanno manifestato la necessità di lottare per uno spazio inclusivo e intersezionale, che è possibile creare solo partecipando a eventi politici, proteste e raduni.

A livello di base c’è la consapevolezza che in una società segnata dal razzismo è semplicemente normale che persino nelle lotte contro l’austerità e tra organizzazioni di sinistra esistano idee reazionarie e conservatrici. La differenza è che c’è una volontà di partecipare ad un processo di sensibilizzazione per definire la direzione del movimento e ridimensionare la crescente predominanza del razzismo nella società francese.

L’accostamento non potrebbe essere più stridente. Gli antirazzisti in Francia stanno partecipando ad un movimento di massa contro l’austerità e sfidando le posizioni reazionarie, mentre il presidente, che per quanto lo riguarda è stato ben poco attivo contro il razzismo, sta tentando di sfruttarlo per lanciare un attacco generale contro la solidarietà con il popolo palestinese.

Flirtare con l’estrema destra

Le comunità temono per la propria sicurezza. Dare la falsa illusione che Macron e i suoi colleghi in GB e negli Usa stiano facendo leggi per combattere [l’insicurezza] è spregevole. Stanno attaccando gruppi con una lunga storia di antirazzismo, perché potrebbero anche appoggiare la lotta antiimperialista contro l’occupazione della Palestina da parte di Israele.

Allo stesso tempo proprio questi stessi politici stanno flirtando con il governo antisemita ungherese, l’estrema destra e personaggi come l’ex-stratega della Casa Bianca Steve Bannon. Stanno mettendo in pericolo le comunità ebraiche, mentre le strumentalizzano per giustificare i loro attacchi contro la sinistra e le comunità di colore e le loro politiche in Medio Oriente.

In Gran Bretagna stiamo assistendo al fatto che viene preso di mira l’impegno a favore dei palestinesi attraverso strategie di antiterrorismo, compreso “Prevent” [controverso programma antiterrorismo introdotto dal governo britannico nel 2003, ndt.]. Ciò ha portato all’annullamento di eventi, al fermo e alla demonizzazione di giovani attivisti e a minacce di rendere illegale il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele, ndt.] (BDS).

Negli USA attivisti e figure pubbliche vengono continuamente presi di mira da gruppi come “Canary Mission” [organizzazione filoisraeliana che monitora e manipola le reti sociali, ndt.]. Il recente insediamento delle deputate al Congresso Ilhan Omar e Rashida Tlaib è stato seguito da un’aggressione mediatica riguardo al loro appoggio alla liberazione dei palestinesi – per non parlare della proposta di legge sulla sicurezza in Medio Oriente votata dal Senato USA per criminalizzare il BDS.

La necessità di resistere

Il modello internazionale è chiaro. In tutto il mondo i ricchi e potenti stanno alimentando il razzismo per sviare la rabbia dovuta all’ineguaglianza e all’ingiustizia, compresa la normalizzazione di gruppi, personalità e governi di estrema destra. In questo processo l’antisemitismo sta riemergendo, anche tra persone che sono vicine al potere.

Eppure è la sinistra – il movimento filopalestinese e le comunità di colore – che viene accusata da questi stessi governi in tutto il mondo.

Oggi la lotta contro l’antisionismo, giustificata attraverso la falsa identificazione con l’antisemitismo, ha un triplice intento: indebolire la sinistra in patria, difendere il governo dalle critiche sulla sua attiva partecipazione alla crescita dell’antisemitismo e di altre forme di razzismo e nascondere l’appoggio geopolitico per Israele dietro la presunta difesa delle comunità ebraiche, mettendole nel contempo in pericolo. Bisogna resistere tenacemente contro tutti questi tre punti.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Malia Bouattia è un’attivista, ex-presidentessa dell’Unione Nazionale degli Studenti, co-fondatrice della “Rete Studenti non sospetti/Docenti non informatori” e presentatrice/commentatrice del programma “Donne Come Noi” della televisione Musulmana Britannica.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’escalation delle punizioni collettive israeliane contro i palestinesi

Nada Awad

21 febbraio 2019, Al Shabaka

Nel 2017 le autorità israeliane hanno trasferito con la forza la palestinese Nadia Abu Jamal da Gerusalemme, dopo la demolizione della casa della sua famiglia nel 2015. Inoltre l’Istituto di Previdenza Nazionale israeliano ha revocato la tessera sanitaria e altri documenti di previdenza sociale ai tre figli di Abu Jamal, due dei quali soffrono di patologie croniche. Questi ordini sono stati misure punitive dopo che suo marito, Ghassan, è stato ucciso mentre avrebbe effettuato un presunto attacco. Essi dimostrano l’ incremento di politiche israeliane che puniscono individui palestinesi per reati che non hanno commesso.

Israele ha fatto uso di punizioni collettive contro i palestinesi fin dall’inizio dell’occupazione militare nel 1967, attraverso demolizioni di case e guerra psicologica ed economica contro le famiglie di presunti attentatori – in violazione del diritto internazionale. Tali misure, applicate in tutti i Territori Palestinesi Occupati (TPO), sono state intensificate dalle autorità israeliane nei confronti delle famiglie e dei parenti di presunti attentatori soprattutto a Gerusalemme est e in particolar modo dal 2015.

Per esempio, i parlamentari israeliani negli ultimi anni hanno proposto leggi che legalizzerebbero azioni come quelle attuate contro Abu Jamal, mettendo lo Stato ufficialmente in grado di revocare lo status di residenza permanente a membri della famiglia di presunti attentatori. Nel dicembre 2018 il parlamento israeliano ha approvato in prima lettura una proposta di legge che consentirebbe il trasferimento forzato di famiglie di presunti attentatori palestinesi dalle città in cui vivono ad altre zone della Cisgiordania. Netanyahu ha espresso il suo appoggio al disegno di legge dichiarando: “L’espulsione di terroristi è uno strumento efficace. Per me i vantaggi superano i danni. I giuristi dicono che è contro la legge per come è prevista, e sarà sicuramente una sfida giuridica, ma non ho dubbi sulla sua efficacia.”

Questo articolo segnala l’ aumento delle punizioni collettive di Israele contro le famiglie di presunti attentatori attraverso azioni come i trasferimenti forzati, la demolizione di case e la guerra economica, e suggerisce le possibilità di contrastare i tentativi di Israele di inserire questi metodi nella legislazione per usarli per intensificare l’espulsione dei palestinesi da Gerusalemme.

L’ incremento dei trasferimenti forzati

I trasferimenti forzati sono stati il cuore della politica di Israele per raggiungere e conservare una maggioranza ebraica a Gerusalemme fin dalla sua annessione di fatto nel 1967. (1) Per raggiungere questo obiettivo demografico Israele attua una pianificazione edilizia discriminatoria per limitare la crescita della popolazione palestinese, mentre la legislazione israeliana rende difficile ai palestinesi sia vivere che trasferirsi nella città.

I palestinesi che vivevano a Gerusalemme dopo il 1967 ricevettero lo status di residenti permanenti. La legge sull’ “Ingresso in Israele” rende facile allo Stato revocare lo status di residenza permanente tramite l’attribuzione al ministero dell’Interno della prerogativa di annullare le residenze dei palestinesi in base ai seguenti criteri: vivere all’estero per oltre 7 anni; ottenere una cittadinanza straniera o la residenza permanente all’estero; non poter dimostrare che il “centro della propria vita” è in Israele; e, dal 2018, “contravvenire alla lealtà” nei confronti di Israele.

Tale revoca dei diritti di residenza è uno strumento diretto di trasferimento forzato, poiché i palestinesi in questa situazione non possono avere nemmeno il diritto di essere fisicamente presenti a Gerusalemme. Queste leggi sulla residenza a Gerusalemme limitano anche il ricongiungimento familiare per i palestinesi residenti a Gerusalemme con membri della famiglia che non hanno la residenza a Gerusalemme o la cittadinanza israeliana. Per i palestinesi residenti a Gerusalemme che scelgono di riunirsi alla famiglia in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza o nella diaspora, la conseguenza è la revoca dei loro diritti di residenza a Gerusalemme, che prelude al loro trasferimento forzato fuori dalla città.

Dall’adozione dell’ordine temporaneo del 2003 fino alla legge sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele, a chi fa richiesta di ricongiungimento familiare è impedito di ricevere lo status di residenza permanente. In altri termini, un palestinese non gerosolimitano che sposa un palestinese gerosolimitano non può ottenere lo status di residenza permanente, ma gli vengono invece rilasciati permessi temporanei se il ministero dell’Interno israeliano accoglie la richiesta di ricongiungimento familiare. Questa politica pone i palestinesi di Gerusalemme a rischio di venir separati dalla loro famiglia e spesso li costringe a lasciare Gerusalemme per vivere con i coniugi che non hanno i permessi; di conseguenza perdono il loro diritto a vivere lì. Dal 1967 ci sono state 14.500 revoche di residenze di palestinesi, delle quali 11.500 attuate dal 1995.

Nell’ottobre 2015 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che il governo stava esaminando “l’abolizione del ricongiungimento familiare” e “la revoca dello status di residenza e cittadinanza alle famiglie degli attentatori.” É stato questo il caso di Nadia Abu Jamal, originaria di un villaggio della Cisgiordania. Dopo aver sposato Ghassan e dopo una lunga procedura di ricongiungimento familiare, ha ottenuto il permesso di residenza temporanea per vivere a Gerusalemme, che rinnovava ogni anno. In seguito ad un presunto attentato da parte di suo marito il ministero dell’Interno ha ordinato a Nadia di lasciare la città e ha iniziato a rifiutare il rilascio di qualunque permesso che lei richiedesse. Nel gennaio 2017 la polizia ha arrestato Nadia in casa dei suoi suoceri, dove era andata a stare dopo la demolizione di casa sua, e l’ha trasferita con la forza fuori Gerusalemme.

Lo schema del caso Abu Jamal è stato da allora riproposto su più ampia scala. Dopo un presunto attacco nel 2017 il ministero dell’Interno israeliano ha dichiarato: “D’ora in poi chiunque organizzi, pianifichi o intenda condurre un attacco saprà che la sua famiglia pagherà un caro prezzo per la sua azione.” Aryeh Deri [all’epoca ministro dell’Interno del partito religioso Shah, ndtr.], parlando a nome del ministero, ha avvertito che “le conseguenze saranno severe e di vasta portata.”

Le “conseguenze di vasta portata” sono state chiare nel caso di Fadi Qunbar, accusato di aver compiuto un attacco con l’automobile nel luglio 2017. Deri ha revocato lo status di residenza permanente alla madre sessantunenne di Qunbar, oltre a 11 permessi di ricongiungimento familiare della sua famiglia estesa. Tra le 11 persone che hanno perso il diritto di vivere a Gerusalemme c’era il marito della figlia della sorellastra di Qunbar. La grande ampiezza con cui Deri ha applicato la legge ha segnato un chiaro ampliamento dell’estensione della revoca punitiva della residenza. Tutti i membri della famiglia di Qunbar stanno aspettando una decisione riguardo ad un possibile loro trasferimento forzato fuori dalle loro case.

Il caso di Qunbar è solo un esempio di come Israele abbia intensificato le misure di punizione collettiva in certi casi, stabilendo un precedente che spiana la strada a leggi che consentono che tali pratiche vengano utilizzate in modo esteso. Nel 2016 e 2017 i legislatori israeliani hanno presentato almeno quattro proposte di legge che fornirebbero una base giuridica alla revoca dei permessi di residenza sia alle persone che si presume abbiano compiuto un attacco che alle loro famiglie allargate. Tre dei quattro disegni di legge erano emendamenti all’articolo 11 della legge sull’ingresso in Israele.

Il primo [emendamento], P/20/2463, consente al ministero dell’Interno di revocare lo status di residenza permanente a presunti attentatori e ai loro familiari, oltre ai diritti relativi alla legge sulla Previdenza Nazionale e ad altre leggi. “Non c’è logica nel garantire eguali diritti a residenti che agiscono contro lo Stato e dargli la possibilità di godere dei servizi sociali che spettano a chi è residente permanente nello Stato di Israele”, sancisce la legge. Subito dopo, l’emendamento P/20/2808 stabilisce che il ministero dell’Interno possa cancellare un visto o lo status di residenza permanente di “membri della famiglia di una persona che compia un atto terroristico o abbia contribuito a compiere tale atto attraverso conoscenza, aiuto, incoraggiamento e sostegno prima, durante o dopo l’attuazione dell’atto terroristico”. L’emendamento P/20/3994 “attribuisce al ministro dell’Interno l’importante diritto di avere potere discrezionale relativamente alla commissione di atti terroristici.” E, come citato prima, nel dicembre 2018 è stata approvata in prima lettura alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] la legge P/20/3458, che consentirebbe “l’espulsione delle famiglie di terroristi per ragioni nazionaliste”. Essa conferirebbe all’esercito israeliano l’autorità di “espellere le famiglie degli aggressori che compiono o cercano di compiere un attacco terroristico” entro sette giorni. Sollecita il trasferimento forzato delle famiglie di presunti aggressori palestinesi in ogni area della Cisgiordania.

Inoltre, nel marzo 2018, il parlamento israeliano ha approvato un emendamento alla legge sull’ingresso in Israele che consente la revoca punitiva dello stato di residenza dei palestinesi sulla base di “violazione della lealtà”. Questa revoca è vietata in base all’articolo 45 dei Regolamenti dell’Aja della Quarta Convenzione di Ginevra, che proibisce esplicitamente alla potenza occupante di pretendere lealtà dalla popolazione occupata. Utilizzando un criterio così vago come la lealtà, Israele può revocare lo status di residenza di ogni palestinese di Gerusalemme.

Guerra psicologica ed economica

Nel 2015 il gabinetto di sicurezza israeliano ha confermato la demolizione della casa di un presunto attentatore come pratica punitiva legittima ed ha auspicato il divieto di nuova costruzione nel luogo della casa demolita e la confisca della proprietà stessa. Dal novembre 2014 l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha cassato 11 casi in cui famiglie di Gerusalemme si erano appellate contro gli ordini di demolizione, confermando la decisione dell’esercito israeliano di demolire o sigillare le case per punizione. Su cinque case sigillate e confiscate, tre sono state riempite di cemento, rendendo irreversibile la chiusura. Questo lascia senza casa le famiglie dei presunti attentatori e li rende sfollati interni.

Queste misure intervengono dopo un’interruzione di dieci anni delle demolizioni di case. Una commissione militare israeliana nel 2005 ha concluso che le demolizioni punitive di case portavano a risultati controproducenti, facendo sì che le autorità di governo israeliane sospendessero questa pratica con alcune eccezioni, prima di riprenderla nel 2014.

Inoltre, come forma di punizione collettiva contro le famiglie, Israele trattiene i corpi dei palestinesi uccisi durante presunti attacchi. Nel 2016 il parlamento israeliano ha approvato un emendamento alla legge israeliana antiterrorismo del 2016, che conferisce questa autorità alla polizia. Da ottobre 2015 Israele ha trattenuto i corpi di 194 palestinesi, 32 dei quali sono tuttora negli obitori israeliani. (2) In molti casi i corpi sono stati restituiti a determinate condizioni alle famiglie per la sepoltura dopo una lunga battaglia legale. Le condizioni richieste dalle autorità israeliane per il rilascio includono una sepoltura immediata – impedendo così l’autopsia – che deve inoltre avvenire di notte e a cui può partecipare un numero limitato di persone autorizzate.

Le nuove misure di punizione collettiva hanno anche preso di mira i mezzi di sussistenza delle famiglie. Attraverso la legge per il contrasto al terrorismo del 2016 il ministro della Difesa israeliano ha emesso parecchi ordini di confisca di denaro contro famiglie di presunti attentatori. Il ministro ha dichiarato che la confisca è lecita in base al fatto che il denaro costituisce un indennizzo per l’attacco. Nell’agosto 2017 le forze di polizia israeliane hanno fatto irruzione in diverse case appartenenti alle famiglie di presunti attentatori e confiscato grosse somme di denaro. Per esempio, il ministro della Difesa israeliano ha confiscato 4.000 dollari alla famiglia Manasra dopo che nel 2015 l’esercito israeliano ha ucciso Hasan Manasra, di 15 anni, durante un presunto accoltellamento in una colonia di Gerusalemme.Questa nuova misura di punizione collettiva ha lo scopo di mantenere le famiglie di presunti attentatori nel timore di rappresaglie e prende di mira le loro fondamentali risorse economiche.

Con un’altra iniziativa che costituisce un precedente, il governo israeliano ha intentato due cause civili contro la moglie e i quattro figli di Fadi Qunbar e contro la moglie e i cinque figli di Misbah Abu Sbeih, che avrebbero compiuto presunti attacchi a Gerusalemme est nell’ottobre 2016. Nella causa contro la famiglia di Qunbar è stato chiesto il pagamento di 2,3 milioni di dollari, mentre in quella contro la famiglia di Abu Sbeih è stato imposto il pagamento di una somma che ammontava a oltre un milione di dollari. La Procura distrettuale di Gerusalemme ha affermato: “Questa causa, che ha origine da un atto terroristico in cui sono stati uccisi dei soldati, ha lo scopo di recuperare alle casse dello Stato le spese sostenute in eventi di questo tipo, e di mandare un chiaro messaggio che lo Stato regolerà anche i conti a livello civile con chi ha perpetrato atti ostili.” L’ufficio ha anche affermato: “Alla luce del fatto che il terrorista ha provocato il danno, ai suoi eredi legali spetta farsene carico e indennizzare lo Stato in merito.”

Le famiglie dei presunti attentatori spesso si trovano isolate dalla società, che teme misure di rappresaglia. Attualmente le vittime di punizioni collettive da parte Israele sono sempre più riluttanti a lottare o a riferire violazioni, per paura di ulteriori rappresaglie delle autorità israeliane. A distanza di mesi e a volte di anni dalle punizioni collettive, i palestinesi spesso sperano che il loro silenzio possa tutelarli da ulteriori misure punitive. Questa paura delle rappresaglie e la concomitante erosione della solidarietà tra palestinesi, come risultato della crescente arbitrarietà del potere di rappresaglia statale, ha accresciuto l’impunità di Israele relativamente alle sue violazioni dei divieti internazionali di punizioni collettive.

Direttive della legislazione internazionale

La legislazione internazionale sui diritti umani sancisce il divieto di punizione collettiva. L’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra afferma che “nessun individuo protetto può essere punito per un reato che non ha personalmente commesso. Le pene collettive e analogamente tutte le misure di intimidazione o terrorismo sono proibite”.

Oltretutto il trasferimento forzato di palestinesi è una violazione del diritto internazionale in quanto i palestinesi sono considerati una popolazione protetta. Infatti gli enti internazionali hanno ripetutamente affermato lo status di Gerusalemme come città occupata, definendo il popolo palestinese “persone protette”. L’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra vieta il trasferimento forzato della popolazione palestinese protetta e lo considera un crimine di guerra. Se utilizzato in modo sistematico e diffuso, lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale lo considera un crimine contro l’umanità. (3) Le misure israeliane di punizione collettiva violano anche il divieto di distruzione e appropriazione della proprietà delle persone protette.

Inoltre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2016 ha dichiarato che “oltre a costituire una punizione collettiva, la mancata restituzione [alle famiglie] dei cadaveri contrasta con gli obblighi di Israele come potenza occupante secondo la Quarta Convenzione di Ginevra (articoli 27 e 30) e viola il divieto di tortura e maltrattamenti.”

Ad Israele è anche fatto divieto di cercare di usare lo stato di emergenza o le ragioni di sicurezza per giustificare la violazione delle norme giuridiche stabilite dalla legislazione internazionale sui diritti umani. La Commissione Diritti Umani dell’ONU ha sottolineato che il divieto di punizione collettiva non è derogabile, neanche in stato di emergenza. Eppure Israele adduce sistematicamente ragioni di sicurezza per incrementare le politiche punitive contro la popolazione palestinese con l’obiettivo del loro trasferimento forzato.

In base ai principi del diritto consuetudinario internazionale gli Stati terzi sono tenuti a impedire violazioni in corso del diritto umanitario attraverso indagini, incriminazioni, rifiuto di aiuti o crediti e cooperazione per porre fine alla grave violazione, incluse misure di rappresaglia contro gli Stati responsabili delle violazioni. Tuttavia l’opposizione della comunità internazionale all’uso di Israele delle punizioni collettive raramente si è spinta oltre il livello di condanna verbale. Sta ai palestinesi e al movimento di solidarietà coi palestinesi fare pressioni sulla comunità internazionale e su Israele perché cessino queste violazioni.

Contrastare le punizioni collettive

1. É indispensabile per i palestinesi ed i loro alleati sensibilizzare i media e la società civile sull’uso da parte di Israele delle punizioni collettive come mezzo di trasferimento forzato e considerarlo come un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità. Ciò può contribuire a rendere prioritario il problema nell’agenda dell’ONU.

2. I palestinesi dovrebbero anche fare pressione sulla Corte Penale Internazionale (CPI) perché aggiunga la punizione collettiva al suo elenco di crimini perseguibili. L’attuale indagine preliminare della CPI su potenziali violazioni del diritto internazionale in tutti i Territori Palestinesi Occupati (TPO) dovrebbe essere monitorata, in quanto costituisce un banco di prova per una legge internazionale relativa alla punizione collettiva. La definizione da parte della CPI della punizione collettiva come atto criminale sarebbe un passo verso la fine dell’impunità israeliana, che consentirebbe di perseguire questa violazione di diritti umani fondamentali.

3. Ê quindi indispensabile assistere le vittime sottoponendo i loro casi di punizione collettiva alla sezione della CPI dedicata a facilitare la partecipazione delle vittime.

É rendendo responsabili i criminali di guerra israeliani che le politiche di punizione collettiva contro i palestinesi, che portano al loro trasferimento forzato da Gerusalemme, potranno cessare.

Note:

  1. In base allo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, la deportazione o il trasferimento forzato di popolazione significa “spostamento forzato delle persone coinvolte attraverso espulsione o altri atti coercitivi dall’area in cui sono legittimamente presenti, in assenza di motivi contemplati dal diritto internazionale.”

  2. Dati dell’unità di monitoraggio Al-Haq, 12 gennaio 2018

  1. Benché l’imposizione di punizioni collettive sia stata considerata un crimine di guerra nel rapporto della ‘Commissione sulla Responsabilità’ creata dopo la Prima Guerra Mondiale e negli statuti del Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda e del tribunale speciale per la Sierra Leone, non è stata inclusa come tale nello Statuto di Roma.

Nada Awad

Nada Awad è una palestinese nata a Gerusalemme. Attualmente lavora come assistente ricercatrice all’Istituto Muwatin per la Democrazia e i Diritti Umani dell’università di Birzeit [università palestinese nei pressi di Ramallah, ndtr.]. Ha conseguito un dottorato in Relazioni Internazionali e Sicurezza Internazionale della facoltà di Scienze Politiche a Parigi. In precedenza è stata responsabile del dipartimento legale presso il Community Action Center (Università di Al-Quds) [maggiore istituzione accademica palestinese a Gerusalemme, ndt.], dove si è occupata della questione dei trasferimenti forzati di palestinesi da Gerusalemme. Ha lavorato anche in ricerche di archivio presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




GERUSALEMME. Tensioni ad Al-Aqsa, nuovo punto di rottura

Ben White

Middle East Eye, 21 febbraio 2019

Roma, 25 febbraio 2019, Nena News –  Passate inosservate sui media occidentali, le tensioni nella Gerusalemme occupata si sono intensificate. La scorsa settimana è nato un nuovo scontro sulla questione del complesso della Moschea di Al-Aqsa, nel contesto degli sforzi sempre più intensi che le autorità israeliane e i coloni stanno mettendo in campo per cambiare lo status quo e impossessarsi delle proprietà palestinesi nella Città Vecchia e dintorni.

Il governo giordano ha recentemente deciso di allargare la struttura della Waqf – l’istituzione incaricata di gestire il complesso di Al-Aqsa – per includere un certo numero di “pezzi grossi” palestinesi, oltre ai consolidati membri giordani.

Accessi chiusi 

La mossa è giunta in risposta a quella che Ofer Zalzberg, dell’Unità di Crisi Internazionale, ha descritto ad Haaretz come “l’erosione dello status quo” nella zona, che include anche la tolleranza, da parte delle forze di occupazione israeliane, di un “tranquillo pregare” degli ebrei all’interno del complesso – “uno sviluppo alquanto recente”, nota il giornale.

Giovedì scorso, il comitato appena allargato ha fatto un sopralluogo, e pregato, nell’edificio situato alla Porta della Misericordia (Bab al-Rahma), chiuso dalle autorità israeliane di occupazione dal 2003. Al tempo, la chiusura venne motivata sulla base di ipotetiche attività politiche e legami con Hamas, ma l’edificio da allora è rimasto chiuso.

Domenica notte le forze israeliane hanno messo nuovi lucchetti ai cancelli metallici che portano all’edificio. Quando i fedeli palestinesi hanno cercato di aprire i cancelli, sono scoppiati scontri, e diversi palestinesi sono stati arrestati dalla polizia israeliana.

Martedì sera ci sono stati altri scontri e arresti, mentre un tribunale israeliano, mercoledì, ha vietato a una decina di palestinesi di entrare nel complesso. Sia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che Hamas hanno condannato tali sviluppi, e hanno lanciato l’allarme sulla precarietà della situazione.

Una nuova realtà dei fatti

Ciò che è successo al complesso di Al-Aqsa dev’essere considerato all’interno del più ampio scenario di Gerusalemme, e in particolare di ciò che l’ong israeliana Ir Amir ha definito una “rapida e sempre più intensa catena di nuovi avvenimenti”, tra cui “un crescente numero di campagne, sostenute dallo Stato, per gli insediamenti all’interno dei quartieri palestinesi”.

Un’espressione di tali campagne è lo sfratto di famiglie palestinesi dalle proprie case, in modo che i coloni possano prenderne possesso.  Domenica scorsa, la famiglia di Abu Assab è stata espulsa dalla propria casa nel quartiere musulmano della Città Vecchia, un destino che attende altre centinaia di famiglie palestinesi nella Gerusalemme Est occupata.

Ciò che si sta concretizzando a Gerusalemme è una “campagna organizzata e sistematica dei coloni, con il sostegno degli enti governativi, per espellere intere comunità da Gerusalemme Est e per stabilire insediamenti al loro posto”, secondo le parole di un supervisore israeliano degli insediamenti.

“Ciò che vogliono è evidente: una maggioranza ebraica qui e a Gerusalemme Est”, ha dichiarato recentemente all’Independent Jawad Siyam, un attivista di Silwan. La sua comunità è rovinata dalla presenza dell’insediamento coloniale “Città di David”, destinato a ricevere un nuova spinta dalle autorità israeliane di occupazione, sotto forma di un progetto per una stazione di teleferica.

Gerusalemme è stata per un bel po’ assente dai titoli dei giornali, visto che la gran parte dell’attenzione, per motivi più che comprensibili, è stata riservata alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno nella Striscia di Gaza e ai tentativi, arenati, di ottenere la liberazione dal blocco. Ci sono all’orizzonte anche le elezioni israeliane, e continuano le congetture su cos’abbia in serbo l’amministrazione Trump con il cosiddetto ‘piano di pace’.

In sottofondo, comunque, l’accelerazione delle politiche coloniali israeliane a Gerusalemme Est potrebbe portare a un nuovo punto di rottura.

Attivismo di base 

La Waqf ha dichiarato di mirare all’apertura del sito di Bab al-Rahma, una richiesta che potrebbe diventare il punto fondamentale di quel genere di proteste di massa che si sono viste nell’estate del 2017. Allora, i metal detector introdotti dalle forze israeliane di occupazione fuori dal complesso della moschea di Al-Aqsa innescarono manifestazioni spontanee, e alla fine vennero rimossi.

Che il Waqf decida o meno di procedere, potrebbe ritrovarsi con le mani legate dalla pressione dell’attivismo di base; c’è parecchia preoccupazione, tra i palestinesi, che il governo israeliano – insieme al cosiddetto “Movimento del Tempio” – si stia adoperando per una divisione dello spazio del complesso di Al-Aqsa, con l’instaurazione al suo interno di preghiere ebraiche formalizzate.

Nel frattempo, gli Stati Uniti stanno procedendo alla chiusura del loro Consolato a Gerusalemme Est e allo spostamento degli “affari” palestinesi in un ufficio all’interno della nuova Ambasciata: un segnale potente, se ce ne fosse bisogno, del fatto che la visione dell’amministrazione Trump traccia una netta separazione anche dalla semplice finzione di una “soluzione dei due Stati”, e del suo timbro di approvazione su Israele come unico Stato di fatto.

Gli eventi di questa settimana, comunque si svilupperanno, costituiscono un monito: mentre Israele e gli Stati Uniti vedono in Gerusalemme una facile preda per un rapido processo di colonizzazione e di maggiore imposizione della sovranità israeliana, i residenti palestinesi della città sono navigati guastafeste dei piani israeliani e potrebbero presto riprendere questo ruolo

Traduzione di Elena Bellini/ Nena News




Gaza sotto i droni israeliani

Angelo Stefanini

18 febbraio Salute Internazionale.info

Nella Striscia di Gaza non c’è scampo ai droni israeliani. Oltre che nei conflitti armati sono usati a scopo di sorveglianza, per compiere “assassini mirati” (o “uccisioni extra-giudiziarie) o per disperdere manifestazioni al confine con Israele con il lancio di gas lacrimogeni e liquido nauseante. L’impatto psicologico di queste armi è ovunque; dalla famiglia che, dopo aver perso un figlio colpito da un drone, si chiude in casa ogni volta che sente un ronzio in cielo, al bambino che torna a casa da scuola riferendo di come la classe non riesce a concentrarsi sui compiti a causa di un fastidioso ronzio nel cielo.

Un recente studio[1] condotto su 254 pazienti amputati dell’Artificial Limb and Polio Centre (ALPC) di Gaza mostra come la causa più comune delle lesioni che hanno condotto alla amputazione di uno o più arti era dovuta ad attacchi con droni armati.[2] Rispetto ad altri tipi di arma i droni hanno provocato le amputazioni più traumatiche nei palestinesi sopravvissuti durante le incursioni militari israeliane e periodi di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza dal 2006 al 2016. In particolare, le ferite causate da droni hanno richiesto amputazioni più prossimali che sono state seguite, dopo l’iniziale intervento d’emergenza, da un numero maggiore di operazioni chirurgiche rispetto alle amputazioni traumatiche causate da altre armi. L’aumentato carico di lavoro medico che ciò ha comportato si è aggiunto agli oneri pressoché insostenibili che gravano sul sistema sanitario di Gaza provocati dagli oltre undici anni di blocco illegale che Israele sta imponendo a quella popolazione: insufficienti forniture mediche ed energetiche, mancanza di acqua pulita e condizioni di lavoro insicure per il personale sanitario.

Gli autori dello studio, norvegesi e palestinesi, affermano che il crescente uso di droni armati telecomandati a distanza non deve essere passivamente accettato dalla comunità internazionale ma affrontato criticamente all’interno di una specifica cornice legale ed etica. La loro ricerca contribuisce a colmare una lacuna nella nostra conoscenza sulle conseguenze della guerra moderna sui civili. Oltre a documentare la maggiore prevalenza di amputazioni correlate ai droni rispetto a quelle causate da altre armi nei palestinesi di Gaza, questo studio contribuisce a confutare la tesi che i droni armati riducano al minimo i danni collaterali, una delle principali giustificazioni addotte al loro uso.[3]

 

Gaza sotto i droni

Nella Striscia di Gaza non c’è scampo ai droni israeliani. Soprannominati in arabo “zenana” (“il fastidioso rimbrottare della moglie” nell’accezione egiziana) per il molesto ronzio che emettono, i droni sono onnipresenti. Oltre che nei conflitti armati sono usati a scopo di sorveglianza, per compiere “assassini mirati” (o “uccisioni extra-giudiziarie) o per disperdere manifestazioni al confine con Israele con il lancio di gas lacrimogeni e liquido nauseante. Il fatto che dal 2005 Israele abbia ritirato i suoi coloni e non abbia una presenza evidente all’interno della Striscia non significa che l’occupazione non sia ancora una brutale realtà quotidiana, in gran parte gestita a distanza dai cieli. Paragonando a David e Goliath (ovviamente a parti invertite) il divario di forza tra i manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano, in questo caso il Goliath israeliano non ha nemmeno bisogno di entrare nel campo di battaglia.

Dai primi attacchi di droni israeliani nel 2004 fino al 2014, secondo il Centro Al Mezan, Israele con quest’arma a Gaza ha ucciso circa 2.000 persone.[4] Hamushim, gruppo israeliano per i diritti umani, sostiene che la guerra dei droni è stata responsabile di quasi un terzo delle 1543 vittime civili nella guerra del 2014.[5] Parlando con la gente di Gaza è chiaro, tuttavia, che il numero preoccupante di morti e feriti dovuti ai droni non racconta tutta la storia. L’impatto psicologico di queste armi è ovunque; dalla famiglia che, dopo aver perso un figlio colpito da un drone, si chiude in casa ogni volta che sente un ronzio in cielo, al bambino che torna a casa da scuola riferendo di come la classe non riesce a concentrarsi sui compiti a causa di un fastidioso ronzio nel cielo.[6] Gli abitanti di Gaza si sono in qualche modo abituati al rumore insidioso del drone. Lo racconta in modo suggestivo il Dr. Atef Abu Saif, professore di scienza politica alla Al-Azhar University di Gaza, nel suo diario del conflitto del 2014, The Drone Eats With Me (“Il Drone Mangia Con Me”). Sembra così vicino che “potrebbe essere qui accanto a noi“. E aggiunge “È come se volesse unirsi a noi per la serata aggiungendo una sedia invisibile“. Questa “familiarità” con i droni, tuttavia, non attenua le terribili incognite che accompagnano la loro presenza: perché si trovino là fuori, se stiano sorvegliando cosa, se siano armati o se stiano per colpire chi.

Etica del drone

Nel 2009 Daniel Reisner, ex capo del dipartimento legale dell’esercito israeliano, ha dichiarato al quotidiano Haaretz: “Se fai qualcosa per abbastanza tempo, il mondo lo accetta … Il diritto internazionale progredisce attraverso le violazioni.”[7] I rappresentanti israeliani, in questo modo, si sono apertamente vantati di aver aperto la strada a una delle pratiche più controverse della guerra moderna: uccidere con un telecomando. Nel recensire lo sconcertante libro Rise And Kill First -The Secret History of Israel’s Targeted Assassinations [“Alzati e uccidi per primo: la storia segreta degli assassinii mirati di Israele”], un ex-agente della CIA scrive: “Una delle prime cose che mi è stata insegnata quando sono entrato nella C.I.A. è che noi non commettiamo omicidi. […] Per questa politica abbiamo trovato un eufemismo. Non li chiamiamo più assassinii. Ora, sono ‘uccisioni mirate’, il più delle volte eseguite da droni che sono diventati l’arma d’avanguardia americana nella guerra al terrore.”[8] Una triste eredità lasciata dal presidente Barak Obama è stata un tremendo aumento dell’uso dei droni soprattutto in Pakistan, Somalia e Yemen causando la morte di circa 3.797 persone, tra cui 324 civili.[9]Molti sostengono che la combinazione di moderna tecnologia e intelligence sofisticata fa sì che l’uso di droni sia il modo più efficace a disposizione dell’antiterrorismo operativo. In effetti, in teoria cos’è più attraente che uccidere i “terroristi” dall’aria con una tecnologia elegante minimizzando il rischio per le forze di terra? Siamo in un’epoca in cui una tecnologia brillante che consente la raccolta e l’analisi apparentemente raffinata delle informazioni consente di rimuovere l’elemento umano – e l’umanità – dal processo decisionale.

In un’analisi inquietante di come i droni stanno cambiando il mondo, il filosofo Grégoire Chamayou[10] descrive come per la prima volta nella storia uno Stato possa rivendicare il diritto di condurre la guerra in un campo di battaglia mobile che potenzialmente si estende su tutto il mondo. Quello che stiamo vedendo è una trasformazione fondamentale delle leggi della guerra che nella storia umana hanno definito il conflitto militare tra i combattenti (lo “Ius in Bello”) racchiuse nel Diritto Umanitario. Mentre l’uso dei droni armati diventa sempre più la norma, i conflitti moderni hanno ora il potenziale per trasformarsi in una pratica di omicidii segreti e mirati, di là della vista e del controllo non solo dei potenziali nemici ma anche dei cittadini delle stesse democrazie. Utilizzare droni armati (“uccidere anziché catturare”) è divenuto emblematico della dottrina della “lotta al terrore” condotta dagli Stati Uniti e Israele.

Le nostre complicità

Nonostante l’uso israeliano di droni contro individui, luoghi pubblici, istituzioni accademiche e scuole palestinesi sia più frequente del loro uso in qualsiasi altro luogo al mondo da parte di qualsiasi altro esercito, questo “dettaglio” non appare nella maggior parte degli studi pubblicati.[11] La letteratura specializzata si limita a riportare che Israele produce e usa droni, mentre le conseguenze di tale uso a Gaza, giorno e notte, sono sottostimate e quasi assenti. L’aspetto più sorprendente dell’impiego israeliano dei droni a Gaza è che esso intensifica l’occupazione e la rende più redditizia. Israele non fa mistero di usare le guerre a Gaza per commercializzare i suoi droni. Benjamin Ben Eliezer, ex ministro della difesa israeliano, ha allegramente elogiato la vendita di armi israeliane usate nei territori occupati dichiarando che “alla gente piace comprare cose che sono state testate. Se Israele vende armi, sono state testate, provate. Possiamo dire che lo stiamo facendo da 10-15 anni.“[12]

È evidente quindi che la comunità internazionale, e principalmente l’Europa, Italia inclusa, commerciando in armi con Israele, sta partecipando in molti modi diversi alla guerra dei droni israeliani, offrendo un sostegno diretto all’aggressione contro i palestinesi e inviando un chiaro messaggio di approvazione per le politiche criminali di Israele. Un interessante sviluppo che sta emergendo nell’uso dei droni è nella sorveglianza e repressione dell’immigrazione verso l’Europa. Nel settembre scorso, l’Agenzia Frontex della guardia di frontiera e costiera dell’UE ha annunciato[13] l’inizio dei voli di prova di droni in Italia, Grecia e Portogallo. Il dettaglio che il comunicato di Frontex omette è che il tipo di droni in fase di test è stato in precedenza utilizzato per attaccare Gaza. Il già citato Dr. Atef Abu Saif prende in esame una serie di modalità con cui ci rendiamo complici dei misfatti compiuti dai droni israeliani. In primo luogo, Israele addestra i suoi clienti nell’uso dei droni in basi militari all’interno del territorio israeliano probabilmente a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza, mentre quello stesso drone sulla cui tecnologia e vantaggi gli alunni sono ammaestrati si aggira sopra la Gaza. Secondo, gli istruttori israeliani che addestrano le forze armate europee sull’uso di questi droni sono le stesse persone che li hanno usati per uccidere decine di civili palestinesi a Gaza. In terzo luogo, gran parte delle informazioni che i militari europei ricevono sui droni che i loro paesi stanno per acquistare si basa sull’esperienza di quei droni nei cieli di Gaza. Quarto, i fabbricanti israeliani di droni sono beneficiari di progetti di ricerca dell’UE. Ciò significa che i contribuenti europei contribuiscono a finanziare nuovi strumenti per uccidere. Infine, alcuni stati membri dell’UE stanno cercando alacremente di partecipare a progetti congiunti di sviluppo di droni con Israele.[14]

Ciò che sembra un approccio orientato al business ha gravi implicazioni per la violazione dei diritti di una popolazione sotto occupazione. “Se da una parte alcuni paesi in Europa o Asia ci deplorano per aver ucciso civili”ha affermato Yoav Galant, capo del comando meridionale dell’esercito israeliano durante l’operazione Piombo Fuso “dall’altra, inviano i loro ufficiali a partecipare ai miei seminari.”  “C’è molta ipocrisia”,  ha continuato “ti condannano politicamente, ma poi ti chiedono dove sta il trucco di voi israeliani che sapete trasformare il sangue in denaro”.  Secondo Mamoun Swidan, un diplomatico residente a Gaza, “l’UE agevola i crimini di Israele contro l’umanità.”[15] L’antropologo israeliano Jeff Halper sostiene che i territori occupati sono cruciali come laboratorio, non solo in termini di sicurezza interna israeliana, ma perché hanno permesso a Israele di diventare il leader internazionale dell’industria della “National Security”. Il suo successo nel vendere il suo know-how agli stati potenti lo rende sempre più restio a restituire i territori occupati ai palestinesi.[16] Mentre Stati Uniti e Israele hanno svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo e nell’uso di sistemi d’arma senza equipaggio, oggi esiste una “seconda generazione” di produttori e operatori, statali e non-statali, di droni armati. Secondo l’Osservatorio Diritti, l’Italia sta spendendo quasi 20 milioni di euro per armare i propri droni. Dopo che nel 2015 il Pentagono ha autorizzato il ministro della Difesa italiano ad armare i propri velivoli a controllo remoto, di produzione statunitense, ora, rivela l’Osservatorio sulle spese militari italiane, quasi 20 milioni di Euro sarebbero a disposizione a tale scopo. Sono di questi ultimi mesi le notizie di un’intensificazione delle commesse militari (droni e jet) fra Italia e Israele. [17, 18]

Conclusioni

L’amministrazione Obama ha giustificato l’aumento straordinario di attacchi con droni armati nella sua “guerra al terrore” con il fatto che sono “eccezionalmente chirurgici e precisi da colpire i sospetti terroristi senza mettere ‘in pericolo’ uomini, donne e bambini innocenti”.[19] Un rapporto della polizia militare israeliana fino ad ora tenuto nascosto al pubblico rivela come l’uccisione di quattro bambini palestinesi che giocavano sulla spiaggia nella guerra di Gaza nel 2014 sia stata opera di un drone israeliano.  I quattro cugini furono scambiati per combattenti di Hamas.[20] “Se solo sapessero per un attimo cosa può fare un’arma, il costo che ci fa pagare, penso che si fermerebbero. Penso che non abbiano un’anima. Quando guardano la TV e vedono le notizie, vedono le persone uccise da questi droni, come si sentono? Se venissero qui per una notte e sentissero i bombardamenti, gli aerei e i droni – non so cosa proverebbero – penso che dovrebbero venire qui e vivere la nostra esperienza della guerra e così capirebbero.”[21]  (Ridda Abu Znaid, testimone dell’uccisione della sorella e del cugino in un attacco israeliano di droni nella striscia di Gaza nel 2009, parlando di chi produce e commercia droni.)

Angelo Stefanini, medico volontario del PCRF (Palestine Children’s Relief Fund)

Bibliografia

  1. Hanne Heszlein-Lossius et al. Traumatic amputations caused by drone attacks in the local population in Gaza- a retrospective cross-sectional study. The Lancet Planetary Health 2019;3(1): e40-e47.
  2. Wikipedia.org: Aeromobile a pilotaggio remoto: “Un aeromobile a pilotaggio remoto o APR, comunemente noto come drone, è un apparecchio volante caratterizzato dall’assenza del pilota a bordo. Il suo volo è controllato dal computer a bordo del mezzo aereo oppure tramite il controllo remoto di un navigatore o pilota, sul terreno o in un altro veicolo. […]Gli APR utilizzati per scopi bellici possono essere attrezzati con armamenti o, più semplicemente, con sensori di ripresa che permettono l’invio in tempo reale, notte/giorno, alla stazione di controllo che è posta a decine di chilometri di distanza…”
  3. Byman D. Why drones work: the case for Washington’s weapon of choice. Foreign Affairs 2013; 92: 32–43.
  4. Why has Israel censored reporting on drones?  Electronicintifada.net 18.o4.2016
  5. The Gaza Laboratory — Protective Edge
  6. Gaza: Life beneath the drones
  7.  Consent and Advise. Haaretz.com, 29.01.2009
  8. Kenneth M. Pollack. Learning From Israel’s Political Assassination Program. Nytimes.com, 07.03.2018
  9.  Obama’s Final Drone Strike Data https://www.cfr.org/blog/obamas-final-drone-strike-data
  10. Grégoire Chamayou (2014) Teoria del drone. Principi filosofici del diritto di uccidere. DeriveApprodi.
  11. Sleepless in Gaza. Israeli drone war on the Gaza Strip 
  12. Citato in Cook, Jonathan “Israel’s booming secretive arms trade: New documentary argues success of country’s weapons industry relies on exploiting Palestinians,” Al Jazeera, 16.08.2013
  13. Frontex begins testing unmanned aircraft for border surveillance.  Frontex.europa.eu
  14. Ibid.
  15. Jeff Halper: Questa guerra è contro di noi. Nena-news.it, 0812.2008
  16. Droni militari, l’Italia spende 20 milioni per armarli.  Osservatoriodiritti.it, 08.06.2018
  17. Droni e jet, si intensificano  le commesse militari  fra Italia ed Israele. Italiaisraeletoday.it, 22.11.2018
  18. Obama’s covert drone war in numbers: ten times more strikes than Bush. Thebureauinvestigates.com, 17.01.2017
  19. Secret Israeli Report ‘Reveals Armed Drone Killed’ Four Children Playing on Gaza Beach in 2014. Haaretz.com, 12.08.2018
  20. Resist drone wars: the impact of drone attacks on Gaza. Waronwant.org, 24.03.2014



La strategia anti-BDS di Israele alimenta miti e falsità

Mohammad Makram Balawi

Middle East Monitor15 Febbraio, 2019

Il ministero degli Affari Strategici israeliano ha pubblicato un rapporto dal titolo Terrorists in Suits: The Ties Between NGOs promoting BDS and Terrorist Organizations [Terroristi in cravatta: i legami tra ONG pro-BDS e organizzazioni terroristiche]. L’inchiesta ha i toni del melodramma, specialmente quando raffigura immagini di attivisti pro-BDS affisse su una bacheca in sughero e collegate le une alle altre da tratti rossi, come in una scena di un film giallo.

L’uomo dietro l’inchiesta è il ministro per la Pubblica Sicurezza e degli Affari Strategici Gilad Erdan; senza dubbio ha una fervida immaginazione. Un guazzabuglio di nomi, luoghi, date, eventi, assemblee e immagini mischiati insieme per presentare uno scenario che si presume dissuada la gente dall’appoggiare il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e spazzi via tutti i crimini di Israele nei confronti del popolo palestinese. Così facendo, non fa che spacciare miti e falsità.

Nel rapporto si asserisce che tutti gli attivisti pro-Palestina e a favore della giustizia che vi sono menzionati non siano in realtà ciò che sembrano. Viene ad esempio citata una descrizione fatta dalla Corte Suprema di Israele nel 2007 a proposito di Shawan Jabarin, direttore generale della Al-Haq Foundation, una delle più antiche organizzazioni per i diritti umani della Cisgiordania, come di una personalità alla “Dr. Jekyll e Mr. Hyde”. Per “rilevanti questioni di sicurezza”, il tribunale ha appoggiato la decisione dell’esercito di vietargli di lasciare il Paese. Anche la vicedirettrice dell’organizzazione per i diritti Addameer, Khalida Jarrar, è stata descritta in modo analogo; dal 2017 si trova in stato di detenzione amministrativa per il suo ruolo come importante membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) e per le sue presunte attività terroristiche. La detenzione amministrativa consente a Israele di mantenere persone – guarda caso sempre palestinesi – dietro le sbarre senza alcuna accusa né processo, per periodi di sei mesi rinnovabili.

Una sezione del rapporto punta a presentare un atto di pirateria in mare aperto come una sorta di gesto eroico contro il terrorismo, ovvero quando nel 2010 le truppe israeliane attaccarono la Mavi Marmara, un’imbarcazione battente bandiera turca che faceva parte di un convoglio di navi che portava aiuti umanitari nella Striscia di Gaza assediata. In acque internazionali e nell’assoluto disprezzo del diritto internazionale e della vita umana, gli israeliani sequestrarono il convoglio e uccisero nove attivisti turchi: İbrahim Bilgen, Çetin Topçuoğlu, Furkan Doğan, Cengiz Akyüz, Ali Heyder Bengi, Cevdet Kılıçlar, Cengiz Songür, Fahri Yaldız, Necdet Yıldırım. Un decimo, Ugur Suleyman Soylemez, fu così gravemente ferito da morire dopo un coma di quattro anni. Israele alla fine ha accettato di pagare un risarcimento di più di 20 milioni di dollari alle famiglie delle vittime. I propagandisti israeliani al servizio del ministro Erdan sono ancora oggi impegnati a infangare l’immagine dei martiri e distorcere la realtà riguardo l’accaduto. Difatti, chiunque abbia mai avuto un qualsiasi legame con la Mavi Marmara e il suo convoglio viene ancora accusato di “terrorismo”, compreso l’allora capo della Campagna Britannica di Solidarietà per la Palestina Sarah Colborne, Ismail Patel dell’associazione Amici di Al-Aqsa e i leader palestinesi esiliati Muhammad Sawalha e Zaher Birawi.

Le accuse contro tali attivisti includono: apparire su canali televisivi di Al-Aqsa, di proprietà di Hamas; incoraggiare le flottiglie di liberazione a rompere l’assedio di Gaza; chiedere la fine della vendita di armi ad Israele e organizzare manifestazioni in favore del legittimo diritto al ritorno dei palestinesi e le proteste nell’ambito della Grande Marcia del Ritorno. Secondo il rapporto di Erdan, sarebbe già sufficiente andare a Gaza per offrire supporto umanitario e morale ai palestinesi, o descrivere Israele come uno Stato di apartheid, per essere additati come terroristi, nonostante Israele rientri perfettamente nei criteri per essere definita tale.

In tutto il testo di Terroristi in cravatta… c’è uno sfrontato disprezzo per il diritto internazionale, per le risoluzioni dell’ONU e anche per il puro e semplice buonsenso, e rispecchia lo spregio che Israele mostra nei confronti di quelle leggi e convenzioni mirate a proteggere chi è più vulnerabile e a offrire loro giustizia. In nessun punto del testo pare che i suoi autori siano anche solo lontanamente consapevoli della brutale occupazione militare di Israele, a cui sono asserviti i tribunali del Paese e le sue agenzie di sicurezza. Il rapporto cita infatti sentenze e inchieste di Shin Bet, l’agenzia per la sicurezza interna, come se fossero documenti indipendenti e completamente imparziali, cosa del tutto irragionevole. Qualsiasi opposizione o resistenza all’occupazione illegale e belligerante viene classificata come terrorismo, e guai a chi la pensi diversamente.

Secondo Erdan e il suo staff, nessuno è immune a tali gravi accuse, siano essi organizzazioni di società civile, fazioni di palestinesi, intellettuali o attivisti. L’inchiesta sostiene che 42 fra le principali ONG su quasi 300 organizzazioni internazionali promuovano la “delegittimazione di Israele” e la campagna BDS contro lo Stato sionista. Anche solo questo, insiste il reportage, è ragione sufficiente per classificarli come “terroristi” e per screditarli, insieme al loro considerevole lavoro. Tale attivismo, agli occhi del ministero degli Affari Strategici, sarebbe accettabile solo quando ciò avvantaggia Israele, altrimenti è bollato come “terrorismo”.

Esattamente come quando il presidente degli Stati Uniti George W. Bush, in seguito agli eventi dell’11 settembre, affermò che “chiunque non è con noi è con i terroristi”, non viene lasciato alcuno spazio alla via di mezzo, nonostante sia perfettamente ragionevole essere sia contro gli Stati Uniti che anche contro il terrorismo. Israele ha adottato la stessa filosofia, per cui o sei pro-Israele o sei un terrorista, non si può essere a favore della giustizia se quella giustizia va a vantaggio delle popolazioni della Palestina occupata.

Quando, mi chiedo, Israele e i suoi sostenitori si accorgeranno che l’attivismo a favore della giustizia e pro-Palestina non sono un problema, bensì che è l’occupazione israeliana a costituire il nocciolo della questione?

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Maria Monno)




Come il dominio dei rabbini sta alimentando una guerra santa in Israele

Jonathan Cook

13 febbraio 2019, Middle East Eye

Palestinesi, laici e donne devono far fronte a un contesto più ostile in quanto si sono consolidate tendenze teocratiche

In quale Paese la scorsa settimana un importante religioso stipendiato dallo Stato ha invitato i propri fedeli a diventare “guerrieri” e a emulare un gruppo di giovani uomini che hanno assassinato una donna di un’altra fede? Il religioso lo ha fatto nella più totale impunità. Di fatto stava solo facendo eco ad altri suoi colleghi di alto rango che hanno approvato un libro che – di nuovo nella più totale impunità – esorta i discepoli ad uccidere bambini di altre religioni.

Dove il capo del clero può chiamare “scimmie” le persone di colore e invocare l’espulsione di altre comunità religiose?

Dove un’élite religiosa esercita così tanto potere da decidere da sola chi può sposarsi o divorziare – ed è appoggiata da una legge che può condannare al carcere chi tenti di sposarsi senza la sua approvazione? Possono persino far chiudere il sistema ferroviario nazionale senza preavviso. Dove ci sono uomini santi talmente temuti che le donne sono cancellate dai cartelloni pubblicitari, i campus universitari adottano la segregazione in base al genere per accontentarli e le donne si ritrovano letteralmente spinte in fondo agli autobus?

Questo Paese è l’Arabia Saudita? O il Myanmar? O forse l’Iran?

No. Questo è Israele, l’unico Stato al mondo autoproclamatosi Stato ebraico.

Quali “valori condivisi”?

C’è almeno un politico a Washington che intenda essere eletto che non abbia a un certo punto dichiarato un “legame indissolubile” tra gli Stati Uniti e Israele, o sostenuto che entrambi difendono “valori condivisi”? Pochi, a quanto pare, hanno una qualche idea di quali valori Israele effettivamente rappresenti. Ci sono molti motivi per criticare Israele, compresa la sua brutale oppressione dei palestinesi sotto occupazione e il suo sistema di segregazione e discriminazione istituzionalizzate contro il quinto della sua popolazione che non è ebreo – la sua minoranza palestinese.

Ma chi critica ha totalmente ignorato le crescenti tendenze teocratiche di Israele. Ciò non si è dimostrato semplicemente regressivo per la popolazione ebraica di Israele, in quanto i rabbini esercitano un controllo anche maggiore sulle vite sia degli ebrei religiosi che laici, soprattutto donne. Ciò ha anche allarmanti implicazioni per i palestinesi, sia per quelli sotto occupazione che per quelli che vivono in Israele, in quanto il conflitto nazionale con risapute origini coloniali si è gradatamente trasformato in una guerra santa, alimentata da rabbini estremisti con l’implicita benedizione dello Stato.

Controllo della condizione personale

Nonostante i padri fondatori di Israele fossero dichiaratamente laici, la separazione tra Stato e religione in Israele è sempre stato quantomeno tenue – e ora sta crollando a un ritmo sempre più rapido.

Dopo la fondazione di Israele, David Ben Gurion, il primo capo del governo israeliano, decise di subordinare importanti aspetti della vita degli israeliani ebrei alla giurisdizione di un rabbinato ortodosso, che rappresenta la corrente più rigida, tradizionalista e conservatrice dell’ebraismo. Fino ad ora altre correnti più liberali non hanno un riconoscimento ufficiale in Israele.

La decisione di Ben Gurion rifletteva in parte un desiderio di garantire che il nuovo Stato accogliesse due diverse concezioni dell’ebraismo: sia di quelli che si identificavano come ebrei in senso laico, etnico o culturale, che di quelli che conservavano le tradizioni religiose dell’ebraismo. Sperava di fonderle in una nuova nozione di “nazionalità” ebraica.

Per questa ragione ai rabbini ortodossi venne concesso il controllo esclusivo su importanti aspetti della sfera pubblica – questioni di condizione personale, come la conversione, la nascita, la morte e il matrimonio.

Giustificazioni bibliche

Rafforzare il potere dei rabbini era una necessità urgente dei dirigenti laici di Israele per nascondere le origini del colonialismo di insediamento dello Stato. Ciò avrebbe potuto essere ottenuto utilizzando l’educazione per sottolineare le giustificazioni bibliche dell’usurpazione delle terre della popolazione autoctona palestinese da parte degli ebrei.

Come ha osservato il defunto attivista per la pace Uri Avnery, la rivendicazione sionista era “basata sulla storia biblica dell’Esodo, della conquista di Canaan, del regno di Saul, David e Salomone…le scuole israeliane insegnano la Bibbia come una storia reale.”

Tale indottrinamento, insieme a un tasso di natalità molto maggiore tra gli ebrei religiosi, ha contribuito a un’esplosione nel numero di persone che si identificano come religiose. Esse ora costituiscono metà della popolazione.

Oggi circa un quarto degli ebrei israeliani appartiene alla corrente ortodossa, che interpreta la Torah [libro sacro che contiene le leggi e le norme di condotta degli ebrei, ndtr.] in modo letterale, e uno su sette a quella ultra-ortodossa, o Haredim, la più fondamentalista delle correnti religiose ebraiche. Alcune stime suggeriscono che in 40 anni questi ultimi rappresenteranno un terzo della popolazione ebraica del Paese.

Conquistare il governo”

In Israele sia il crescente potere che l’estremismo degli ortodossi sono stati evidenziati nell’ultima settimana di gennaio quando uno dei loro più influenti rabbini, Shmuel Eliyahu, è intervenuto pubblicamente in difesa di cinque studenti accusati dell’uccisione di Aisha Rabi, una palestinese madre di otto figli. In ottobre essi hanno lanciato pietre contro la sua auto nei pressi di Nablus, nella Cisgiordania occupata, facendola uscire di strada.

Eliyahu è il figlio dell’ex rabbino capo di Israele, Mordechai Eliyahu, ed egli stesso siede nel Consiglio Rabbinico Supremo, che controlla molti aspetti della vita degli israeliani. È anche rabbino comunale di Safed, una città che nell’ebraismo ha lo stesso status di Medina per l’Islam o Betlemme per la Cristianità, per cui le sue parole hanno una grande importanza per gli ebrei ortodossi.

All’inizio del mese è apparso un video del discorso che ha tenuto presso il seminario in cui studiano i cinque accusati nella colonia illegale di Rehelim, a sud di Nablus.

Eliyahu non solo ha lodato i cinque come “guerrieri”, ma ha detto agli studenti che essi dovrebbero abbattere il “corrotto” sistema dei tribunali laici. Ha detto loro che era vitale anche “conquistare il governo”, ma senza fucili o carrarmati. “Dovete occupare le posizioni chiave dello Stato,” li ha esortati.

Giudici che violano la legge

In realtà questo processo è già molto avanzato.

La ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che avrebbe dovuto essere la prima a denunciare le affermazioni di Eliyahu, è totalmente allineata con i coloni religiosi. Significativamente lei e altri ministri del governo hanno mantenuto uno scrupoloso silenzio.

Ciò perché i rappresentanti politici delle comunità ebraiche religiose di Israele, compresi i coloni, sono ora diventati il fulcro delle coalizioni governative israeliane. Hanno molto potere e possono estorcere ad altri partiti cospicue concessioni. Da tempo Shaked ha utilizzato la propria posizione per inserire giudici più esplicitamente nazionalisti e religiosi nel sistema giudiziario, compreso il tribunale più importante del Paese, la Corte Suprema.

Due dei suoi attuali 15 giudici, Noam Sohlberg e David Mintz, hanno trasgredito apertamente alla legge, in quanto vivono in colonie della Cisgiordania in violazione del diritto internazionale. Molti altri giudici nominati membri della corte da Shaked sono religiosi e conservatori.

Questa è una significativa vittoria per i religiosi ortodossi e per i coloni. La Corte è l’ultima linea di difesa per i laici contro l’assalto alla loro libertà religiosa e all’uguaglianza di genere.

E la Corte offre l’unica risorsa ai palestinesi che cercano di mitigare i peggiori eccessi delle politiche violente e discriminatorie del governo, dell’esercito e dei coloni israeliani.

Popolo eletto

Un altro ideologo del movimento dei coloni, Naftali Bennett, collega di Shaked, è da quattro anni ministro dell’Educazione nel governo di Netanyahu. Questo incarico è stato a lungo fondamentale per gli ortodossi, perché forma la prossima generazione di israeliani.

Dopo decenni di concessioni ai rabbini, il sistema scolastico israeliano è già pesantemente incentrato sulla religione. Uno studio del 2016 ha mostrato che il 51% degli alunni ebrei frequentava scuole religiose segregate in base al sesso, che enfatizzavano dogmi biblici – rispetto al 33% solo 15 anni prima.

Ciò può spiegare come mai un recente sondaggio ha evidenziato che il 51% crede che gli ebrei abbiano un diritto che gli viene da dio sulla terra di Israele, e qualcuno in più – il 56% – crede che gli ebrei siano un “popolo eletto”.

È probabile che questi risultati peggiorino ulteriormente nei prossimi anni. Bennett ha dato molta più importanza nel curriculum all’identità tribale ebraica, agli studi biblici e alle rivendicazioni religiose sul Grande Israele, compresi i territori palestinesi – che vuole annettere.

Al contrario scienze e matematica sono sempre più ridimensionate nel sistema educativo e totalmente assenti nelle scuole degli ultra-ortodossi. L’evoluzionismo, ad esempio, è stato per lo più eliminato dal programma, persino in scuole laiche.

Nessuna pietà” per i palestinesi

Un altro ambito fondamentale del potere dello Stato di cui si sono impadroniti i religiosi, e soprattutto i coloni, sono i servizi di sicurezza. Il capo della polizia Roni Alsheikh ha vissuto per anni in una colonia ben nota per i suoi violenti attacchi contro i palestinesi, e anche l’attuale rabbino capo del corpo, Rahamim Brachyahu, è un colono.

Entrambi hanno attivamente promosso un progetto che recluta più ebrei religiosi nelle forze di polizia. Nahi Eyal, il fondatore del programma, ha affermato che la sua intenzione è di aiutare la comunità dei coloni a “farsi strada nei ranghi di comando.”

La tendenza è ancora più forte nell’esercito israeliano. I dati mostrano che la comunità nazional-religiosa, da cui vengono i coloni – benché sia solo il 10% della popolazione – rappresenta la metà di tutti i nuovi allievi ufficiali. Metà delle accademie militari israeliane ora è religiosa.

Ciò si è tradotto in un crescente ruolo dei rabbini ortodossi estremisti nel motivare i soldati sul campo di battaglia. Durante l’invasione di terra israeliana di Gaza nel 2008-09 [l’operazione “Piombo Fuso”, ndtr.] i soldati hanno ricevuto pamphlet del rabbinato militare che utilizzavano precetti biblici per convincerli a “non dimostrare pietà” per i palestinesi.

Istigazione ad uccidere bambini

Al contempo la popolazione ultra-ortodossa in rapida crescita è stata incoraggiata dal governo a spostarsi nelle colonie della Cisgiordania, costruite apposta per loro, come Modi’in Illit e Beitar Illit. Ciò a sua volta sta alimentando l’emergere di un nazionalismo aggressivo tra i giovani.

Una volta gli Haredim erano apertamente ostili, o quanto meno ambivalenti, nei confronti delle istituzioni statali, convinti che uno Stato ebraico fosse sacrilego, finché non arriverà il Messia a governare sugli ebrei.

Ora per la prima volta giovani Haredim stanno facendo il servizio militare nell’esercito israeliano, mettendo sotto pressione il comando militare perché si adegui alla loro ideologia fondamentalista. È stato coniato un nuovo termine per questi aggressivi soldati haredi: vengono chiamati “Hardal” [crasi di “haredì” e “datì leumì”, cioè nazional religiosi, ndtr.].

Brachyahu e rabbini Hardal sono tra gli importanti rabbini che hanno appoggiato un libro terrificante, la “Torah del Re”, scritto da due rabbini coloni, che invita gli ebrei a trattare senza pietà i non-ebrei, e specificamente i palestinesi.

Fornisce la benedizione di dio al terrorismo ebraico – non solo contro i palestinesi che cercano di resistere alla loro espulsione da parte dei coloni, ma contro tutti i palestinesi, persino i bambini, in base al principio che “è chiaro che cresceranno per farci del male.”

Si estende la segregazione per genere

La notevole crescita della religiosità ha creato problemi interni anche alla società israeliana, soprattutto per la popolazione laica in calo e per le donne.

In alcune parti del Paese manifesti per le imminenti elezioni – come più in generale per gli annunci pubblicitari – sono stati “ripuliti” da volti femminili per evitare di oltraggiare [la sensibilità religiosa, ndtr.].

Lo scorso mese la Corte Suprema ha criticato il Consiglio Israeliano per l’Educazione Superiore per aver consentito che la separazione tra uomini e donne nelle aule dei college si diffondesse nel resto dei campus, comprese le biblioteche e le zone comuni. Le studentesse e le docenti si stanno confrontando con norme per un abbigliamento “pudico”.

Il consiglio ha persino annunciato di avere intenzione di estendere la separazione perché si è dimostrato difficile persuadere gli ebrei religiosi a frequentare l’educazione superiore.

Violenza della folla

Israele è sempre stata una società profondamente strutturata per tenere separati ebrei e palestinesi, sia fisicamente che in termini di diritti. Ciò è altrettanto vero per la numerosa minoranza palestinese di Israele, un quinto della popolazione, che vive quasi totalmente separata dagli ebrei in comunità segregate. I loro bambini sono tenuti lontani da quelli ebrei in scuole separate.

Ma in Israele la maggiore sottolineatura della definizione religiosa di ebraicità significa che i palestinesi ora non solo devono affrontare la fredda violenza strutturale concepita dai fondatori laici di Israele, ma anche un’ostilità “calda”, autorizzata dalla Bibbia, da parte di estremisti religiosi.

Ciò è soprattutto evidente nella rapida crescita di aggressioni fisiche contro i palestinesi e le loro proprietà, così come contro i loro luoghi di culto, in Israele e nei territori occupati. Tra gli israeliani questa violenza è legittimata in quanto attacchi del “prezzo da pagare”, come se i palestinesi si provocassero danno da soli.

Ora su Youtube ci sono tanti video di coloni armati di fucili o bastoni che attaccano palestinesi, in genere quando questi ultimi cercano di accedere ai loro uliveti o sorgenti, mentre i soldati israeliani stanno lì senza intervenire o collaborano.

Incendi dolosi si sono estesi dagli uliveti alle case dei palestinesi, a volte con terribili risultati, in quanto alcune famiglie sono state bruciate vive.

Rabbini come Eliyahu hanno alimentato questa nuova ondata di attacchi con giustificazioni bibliche. Il terrorismo di Stato e la violenza della folla si sono fuse.

Distruggere al-Aqsa

Il maggior punto critico potenziale è nella Gerusalemme est occupata, in cui il crescente potere simbolico e politico di questi rabbini messianici rischia di esplodere nel complesso della moschea di al-Aqsa.

A lungo politici laici hanno giocato col fuoco in questo luogo santo islamico, utilizzando rivendicazioni di carattere archeologico per cercare di trasformarlo in un simbolo dello storico diritto ebraico sulla terra, compresi i territori occupati.

Ma la loro affermazione secondo cui la moschea è stata costruita su due templi ebraici, l’ultimo dei quali distrutto due millenni fa, è stata rapidamente riconfigurata per scopi incendiari della politica attuale.

La crescente influenza di ebrei religiosi in parlamento, nel governo, nei tribunali e nei servizi di sicurezza significa che le autorità diventano ancora più sfrontate nell’adottare rivendicazioni materiali per la sovranità su al-Aqsa.

Ciò comporta anche un’indulgenza persino maggiore verso gli estremisti religiosi che chiedono più di un controllo concreto sul sito della moschea. Vogliono distruggere al-Aqsa e sostituirla con il Terzo Tempio.

La guerra santa che si prepara

Lentamente Israele sta trasformando un progetto di colonizzazione di insediamento contro i palestinesi in una battaglia con il più complessivo mondo islamico. Sta trasformando un conflitto territoriale in una guerra santa.

La crescita demografica della popolazione religiosa di Israele, il fatto che il sistema scolastico coltivi un’ideologia ancora più estremista basata sulla Bibbia, l’occupazione dei centri di potere fondamentali dello Stato da parte dei religiosi e l’emergere di una classe di influenti rabbini che predicano il genocidio contro i vicini di Israele ha preparato il terreno per una tempesta perfetta nella regione.

Ora la questione è quando gli alleati di Israele, negli USA e in Europa, finalmente si accorgeranno della catastrofica direzione verso cui Israele sta andando – e troveranno la forza di prendere l’iniziativa necessaria per bloccarla.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook, giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il “Martha Gellhorn Special Prize for Journalism”.

(traduzione di Amedeo Rossi)