Per chi critica Michelle Alexander, i palestinesi non meritano diritti civili

Amjad Iraqi

23 gennaio 2019, +972

Lo scandalo da parte di personaggi dell’establishment ebraico in merito all’editoriale di Alexander sul New York Times a sostegno dei diritti dei palestinesi ricorda le reazioni degli americani bianchi al movimento per i diritti civili decenni fa.

Il forte editoriale di Michelle Alexander sul “New York Times” di sabato (“E’ tempo di rompere il silenzio sulla Palestina”) prima del giorno della commemorazione di Martin Luther King Jr., è stato presumibilmente una pietra miliare per il movimento per la Palestina negli USA.

Primo, per chi l’ha scritto: Alexander, l’autrice del fondamentale libro “The New Jim Crow” [in riferimento alle leggi segregazioniste nel Sud degli Stati Uniti, ndtr.] è un’illustre avvocatessa e un’intellettuale stimata per il suo attivismo e la sua erudizione sul razzismo negli USA, che non può facilmente essere liquidata come “marginale”.

Secondo, per dove è stato scritto: in un importantissimo giornale, che ospita più frequentemente editoriali di sostenitori di Israele come Bari Weiss, Matti Friedman, Bret Stephens, Shmuel Rosner, persino ministri come Naftali Bennett [attuale ministro dell’Educazione di Israele e dirigente del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

Terzo, per quando è stato scritto: Alexander è l’ultima importante afro-americana negli ultimi mesi ad aver espresso a voce – e ad essere presa di mira per questo – la sua solidarietà con il popolo palestinese, dopo che altri, come Tamika Mallory [attivista della Marcia delle Donne, ndtr.], Marc Lamont Hill [accademico, scrittore, attivista e personaggio televisivo, ndtr] e Angela Davis [storica dirigente del movimento per i diritti degli afro-americani e accademica, ndtr], hanno affrontato pubblicamente insulti e sconfessioni.

E quarto, perché è stato scritto: per sfidare il diffuso timore delle conseguenze, da parte di molti americani progressisti, di criticare pubblicamente Israele e parlare a favore dei diritti dei palestinesi.

Lo scandalo per l’editoriale di Alexander è arrivato rapidamente da gruppi e personalità dell’establishment ebraico. Alcuni di essi vale la pena leggerli per intero, se non altro per testimoniare l’isteria e la chutzpah [termine hiddish per arroganza, ndtr], di dire a una donna nera come commemorare uno dei più importanti leader afro-americani della storia, o come interpretare la sua consapevolezza dell’ingiustizia:

  • L’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, uno dei principali gruppi della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] (ADL): “Abbiamo un grande rispetto per Michelle Alexander e per il suo lavoro innovativo sui diritti civili, ma il suo articolo sul complesso conflitto israelo-palestinese è pericolosamente errato, ignora avvenimenti fondamentali, la storia e le responsabilità condivise di entrambe le parti per la sua soluzione.”

  • L’American Jewish Congress [Congresso Ebraico Americano, altro potente gruppo filo-israeliano, ndtr.] (AJC): “La memoria di Martin Luther King non è una clava morale da brandire contro ogni causa o Paese che uno disapprova. L’editoriale di Michelle Alexander è una vergognosa usurpazione. Tutti noi abbiamo da fare un lungo cammino per raggiungere la cima della collina [riferimento al famoso discorso di Martin Luther King “Ho un sogno”, ndtr.]. Non c’è bisogno di prendersela con il democratico Israele.”

  • David Harris, presidente dell’AJC: “L’articolo di Michelle Alexander: in sintesi chiede la fine di Israele/ cita con approvazione gli estremisti/ invoca l’appoggio di Martin Luther King senza basi concrete/ ignora: la ricerca della pace da parte di Israele dal ’48; la natura di Hamas; il terrorismo; i rifugiati ebrei dai Paesi arabi.”

  • David Friedman, ambasciatore USA in Israele. “Michelle Alexander ha torto sul NYT di oggi. Se Martin Luther King oggi fosse vivo penso che sarebbe molto orgoglioso del suo solido appoggio allo Stato di Israele. Un arabo in Medio Oriente che sia gay, donna, cristiano o desideri istruzione e miglioramento personale non potrebbe fare niente di meglio che vivere sotto (la bandiera israeliana).”

  • Michael Oren, deputato alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di Kulanu [partito di centro israeliano, ndtr.] ed ex-ambasciatore israeliano negli USA: “L’ambasciatore Friedman ha ragione, ma Israele deve intraprendere passi seri per difendersi. Mettendo sullo stesso piano l’appoggio nei confronti di Israele con quello alla guerra del Vietnam e l’opposizione a Martin Luther King Alexander ci delegittimizza pericolosamente. È una minaccia strategica e Israele deve trattarla come tale.”

Prevedibilmente queste personalità dell’establishment stanno cercando di potenziare i parametri del discorso “accettabile” sul conflitto. Per quanto li riguarda, non esiste alcuna posizione eticamente legittima a sostegno dei diritti dei palestinesi. L’unica cosa che i palestinesi producono sono razzi e razzismo, chiunque sia associato alla loro causa è in errore o è antisemita.

È particolarmente ironico che quelli che accusano Alexander di manipolare l’eredità di King sono anche noti per sostenere, tra le altre cose, che utilizzare tattiche non violente come il boicottaggio contro Israele è razzista, discriminatorio, provocatore, e/o dannoso. King, e il movimento dei diritti civili nel suo complesso, vennero accusati delle stesse cose durante le loro campagne di disobbedienza civile negli anni ’50 e ’60.

Come ha raccontato Jeanne Theoharis sul “Time” [importante periodico USA, ndtr.] di questo mese, il governo USA, l’FBI e le forze di polizia locali utilizzarono una pesante sorveglianza, la forza brutale e denunce penali per sabotare King e altri dirigenti neri, vedendo le loro attività come “pericolose”, “demagogiche” e “sovversive”. Dati di sondaggi e risposte ai media dell’epoca mostrano ulteriormente che, lungi dall’essere rispettato, il movimento dei Diritti Civili era di fatto “profondamente impopolare” tra la maggioranza dei bianchi americani sia nel Sud che nel Nord:

La maggioranza degli americani pensava che esso (il movimento) stesse andando troppo lontano e gli attivisti del movimento stessero diventando troppo estremisti. Alcuni pensavano che i loro obiettivi fossero sbagliati; altri che gli attivisti stessero prendendo la strada sbagliata – e la maggioranza dei bianchi americani era soddisfatta dello status quo così com’era. E quindi, criticavano, controllavano, demonizzavano e a volte criminalizzavano quelli che sfidavano il modo in cui stavano le cose, rendendo il dissenso molto oneroso.”

Ciò descrive precisamente le condizioni del movimento per la Palestina di oggi. Non solo nel discorso pubblico americano le richieste di diritti per i palestinesi sono spesso viste come estremiste (soprattutto il diritto al ritorno), ma l’opposizione alle politiche israeliane deve affrontare una struttura politica e legale aggressiva finalizzata a reprimerla. Questo include le nuove leggi federali e statali che hanno lo scopo di criminalizzare il movimento BDS e di confondere le critiche ad Israele con l’antisemitismo.

Inoltre il fatto di descrivere frequentemente Israele come una vittima dell’oppressione palestinese, o che entrambe le parti condividano alla pari le responsabilità è un inganno che nasconde l’evidente asimmetria del conflitto. Spiegando perché era disonesto dire ai neri americani di fare di più per superare la diseguaglianza a loro danno, una volta King disse a un giornalista: “È una beffa crudele dire a un uomo senza scarpe che deve risollevarsi da solo con le sue forze.” È in mala fede proprio come dire che i palestinesi hanno da rimboccarsi le maniche mentre sono sottoposti all’esilio, all’occupazione, al blocco, alla discriminazione e alla repressione del dissenso.

Come ha notato Alexander, all’epoca King era un sostenitore esplicito di Israele e del sionismo. Tuttavia divenne sempre più difficile per lui conciliare quella posizione con i valori universali che propugnava. Oggi è persino ancora più chiaro che il fatto di credere nella giustizia, nell’uguaglianza e nel risarcimento per i popoli oppressi – richieste che sono al cuore della causa palestinese – sia all’antitesi dell’obiettivo di Israele di conservare la superiorità ebraica e della sua visione della non violenza palestinese come equivalente alla violenza.

È questa consapevolezza che ha portato oggi molti attivisti afro-americani – che hanno seguito, si sono basati sulla e trasformato l’eredità di King – a includere i diritti dei palestinesi nella loro lotta per la giustizia globale. Come ha scritto Alexander, le pratiche israeliane sono diventate inevitabilmente “un richiamo all’apartheid in Sud Africa e alla segregazione “Jim Crow” negli Stati Uniti,” e come tali richiedono che i progressisti siano coerenti con i valori che affermano di sostenere. Il fatto che una persona come Alexander abbia aggiunto la sua voce a questo crescente movimento potrebbe ulteriormente allargare la porta perché altri facciano lo stesso.

Benché sia impossibile sapere quello che King avrebbe creduto oggi, si può immaginare che sarebbe rimasto sconcertato da quanto siano simili le reazioni alla causa palestinese a quelle degli americani bianchi alla sua causa. Nonostante quanto sostengono i critici di Alexander, il vero tradimento dell’eredità di King è pensare che i palestinesi debbano rimanere sottomessi alle pretese suprematiste di Israele, come se non meritassero gli stessi diritti per i quali King lottò affinché li ottenesse il suo stesso popolo.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele ha appena “perso Cronkite” – la lotta per i diritti dei palestinesi al “New York Times”

Robert Herbst

20 gennaio 2019 Mondoweiss

Nel lontano gennaio 1968, dopo una serie di attacchi dei nordvietnamiti e dei vietcong noti come “l’offensiva del Tet”, Walter Cronkite, presentatore nel notiziario CBS della sera e il giornalista più autorevole d’America, ritornò da un viaggio in Vietnam per riportare quello che vi stava succedendo. Alla fine del suo reportage del 27 febbraio, Cronkite, che raramente osava esprimere la propria opinione in diretta, espresse il suo verdetto:

Ora pare più sicuro che mai che la sanguinosa esperienza del Vietnam sta per finire in una situazione di stallo… È sempre più chiaro a questo reporter che l’unico modo razionale per uscirne sarà negoziare, non come vincitori, ma come gente onesta che ha mantenuto fede all’impegno di difendere la democrazia ed ha fatto il meglio che ha potuto.”

Si dice (con qualche polemica) che, dopo aver sentito questa dichiarazione, il presidente Lyndon B. Johnson abbia detto a un suo collaboratore: “Se abbiamo perso Cronkite, abbiamo perso il ceto medio americano.” Ma non c’è discussione sul fatto che il giudizio di Cronkite secondo cui la guerra del Vietnam era in una situazione di stallo impossibile da vincere sia stato un momento di svolta: ebbe un fortissimo impatto sulla discussione riguardo alla guerra e al corso della nostra politica. Diede un enorme impulso alla campagna contro la guerra di Gene McCarthy [candidato del partito democratico alle primarie per le presidenziali, ndtr.]; Bobby Kennedy scese in campo poche settimane dopo con un programma contro la guerra; il 31 marzo 1968, in un indimenticabile discorso alla Nazione, il presidente Johnson rinunciò a candidarsi di nuovo a presidente.

Oggi non c’è un “giornalista più autorevole d’America”. Il giornalismo è frammentato, in quanto ci siamo ritirati nei nostri rispettivi orticelli politici sia nelle notizie stampate che via cavo (e anche in internet). Ma se c’è qualcosa di simile all’arbitro più influente dell’opinione politica americana, questo è il “New York Times”. È letto quotidianamente dalla classe politica e liberal, progressisti e centristi dentro e fuori la “Beltway” [area di Washington in cui si concentrano gli uffici del potere, ndtr.]. Rimane il primo come diffusione complessiva tra quanti fanno opinione negli USA. Secondo l’ex-reporter del “Times” Neil Lewis, che nel 2012 ha scritto un articolo informativo per la Columbia Journalist Review [rivista per giornalisti della Columbia University, ndtr.] sul modo in cui il giornale ha informato su Israele, esso ha svolto anche la funzione di “giornale locale dell’ebraismo americano per più di un secolo.”

Ironicamente, dopo aver comprato il giornale ed essersi spostato dal Tennessee a New York, il fondatore Adolph Ochs era deciso a che il Times non apparisse mai come un “giornale ebraico” o un particolare sostenitore della causa ebraica. Durante la Seconda Guerra Mondiale la sottovalutazione dell’Olocausto da parte del giornale fu duramente criticata dalla comunità ebraica. Arthur Hays Sulzberger, genero di Och ed editore dal 1935 al 1961, non era sionista, convinto, insieme al suo nonno acquisito, il rabbino Isaac Mayer Wise, un fondatore dell’ebraismo riformato, che gli ebrei fossero seguaci di una religione, non un popolo o una nazione.

Neil Lewis descrive come la narrazione su Israele da parte del “Times” sia cambiata nel corso degli anni, sotto l’influenza della propaganda israeliana, o hasbara, uno sforzo con cui i palestinesi non potevano competere. “Teddy Kollek, sindaco di Gerusalemme dal 1965 al 1993, conosceva per nome ogni direttore del “Times”.” E i direttori del “Times” che visitavano Israele erano in genere “trattati come ospiti reali.” Lewis descrive anche come i direttori del “Times” reagirono negativamente a vari esempi di informazione critica su Israele negli anni ’80 e fino alla fine degli anni ’90 da parte dei corrispondenti del giornale da Gerusalemme. L’ex-direttore esecutivo Max Frankel ha ammesso la parzialità quando era direttore degli editorialisti. Nelle sue memorie (come vengono citate nel libro “The Israel Lobby”) [La Israel Lobby e la politica estera israeliana, Mondadori, 2007, ndtr.], egli ha scritto:

Ero molto più fedele a Israele di quanto osassi affermare…Forte della mia conoscenza di Israele e delle mie amicizie là, io stesso ho scritto la maggior parte dei nostri articoli di commento sul Medio oriente. Come più lettori arabi che ebrei hanno riconosciuto, li ho scritti da una prospettiva filo-israeliana.”

Lamentele in merito alla copertura informativa di parte su eventi riguardanti Israele-Palestina sono state un elemento chiave su questo sito per anni. L’ex capo redattore dell’ufficio di Gerusalemme Jodi Rudoren frequentava Abe Foxman [influente membro della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] e mostrò indifferenza culturale verso i palestinesi. Almeno quattro reporter del giornale hanno avuto figli nell’esercito israeliano. In quanto lettore del giornale negli ultimi 60 anni, so che la voce dei palestinesi che descrivono la propria lotta per i diritti umani e la dignità raramente è comparsa in queste pagine, mentre commenti filo-israeliani considerati attendibili sono arrivati per anni dagli editorialisti del “Zionist Times” David Brooks e Tom Friedman, e più recentemente da Bret Stephens, Bari Weiss, Shmuel Rosner e Matti Friedman.

All’inizio dello scorso anno, il primo gennaio 2018, tuttavia, il trentottenne A.G. Sulzberger ha sostituito suo padre come direttore (dopo un periodo di un anno come vice direttore). Da quando ha assunto l’incarico pare che siano in corso cambiamenti nel giornale sul fronte israelo-palestinese. Lo scorso anno l’editorialista da poco assunta Michelle Goldberg ha definito le uccisioni lungo la barriera di Gaza come un “massacro” e ha difeso l’antisionismo come una posizione legittima per ebrei e non ebrei, distinguendola dall’antisemitismo.

E oggi l’editorialista neo-assunta Michelle Alexander ha chiesto di “rompere il silenzio” sulla Palestina:

Dobbiamo condannare le azioni di Israele, le incessanti violazioni delle leggi internazionali, la continua occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme est e di Gaza, le demolizioni delle case e le confische delle terre. Dobbiamo alzare la voce contro il trattamento dei palestinesi ai checkpoint, le periodiche perquisizioni nelle loro case, le restrizioni alla loro libertà di movimento e l’accesso gravemente limitato a una casa decente, alla scuola, al cibo, agli ospedali e all’acqua che molti di loro devono subire.

Non dobbiamo tollerare il rifiuto di Israele persino a discutere del diritto dei rifugiati palestinesi a tornare alle proprie case, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite e dobbiamo mettere in questione i fondi del governo che hanno sostenuto molteplici conflitti e migliaia di vittime civili a Gaza, così come i 38 miliardi di dollari che il governo USA ha assicurato all’ appoggio militare di Israele.

E infine dobbiamo parlare a voce alta, con tutto il coraggio e la convinzione che possiamo trovare, contro il sistema di discriminazione legale che esiste all’interno di Israele, un sistema composto di…più di 50 leggi che discriminano i palestinesi…ignorando i diritti della minoranza araba che rappresenta il 21% della popolazione.”

Questa avvocatessa per i diritti umani e autrice di “The New Jim Crow” [“Il nuovo Jim Crow”, in riferimento alle leggi discriminatorie nel Sud degli Stati Uniti, ndtr.] è molto rispettata da progressisti e centristi del partito democratico, ed anche nella comunità ebraica come in quelle di colore. Rompendo il suo silenzio su Israele/Palestina ha reso pubblico un rapporto accuratamente strutturato e con fonti attendibili che mette in primo piano il dramma dei palestinesi “che lottano per sopravvivere sotto l’occupazione israeliana.” La confessione dell’immoralità del suo precedente silenzio – a causa delle preoccupazioni che “calunnie” filo-israeliane avrebbero danneggiato o screditato il suo lavoro per la giustizia sociale a favore della sua e di altre comunità emarginate – risuonerà nei cuori di quelli che, come me, hanno anche loro rotto il silenzio, e su molti altri che sanno quanto questa oppressione sia sistematica, costante e pervasiva – e come gli americani l’agevolino – ma non hanno ancora avuto il coraggio di parlarne. La sconfessione da parte di Alexander di quello che ha motivato il suo silenzio si spera influenzerà altri a farlo anche loro, nonostante il fatto che sono già stati sguainati i coltelli contro di lei da parte dei soliti sospetti.

L’appello di Alexander ad appoggiare la lotta palestinese e la sua evocazione del coraggioso appello di Martin Luther King per la fine della guerra del Vietnam – un anno prima di Cronkite – è una svolta per il “Times”, come lei implicitamente nota:

“Non molto tempo fa era veramente raro sentire questo punto di vista. Non è più così.”

Dando all’articolo di Alexander rilievo nella prima pagina della “Sunday Review” [sezione degli editoriali del NYT, ndtr.] può darsi che il “Times” di A.G. Sulzberger stia annunciando ufficialmente che il testimone è passato a una nuova generazione di americani, ebrei e non-ebrei, libera di discutere questo punto di vista senza timore o favore, nonostante l’influenza di quanti lo definirebbero antisemitismo o in qualche altro modo illegittimo. Se così fosse, questo potrebbe essere un momento di svolta non solo per il “Times”, ma per tutti quelli di noi che sono coinvolti nella lotta per i diritti e la dignità dei palestinesi.

Robert Herbst è un avvocato per i diritti civili. È stato coordinatore della sezione di “Jewish Voice for Peace” [“Voci Ebraiche per la Pace”, gruppo ebraico Usa contro l’occupazione, ndtr.] di Westchester [contea dell’area metropolitana di New York, ndtr.] dal 2014 al 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La presa in giro morale di Israele che chiede soldi agli arabi e agli iraniani per la propria ‘Nakba’

Ramzy Baroud

16 gennaio 2019, Palestine Chronicle

La partita è in corso. Israele, che ci si creda o no, sta chiedendo che sette Paesi arabi e l’Iran paghino 250 miliardi di dollari come risarcimento per ciò che sostiene essere stata l’espulsione forzata di ebrei dai Paesi arabi alla fine degli anni ’40. Gli eventi citati da Israele sarebbero avvenuti nel periodo in cui le milizie ebree sioniste stavano espellendo attivamente circa un milione di arabi palestinesi e distruggendo sistematicamente le loro case, villaggi e città in tutta la Palestina.

L’annuncio di Israele, che avrebbe fatto seguito a “18 mesi di indagini segrete” condotte dal ministro per l’Uguaglianza Sociale, non deve essere registrato nel dossier in continua espansione delle vergognose falsificazioni israeliane della storia. In realtà fa parte di un calcolato tentativo da parte del governo israeliano, in particolare della ministra (per l’Uguaglianza Sociale) Gila Gamliel, di creare una narrazione alternativa alla legittima richiesta di applicazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi che subirono una pulizia etnica da parte delle milizie ebraiche tra il 1947 e il 1948.

C’è una ragione dietro l’urgenza di Israele di rivelare una simile discutibile indagine: l’incessante tentativo di Stati Uniti ed Israele negli ultimi due anni di liquidare i diritti dei rifugiati palestinesi, di mettere in discussione il loro numero ridefinendo chi essi siano o meno e di rendere marginali le loro denunce. Fa tutto parte del pacchetto del disegno in atto camuffato da “Accordo del secolo”, col chiaro scopo di rimuovere tutte le importanti questioni che sono al centro della lotta palestinese per la libertà.

È venuto il momento di correggere la storica ingiustizia dei pogrom (contro gli ebrei) in sette Paesi arabi e in Iran, e di restituire alle centinaia di migliaia di ebrei che persero le loro proprietà ciò che legittimamente gli appartiene”, ha detto Gamliel.

La frase “…correggere la storica ingiustizia” non è diversa da quella usata dai palestinesi che da oltre 70 anni chiedono la restituzione dei loro diritti in base alla Risoluzione 194 dell’ONU. La voluta sovrapposizione della narrazione palestinese e di quella sionista ha lo scopo di creare paralleli, nella speranza che un futuro accordo politico si concluda con rivendicazioni che si annullino a vicenda.

Tuttavia, contrariamente a quanto vogliono farci credere gli storici israeliani, non vi fu un esodo di massa forzato di ebrei dai Paesi arabi e dall’Iran. Ciò che avvenne fu una massiccia campagna organizzata all’epoca dai capi sionisti per sostituire la popolazione araba indigena in Palestina con immigrati ebrei da tutto il mondo. Le modalità con cui venne portata a termine questa operazione spesso implicarono azioni violente dei sionisti, soprattutto in Iraq.

Di fatto, l’appello agli ebrei a confluire in Israele da tutti gli angoli del mondo resta il grido di battaglia dei leader israeliani e dei loro sostenitori cristiano-evangelici. I primi vogliono assicurare una maggioranza ebraica nello Stato, mentre i secondi cercano di adempiere ad un requisito biblico per le loro a lungo attese Apocalisse e Ascensione in cielo. Attribuire ad arabi e iraniani la responsabilità di questo strano ed irresponsabile comportamento è una violazione della vera narrazione storica alla quale né Gamliel né il suo ministero sono interessati.

Dall’altro lato, e diversamente da quanto gli storici militari israeliani spesso sostengono, l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina nel 1947-48 (e le successive epurazioni della popolazione nativa che seguirono alla guerra del 1967) fu un’azione premeditata di pulizia etnica e genocidio. Fu (ed è ancora) parte di una annosa e attentamente progettata campagna che, fin dal suo inizio, ha costituito la principale strategia al centro della “visione” del movimento sionista riguardo al popolo palestinese.

Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”, scrisse il fondatore di Israele, comandante militare e primo capo del governo, David Ben Gurion, in una lettera a suo figlio Amos nell’ottobre del 1937. Era più di 10 anni prima che fosse messo in atto il Piano D (per Dalet) – che ha visto la distruzione della patria palestinese per mano delle milizie di Ben Gurion e dei gruppi terroristi sionisti.

La Palestina ha un grande potenziale per la colonizzazione”, scrisse inoltre Ben Gurion, “di cui gli arabi non hanno bisogno né sono in grado di sfruttare.” Questa esplicita dichiarazione di un progetto coloniale in Palestina, espressa con lo stesso tipo di inconfondibile linguaggio e insinuazioni razziste che hanno accompagnato tutte le altre esperienze coloniali occidentali per molti secoli, non apparteneva solo a Ben Gurion. Era una mera parafrasi di ciò che allora si percepiva essere la sostanza dell’impresa sionista in Palestina in quel momento.

Come ha concluso il professore palestinese Nur Masalha nel suo libro, Expulsion of the Palestinians [‘Espulsione dei palestinesi’], l’idea del “trasferimento” – il termine sionista per pulizia etnica – del popolo palestinese era e resta fondamentale per la realizzazione delle ambizioni sioniste in Palestina. “I villaggi arabi palestinesi all’interno dello Stato ebraico che resistono ‘devono essere distrutti…e i loro abitanti espulsi al di là dei confini dello Stato ebraico’”, ha scritto Masalha, citando la “History of the Haganah”  [‘Storia dell’Haganah’] di Yehuda Slutsky. L’Haganah era la principale milizia sionista che sarebbe diventata l’esercito israeliano (IDF, Israel Defence Force), insieme a ciò che rimaneva dei gruppi terroristici Irgun e Banda Stern.

Ciò che questo significava nella pratica, come descritto dallo storico palestinese Walid Khalidi, fu che le varie milizie ebraiche presero congiuntamente di mira tutti i centri abitati in Palestina, in modo sistematico e senza eccezioni. “Alla fine di aprile del 1948 l’offensiva congiunta di Haganah e Irgun aveva circondato completamente la città palestinese di Giaffa, costringendo la maggior parte dei civili rimasti alla fuga per mare verso Gaza o l’Egitto; molti annegarono nel tragitto”, ha scritto Khalidi in “Before Their Diaspora” [Prima della loro diaspora’].

Questa tragedia arrivò a colpire tutti i palestinesi dovunque all’interno dei confini della loro patria storica. Decine di migliaia di rifugiati si unirono ad altre centinaia di migliaia in tanti sentieri polverosi in tutto il Paese, crescendo di numero man mano che procedevano, prima di piantare finalmente le loro tende in zone che dovevano essere provvisori campi per rifugiati. Ahimè, rimangono campi per rifugiati palestinesi ancor oggi, disseminati nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, in Giordania, Siria e Libano.

Nulla di ciò fu accidentale. La determinazione dei primi sionisti a stabilire un “focolare nazionale” per gli ebrei a spese della popolazione araba palestinese del Paese fu comunicata apertamente, chiaramente e ripetutamente attraverso la formazione del primo pensiero sionista e la trasformazione di quelle ben articolate idee in realtà.

Sono passati 70 anni dalla Nakba – la catastrofe del 1948 – e Israele non si è mai assunto la responsabilità delle proprie azioni né i rifugiati palestinesi hanno ricevuto alcuna misura di giustizia, per quanto piccola o simbolica. Perciò, per Israele chiedere delle compensazioni dai Paesi arabi e dall’Iran è una parodia morale, specialmente dato che i rifugiati palestinesi continuano a sopravvivere in campi profughi in tutta la Palestina e il Medio Oriente.

Sì, certamente “è arrivato il momento di correggere l’ingiustizia storica”, ma non per quelli che Israele ora sostiene essere stati “pogrom” condotti da arabi e iraniani. La vera ingiustizia storica è la continua e terribile distruzione della Palestina e del suo popolo.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La nuova “strada dell’apartheid” israeliana è molto più della semplice segregazione

Edo Konrad

16 gennaio 2019, +972

Israele sostiene che la nuova strada, che separa israeliani e palestinesi con un muro alto otto metri, decongestiona il traffico per i coloni aiutando al contempo i palestinesi a viaggiare in Cisgiordania. Chi la critica sostiene che aiuterà a creare enclave solo per israeliani, libere da ogni presenza palestinese.

La scorsa settimana Israele ha inaugurato una nuova strada segregata nella Cisgiordania occupata, con un enorme muro di otto metri che separa viaggiatori israeliani e palestinesi su entrambi i lati. Etichettata da chi la critica come la strada dell’apartheid, la motivazione ufficiale della “Route 4370” è decongestionare il traffico per i coloni israeliani che fanno i pendolari verso Gerusalemme e al contempo creare un nuovo modo di viaggiare tra il nord e il sud della Cisgiordania per i palestinesi.

Eppure, nonostante le ragioni dichiarate, i militanti contro l’occupazione e per i diritti umani sostengono che l’autostrada segregata è un ulteriore modo per creare in Palestina aree solo per israeliani – libere da ogni presenza palestinese. Ed è un segno che Israele, e gli israeliani, non vedono più la segregazione come qualcosa di cui vergognarsi.

Mentre in passato c’era un maggiore tentativo di nascondere la segregazione all’opinione pubblica israeliana, oggi essa è percepita come legittima,” afferma Efrat Cohen-Bar, un urbanista e architetto dell’ong “Bimkom” [associazione israeliana che sostiene una pianificazione urbana condivisa con la popolazione, anche quella palestinese, ndtr.]. “In un Paese in cui ogni giorno è proposta una nuova legge discriminatoria, una breve strada segregata non scandalizza nessuno.”

Il ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan ha definito l’autostrada “un esempio di capacità di creare la coesistenza tra israeliani e palestinesi proteggendo al contempo dalle attuali minacce alla sicurezza.”

Per Cohen-Bar l’autostrada non può essere disgiunta dal sistema complessivo di strade segregate in Cisgiordania, che spesso obbligano i palestinesi a utilizzare sottopassaggi per non disturbare il traffico dei coloni [che passano] sopra di loro. “L’autostrada 4370 dovrebbe essere vista nel contesto più ampio come una continuazione della politica (da parte di Israele) di separazione e della creazione di enclave solo israeliane.”

Agli occhi di Daniel Seidemann, avvocato e attivista che dirige l’Ong israeliana “Terrestrial Jerusalem” [Gerusalemme Terrena, associazione israeliana che studia l’impatto delle politiche sulla città, ndtr.] e che ha passato gli ultimi 20 anni a monitorare i mutamenti nel panorama della città, la Route 4370 ha anche una dimensione geopolitica. L’autostrada, afferma, è parte della strategia israeliana a lungo termine di “creazione di contiguità territoriale tra Gerusalemme e le colonie che la circondano,” soprattutto con la molto discussa area E1, la zona di 12 km2 che si trova tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim in Cisgiordania.

Per decenni Israele ha desiderato edificare colonie nell’area, collegando l’insediamento a Gerusalemme e dividendo concretamente in due la Cisgiordania.

Oltretutto, afferma Seidemann, la strada è solo il primo passo nel progetto israeliano di escludere i palestinesi dall’utilizzo della Route 1, parte della quale viene utilizzata sia dagli israeliani che dai palestinesi in Cisgiordania. Tutto ciò, ritiene, ha lo scopo di pregiudicare le possibilità di costituzione di uno Stato palestinese e di procedere con la progressiva annessione di ampie zone della Cisgiordania.

Netanyahu è impegnato in un indirizzo strategico per stabilire unilateralmente un confine di fatto tra Israele e la cosiddetta Palestina,” dice Seidemann. “La strada è stata aperta ora perché le politiche del primo ministro stanno finalmente prendendo forma. L’obiettivo finale è l’annessione dell’Area C [più del 60% dei territori occupati, in base agli accordi di Oslo sotto totale ma provvisorio controllo di Israele, ndtr.] della Cisgiordania con una minima presenza palestinese. Ciò è quello che stiamo vedendo succedere nella E1.”

La Route 4370 non è la prima autostrada segregata nei territori palestinesi occupati per uso esclusivo degli israeliani. Durante la Seconda Intifada Israele ha chiuso la Route 443, una seconda autostrada che unisce Gerusalemme alla zona di Tel Aviv, al traffico palestinese in seguito a una serie di casi di spari letali contro veicoli israeliani. Nel giugno 2007 gli abitanti di sei villaggi che si trovano nei pressi della Route 443 fecero richiesta all’Alta Corte di Giustizia israeliana di riaprire la strada ai palestinesi. Due anni e mezzo dopo, la corte stabilì che ai palestinesi doveva essere consentito di utilizzare la strada della Cisgiordania.

L’Alta Corte, almeno sulla carta, sentenziò che Israele doveva smettere di consentire solo agli israeliani di utilizzare la Route 443” continua Seidemann. “Questo caso è diverso. Non si tratta di una politica specifica, ma piuttosto di una scelta già ben ponderata da molto tempo. Riguarda la costruzione di infrastrutture separate e parallele per israeliani e palestinesi; questo tipo di cose non era mai stato fatto prima.”

La Route 4370 è stata concepita per creare un effetto domino,” dice Ahmad SubLaban, un ricercatore sul campo del gruppo per i diritti umani con sede a Gerusalemme “Ir Amim” [“Città di Persone”, Ong israeliana che si occupa delle politiche applicate a Gerusalemme, ndtr.]. “L’autostrada è parte di un puzzle che verrà terminato per collegare prima o poi Gerusalemme a Ma’ale Adumim, a Gush Etzion, alle colonie della zona di Ramallah e a quelle di Givat Ze’ev. Al momento il puzzle non è ancora stato completato.”

Per ora i cittadini israeliani che utilizzano la strada avranno un percorso più rapido dalle colonie della zona di Ramallah verso i quartieri ebraici di Gerusalemme, soprattutto durante l’ora di punta. A quelli che viaggeranno sul lato palestinese verrà impedito di entrare a Gerusalemme, anche se la nuova strada renderà effettivamente più breve il loro viaggio dalla zona di Ramallah alla parte meridionale della Cisgiordania.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Legge contro il BDS: il terreno sta diventando scivoloso per Israele

Ben White

15 gennaio 2018, Middle East Eye

Disumanizzare i palestinesi è stato finora più facile, ma decenni di attivismo ben radicato della società civile da parte di palestinesi con cittadinanza americana e dei loro alleati stanno dando frutti

Negli Stati Uniti, nel contesto del blocco del governo federale che prosegue, una battaglia per tentare di eliminare la campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele] (BDS) sta diventando una notizia in primo piano.

Lo scorso giovedì per la seconda volta il Senato ha bloccato l’iter di una legge che include la norma “per combattere il BDS” che fornisce una copertura agli Stati che penalizzano attività economiche e individui che partecipano al boicottaggio contro Israele e contro le colonie israeliane nei territori palestinesi occupati.

I principali ostacoli

Mentre i democratici si sono rifiutati di appoggiare qualunque legge prima che si sia risolto il blocco delle attività federali, si attende un terzo tentativo di far progredire la norma contro il BDS. Il senatore democratico Bob Menendez ha affermato che la legge “tornerà ed avrà un massiccio appoggio bipartisan.”

Nonostante l’opposizione, la norma contro il BDS potrebbe alla fine diventare legge. Ma i gruppi che sostengono Israele, come l’AIPAC, che spingono per queste iniziative hanno affrontato – e continueranno ad affrontare – tre importanti ostacoli nei loro sforzi di fare della Palestina e dei diritti umani dei palestinesi un’eccezione.

Il primo è l’impegno culturale e costituzionale a favore della libertà di parola negli Stati Uniti. La forza di questo impegno è tale che persino alcuni convinti avversari del BDS si sono opposti a voce alta alla criminalizzazione della campagna di boicottaggio.

Un significativo elemento dell’opposizione alla legge è venuto dall’ American Civil Liberties Union [Unione per le Libertà Civili Americane, associazione USA che si occupa di difendere i diritti civili e politici nel Paese, ndtr.] (ACLU), e questa storica organizzazione ha denunciato quello che ha definito “una misura che intende sopprimere un’espressione politica legittima.”

Mentre l’ACLU ha ripetutamente affermato di non “prendere posizione sul boicottaggio di Israele, sul movimento BDS o sul conflitto israelo-palestinese”, l’organizzazione ha sostenuto che “gli Stati non dovrebbero sanzionare attività economiche sulla base delle forme d’espressione e associazione protette dal Primo Emendamento [della Costituzione USA, ndtr.].”

Attivismo palestinese

Quando il firmatario della proposta di legge, il senatore [repubblicano, ndtr.] Marco Rubio, ha difeso l’iniziativa negando le affermazioni secondo cui essa riguardava la libertà di parola, ciò ha semplicemente causato una pubblica figuraccia riguardo alla sua conoscenza della Costituzione. Un secondo ostacolo per quelli che intendono criminalizzare il BDS è il fatto che il boicottaggio ha una lunga tradizione e una lunga storia negli USA come forma di protesta popolare e di mobilitazione della società civile.

Come ha scritto l’ACLU: “I boicottaggi politici, compresi quelli di Paesi stranieri, hanno giocato un ruolo centrale nella storia di questa Nazione – dai boicottaggi di prodotti britannici durante la rivoluzione americana al boicottaggio degli autobus di Montgomery fino al disinvestimento nel Sud Africa dell’apartheid.”

Lo scorso luglio Amjad Iraqi, sulla “London Review of Books” [prestigiosa rivista britannica, ndtr.], ha citato una tradizione persino più estesa, che include il “boicottaggio da parte del movimento Swadeshi [movimento indiano per l’indipendenza dalla Gran Bretagna nato a metà ‘800, ndtr.] dei prodotti britannici in India”, “il boicottaggio economico della Germania nazista” da parte di organizzazioni ebraiche europee e americane negli anni ’30, e lo sciopero dell’uva di Delano [sciopero dei lavoratori agricoli, sostenuto da un boicottaggio da parte dei consumatori a danno dei produttori, ndtr.] nella California degli anni ’60.

Iraqi correttamente nota come “Israele insista che la causa palestinese non può essere inclusa nella gloriosa storia dei boicottaggi.” Ciò significa che Israele e i gruppi che lo sostengono devono affermare che il BDS è “diverso” – un compito reso più difficile da un terzo ostacolo per la repressione del BDS: l’attivismo palestinese.

Prendendo di mira il BDS, i gruppi filo-israeliani devono dimostrare che i palestinesi non meritano gli stessi diritti umani degli altri popoli, e in parallelo che Israele non dovrebbe essere considerato con gli stessi standard con cui sono giudicati altri Paesi, compresi quelli sottoposti a sanzioni da parte del Congresso.

Disumanizzare i palestinesi risultava di solito più facile – e lo è ancora troppo spesso –, ma decenni di attivismo ben radicato della società civile da parte di palestinesi con cittadinanza americana e dei loro alleati stanno dando frutti, e l’appoggio ai palestinesi viene sempre più espresso nei principali spazi dei media, della cultura e della politica.

Terreno scivoloso

Come ho descritto nel mio libro “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel” [Crepe nel muro: oltre l’apartheid in Palestina/Israele], la polarizzazione tra elettori repubblicani e democratici riguardo a Israele e ai palestinesi, con liberal e progressisti che sono sempre più lontani da Israele, è una manifestazione concreta di questi cambiamenti.

Questi cambiamenti non si limitano più alla base. Come ha informato il “New York Times” prima delle elezioni di medio termine per il Congresso, le nuove rappresentanti elette, Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar e Rashida Tlaib, hanno tutte “osato interrompere quella che è stata l’ortodossia praticamente inviolabile di entrambi i partiti politici,” cioè “il forte appoggio ad Israele”. “Proponendo piattaforme elettorali che sottolineavano l’opposizione contro la discriminazione a danno di gruppi emarginati,” aggiunge il giornale, “le candidate hanno inserito la questione palestinese come ciò che definiscono un maggiore impegno per la giustizia sociale.”

Scrivendo la scorsa settimana sul quotidiano israeliano “Haaretz” [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] il corrispondente [dagli USA] Amir Tibon ha messo in luce una “sfida” che devono affrontare “i diplomatici israeliani e gruppi come l’‘AIPAC’” nell’“attuale contesto politico” – “la crescente ‘ondata progressista’ all’interno del partito Democratico, molto critica verso Israele e che ora include due membri della Camera dei Rappresentanti che appoggiano apertamente il BDS.”

Non bisogna negare le energie molto significative che sono utilizzate per combattere contro il movimento BDS sia a livello dei singoli Stati che a livello federale – per non parlare della repressione e della censura sperimentate da studenti e facoltà nelle università. E, ribadisco, alla fine quest’ultimo progetto di legge potrebbe persino essere approvato.

Ma gli ostacoli che si trovano di fronte quelli che guidano la battaglia legislativa contro il BDS negli USA sono la prova che per Israele, a lungo abituato ad essere servito e riverito, il terreno sta diventando scivoloso.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Monitor e i suoi articoli sono stati pubblicati anche da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, e nella rubrica del “The Guardian” “Comment is Free” [Il commento è libero] ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Mass media in uniforme, carabinieri in borghese e il perfido Hamas

Patrizia Cecconi

16 gennaio 2019, Pressenza

Un giallo si è svolto ieri a Gaza e ha visto coinvolta l’Italia. Non sappiamo con certezza se anche gli italiani, ma l’Italia sì.

Secondo i nostri media di sicuro sono stati coinvolti anche gli italiani, infatti basta vedere i titoli dei quotidiani, cioè “il” titolo, perché il Corriere come la Repubblica, il Messaggero come il Giornale o il Fatto quotidiano e le agenzie di stampa hanno tutti in sostanza lo stesso titolo, una specie di uniforme da elegante valletto al servizio dallo stesso signore.  Tutti hanno parlato di “carabinieri italiani rifugiati nella sede dell’ONU e assediati da Hamas”. Il perfido Hamas, cioè il partito che governa la Striscia di Gaza e che –  come ci ricorda Vincenzo Nigro su La Repubblica –  “l’Italia considera un movimento terroristico con cui i rapporti politici sono congelati.

Noi ne prendiamo atto chiedendoci, però, come mai, se i rapporti sono congelati l’Italia manda i suoi carabinieri, non turisti o operatori umanitari, ma rappresentanti dell’Arma, dentro la Striscia? E come li manda? Clandestini?

Bene, corre l’obbligo di spiegare ai quattro lettori che ci seguiranno, che Gaza è sotto assedio israeliano, illegittimo e illegale ovviamente, ma sotto assedio e non si può entrare se non con un permesso speciale di Israele. E fin qui certo niente di strano, visto che il governo italiano è amico del governo israeliano. Ma poi serve anche il permesso di Hamas e per avere il permesso di Hamas qualcuno dall’interno della Striscia deve aver fatto la richiesta e questa richiesta deve essere accolta dalle autorità locali, cioè Hamas e presentata alla frontiera.

Lo conoscono  tutto questo iter i bravi valletti che hanno scritto i loro articoli titolandoli tutti “carabinieri italiani assediati da Hamas”?  Forse lo sanno, ma nella velina  c’era l’indicazione di saltare questo passaggio. Forse invece proprio non lo sanno e sono andati tutti dietro la stessa onda senza accorgersi che stavano dando un’informazione non parziale, ma totalmente deformata, il che è più grave che dire parziale o inesatta.

Allora ricostruiamo i fatti.

Dopo l’attentato di due mesi fa contro Nour Barake, uno dei leader della resistenza, commesso da un commando terrorista israeliano entrato presumibilmente di notte da un varco creato ad hoc nella rete dell’assedio, gli addetti alla sicurezza – detti sempre security di Hamas perché fa più effetto – avendo scoperto che il commando mascherato aveva documenti falsi e che a Gaza erano entrati, sempre con documenti falsi, una quindicina di agenti dei servizi segreti israeliani con scopi ovviamente non di tipo caritatevole o umanitario, ha ristretto molto il già esiguo numero di  permessi e ha punteggiato la Striscia, soprattutto nelle due strade principali che uniscono il nord al sud per circa 40 km, con un fitto numero di posti di blocco. In alcune parti addirittura si possono trovare ogni 500 metri.

I posti di blocco, quelli che in Israele si chiamano comunemente check point e che sono tristemente famosi per il numero di omicidi dovuti al grilletto facile dei soldati dell’IDF, i posti di blocco gazawi, che al contrario di quelli israeliani finora non si sono mai macchiati di sangue, consistono solitamente in due blocchi di cemento e una sbarra, lasciando lo spazio perché una vettura passi senza rimuovere la sbarra stessa, ma costringendola a rallentare per entrare nello spazio lasciato libero. Lì ci sono di solito tre o quattro militari che guardano il conducente e i passeggeri, qualche volta chiedono i documenti, ma il più delle volte si affidano al loro intuito e salutano con un sorriso. Una security che contrasta un po’ con l’idea  che la fantasia, con l’aiuto dei media, costruisce di questi militari immaginati sempre come feroci terroristi.

Ad uno di questi posti di blocco la sera del 14 gennaio non si sarebbe fermata una vettura con dentro tre o forse quattro uomini. Al tentativo di fermare la vettura i passeggeri, tutti in borghese, avrebbero estratto delle armi automatiche e sarebbero scappati forzando il blocco. Iniziava un breve inseguimento, breve perché la vettura clandestina andava a ripararsi dentro lo stabile delle Nazioni Unite a poche centinaia di metri e qui la vettura dei militari palestinesi non veniva fatta entrare.

Se lo stesso fatto fosse avvenuto in Israele i tre (o quattro) occupanti della vettura fuggitiva sarebbero stati tre (o quattro) cadaveri crivellati di colpi, ma i feroci terroristi con i quali l’Italia non comunica sono stati dei gentlemen e i fuggiaschi sono ancora vivi.

Una domanda che nessuno dei nostri media mainstream si è posta  pubblicamente è “perché questi signori non hanno mostrato i documenti? Allora erano clandestini? E a servizio di chi?” No, questo non appare nel pezzo della Repubblica, né su quello del Corriere, su nessuno. Forse non era nell’indice della velina.

Dunque i tre (o quattro) giovani uomini, capello corto o cortissimo, aria qualunque, anche palestinese volendo, o comunque mediterranea, potevano essere e probabilmente lo erano spie israeliane, come i quindici precedentemente scoperti.

Le autorità governative, dette dai media minacciosamente “Hamas”, a questo punto fanno circondare il palazzo dell’Onu dai militari, chiedendo che venga fornita l’identità di quei delinquenti che hanno sfondato il posto di blocco e sparato contro la polizia locale.

Per la verità, in qualunque altro paese, Italia compresa, sarebbero stati già arrestati, magari solo per due giorni, ma sarebbero stati arrestati subito per i due reati commessi.

I nostri quotidiani, la nostra Lilli Gruber, i nostri cronisti televisivi e compagnia servente, si sono tutti affannati a dire che Hamas assediava l’Onu, dimenticando di dire che avevano il diritto di  identificare i tre trasgressori e dimenticando anche di dire che Gaza è sotto assedio e che strani personaggi si erano infiltrati sparando contro la polizia locale o, comunque, forzando un posto di blocco.  Si sono anche dimenticati di dire che tutte le forze politiche di Gaza, compresa Fatah, avversario numero uno di Hamas, erano concordi in questa azione.

E’ lecito chiedersi se i personaggi della vettura in questione fossero ubriachi, cosa molto difficile dato il divieto  imposto da Hamas di far entrare alcolici, o se fossero dei provocatori  che hanno agito ad hoc per creare un incidente e poi sviluppare un piano che al momento non ci è dato conoscere.

Da dove sono entrati? Perché Hamas, che rilascia i permessi ai pochissimi internazionali che possono accedere alla Striscia, non li conosceva?

Alla fine, ma solo dopo un giorno e mezzo che deve essere stato abbastanza lungo, è venuto fuori che questi signori erano dei carabinieri italiani in borghese. Carabinieri italiani? E perché non hanno mostrato i documenti? E perché l’Italia, che non comunica con Gaza in quanto governata dal movimento dichiarato terrorista di Hamas, ha mandato i suoi carabinieri? Dalla Farnesina, attraverso il consolato a Gerusalemme rispondono, come ci comunica sollecitamente Davide Frattini, inviato del Corriere della Sera, che si trattava di “personale della sicurezza italiana, entrato a Gaza per una missione ufficiale”.  Una missione ufficiale? Ma allora la Farnesina tratta con Hamas? Ma no, che missione ufficiale poteva essere se i cosiddetti carabinieri erano in clandestinità?  C’è del giallo in tutta questa storia.

Frattini aggiunge e il Corriere lo evidenzia in neretto che “I carabinieri stavano verificando le condizioni di sicurezza… per una visita ufficiale al monastero di Sant’Ilarione”.

C’è del giallo sì, e non c’è neanche conoscenza dei luoghi; infatti i giornalisti, al pari dei lettori che dovrebbero informare,  non sanno che il monastero di Sant’Ilarione si trova a Nusseirat, quindi abbastanza a sud di Gaza city, e in realtà lì c’è un mosaico cristiano di circa 1700 anni fa sopravvissuto miracolosamente ai criminali bombardamenti del 2014. Ma le visite ai siti archeologici non si fanno di notte, e tornare da Nusseirat a Gaza city comporta solo una mezz’ora,  quindi come mai si trovavano a tarda sera a Gaza city? E dove avrebbero alloggiato, visto che il valico di sera è chiuso e non avrebbero potuto far ritorno alla loro sede a Gerusalemme? E su tutte, ancora la stessa domanda: perché fuggire al posto di blocco invece di fermarsi? E poi quanti posti di blocco hanno passato da Nusseirat a Gaza city, ammesso che venissero dal sito archeologico, senza essere fermati? Tutto stranissimo e, per chi conosce Gaza, più che strano  INCREDIBILE.

Intanto le voci che l’ambasciatore o il console italiano si sarebbero incontrati con Ismail Hanyeh per risolvere la questione vengono smentite, così come l’UNRWA smentisce che ci sia stato un assedio nella propria sede. Alla fine, dopo circa 48 ore, le autorità della perfida Hamas rompono il cordone di sicurezza, ovvero il cosiddetto “assedio dei nostri carabinieri”, accettando la versione che si tratti di tre italiani e non di tre sabotatori dei servizi segreti israeliani.

Questo viene raccontato ai lettori, ma noi vogliamo aggiungere una chicca che i nostri media mainstrem non conoscono e che i feroci capi di Hamas non hanno preso in considerazione. Si tratta della proposta fatta da un docente dell’Università Islamica di Gaza, il prof. Khalid El Khalidi il quale ha trovato che nella sua magnificenza e misericordia Dio, detto anche Allah, ha offerto a Gaza la possibilità di liberarsi dall’assedio e di ottenere un risarcimento monetario per le privazioni sofferte in questi anni. Il prof. El Khalidi chiedeva infatti che i tre (o quattro) violatori della legge venissero arrestati. Trattati ovviamente con tutte le cure, ma arrestati e se si scopriva che si trattava di ufficiali dei servizi segreti, cosa di cui lui era convinto,  proporre uno scambio tra la loro liberazione e la fine dell’assedio, chiedendo inoltre di risarcire  Gaza e il suo popolo per l’assedio e la distruzione derivata dalle  tre massicce aggressioni con  20 miliardi di dollari, da consegnare alla resistenza prima dell’estradizione dei tre ufficiali.

Il prof. El Khalidi, come molti altri, seguita a non credere infatti alla versione data dopo 48 ore e aggiunge che “Il nemico ha la capacità di mobilitare per salvare i suoi soldati tutti gli ambasciatori e i presidenti dell’Occidente.” Il suo pensiero è il pensiero di molti gazawi e per questo lo riportiamo, e noi stessi abbiamo il diritto di dubitare che l’Italia si sia prestata a questo gioco potendo contare su un’informazione mediatica telecomandata e giocando sul fatto che la gente non sa che a Gaza non si può entrare in anonimato come turisti qualsiasi.

In conclusione il giallo non è risolto e resta da chiedersi perché il perfido  Hamas si sia così addolcito, fino ad accettare di credere che i tre giovanotti fossero carabinieri italiani in borghese venuti a fare un’indagine su un sito archeologico di Gaza senza le autorizzazioni del ministero di Gaza e senza il permesso di entrata. C’è forse dietro un ricatto? E perché erano armati? I carabinieri in borghese non possono essere armati, soprattutto non possono esserlo a Gaza! E seppure fossero  italiani possono sempre avere la doppia cittadinanza ed essere a servizio dello Stato ebraico, come ad esempio l’ ex-deputata di Forza Italia e colona ebrea Nirenstein, che ha la cittadinanza israeliana poiché, in quanto ebrea, le spetta di diritto. Diritto interno a Israele ovviamente.

A fronte dell’abito borghese dei cosiddetti carabinieri, abbiamo l’uniforme dei valletti mediatici e le due cose insieme spengono le domande di chi invece avrebbe diritto a un’informazione onesta. Perciò seguitiamo a chiederci non solo perché Hamas non ha arrestato o non ha potuto arrestare i tre che hanno violato un bel po’ di norme a partire dalla più banale: l’aver forzato il  posto di blocco, cosa che a un gazawo qualunque sarebbe costata l’arresto e una forte multa., ma ci chiediamo anche perché è stata tirata in mezzo l’Italia e perché l’Italia ha acconsentito. Un ricatto anche qui? O forse una promessa? O semplicemente un ossequio verso un paese amico? Potremmo eliminare, almeno in parte, i dubbi se i tre ex rifugiati, ora liberi, apparissero in televisione a dare la loro versione facendoci conoscere anche i loro nomi.

In assenza di ciò noi facciamo il nostro lavoro di giornale libero, realmente libero, senza diktat né veline e senza uniformi e diciamo che questo è un giallo in cui l’Italia, insieme ai media mainstream fa la parte del servitore che fornisce l’alibi all’assassino.




L’attivista israeliana che ha schiaffeggiato l’accusatore di Ahed Tamimi vuole un processo politico

Oren Ziv

14 gennaio 2019, +972

Yifat Doron afferma di aver schiaffeggiato il procuratore militare israeliano per difendere la sua amica. “Noi non veniamo puniti nello stesso modo dei palestinesi per aver commesso le stesse azioni.”

Pochi minuti prima che un tribunale militare israeliano condannasse la giovane Ahed Tamimi a otto mesi di carcere, un’attivista israeliana, Yifat Doron, si è avvicinata al procuratore militare, gli ha gridato: “Chi sei tu per giudicarla?” e ha dato uno schiaffo in testa al tenente colonnello.

Doron è stata rilasciata sulla parola solo due giorni dopo essere stata arrestata per aver schiaffeggiato il procuratore nel marzo dello scorso anno. A Tamimi non è stata concessa la libertà su cauzione per quattro mesi in attesa del processo, avendo anche lei schiaffeggiato un soldato israeliano qualche mese prima.

Ahed è palestinese. Yifat è israeliana. Ahed è stata giudicata dal sistema giudiziario militare israeliano. Yifat – nonostante avesse preso a schiaffi un ufficiale militare nella Cisgiordania occupata, proprio come Ahed – è stata processata in un tribunale civile all’interno di Israele.

Quando Israele occupò la Cisgiordania nel 1967 applicò sul territorio la legge militare. Tecnicamente, nel territorio occupato la legge militare ed il sistema giudiziario militare hanno giurisdizione ugualmente su palestinesi ed israeliani. Nella pratica, un palestinese ed un israeliano che commettano lo stesso identico reato nello stesso identico territorio sono soggetti a leggi differenti, a procedure giudiziarie differenti, vengono processati in tribunali differenti e godono di diritti e tutele differenti.

A differenza dello schiaffo di Ahed, che ha occupato i titoli dei giornali in tutto il mondo e a quanto pare ha messo in imbarazzo il sistema militare e l’orgoglio nazionale di Israele, non vi è stata una documentazione filmata del gesto di Doron.

Il suo processo, per aver aggredito un pubblico ufficiale in circostanze aggravate, è iniziato giovedì scorso presso la pretura di Gerusalemme. Il pubblico ministero chiede che venga incarcerata.

La scorsa settimana, fuori dall’aula a Gerusalemme, Doron ha detto che non intendeva fare una dichiarazione politica quando ha preso a schiaffi l’ufficiale israeliano l’anno scorso. “Per come la vedo io, è stata una reazione al fatto di vedere la mia amica in difficoltà.” Comunque, ha aggiunto, ciò che è seguito è stato un esempio di apartheid.

Noi non veniamo puniti nello stesso modo in cui vengono puniti i palestinesi per le stesse azioni”, ha spiegato.

Doron si rappresenta da sola al processo.

Poiché l’arresto è avvenuto in un contesto politico, non mi interessa entrare in qualunque genere di argomentazioni giuridiche”, ha detto a proposito della sua decisione di rinunciare all’avvocato. “Rappresenterò me stessa sul piano politico – mi intendo di politica.”

Il sistema giudiziario è uno degli strumenti principali usati da Israele per opprimere i palestinesi, ha aggiunto Doron, e spera di impostare il processo su questo. In particolare, spera di far luce sul diverso modo in cui sono trattati palestinesi e israeliani nei due separati sistemi giudiziari.

Doron ha detto che non si opporrà alla richiesta della procura di incarcerarla. “Ci sono persone che accettano pacificamente il carcere, come molti dei miei amici palestinesi, che fanno quotidianamente esperienza della realtà del carcere, sia personalmente che attraverso i propri cari.” Il carcere fa semplicemente parte della loro vita, spiega.

Negli ultimi anni Doron ha visitato il villaggio palestinese di Nabi Saleh quasi ogni settimana. Ha partecipato alle periodiche manifestazioni del villaggio contro l’occupazione ed è stata presente ai funerali degli abitanti palestinesi uccisi dalle forze israeliane per aver protestato contro l’espansione degli insediamenti illegali. Negli ultimi dieci anni, decine di persone di Nabi Saleh, compresi minori, sono state arrestate ed imprigionate per il loro coinvolgimento nelle manifestazioni settimanali del villaggio.

In definitiva, l’importante è sostanzialmente stare accanto ai miei amici”, conclude Doron.

La prossima udienza del suo processo si terrà a settembre – tra otto mesi. A differenza di Ahed, che è rimasta in prigione in attesa del processo, Doron rimarrà in libertà fino ad allora.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [Chiamata Locale, sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La lotta palestinese si sta trasformando in movimento per i diritti civili, e Gaza sta dando l’esempio

Ramy Younis

11 gennaio 2019, +972

Secondo lo studioso Tareq Baconi la Grande Marcia del Ritorno segnala un cambiamento per il popolo palestinese. I palestinesi non stanno più lottando per uno Stato e stanno rivendicando sempre più i loro pieni diritti – in primo luogo il diritto al ritorno.

I dirigenti della Grande Marcia del Ritorno hanno sorpreso il mondo quando hanno organizzato la prima manifestazione lungo la barriera tra Israele e Gaza il 30 marzo 2018. Decine di migliaia di palestinesi vi hanno partecipato. Già nella prima protesta i cecchini israeliani hanno aperto il fuoco e hanno ucciso 14 palestinesi e ne hanno feriti più di 1.200.

Le proteste sono diventate dimostrazioni settimanali, in quanto ogni venerdì decine di migliaia di gazawi hanno manifestato lungo la barriera. L’esercito israeliano ha continuato a sparare contro di loro. I dirigenti delle marce, un gruppo di circa 20 attivisti, per lo più laici e di sinistra, hanno cercato di evitare per quanto possibile che la gente arrivasse troppo vicino alla barriera. Hamas, che all’inizio ha fornitol’ appoggio logistico che ha contribuito al successo delle proteste (ovvero, gli spostamenti e la propaganda), ha lentamente iniziato a giocare un ruolo più significativo nelle manifestazioni.

Hamas è entrato a forza nella Grande Marcia del Ritorno e potrebbe aver preso il controllo delle proteste, ma comunque senza Hamas Gaza non avrebbe potuto alleggerire il blocco. Hamas è una forza politica che può affrontare Israele come non sono capaci di fare né Fatah né l’Autorità Nazionale Palestinese.

Questo è il giudizio secondo Tareq Baconi, un giovane intellettuale e ricercatore palestinese, in precedenza membro dell’European Council for Foreign Relations [gruppo di studio inter-europeo su questioni di politica estera, ndtr.] e attualmente analista dell’International Crisis Group [ong europea che si occupa della gestione di conflitti, ndtr.]. È uno degli esperti su Hamas più apprezzati. Il nuovo libro di Baconi, “Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestinian Resistance” [Hamas sotto controllo: la nascita e la pacificazione della resistenza palestinese”, Stanford Univ Pr, 2018], analizza la transizione di Hamas dalla lotta armata alla resistenza popolare.

Ho parlato con Baconi di una delle storie più significative del 2018 – le marce del ritorno a Gaza. Si è detto molto sul coinvolgimento, se non sulla presa di controllo, del movimento, iniziato come protesta popolare, da parte di Hamas.

I palestinesi di Gaza sono critici nei confronti delle imposizioni religiose di Hamas, della sua intrusione nella vita quotidiana degli abitanti e della sua ostilità con Fatah. I media israeliani amano mostrare persone di Gaza che accusano Hamas dell’assedio, della povertà e delle vittime in seguito agli attacchi israeliani, ma non è così.

Baconi, figlio di rifugiati palestinesi di Haifa e di Gerusalemme, è cresciuto ad Amman e attualmente vive a Ramallah. Nella nostra conversazione non risparmia critiche a Fatah, ad Hamas e alla dirigenza palestinese in Israele, ma sottolinea ripetutamente che alla base della sua analisi ci sono Israele e gli enormi crimini che sta commettendo: l’occupazione e il blocco di Gaza.

Innanzitutto, cosa pensi della Grande Marcia del Ritorno?

Le marce sono una fonte di speranza. Indicano che le politiche di Hamas e di Fatah hanno fallito, che anche la via del negoziato promossa dagli americani ha fallito, ma che il popolo palestinese rimane saldo e continua a rivendicare i propri diritti dal ’48, non dal ’67, in primo luogo il diritto al ritorno. Le fazioni politiche possono aver fallito, ma il popolo è ancora legato ai propri valori e chiede gli stessi diritti per cui ha lottato fin dall’inizio.

Il popolo palestinese è arrivato a un punto di transizione, passando dalla richiesta di uno Stato alla rivendicazione dei propri diritti. È il passaggio a un movimento per i diritti civili, e Gaza sta dando l’esempio. Benché ci siano state proteste nella diaspora palestinese, in Siria e in Libano e all’interno [dei confini] del ’48 [cioè in Israele, ndtr.], ad Haifa, il modo in cui le marce sono iniziate a Gaza mette in luce un percorso da seguire e indica un nuovo sviluppo. Per quanto mi riguarda è una fonte di speranza. Ma mostra anche le sfide che stiamo per affrontare, nel modo in cui le marce si sono sviluppate, nel modo in cui Hamas ha affrontato le proteste e, ovviamente, nel modo in cui Israele ha risposto ad esse.”

Lo scorso anno qualcosa è cambiato nelle piazze palestinesi

Certo, non ho dubbi. E non è solo l’anno passato, è negli ultimi due anni, fin dall’”Intifada della preghiera” ad Al-Aqsa [si riferisce alle vittoriose proteste palestinesi contro l’installazione di sistemi di sorveglianza per l’accesso alla Spianata delle Moschee da parte di Israele, ndtr.]. Ma lo si può vedere anche all’interno [dei confini] del ’48, nel modo in cui i politici [palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] stanno parlando dell’uguaglianza – benché debbano affrontare i loro problemi come cittadini [di Israele], questo linguaggio ha avuto un impatto sul popolo palestinese. Ciò gli ha consentito di vedere politici diversi da Abbas e da Hamas. Gli ha fornito approcci differenti alla lotta e un modo per affrontare le sfide sulla base dei diritti.

Questo periodo di transizione in cui ci troviamo va avanti da più di un anno, forse da due o tre. Quest’anno ha portato il cambiamento più rilevante a causa della politica USA. Quando abbiamo visto quello che è successo a Gerusalemme [il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e lo spostamento in città dell’ambasciata USA, ndtr.] e all’UNRWA [la drastica riduzione dei finanziamenti USA all’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.], questo ha portato a una frattura. I politici sono abituati a ripetere le stesse dichiarazioni e stanno ancora riponendo le loro speranze nella politica americana. La gente capisce che è finita, che non possiamo continuare allo stesso modo. Perciò, anche se non sta sorgendo un nuovo movimento politico, possiamo notare un grande cambiamento tra la gente. Sia nei termini di un’ambivalenza in merito a dove stiamo andando, sia anche in termini di speranza. Che possiamo organizzare la lotta per i nostri pieni diritti, basati sul ’48 [data della nascita di Israele e della contemporanea espulsione dei palestinesi, ndtr.], piuttosto che accettare una semi-uguaglianza solo per tirare avanti con le nostre vite.”

Ho detto a Baconi che la distanza tra il popolo palestinese e l’ANP è stata palpabile lo scorso giugno a Ramallah durante la protesta, a cui ho partecipato, contro le sanzioni che l’ANP ha imposto a Gaza. Ho assistito in diretta alla violenza che le forze palestinesi hanno messo in atto contro i manifestanti. Percepisco che c’è rabbia nei confronti dell’ANP.

C’è molta rabbia e l’ANP non può più negare quello che sta succedendo. Quando lo scorso novembre sono scoppiate proteste ad al-Khalil (Hebron), abbiamo visto foto delle forze palestinesi affrontare i manifestanti come avrebbero potuto fare le forze di occupazione.

Inoltre, non c’è più una giustificazione economica per l’ANP. La gente è stanca della durissima situazione economica. Avrebbe potuto essere altrimenti se l’ANP fosse stata in grado di offrire un adeguato livello di vita – che è il principio su cui si basa l’ANP: ignorare l’occupazione e dare l’impressione che si tratti dell’unica entità che governa le vite dei palestinesi –, se fosse stata in grado di garantire una vita economicamente agiata. Ma non esiste neppure questo. Non c’è un processo di riconciliazione guidato dagli americani, le condizioni di vita sono insopportabili e si possono vedere scene in cui l’occupazione e l’ANP lavorano insieme.

D’altra parte la gente vede il modo in cui Hamas affronta le marce, e capisce che Hamas almeno è in grado di trovare delle falle nell’occupazione. È capace di rafforzare la sua posizione politica come l’ANP non è in grado di fare. Perciò ovviamente c’è rabbia.”

Ti pare che la gente sia arrabbiata anche con Hamas per il modo in cui è intervenuta nelle marce?

Penso assolutamente che Hamas intervenga in tutto. Ma Hamas ha fornito al movimento per il ritorno le infrastrutture per [consentire di] dare più risonanza al modo in cui l’ha fatto. Perciò c’è tensione. Da una parte ci sono proteste che si fondano sul diritto al ritorno, iniziate dalla società civile, a cui hanno partecipato centinaia [di migliaia] di persone a Gaza. Hanno introdotto una nuova politica e ci consentono di osservare il futuro della lotta palestinese. Non ho dubbi che ciò sia quello su cui sono fondate le marce.

Dall’altra Hamas ha giocato un notevole ruolo nel fornire risorse, nel consentire al movimento di crescere e nel portare Israele ad accettare di fare delle concessioni. Sono riusciti a obbligare Israele ad alleggerire il blocco. Se Hamas non si fosse impegnato nelle marce del ritorno pensi che il movimento sarebbe stato in grado di ottenere le stesse concessioni da Israele?”

Buona domanda. Non ho una risposta.

In termini di allentamento del blocco, nei termini di consentire l’ingresso di merci a Gaza – se Hamas non fosse intervenuta nelle proteste nel modo in cui l’ha fatto, non penso che Israele avrebbe fatto queste concessioni a Gaza.

È difficile per me da ammettere, perché avrei preferito che queste proteste non avessero avuto niente a che vedere con Hamas. Allo stesso tempo ho visto Hamas diventare una forza politica che può trattare con Israele in un modo in cui Fatah e l’ANP non sono in grado di fare. Attraverso le proteste sono stati capaci di migliorare la loro posizione negoziale.

Sono sempre critico nei confronti di Hamas. Ma per me è importante che l’opinione pubblica israeliana capisca che, a differenza di quello che gli viene detto dai medi israeliani, anche se Hamas ha fornito le infrastrutture e alla fine si è impadronito delle proteste, le marce non sono una minaccia per la sicurezza. Nessun soldato israeliano ha il diritto di sparare contro i manifestanti a Gaza, perché le proteste non rappresentano alcun pericolo per gli israeliani.”

Il 14 maggio 2018, il giorno prima della commemorazione della Nakba e giorno in cui gli USA hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme, Israele ha superato qualunque limite quando i suoi soldati hanno ucciso 68 dimostranti durante una marcia a cui hanno partecipato centinaia di migliaia di palestinesi. Nel complesso, in base alle stime più caute, dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno fino al dicembre 2018 sono stati uccisi 235 palestinesi (comprese 60 vittime uccise in attacchi aerei durante l’anno). Dopo sei mesi dall’inizio delle proteste settimanali, sono rimaste ferite più di 25.000 persone, molte delle quali hanno avuto amputata una gamba in conseguenza delle insolitamente vaste e distruttive ferite dovute a proiettili. Tutti pensano che le manifestazioni continueranno. Rimangono l’argomento di cui più si parla nelle strade di Gaza.

Cosa pensi succederà con le proteste a Gaza nel 2019? Continueranno?

Penso che le marce continueranno. Nell’ultima hudna (accordo di cessate il fuoco), Hamas ha accettato di ridurre il numero di manifestanti in modo che Israele non colpisca Gaza. Non è chiaro quanto durerà questo equilibrio. In base alle mie ricerche su Hamas, so che se Israele non alleggerisce l’assedio e se non consente il movimento di persone attraverso i valichi, Hamas sarà obbligata a far pressione su Israele perché prenda atto della fine dell’accordo.

Considerando ogni guerra e attacco israeliano contro Gaza dal 2007 ad oggi, è Israele che ha violato i termini degli accordi e ciò ha obbligato Hamas a rispondere di nuovo con la violenza. Non c’è modo di sapere come questi negoziati incideranno sulle marce in futuro, ma credo che, indipendentemente da quello che è destinato a succedere tra Israele ed Hamas, le marce continueranno. Anche se non continueranno con la stessa intensità, non c’è una soluzione politica all’orizzonte. Credo che stiamo per assistere a più movimenti popolari e rivolte, non solo a Gaza ma ovunque, anche nella diaspora e nel [territorio del] ’48.”

E come pensi che ciò inciderà sull’ANP?

È una bella domanda. Sfortunatamente l’ANP continuerà a utilizzare la forza militare contro i manifestanti. Continuerà a reprimere le proteste. Il grande cambiamento avverrà una volta che capiremo il destino dell’Autorità Nazionale Palestinese dopo Abbas. Voglio credere che ci sarà un cambiamento positivo, ma è molto probabile che le politiche dell’ANP e il coordinamento per la sicurezza con Israele rimarranno.

Non so per quanto tempo ancora l’ANP potrà continuare a controllare il popolo palestinese. Le cose sono peggiorate dal punto di vista sociale e politico, soprattutto se non c’è una soluzione politica con gli israeliani. Con i palestinesi sottoposti all’oppressione sia dell’occupazione che dell’ANP, qualcosa accadrà. Il cambiamento non è ancora noto, ma non penso che la situazione in Cisgiordania sia sostenibile.”

Una versione di questo articolo è stata pubblicata per la prima volta in ebraico su Local Call [Chiamata Locale, sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Se Bolsonaro e Netanyahu sono “fratelli”: perché il Brasile dovrebbe evitare il modello israeliano

Ramzy Baroud

9 gennaio 2019, Palestine Chronicle

Il presidente brasiliano che si è appena insediato, Jair Bolsonaro, è pronto ad essere acerrimo nemico dell’ambiente e delle comunità indigene ed emarginate del suo Paese. Ha anche promesso di essere amico dei leader di estrema destra con le sue stesse idee in tutto il mondo.

Non c’è quindi da sorprendersi nel veder sbocciare una particolare amicizia tra Bolsonaro e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

“Abbiamo bisogno di buoni fratelli come Netanyahu,” ha detto Bolsonaro il 1 gennaio, giorno del suo insediamento a Brasilia.

Bolsonaro è un “grande alleato (e) un fratello,” ha replicato Netanyahu.

Ma, mentre Bolsonaro vede in Netanyahu un esempio da seguire – per ragioni che dovrebbero preoccupare ogni brasiliano – il Paese sicuramente non ha bisogno di “fratelli” come il leader israeliano.

L’attivismo di Netanyahu, oppressione del popolo nativo palestinese, il suo prendere di mira per ragioni razziali gli immigrati africani di colore e la sua continua violazione delle leggi internazionali non sono affatto quello di cui un Paese come il Brasile ha bisogno per salvarsi dalla corruzione, realizzare l’armonia sociale e inaugurare un’era di integrazione a livello regionale e di prosperità economica.

Naturalmente Netanyahu era ansioso di partecipare all’insediamento di Bolsonaro, che probabilmente passerà alla storia del Brasile come un giorno infausto, in cui democrazia e diritti umani hanno affrontato il peggior pericolo da quando, all’inizio degli anni ’80, il Brasile ha iniziato la transizione alla democrazia.

Negli scorsi anni il Brasile si è rivelato una potenza regionale sensibile che ha difeso i diritti umani dei palestinesi e ha perorato l’integrazione dello “Stato di Palestina” nella più ampia comunità internazionale.

Frustrato da quanto sinora fatto dal Brasile su Palestina e Israele, Netanyahu, politico scaltro, ha visto un’opportunità nel discorso populista ripetuto compulsivamente da Bolsonaro durante la sua campagna elettorale.

Il nuovo presidente brasiliano vuole stravolgere la politica estera brasiliana su Palestina e Israele, nello stesso modo in cui vuole invertire tutte le politiche dei suoi predecessori riguardo, tra le altre questioni urgenti, ai diritti degli indigeni, alla protezione della foresta pluviale.

Ciò che è veramente preoccupante è che Bolsonaro, che è stato paragonato a Donald Trump – quanto meno per il suo impegno a “fare di nuovo grande il Brasile” – probabilmente manterrà le sue promesse. Infatti, solo poche ore dopo il suo insediamento, ha emanato un decreto che prende di mira i diritti alla terra dei popoli indigeni del Brasile, per il diletto delle lobby agricole, che sono impazienti di tagliare buona parte delle foreste del Paese.

Confiscare i territori delle popolazioni indigene, come Bolsonaro progetta di fare, è qualcosa che Netanyahu, il suo governo e i suoi predecessori hanno fatto senza alcun rimorso per molti anni. Sì, è chiaro che la dichiarazione di “fratellanza” è fondata su solide basi.

Ma ci sono altre dimensioni nella storia d’amore tra i due leader. Molto lavoro è stato fatto per portare il Brasile da un governo presumibilmente filo-palestinese a una politica estera simile a quella di Trump.

Nella sua campagna Bolsonaro ha contattato gruppi politici conservatori, il mai veramente domato esercito e le chiese evangeliche, tutti dotati di potenti lobby, progetti sinistri e una evidente influenza. Storicamente questi gruppi, non solo in America latina ma negli Stati Uniti e anche in altri Paesi, hanno condizionato il proprio appoggio politico a un qualsiasi candidato al sostegno incondizionato e cieco a Israele.

È in questo modo che gli Stati Uniti sono diventati il principale protettore di Israele ed è proprio così che Tel Aviv intende conquistare nuovo spazio politico.

Il mondo occidentale, in particolare, si sta orientando verso demagoghi di estrema destra per avere risposte semplici a problemi complessi e intricati. Grazie a Bolsonaro e ai suoi sostenitori, il Brasile ora si sta unendo a questa preoccupante tendenza.

Israele sta sfruttando senza farsi alcun problema la vera e propria ascesa globale del neo-fascismo e del populismo. Peggio ancora, quelle che una volta erano percepite come tendenze antisemite sono ora totalmente accolte dallo “Stato ebraico”, che sta cercando di ampliare la propria influenza politica, ma anche il proprio mercato delle armi.

Politicamente i partiti di estrema destra comprendono che, per fare in modo che Israele li aiuti a insabbiare i loro peccati passati e presenti, devono sottoscrivere del tutto i progetti israeliani in Medio Oriente. E ciò è esattamente quello che sta avvenendo, da Washington a Roma, a Budapest, a Vienna…E, da ultimo, a Brasilia.

Ma un’altra ragione, forse più stringente, è il denaro. Israele ha molto da offrire sotto forma della sua distruttiva tecnologia bellica e per la “sicurezza”, una massiccia produzione già utilizzata con conseguenze letali contro i palestinesi.

L’industria dei controlli di frontiera è fiorente negli USA e in Europa. In entrambi i casi, Israele sta svolgendo un ruolo di guida e di fornitore di tecnologie. E la tecnologia israeliana per la “sicurezza”, grazie alla rinnovata simpatia per i presunti problemi di sicurezza di Israele, sta ora invadendo anche i confini europei.

Secondo il sito israeliano di notizie Ynetnews, Israele è il settimo principale esportatore di armi al mondo e sta diventando un leader globale nell’esportazione di droni.

L’entusiasmo dell’Europa per la tecnologia dei droni israeliana è dovuta a timori per lo più infondati nei confronti di migranti e rifugiati. Nel caso del Brasile, la tecnologia dei droni verrà utilizzata per lottare contro bande criminali e per altre ragioni interne.

Per la cronaca, i droni israeliani prodotti da “Elbit Systems” [importante industria bellica israeliana, ndtr.] sono stati comprati e utilizzati dal precedente governo brasiliano poco prima della coppa del mondo di calcio del 2014.

Quello che rende più allarmanti i futuri accordi tra i due Paesi è l’improvvisa affinità dei politici di estrema destra di entrambi i Paesi. Come prevedibile, Bolsonaro e Netanyahu hanno discusso lungamente di droni durante la visita di quest’ultimo in Brasile.

Israele ha fatto uso di un’estrema violenza per contrastare le richieste di diritti umani da parte dei palestinesi, compresa l’eliminazione fisica contro le ininterrotte proteste pacifiche lungo la barriera che separa l’assediata Gaza da Israele. Se Bolsonaro pensa di contrastare con successo il crimine locale con una violenza senza freni – invece di affrontare le diseguaglianze sociali ed economiche e l’ingiusta distribuzione della ricchezza nel suo Paese – allora può solo aspettarsi di incrementare un già terrificante numero di vittime.

L’ossessione israeliana per la sicurezza non dovrebbe essere copiata, né in Brasile né altrove, e i brasiliani, molti dei quali temono giustamente per lo stato della democrazia nel loro Paese, non dovrebbero arrendersi all’atteggiamento mentale aggressivo di Israele, che non ha mai portato pace ma più violenza.

Israele esporta guerra ai suoi vicini, e tecnologia bellica al resto del mondo. Poiché molti Paesi sono tormentati da conflitti, spesso risultato di enormi diseguaglianze di reddito, Israele non dovrebbe essere visto come un modello da seguire, ma piuttosto come un esempio da evitare.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Condannato a 35 anni di carcere un diciassettenne: minori palestinesi e giustizia israeliana

Akram Al-Waara

4 gennaio 2019, Middle East Eye

Le famiglie palestinesi accusano i tribunali israeliani di procrastinare deliberatamente le udienze in modo che i loro figli ricevano sentenze più pesanti

Ramallah, Cisgiordania occupata – Sono passati quasi 3 anni da quando Omar Rimawi è stato arrestato per aver colpito e ucciso un colono israeliano in un supermercato della Cisgiordania occupata. Aveva 14 anni.

Da allora l’adolescente è rimasto dietro le sbarre. La sua famiglia attende con ansia la sentenza finale di condanna del figlio, che si prevede verrà emessa da un giudice militare israeliano il 14 gennaio.

Sono stati tre anni di agonia,” dice a Middle East Eye il padre di Omar, il cinquantunenne Sameer Rimawi. “Ogni volta che il tribunale si riunisce pensiamo che sarà il giorno [della sentenza], ma non è ancora arrivato.”

Quando è entrato in prigione era un ragazzino, ora ha 17 anni, quasi 18,” dice suo padre.

Nei tre anni in cui Omar è stato in prigione, i tribunali militari israeliani hanno ignorato le pressioni da parte della famiglia e degli avvocati e rifiutato di emettere la sentenza contro il ragazzo del villaggio di Beituniya, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

La famiglia Rimawi è convinta che il tribunale stia rimandando la sentenza contro Omar per una semplice ragione: dato che è più grande, il tribunale può giustificare il fatto di comminargli una condanna più pesante in carcere, una tattica che i difensori dei diritti umani affermano essere una prassi usuale del sistema giudiziario israeliano.

Ogni anno che passa il rischio di una sentenza più grave aumenta,” dice Sameer Rimawi della vicenda del figlio.

La famiglia aveva sperato che nei confronti di Omar si sarebbe esercitata una certa clemenza per via dell’età, ma queste speranze si sono infrante quando Ayham Sabbah, amico di Omar, è stato condannato a 35 anni di prigione.

Ayham, che ora ha anche lui 17 anni, era con Omar il giorno dell’accoltellamento, ed entrambi sono accusati di aver portato a termine insieme l’aggressione.

Ayham non aveva ancora 18 anni quando lo hanno condannato a 35 anni di carcere,” dice Rimawi, e aggiunge che il pubblico ministero israeliano aveva chiesto per Omar l’ergastolo e il pagamento di una multa di 5 milioni di shekel (circa 1.180.000 €).

Preghiamo dio che Omar non debba subire la stessa sorte, ma sappiamo che Israele non si preoccupa dei diritti dei minori.”

Nel modesto soggiorno del suo appartamento di tre camere da letto a Beituniya, Bassem Sabbah siede calmo con le gambe incrociate e le dita intrecciate.

Quando gli si chiede di suo figlio Ayham, l’insegnante palestinese si irrigidisce e le mani iniziano ad agitarsi.

Il 17 dicembre ha ricevuto la peggiore notizia della sua vita: Ayham, il maggiore dei suoi due figli adolescenti, è stato condannato a 35 anni di carcere e gli è stato imposto di pagare una multa di 1.25 milioni di shekel (quasi 300.000 €).

Siamo rimasti scioccati,” dice Bassem a MEE. “Ayham era solo un bambino quando è stato arrestato – lo è ancora, non è neppure maggiorenne.”

La famiglia della vittima, il soldato israeliano ventunenne Tuvia Yanai Weissman, che all’epoca era in congedo, ha detto di essere rimasta delusa perché l’adolescente palestinese non è stato condannato all’ergastolo. Nell’attacco un altro uomo era rimasto ferito.

Due ragazzi in Israele

Ayham e Omar sono stati arrestati il 18 febbraio 2016 dalle forze israeliane nel supermercato “Rami Levy” nell’area industriale di Shaar Binyamin.

All’epoca del loro arresto i due sono stati colpiti e gravemente feriti da un passante. La famiglia sostiene che dopo l’arresto Ayham non è stato curato e i suoi diritti in quanto minorenne sono stati ripetutamente violati.

É stato interrogato in ospedale mentre era in condizioni critiche, senza la presenza mia, di sua madre e neppure del suo avvocato,” dice Bassem, aggiungendo che Ayham è stato obbligato a firmare documenti in ebraico, una lingua che non capisce.

Da allora l’adolescente è stato tenuto nella prigione israeliana di Ofer per l’uccisione di Weissman. Ayham è comparso più di 30 volte davanti al tribunale militare israeliano.

Il tribunale ha avuto più di 30 possibilità di emettere una sentenza, ma ha solo temporeggiato, affermando di aspettare nuove prove o testimonanze contro Ayham,” dice Bassem.

Ma, afferma Bassem, le nuove prove e le testimonianze oculari non sono mai arrivate.

Di solito la famiglia di un accusato non vorrebbe che le prove a carico vengano ammesse in aula,” dice Bassem. “Ma noi abbiamo pregato il giudice di accettare in tribunale come prova la ripresa delle telecamere di sorveglianza del giorno dell’aggressione.”

In realtà volevamo che il tribunale accettasse la prova in modo da concludere il caso ed emettere la sentenza contro Ayham al più presto,” afferma.

La famiglia credeva che, nonostante i tentativi della procura di ottenere l’ergastolo, il giudice sarebbe stato clemente dato che Ayham era un ragazzino e non aveva ancora raggiunto la pubertà al momento dell’attacco.

In base alle leggi internazionali e dei diritti umani si dovrebbero prendere in considerazione alcuni fattori quando si mette in prigione e si condanna un bambino,” dice suo padre. “Ma il tribunale israeliano non ne ha tenuto conto.”

Trentacinque anni non è solo una condanna pesante, è scandalosa,” continua Bassem. “Ayham era solo un bambino, non capiva quello che stava facendo.”

Quando gli si chiede perché Ayham, descritto dai genitori come un ragazzo studioso e giocoso, abbia commesso una simile azione, Bassem indica la finestra verso l’esterno.

Guarda l’occupazione tutt’intorno,” afferma. “Perché un bambino lascerebbe i suoi libri e il pallone per accoltellare qualcuno? A causa di quello che gli israeliani hanno fatto alla nostra terra, di come ci hanno aggrediti, arrestati e uccisi per anni con l’occupazione, giorno dopo giorno.

È questo che fa pensare ai ragazzini palestinesi: quale futuro avrò sotto questa occupazione? Questo li porta a commettere un’aggressione.”

Agli occhi della corte

Ogni anno circa 700 palestinesi della Cisgiordania al di sotto dei 18 anni sono processati da tribunali militari israeliani, che, secondo i gruppi per i diritti umani “Addameer” [“Coscienza”, ong palestinese che si occupa dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, ndtr.] e “Defense for Children International – Palestine” [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina] (DCIP), vantano una percentuale di condanne del 99,7%.

Le leggi militari israeliane consentono che i bambini della Cisgiordania occupata e di Gaza dai 12 anni in su vengano condannati a pene detentive.

Fino a pochi anni fa la prassi israeliana consentiva che i minori palestinesi di un’età dai 16 anni in su fossero giudicati e condannati dai tribunali militari israeliani come adulti.

Nonostante un ordine militare del 2011 che alzava da 16 a 18 anni l’età della responsabilità giuridica dei palestinesi nel sistema dei tribunali militari, gli analisti sostengono che la prassi di giudicare ragazzini dai 16 anni in su come se fossero adulti è rimasta per lo più invariata.

Ci sono linee guida per le sentenze che limitano la possibilità del tribunale di condannare un minore a una lunga pena detentiva se ha meno di 15 anni,” dice a MEE Dawoud Yousef, analista per i diritti umani che risiede in Cisgiordania.

Per cui quello che tendono a fare i tribunali è di aspettare finché hai 16 anni in modo da poterti condannare come un adulto,” continua. “In teoria, ragazzini con meno di 18 anni non dovrebbero essere condannati a 35 anni, ma non ci sono norme o disposizioni che impediscano ai tribunali di farlo.”

Secondo Yousef, la ragione per cui le corti militari israeliane ritardano le condanne di minori palestinesi è duplice.

Non solo i tribunali militari perseguono indiscriminatamente il massimo della pena per i palestinesi, ma è anche una questione di immagine di fronte alla comunità internazionale,” afferma Yousef.

Alcuni gruppi per i diritti umani da tempo accusano i tribunali militari israeliani di fungere da “corti fantoccio” che, invece di funzionare come sistema di giustizia e per chiedere conto di reati, sono utilizzate come strumento di dominio, come estensione della sovranità israeliana nei territori palestinesi occupati.

Per lo Stato di Israele è estremamente importante che questi tribunali continuino a conservare almeno una parvenza di legittimità internazionale,” continua Yousef.

Così in molti casi questo vuol dire aspettare finché i ragazzini sono più grandi, e che lo sembrino anche fisicamente, il che consente ai tribunali di giustificare condanne a pene più lunghe.”

Oggetti taglienti

Solo due settimane prima che Ayham Sabbah venisse condannato, Israele ha liberato, dopo tre anni di prigione, i detenuti palestinesi Shadi Farrah e Ahmad al-Zaatari, entrambi quindicenni.

I due ragazzi, titolari di carte d’identità di Gerusalemme, sono stati arrestati nel 2015 a 12 anni con l’accusa di tentato omicidio, facendo di loro i prigionieri palestinesi più giovani del momento.

Le forze israeliane sostenevano che al momento del loro arresto i ragazzini fossero in possesso di oggetti affilati e stessero progettando di attuare un’aggressione nella zona.

Nonostante la loro recisa smentita che i ragazzini stessero pianificando una qualunque sorta di aggressione, nel novembre 2016 le famiglie Farrah e Zaatari hanno accettato un patteggiamento che ha visto i ragazzini condannati a tre anni, compreso il periodo già scontato, in un carcere minorile israeliano.

Siamo stati obbligati ad accettare il patteggiamento, benché i ragazzini non avessero fatto niente di male,” dice a MEE la madre di Shadi, Fariha Farrah.

Il pubblico ministero ci ha minacciati, affermando che se non avessimo accettato il patteggiamento, avrebbero iniziato a rimandare la condanna di Shadi fino al compimento dei 14 anni, nel qual caso avrebbe ricevuto una condanna ancora più lunga,” afferma la quarantenne.

A differenza dei minorenni palestinesi della Cisgiordania, quelli palestinesi con residenza a Gerusalemme est o con cittadinanza israeliana sono giudicati dai tribunali penali israeliani, non da corti militari.

In base alle leggi del codice penale israeliano, i minorenni con meno di 14 anni possono essere condannati solo a pene da scontare in strutture per minori. Una volta che abbiano superato i 14 anni, possono scontare la pena in una struttura carceraria insieme a prigionieri palestinesi adulti.

In quelli che Israele definisce casi “di sicurezza” – in genere riferendosi a casi in cui palestinesi sono accusati di aggredire israeliani – i minori palestinesi di Gerusalemme incarcerati non ricevono pene ridotte. Per ogni condanna o imputazione che prevede una pena massima al di sopra dei sei mesi, i minori dai 14 anni in su vengono condannati a pene uguali a quelle degli adulti.

Il pubblico ministero non ha prodotto alcun testimone che potesse deporre contro Shadi, ma il tribunale ha iniziato a rimandare e rimandare la sentenza senza alcuna ragione, “continua Farrah. “Stavamo facendo una corsa contro il tempo per essere sicuri che Shadi ricevesse una sentenza prima di compiere 14 anni.”

Avevamo visto quello che era successo ad Ahmed Manasra, come hanno iniziato a rinviare la sentenza, e questo ci ha terrorizzati tanto da accettare il patteggiamento,” sostiene.

Pochi mesi prima della condanna di Shadi, nel novembre 2016, un tribunale israeliano aveva condannato il quattordicenne Ahmad Manasra a 12 anni di prigione per tentato omicidio.

Manasra, il cui processo ha fatto notizia, aveva solo 13 anni quando lui e suo cugino hanno colpito e ferito gravemente due israeliani nei pressi di una colonia israeliana nella Gerusalemme est occupata.

Israele è stato universalmente criticato per aver rimandato la condanna di Manasra fin dopo il compimento dei 14 anni, età in cui era abbastanza grande perché in base alle leggi israeliane gli venisse comminata una detenzione più pesante.

Quello stesso anno i tribunali israeliani hanno condannato a lunghe pene detentive per tentato omicidio molti altri minori palestinesi di Gerusalemme che sarebbero stati coinvolti in presunte aggressioni all’arma bianca tra il 2015 e il 2016.

Doppio standard

Ognuna delle famiglie Rimawi, Sabbah e Farrah ha espresso le stesse rimostranze: se i ruoli fossero stati invertiti, questo non sarebbe avvenuto.

Sappiamo che in queste situazioni il razzismo è uno dei fattori decisivi,” dice Bassem a MEE.

Se un colono israeliano minorenne uccidesse un palestinese, pensi che gli toccherebbe la stessa sorte di mio figlio? Assolutamente no,” afferma.

Gli israeliani che attacchino o uccidano dei palestinesi sono giudicati, ammesso che lo siano, nei tribunali civili,” sostiene Rimawi. “Ma se un minore palestinese lancia una pietra, viene giudicato da un tribunale militare. Che razza di sistema giudiziario è questo?”

Sabbah e gli altri genitori segnalano casi di minori, e adulti, israeliani che hanno ucciso o aggredito dei palestinesi e se la sono cavata con condanne molto meno pesanti dei loro figli, e persino senza nessuna condanna.

Guarda il caso dei ragazzi che hanno rapito e bruciato vivo Mohammed Abu Khdeir nel 2014,” dice Sabbah, sottolineando il fatto che uno degli adolescenti condannati sta scontando una condanna a 21 anni, rispetto ai 35 di Ayham Sabbah.

Guarda Elor Azaria,” dice Fariha Farrah, “è stato ripreso in un video mentre giustiziava Abd al-Fattah al-Sharif, e ha passato 8 mesi in prigione.”

Farrah aggiunge che, durante il processo a suo figlio Shadi, l’avvocatessa israeliana della famiglia stava difendendo anche un colono israeliano minorenne che aveva aggredito un soldato israeliano.

Il ragazzo israeliano che stava difendendo è stato rilasciato e gli è stata comminata una lieve ammenda, ed egli aveva aggredito uno dei loro soldati,” afferma. “Mio figlio aveva 12 anni ed è stato in prigione per 3 anni perché avrebbe “pianificato” un attacco, quando non ha neppure alzato le mani su qualcuno.”

All’inizio della scorsa estate l’Alta Corte israeliana ha rilasciato un colono israeliano coinvolto nel 2015 nell’incendio di una casa palestinese che ha ucciso un neonato palestinese e i suoi genitori della famiglia Dawabsheh.

La Corte ha liberato il colono dopo che aveva trascorso due anni in prigione con il pretesto che era minorenne al momento del gravissimo attacco. Gli sono stati comminati gli arresti domiciliari.

Hanno bruciato vivo un neonato, e l’hanno fatta franca,” dice Farrah.

Quello che fanno per i minori israeliani dovrebbero farlo anche per quelli palestinesi,” continua Sabbah.

In tutto il mondo i minorenni non sono giudicati come gli adulti, anche se hanno fatto un errore,” dice.

C’è una cosa chiamata infanzia – che dovrebbe essere rispettata. Ma sotto occupazione, i nostri ragazzini stanno passando la loro infanzia in prigione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)