Gli ebrei stanno cominciando a temere la democrazia

Anshel Pfeffer

12 luglio 2018, Haaretz

Non possiamo essere vittime un’altra volta’: grazie a Trump, Netanyahu e Putin, i tempi gloriosi della democrazia liberale sono finiti. La bilancia della storia non pende dalla parte della giustizia. Da che parte staranno gli ebrei?

Martedì mattina una parlamentare della Knesset è stata espulsa da una riunione della commissione parlamentare per aver declamato una parte della Dichiarazione di Indipendenza israeliana.

L’articolo che ha letto sancisce che lo Stato di Israele “promuoverà lo sviluppo del Paese a beneficio di tutti i suoi abitanti; si baserà sulla libertà, la giustizia e la pace, come previsto dai profeti di Israele; garantirà la completa eguaglianza dei diritti sociali e politici per tutti i suoi abitanti, a prescindere dalla religione, dalla razza o dal sesso.”

Dubito che la ‘Legge sullo Stato-Nazione’, che la commissione stava discutendo e che cerca di vanificare formalmente quella “completa eguaglianza”, verrà davvero approvata in tempi brevi.

Benjamin Netanyahu la sta improvvisamente promuovendo per ciniche ragioni elettorali. La legge, al centro di controversie, non ha bisogno di percorrere tutto il suo iter perché i suoi detrattori – i partiti di opposizione, i consiglieri legali dello stesso governo, i media, potenzialmente l’Alta Corte – siano tacciati di essere traditori.

E comunque, al di là della sceneggiata parlamentare di Tzipi Livni (dirigente della coalizione di centro “Unione Sionista”, all’opposizione, ndtr], quegli articoli non sono stati mai applicati in 70 anni di esistenza di Israele. Ma è stato certamente un momento simbolico.

L’espulsione di Livni, dopo che le è stato vietato di presentare una copia della Dichiarazione d’Indipendenza in una tribuna nell’aula della commissione, ha rappresentato un chiaro slittamento di Israele da ogni aspirazione a costruire il proprio futuro in base a valori, verso un Israele edificato esclusivamente sul nazionalismo ebraico.

Ciò significa una scelta tra due tipi di democrazia e due tipi di stile di vita ebraico. E non si tratta solo di Israele. Lo stesso slittamento sta avvenendo dovunque.

Nel 1945, quando gli ebrei hanno incominciato a realizzare il fatto devastante che un terzo del loro popolo era stato sterminato in pochi anni, si è verificato un altro mutamento importante. Con la distruzione di ciò che era stato il cuore della civiltà ebraica per 1000 anni, per la prima volta gli ebrei che vivevano nelle democrazie vittoriose del nord America e della Gran Bretagna stavano diventando la maggioranza [degli ebrei in Occidente, ndtr.].

Per molti secoli il benessere degli ebrei, spesso la loro stessa sopravvivenza, erano dipesi dalla benevolenza di monarchi e dittatori. Questo aveva imposto un certo tipo di discreta ricerca di indulgenza. I dirigenti delle comunità ebraiche dovevano valutare quale despota ingraziarsi. Era una questione di sopravvivenza.

Con lo spostamento del centro di gravità della vita ebraica verso le Nazioni democratiche e con l’aumento del numero di ebrei che conducevano una vita di cittadini liberi ed uguali – con l’emigrazione dei sopravvissuti in Europa e degli ebrei Mizrahi [ detti anche sefarditi, ndtr.] dai territori arabi verso l’Occidente ed Israele – l’attivismo ebraico assunse un carattere molto differente. Venne allo scoperto, con campagne pubbliche, pressioni politiche, uso dei media e attività di sensibilizzazione. Infine gli ebrei ebbero eguali diritti e parallelamente fiducia in sé stessi sufficiente per esigerli fino in fondo e pubblicamente.

Gli anni del dopoguerra annunciarono anche un nuovo tipo di coinvolgimento degli ebrei nella società. Alcuni ebrei in precedenza erano stati importanti in tutti i movimenti per l’eguaglianza e la giustizia, ma questo avveniva normalmente a livello personale. Spesso, come nel caso degli ebrei comunisti, era un passo verso l’assimilazione e la perdita di identità religiosa e nazionale a favore di una più grande fratellanza umana. Nelle situazioni in cui ebrei si univano tra loro per lottare per cause sociali, si occupavano abitualmente delle questioni specifiche dei lavoratori ebrei.

Ma vivere in un ambiente più aperto e libero incoraggiò per la prima volta l’ampia partecipazione degli ebrei nelle Nazioni democratiche a cause più generali, per i diritti civili, identificandosi come ebrei, sia che si trattasse di rabbini in quanto membri di intere comunità. Non vi era più la preoccupazione che marciare per obbiettivi controversi e contestati avrebbe provocato la collera delle autorità verso tutti gli ebrei.

E vi era anche un senso del dovere. Gli ebrei conducevano una vita tranquilla. Nella diaspora ogni grave minaccia fisica di antisemitismo stava scomparendo. Per coloro che lo scegliessero, vi era uno Stato ebraico sovrano dove vivere. Per gli altri, una vita come membri di una minoranza rispettata e ben integrata.

Per molti ebrei una nuova era di sicurezza e prosperità significava che noi ora dovevamo garantire che altre, meno fortunate, minoranze, come anche i rifugiati e gli immigrati, avrebbero ricevuto il nostro incondizionato appoggio: un grande senso etico di ‘tikkun olam’ [riparare il mondo, ndtr.], che ha animato molti ebrei negli ultimi 60 anni. E quando nei primi anni ’90 l’impero sovietico crollò, rendendo liberi ancor più ebrei sia di emigrare in Occidente e in Israele, sia di restare nelle loro patrie di nuova democrazia, la tendenza sembrò irreversibile.

Un quarto di secolo fa, per la prima volta nella storia, quasi l’intero popolo ebraico viveva in società libere. Con l’eccezione dell’Iran e di poche piccole e isolate sacche, tutti gli ebrei, dovunque vivessero, sono stati liberi e uguali ormai da una generazione.

Non abbiamo ancora cominciato a comprendere il vero significato di quel fenomeno storico – e stiamo ormai affrontando un enorme problema riguardo a quale sia il tipo di libertà in cui vogliamo vivere.

Non avviene solo in Israele, dove siamo in un limbo tra la costruzione di una società basata sui valori ed una che considera la preservazione della nazionalità ebraica superiore ad ogni considerazione morale. Lo stesso divario si sta aprendo nell’America di Trump ed in tutta Europa, dove un Paese dopo l’altro soccombe alla nuova ondata di politiche populiste.

La grande maggioranza degli ebrei americani può in questo momento mostrare tendenze progressiste, ma vi è una sostanziale, forse crescente, minoranza tra loro che crede fermamente che una stabile sicurezza si possa trovare soltanto nell’alleanza con un establishment conservatore, e sì, bianco.  

E se si parla con gli ebrei in Europa si troveranno molti con un approccio sfrontatamente illiberale. Non solo tra le comunità ebraiche in Francia e Belgio, dove gli ebrei sono stati uccisi in anni recenti per il fatto di essere ebrei. Questa mentalità si rafforza più si va verso est.

Come mi ha detto il capo di una comunità regionale in Russia: “Quando Israele bombarda Gaza ed uccide gli arabi è una buona cosa per gli ebrei. È ciò che fa sì che i nostri vicini qui ci rispettino molto di più. È il miglior antidoto all’antisemitismo.”

Questa settimana un rabbino in Ungheria mi ha detto: “Gli ebrei progressisti sono attori di un dramma storico in cui loro rappresentano le vittime, tutte le vittime. Perché questo è ciò che apprendono dall’esperienza storica ebraica. Ma questo è solo un sacco di buoni propositi.

Il mondo adesso sta diventando un posto meno liberale, un posto in cui i non ebrei stanno dimenticando l’olocausto. Gli ebrei hanno bisogno di una strategia di sopravvivenza, perché non diventiamo vittime un’altra volta. Questo significa essere una Nazione forte, alleata con altre Nazioni forti. Non con le vittime.”

È una strategia di sopravvivenza nel mondo di Trump, Putin e Netanyahu. 

In Europa, non più un importante centro di vita ebraica, ma ancora una patria per ben due milioni di ebrei sparsi nel continente, ho incontrato sempre più ebrei alle prese con i valori liberali del dopoguerra con cui sono stati educati.

Istintivamente rifiutano la retorica anti-immigrati e islamofobica che li circonda. Non gli appare soltanto sbagliata. È troppo simile a ciò che i loro genitori e nonni sentivano non molto tempo fa.

Ma poi portano i figli nelle sinagoghe e nelle scuole ebraiche circondate da guardie armate e temono di dover scegliere da che parte stare.

Potrebbe essere terminato il breve periodo nella storia ebraica in cui è sembrato che il mondo intorno a noi stesse allineandosi con ciò che volevamo credere fossero valori sia ebraici che liberali, che la bilancia pendesse dalla parte opposta al razzismo e all’odio, non solo verso gli ebrei, ma verso chiunque, ed in cui pensavamo che fosse solo questione di tempo perché potessimo costruire società migliori e più giuste, in Israele ed in ogni altro Paese dove vivono gli ebrei.

Di sicuro non può più essere dato per scontato. Prepariamoci a dover mettere alla prova quei valori.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I rapporti scomparsi sugli erbicidi a Gaza

Amira Hass

9 luglio 2018, Haaretz

Quindi stiamo distruggendo i raccolti palestinesi con le nostre irrorazioni? Che novità, fa spallucce l’israeliano medio e passa ad un altro canale.

Mentre stavo scrivendo il mio articolo sull’erbicida israeliano irrorato a Gaza, ho appreso che i profughi del 1948 dal villaggio di Salama [villaggio che si trovava nei pressi di Jaffa, nell’attuale Israele, ndtr.] vivono nel villaggio di Khuza’a [nella Striscia di Gaza, ndtr.]. Sono agricoltori, come lo erano molti dei loro genitori e nonni. All’epoca coltivavano limoni, banane e cereali e vendevano i loro raccolti a Giaffa ed anche nelle comunità ebraiche.

Noi tendiamo ad associare i rifugiati palestinesi ai campi profughi. Ma a volte si incontra qualcuno che, anche se esiliato dal proprio villaggio, è riuscito a mantenere lo stesso tipo di vita e le stesse risorse – cioè, a lavorare e vivere dei frutti della terra in Cisgiordania e persino a Gaza. La famiglia Al-Najjar di Khuza’a è uno di questi casi.

Insieme a suo padre, Saleh al-Najjar, di 53 anni, lavora 60 dunams (circa 15 acri) di terra che hanno in affitto a Khuza’a. Impiegano tre braccianti e Saleh dice che tutti e cinque lavorano 12 ore al giorno.

Con i lavori agricoli mantengono una continuità, nonostante siano rifugiati ed abbiano perduto le loro terre di Salama – su cui Israele ha costruito [la cittadina di] Kfar Shalem. Intanto Israele mantiene la continuità danneggiando le loro fonti di reddito e la loro salute. Quando la gente dice che la Nakba non è mai finita, può citare la famiglia Najjar come ulteriore esempio. Uno tra milioni.

Negli ultimi quattro anni i Najjar – come centinaia di altre famiglie nella parte orientale della Striscia di Gaza – hanno imparato a temere anche i piccoli aerei civili.

In primavera e in autunno, a volte anche in inverno, per diversi giorni al mattino compaiono gli aerei, che sorvolano la barriera di separazione. Ma le loro emissioni sono trasportate dal vento verso occidente, attraversano il confine e raggiungono i campi di Gaza. Vedendo i loro raccolti avvizziti, gli agricoltori hanno capito che gli aerei spargono erbicidi.

La paura di questi pesticidi è persino maggiore di quella dei carri armati israeliani che così spesso schiacciano la vegetazione ad ovest della barriera di separazione – dato che gli erbicidi arrivano più lontano, penetrano nel suolo e inquinano l’acqua. La Croce Rossa dice che le coltivazioni fino a 2 km e 200 metri ad ovest della barriera di confine vengono colpite dall’irrorazione. Quelle che si trovano tra i 100 e i 900 metri di distanza sono state totalmente distrutte. I pozzi d’irrigazione situati a distanza di un chilometro sono stati contaminati.

I rapporti di fonte palestinese sui pesticidi che distruggono l’agricoltura di Gaza sono comparsi per la prima volta alla fine del 2014. Un frutto della fantasia? A fine 2015 il portavoce dell’esercito israeliano ha confermato al sito web +972 che si stava effettuando l’irrorazione di pesticidi. Il Centro Al Mezan per i diritti umani, un’organizzazione di Gaza, ha inviato campioni di terra per le analisi di laboratorio. L’esercito non gli ha riferito che cosa venisse irrorato.

L’irrorazione di erbicidi allo scopo di distruggere i raccolti non è il genere di cose su cui il servizio stampa dell’esercito israeliano o il Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori [l’ente militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndtr.] sono contenti di parlare o fornire volontariamente informazioni. Né è il tipo di informazione che preoccupa molto gli israeliani, sia sui social media che come usuale argomento di conversazione nelle case israeliane.

“Quindi stiamo distruggendo i raccolti palestinesi irrorando pesticidi – che c’è di nuovo? Abbiamo fatto lo stesso coi raccolti dei beduini nel Negev (prima che l’Alta Corte di Giustizia lo vietasse in seguito ad una petizione di Adala) e coi terreni di Akraba [villaggio nella zona di Nablus, nei territori palestinesi occupati, ndtr.] negli anni ’70. Se i nostri bravi ragazzi hanno deciso di farlo, deve essere necessario”, dice facendo spallucce l’israeliano medio, prima di cambiare canale. Ecco perché sto cercando di tornare sul canale precedente.

La Divisione di Gaza dell’esercito israeliano decide; il ministero della Difesa paga le compagnie aeree civili per farlo. I campi di spinaci appassiti e le piante avvizzite di prezzemolo occupano la mia mente. Penso anche ai figli di questi piloti: lo sanno che il vento trasporta i prodotti chimici che i loro papà hanno spruzzato e che un altro papà non può comprare le scarpe ed altre cose ai suoi figli a causa dei raccolti distrutti per questo?

Richiesto di un commento, il ministero della Difesa afferma: “L’irrorazione viene eseguita da compagnie debitamente autorizzate in base alla legge del 1956 relativa alla protezione delle piante.” È vero che le due compagnie civili che trasportano i pesticidi al di sopra della barriera di confine – Chim-Nir e Telem Aviation – sono professionisti riconosciuti in questo campo. Il ministero della Difesa dice anche: “L’irrorazione dei campi è identica a quella effettuata in tutto Israele.”

Chiunque abbia scritto quella dichiarazione, o offende l’intelligenza dei lettori israeliani, oppure confida che prenderanno per buone le sue parole e non si preoccuperanno. Entrambe le cose sono vere

Il ministero della Difesa ha solamente rivelato quali sono gli “identici” erbicidi utilizzati, in risposta ad un’inchiesta di Gisha, il Centro Legale per la Libertà di Movimento, in base alla legge per la libertà di informazione. I componenti chimici sono il glifosato, l’oxifluorfen e il diuron.

Nonostante le numerose scoperte riguardo ai rischi ambientali e per la salute posti dal glifosato, esso viene ancora usato in Israele. Ma il portavoce del ministero della Difesa ignora il fatto che, pur con tutto il dibattito su quanto siano dannose queste sostanze per l’ambiente e per la salute della popolazione, il loro scopo è contribuire a proteggere i mezzi di sostentamento degli agricoltori – non distruggere le loro coltivazioni, come stiamo facendo a Gaza.

L’esercito ed il ministero della Difesa sanno che queste sostanze chimiche irrorate non conoscono confine. Il danno sistematico portato ai raccolti palestinesi dall’irrorazione non è casuale, è voluto. Un’altra forma di guerra contro la salute e il benessere dei palestinesi, e tutto sotto la logora copertura della sicurezza.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’”accordo del secolo” non è nuovo e la dirigenza dell’ANP non è una vittima

Ramzy Baroud

Middle East Monitor – 3 luglio 2018

L’”accordo del secolo” di Donald Trump fallirà. I palestinesi non scambieranno la loro lotta di settant’anni per la libertà con i soldi di Jared Kushner [genero di Trump e suo consigliere per il Medio oriente, ndtr.], né Israele accetterà che esista neppure uno Stato palestinese demilitarizzato in Cisgiordania.

È probabile che la sequenza di questo precoce fallimento si svolga in questo modo: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah probabilmente rifiuterà l’accordo una volta che verranno rivelati tutti i dettagli del piano dell’amministrazione USA; è probabile che Israele non sveli la sua decisione fin tanto che il rifiuto dei palestinesi verrà sfruttato a fondo dai media USA filoisraeliani.

La realtà è che, data la massiccia crescita della Destra e delle forze ultra-nazionaliste in Israele, uno Stato palestinese indipendente anche solo sull’1% della Palestina storica non sarebbe accettabile dalle attuali posizioni politiche dominanti in Israele.

C’è qualcos’altro da prendere in considerazione: la turbolenta carriera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu come dirigente di lungo corso è messa duramente alla prova da accuse di corruzione e da una serie di inchieste di polizia. La sua posizione è troppo debole per garantire anche solo la sua sopravvivenza fino alle prossime elezioni politiche, figuriamoci per sostenere un “accordo del secolo”.

Tuttavia si prevede che il leader israeliano in difficoltà stia al gioco per conquistarsi ulteriormente i favori dei suoi alleati americani, distolga l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana dalla sua corruzione e incolpi i palestinesi del fallimento politico che ciò sicuramente determinerà.

Si ripetono il Camp David II di Bill Clinton e la “Road Map per la Pace” di W. Bush. Entrambe le iniziative, per quanto inique per i palestinesi, non vennero mai accettate in primo luogo da Israele, eppure in molti libri di storia si è scritto che l’ingrata dirigenza palestinese silurò i tentativi di pace di USA e Israele. Netanyahu è intenzionato a mantenere questa concezione sbagliata.tan

Il leader israeliano, che ha ricevuto l’estremo regalo americano dello spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, sa quanto importante sia questo “accordo” per l’amministrazione Trump. Prima di assumere la carica di presidente, il primo novembre 2016 Trump ha parlato fin dall’inizio del suo “accordo definitivo” in un’intervista con il Wall Street Journal. Non ha esposto dettagli, oltre all’affermazione di essere in grado “di fare…l’accordo impossibile … per il bene dell’umanità.”

Da allora ci siamo basati su sporadiche indiscrezioni, a partire dal novembre 2017 fino a poco tempo fa. Abbiamo appreso che su una piccola parte della Cisgiordania verrebbe fondato uno Stato palestinese demilitarizzato, senza Gerusalemme est occupata come sua capitale; che Israele si terrebbe tutta Gerusalemme e si annetterebbe le colonie ebraiche illegali e prenderebbe persino il controllo della valle del Giordano, e via di seguito.

I palestinesi avrebbero ancora una “Gerusalemme”, anche se inventata, in cui il quartiere di Abu Dis verrebbe semplicemente chiamato “Gerusalemme”

Nonostante il clamore, niente di tutto ciò è realmente innovativo. L’”accordo del secolo” promette di essere un rimaneggiamento di precedenti proposte americane che erano al servizio di necessità ed interessi israeliani. Considerazioni del genero di Trump, Jared Kushner, in un’intervista con il giornale palestinese “Al-Quds”, confermano questa opinione. Ha sostenuto che il popolo palestinese è “meno interessato ai punti affrontati nelle discussioni politiche di quanto lo sia a cercare il modo in cui un accordo darà a loro e alle loro future generazioni nuove opportunità, più lavoro e meglio pagato.”

Dove lo abbiamo già sentito dire? Ah, sì, la cosiddetta “pace economica” di Netanyahu, che ha spacciato per oltre un decennio. Certamente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha dimostrato che la sua volontà politica è una merce che può essere comprata e venduta, ma aspettarsi che il popolo palestinese faccia altrettanto è un’illusione senza precedenti storici.

Al contrario, l’ANP è diventata un ostacolo per la libertà palestinese. Un recente sondaggio realizzato dal “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca” ha indicato che la maggioranza dei palestinesi attribuisce prevalentemente la colpa a Israele e all’ANP per l’assedio di Gaza, e che per lo più pensa che l’ANP sia “diventata un peso per il popolo palestinese.”

Non è affatto sorprendente che a marzo 2018 il 68% di tutti i palestinesi volesse che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas desse le dimissioni.

Mentre a Israele va attribuita la maggior parte della colpa per la sua pluridecennale occupazione militare, le successive guerre e gli assedi letali, anche gli USA sono responsabili di appoggiare e finanziare l’impresa israeliana di colonizzazione. Tuttavia l’ANP non più giocare il ruolo della vittima indifesa.

Ciò che rende l’”accordo del secolo” particolarmente pericoloso è il fatto che non ci si può fidare dell’ANP. Ha giocato così bene e così a lungo il suo ruolo, assegnatogli da Israele e dagli USA. La politica dell’ANP è servita come braccio locale nella sottomissione dei palestinesi, ostacolandone le proteste e garantendo il fallimento di qualunque iniziativa politica che non ruotasse intorno alla glorificazione di Abbas e dei suoi scagnozzi.

Non è certo un buon risultato quando la maggior parte della politica estera dell’ANP negli ultimi anni si è occupata di garantire il totale isolamento economico e politico dell’impoverita Gaza, invece di unificare il popolo palestinese attorno a una lotta collettiva per porre fine alla terribile occupazione israeliana.

Che i funzionari dell’ANP condannino l’”accordo del secolo” come una violazione dei diritti dei palestinesi, mentre loro per primi hanno fatto poco per rispettare questi diritti, è una concreta definizione di ipocrisia. Non c’è da stupirsi che Kushner pensi che gli USA possano semplicemente comprare i palestinesi con i soldi in un “(tipo di) accordo da cambia le tue fiches, rischia tutto, prendere o lasciare”, come ha detto Robert Fisk [famoso giornalista inglese contrario alle politiche israeliane, ndtr.]

Cosa può fare ora l’ANP? È intrappolata nella sua stessa imprudenza. Da una parte, lo sponsor finanziario dell’ANP a Washington ha chiuso il rubinetto dei soldi, mentre dall’altra il popolo palestinese ha perso l’ultima briciola di rispetto verso la sua cosiddetta “dirigenza”.

L’”accordo del secolo” di Trump potrebbe inavvertitamente rimescolare le carte portando a un’“indispensabile resa dei conti per tutte le altre parti coinvolte,” ha sostenuto Anders Persson [ricercatore ed editorialista danese, ndtr.]. Una opzione a disposizione del popolo palestinese è l’espansione del modello delle mobilitazioni popolari che si è evidenziato presso la barriera tra Gaza e Israele per molte settimane.

Gli effetti negativi di USA-ANP e l’imminente disgregazione dello status quo potrebbe essere l’opportunità di cui il popolo palestinese ha bisogno per scatenare la propria forza attraverso una mobilitazione di massa e una resistenza popolare in patria, accompagnata da un ruolo attivo delle comunità palestinesi nella diaspora.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele e le politiche di Trump

Analisi: Israele ha ispirato la politica di Trump di separazione dalle famiglie?

Ma’an News

27 giugno 2018

di Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista, scrittore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è ” The Last Earth: A Palestinian Story” [L’Ultima terra: una storia palestinese]

Lo scorso maggio il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, Jeff  Sessions, ha annunciato la politica della “tolleranza zero” del governo ai posti di frontiera USA. E’ stata questione di qualche settimana prima che la nuova politica iniziasse a produrre tragiche conseguenze. Chi tentava di attraversare illegalmente il confine per entrare negli USA è stato sottoposto a un’incriminazione penale federale, mentre i figli gli sono stati tolti dalle autorità federali, che li hanno messi in strutture simili a gabbie.

Come prevedibile, questa politica ha provocato indignazione e alla fine è stata revocata. Tuttavia molti di quelli che hanno condannato l’amministrazione del presidente Trump sembrano ignorare deliberatamente il fatto che Israele ha portato avanti pratiche molto peggiori contro i palestinesi.

Di fatto molti all’interno della classe dominante americana, sia repubblicani che democratici, sono stati ammaliati per decenni dal modello israeliano. Per anni opinionisti hanno elogiato non solo la presunta democrazia israeliana, ma anche il suo apparato di sicurezza come un esempio da emulare. In seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001 è fiorita una rinnovata storia d’amore con le strategie securitarie israeliane, grazie alle quali Tel Aviv ha rastrellato miliardi di dollari dei contribuenti americani in nome dell’aiuto per rendere sicuri i confini USA contro presunte minacce.

Un nuovo, persino più terribile capitolo della continua cooperazione è stato stilato poco dopo che il neo-eletto Trump ha reso noto il suo piano di costruzione di un “grande” muro sul confine USA – Messico. Ancor prima che le imprese israeliane cogliessero l’occasione per costruire il muro di Trump, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha twittato a favore della “grande idea” di Trump, affermando che il muro di Israele è stato un “grande successo” perché “ha bloccato qualunque immigrazione illegale:”

“Uccelli dello  stesso piumaggio fanno uno stormo insieme”, dice un proverbio inglese. Netanyahu e Trump si sono mossi insieme per oltre un anno e mezzo in perfetta armonia. Purtroppo la loro affinità personale, lo stile opportunistico in politica e, in modo più preoccupante, i punti di contatto ideologici hanno peggiorato le cose. Nel caso di Israele, la parola “democrazia” non è certo appropriata. Tutt’al più, la democrazia israeliana può essere descritta come unica. L’ex-presidente della Corte Suprema dello “Stato ebraico”, Aharon Barak, avrebbe detto che “Israele è diverso dagli altri Paesi. Non solo è uno Stato democratico, ma anche ebraico.”

All’inizio di quest’anno, durante una conferenza a Tel Aviv, la controversa  ministra della Giustizia di Israele, Ayelet Shaked, ha proposto la sua personale versione dell’affermazione di Barak. “Israele è uno Stato ebraico,” ha detto. “Non è uno Stato per tutte le sue nazionalità. Cioè, uguali diritti per tutti i cittadini ma non uguali diritti nazionali.”

Per preservare la sua versione della “democrazia”, Israele deve, in base alle parole di Shaked, “conservare una maggioranza ebraica anche a costo di una violazione dei diritti.”

Israele ruota il concetto di democrazia in qualunque direzione gli consenta di garantire la dominazione della maggioranza ebraica a spese dei palestinesi, gli abitanti originari del territorio, il cui crescente numero è spesso visto come una “minaccia demografica”, persino una “bomba”.

A tutt’oggi Israele non ha una costituzione formale. E’ governato da quella che è nota come “Legge fondamentale”. Non avendo un codice etico o un fondamento giuridico in base al quale può essere giudicato il comportamento dello Stato, il parlamento israeliano (la Knesset) è, di conseguenza, libero di stilare e imporre leggi che prendono di mira i diritti dei palestinesi senza doversi confrontare con nozioni quali la minaccia di ‘incostituzionalità’ delle leggi.

Una delle ragioni per cui la legge di Trump di separazione delle famiglie sul confine è fallita è che, nonostante i difetti nel loro sistema democratico, gli USA hanno una costituzione e una società civile relativamente forte che può utilizzare i codici etici e giuridici del Paese per sfidare il terribile comportamento dello Stato.

Invece in Israele questo non succede. Il governo investe molta energia e fondi per garantire la supremazia ebraica e stabilire contatti diretti tra le colonie ebraiche illegali (costruite su terra palestinese sfidando le leggi internazionali) e Israele. Allo stesso tempo investe altrettante risorse per la pulizia etnica dei palestinesi dalla loro terra, mantenendo ovunque le loro comunità separate e frammentate.

La triste verità è che quello a cui gli americani hanno assistito sul loro confine meridionale negli ultimi due mesi è quello che i palestinesi hanno provato come situazione quotidiana da parte di Israele negli ultimi 70 anni.

Il tipo di segregazione e separazione che le comunità palestinesi sopportano va persino oltre le tipiche conseguenze della guerra, dell’assedio e dell’occupazione militare. E’ una cosa sancita dalle leggi israeliane, fatte principalmente per indebolire, persino demolire la coesione della società palestinese.

Per esempio, nel 2003 la Knesset ha votato a favore della legge “Cittadinanza e ingresso in Israele”, che pone gravi limitazioni ai cittadini palestinesi di Israele che facciano richiesta di ricongiungimento familiare. Quando alcuni gruppi per i diritti umani hanno messo in discussione la legge, i loro tentativi sono falliti in quanto all’inizio del 2012 la Corte Suprema israeliana ha sentenziato a favore del governo.

Nel 2007 quella stessa legge è stata modificata per includere coniugi di “Stati ostili” – cioè la Siria, l’Iran, il Libano e l’Iraq. Non sorprende che i cittadini di alcuni di questi “Stati ostili” siano stati inclusi nel divieto di ingresso negli USA di Trump contro cittadini di Paesi in maggioranza musulmani.

E’ come se Trump stesse seguendo un modello israeliano, improntando le sue decisioni ai principi che hanno guidato le politiche israeliane verso i palestinesi per molti anni.

Persino l’idea di rinchiudere bambini in gabbia è israeliana, una pratica che è stata denunciata dal gruppo per i diritti umani “Commissione pubblica contro la tortura in Israele” (PCATI).

La politica, che a quanto si sostiene è stata sospesa,  ha consentito di rinchiudere detenuti palestinesi, compresi minori, in gabbie esterne, persino durante durissime tempeste invernali.

“Mettere in gabbia palestinesi”, tuttavia, è una vecchia prassi. Oggi il muro dell’apartheid israeliano separa i palestinesi dalla loro terra e segrega arabi ed ebrei su base razziale. Riguardo al caso di Gaza, tutta la Striscia, che ospita 2 milioni di persone, per lo più rifugiati, è stata trasformata in un’immensa “prigione a cielo aperto” di muri e fossati.

 

Mentre molti americani sono confortati dalla decisione di Trump di porre fine alla pratica della separazione familiare sul confine, i politici e i media USA dimenticano il destino dei palestinesi che hanno subito terribili forme di separazione per molti anni. Ancora più scioccante è il fatto che molti tra i repubblicani e i democratici vedano Israele non come un ostacolo per una reale democrazia, ma come un fulgido esempio da seguire.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Purezza razziale e coppie miste in Israele

I sostenitori della purezza razziale in Israele: uniti nel timore degli ebrei che amano non-ebrei

Se i politici effettivamente progressisti sperano di allontanare Israele dal baratro, dovranno impegnarsi a favore di ogni sorta di uguaglianza

Middle East Eye

 

David Sheen – Mercoledì 27 giugno 2018

Nel pomeriggio di un Sabbath [sabato ebraico, giorno di festa settimanale, ndtr.] alla fine di novembre del 2014 tre giovani membri della banda di strada israeliana razzista “Lehava” hanno fatto irruzione nell’unica scuola di Gerusalemme che non è segregata in base alla religione.

Dopo che uno dei suoi complici ha tracciato con lo spray sui muri della scuola graffiti con la scritta “Nessun matrimonio misto”, Yitzhak Gabay, 22 anni, ha dato fuoco alla scuola con il benzene che aveva portato con sé.

Un anno dopo un tribunale israeliano ha dichiarato colpevole Gabay di incendio e incitamento alla violenza razzista, vandalismo, possesso di armi e collaborazione con un gruppo terroristico. È stato condannato a tre anni e quattro mesi di carcere e rilasciato a febbraio.

La scorsa settimana Gabay era di nuovo in tribunale, per un altro caso di incendio. Questa volta non era presente come imputato, ma piuttosto come uomo libero, come sostenitore di altri presunti incendiari.

Un giudice si stava occupando del caso di altri due giovani israeliani imputati di essere entrati nel luglio 2015 di notte in un villaggio della Cisgiordania e di aver lanciato una bomba incendiaria nella casa di una famiglia palestinese, bruciando vivi il padre, la madre e un bambino di un anno. I media israeliani hanno fotografato Gabay tra i 20 giovani israeliani che sono andati in tribunale per deridere il nonno del bambino, gridandogli “Barbecue! Tuo nipote era sulla griglia!”

Chiaramente, per quanto Gabay abbia scontato una breve condanna in carcere, ciò non ha ridotto il suo odio per i palestinesi e per gli ebrei che vogliano vivere con loro come uguali e come amanti.

Purezza razziale

Per quanto deprimente, la macabra scena avrebbe potuto essere presa in considerazione e trasformata in un’occasione istruttiva. I dirigenti israeliani avrebbero potuto respingere pubblicamente l’insistenza di Gabay sulla purezza razziale ed esprimere solidarietà con le vittime – se non con i palestinesi sotto attacco solo per il fatto di esistere, almeno con gli ebrei e gli arabi che Gabay ha attaccato perché coesistono.

Invece quel giorno il ministro dell’Educazione israeliano si è comportato come un capo sensale di matrimoni e su twitter ha chiesto una “riunione mondiale in Israele degli ebrei non sposati.”

Memore del fatto che le famiglie miste sono vittime della violenza razzista, Naftali Bennett [il ministro dell’Educazione, ndtr.] ha cercato innanzitutto di impedire che ne esistano altre.

Indubbiamente sarebbe stato ingenuo aspettarsi una qualunque simpatia da parte del ministro dell’Educazione. Sotto la sua direzione, libri in cui si trovino relazioni sentimentali tra ebrei e palestinesi sono stati eliminati dalla lista di letture per la scuola.

“Casa Ebraica”, il partito politico guidato da Bennett, è stato all’avanguardia nei tentativi di eliminare quei pochi matrimoni misti esistenti in Israele. Gruppi di coloni di estrema destra affiliati al partito ricevono regolarmente finanziamenti pubblici per spostarsi dalla Cisgiordania occupata in Israele, nelle poche città in cui ebrei ed arabi vivono negli stessi quartieri, con l’obiettivo dichiarato di interrompere rapporti sentimentali tra ebrei e non ebrei.

Campagna globale

Ma Bennett non è solo intenzionato a sradicare l’amore interrazziale in Israele. Detiene anche la competenza sugli affari della diaspora, e utilizza i fondi di quel ministero per finanziare programmi intesi a convincere gli ebrei che vivono fuori da Israele a non frequentare non ebrei.

Nel 2015, assumendo questo incarico, ha chiesto che i finanziamenti governativi per questi programmi internazionali contro i matrimoni misti salissero da 4 a 50 milioni di dollari.

Ad essere onesti, non sono solo le fazioni d’estrema destra del governo ad odiare le famiglie multiculturali di Israele. Bentzi Gopstein, il leader di “Lehava”, che ha apertamente invocato l’incendio di chiese in tutto il Paese, è riuscito ad entrare alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] ed esporvi le sue opinioni suprematiste solo grazie al partito di governo del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Nel 2011 i deputati del Likud Tzipi Hotovely e Danny Danon hanno invitato Gopstein a un’audizione in una commissione della Knesset, quindi ha potuto senza alcun fondamento definire spregiativamente rapimenti i rapporti consensuali tra uomini palestinesi e donne ebree. Funzionari di polizia in servizio hanno affermato di non conoscere neanche un singolo caso di questo tipo. Tuttavia i sostenitori di Gopstein alla Knesset oggi sono le due figure più importanti del governo dal punto di vista diplomatico: Hotovely è ministra degli Esteri ad interim e Danon è ambasciatore alle Nazioni Unite.

Gli accoliti e le accolite di Gopstein vanno a protestare ai matrimoni tra arabi ed ebrei e pattugliano le città in Israele per molestare coppie interrazziali, sperando di evitare del tutto che avvenga anche uno solo di questi rari matrimoni.

Per anni queste attività contro i matrimoni misti sono state finanziate dallo stesso governo israeliano. Dopo che il giornalista d’inchiesta Uri Blau lo ha rivelato nel 2011, il flusso di denaro del governo si è interrotto.

Da allora, “Lehava” è stato finanziato dalla famiglia Falic [miliardari della Florida, ndtr.], che è anche il maggior donatore delle campagne elettorali di Benjamin Netanyahu.

La “piaga” di Herzog

Non dovrebbe sorprendere che in Israele il campo della dominazione (sostenitori di una soluzione di uno Stato unico dell’apartheid) e quello dell’eliminazione (quelli che vogliono uno Stato dell’apartheid con la pulizia etnica dei non ebrei) vorrebbero eliminare ogni possibilità che gli ebrei dormano con i loro cosiddetti nemici.

Ma cosa dire del campo israeliano della segregazione? Cosa fanno i sostenitori della soluzione dei due Stati – sionisti etichettati come progressisti –  per proteggere i diritti di ogni cittadino israeliano di innamorarsi, sposarsi e fare figli con chiunque il loro cuore voglia, indipendentemente dalla razza o dalla religione?

Domenica il deputato del partito Laburista Yitzhak Herzog ha annunciato che avrebbe dato le dimissioni dalla Knesset. Facendosi da parte dopo cinque anni come leader dell’opposizione, ha messo in chiaro che le sue simpatie non vanno alle assediate famiglie miste di Israele, ma semmai ai razzisti che passano notti in bianco cercando di escogitare il modo per contrastare i matrimoni misti tra ebrei e non ebrei.

Il giorno in cui è stato scelto per dirigere la parastatale “Agenzia Ebraica” – spesso definita come il governo della comunità ebraica internazionale –  Herzog ha indicato le sue principali priorità, facendo un elenco dei problemi che sentiva più importanti da affrontare. Come ha spiegato al sito di notizie israeliano Ynet:

“Le racconterò un’esperienza personale. La scorsa estate ho fatto un viaggio con (mia moglie) negli USA. Per le vacanze. Mi sono diplomato in una scuola ebraica di New York. E siamo andati a trovare degli amici. Ho molti amici negli USA.  Ed ho trovato qualcosa che ho definito una vera piaga. Ho visto i figli dei miei amici sposati o insieme a compagni non ebrei! E i genitori si battevano il petto e si facevano domande, e stavano soffrendo. Senta, si tratta di ogni famiglia (ebrea) negli USA! E stiamo parlando di milioni! E allora ho detto che ci deve essere una campagna, una soluzione. Dobbiamo spremerci il cervello per trovare il modo di risolvere questa grande sfida.”

Leggendo il reportage di Ynet sulle osservazioni di Herzog in ebraico, ho twittato che egli ha chiamato i rapporti sentimentali tra ebrei e non ebrei negli USA “una vera piaga” per cui sperava di trovare una “soluzione”.

Herzog ha subito risposto, twittando che Ynet lo aveva citato in modo errato. Così ho scaricato il file video dell’intervista e guarda un po’: la trascrizione di Ynet delle affermazioni di Herzog contro i matrimoni misti era stata assolutamente corretta. Quindi Herzog ha definito le famiglie interrazziali come un morbo, intendendo forse che la purezza razziale dovrebbe essere la cura adeguata per il popolo ebraico.

Se vi stupite del fatto che presunti progressisti come Herzog possano denigrare relazioni interrazziali, non dovreste farlo.

Altri politici israeliani che si definiscono di centro – compresi Yair Lapid ed Elazar Stern di “Yesh Atid”, così come, tra gli altri, il vice-ministro degli Affari Esteri Michael Oren [della lista centrista “Kulanu”, ndtr.], hanno anche loro parlato in termini denigratori dei matrimoni misti.

Separatisti progressisti

Ma abbracciare apertamente in ebraico una simile retorica razziale – e fare poi una debole retromarcia una volta che è stata svelata in inglese – lascia prevedere una fine ingloriosa per il lavoro ipocrita di Herzog come leader dell’opposizione.

Nell’ultimo decennio, Israele è stato guidato da governi Netanyahu sempre più razzisti, forse i più razzisti nella storia del Paese. Herzog ha passato un lungo periodo del suo mandato come dirigente di quell’opposizione parlamentare che cerca di diventare il socio di minoranza di Netanyahu.

Secondo informazioni giornalistiche, Herzog voleva entrare nel governo e guidare il ministero degli Esteri, dove avrebbe potuto presentare un aspetto più accettabile a livello internazionale delle politiche razziste di Netanyahu.

Con la sua visione rivolta alla purezza del popolo ebraico, Herzog sta tornando alle sue radici familiari. Settantacinque anni fa il nonno da cui ha preso il nome – Isaac HaLevi Herzog, l’allora rabbino capo della comunità ebraica in Palestina, –  fondò il “Comitato per la Difesa dell’Onore delle Figlie di Israele” per combattere i matrimoni misti.

In quel clima di odio e isteria, le donne ebree che frequentavano uomini non ebrei – sia cristiani che musulmani – erano vessate, picchiate, torturate sessualmente e a volte persino uccise. Nessuno è mai stato punito, arrestato, imputato, e nemmeno indagato per quei crimini efferati.

Patriarchi che vigilino sulla vita sessuale dei propri figli non sono un’invenzione del sionismo del XX^ secolo, né sono un’esclusiva della religione ebraica. Ma mentre Israele pretende di definirsi una democrazia, proibisce ai suoi cittadini di sposarsi tra loro se i rispettivi genitori sono registrati con religioni diverse.

Questa particolare caratteristica del Paese venne inserita nella legge da David Ben Gurion, il padre fondatore di Israele e suo primo capo del governo – del campo laburista. E ora, addirittura 70 anni dopo, i dirigenti progressisti di Israele vedono ancora le eccezioni alla regola, le poche famiglie che sopravvivono e si sviluppano sotto queste avverse condizioni, come vera e propria incarnazione di una malattia.

Benché il suo intervistatore di Ynet lo incoroni come neo-eletto “primo ministro del popolo ebraico”, è estremamente improbabile che Isaac Herzog abbia una maggiore influenza sulle abitudini in camera da letto degli ebrei fuori da Israele di quella che ha avuto sulle abitudini elettorali degli ebrei all’interno del Paese – vale a dire, veramente poca.

Sprofondato nell’odio

Ma la generalizzata opinione contro i matrimoni misti che Herzog ha intercettato rimane una forza potente. Sabato sera, mentre camminavo per la strada nel sud di Israele con la mia compagna non ebrea, a meno di cinquanta passi dal nostro appartamento un uomo che non avevamo mai visto prima ci ha fissati e ha sputato verso di noi mentre gli passavamo vicino. Non è stata la prima volta che ciò è accaduto, e probabilmente non sarà l’ultima.

Herzog non è, e non potrà mai essere, “il primo ministro del popolo ebraico”. Qualunque ebreo descriva le famiglie tra ebrei e gentili come una “piaga” – o qualcosa in meno che membri apprezzati delle nostre comunità – non è degno di servirci un piatto di hummus, figuriamoci di prestare servizio in un qualunque ruolo dirigente in Israele, America o altrove.

Se i politici veramente progressisti sperano di allontanare Israele dal baratro, allora dovranno opporsi a qualunque tipo di supremazia e difendere qualunque forma di uguaglianza. Qualunque altra cosa garantirebbe solo che la persona che alla fine sconfiggerà Netanyahu alle elezioni erediterà un Paese ancora più sprofondato nell’odio.

– David Sheen è un giornalista e regista indipendente nato in Canada, ora corrispondente da Israele-Palestina. Il suo lavoro si concentra principalmente sulle tensioni razziali e l’estremismo religioso. Nel 2017 Sheen è stato dichiarato da “Front Line Defenders” [Difensori in prima linea], con sede in Irlanda, difensore dei diritti umani per il suo lavoro di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Farsi una canna nella base militare in Israele

Farsi una canna nella base militare in Israele

Forse i soldati si rendono conto che c’è qualcosa di totalmente sbagliato nel prestare servizio in un’istituzione il cui compito è opprimere 4 milioni di persone

Haaretz

Amira Hass |

26 giugno 2018

Il consumo di cannabis tra i soldati israeliani (sia nell’esercito che in servizio di leva) è in aumento. Secondo un articolo del quotidiano Yediot Ahronoth [quotidiano di centro, uno dei più letti in Israele, ndtr.] , basato su un’indagine dell’Autorità anti droga di qualche mese fa,  nel 2017 non meno del 54% delle truppe ne faceva uso.

Come dovremmo interpretare l’aumento dell’uso di marijuana e hashish tra i soldati? Forse tutti i discorsi sulla legalizzazione lo hanno agevolato? Si tratta di una politica più flessibile di repressione e punizione dei fumatori nell’esercito? L’articolo di Yedioth non prende in esame le motivazioni del maggior uso, perciò dobbiamo basarci su ipotesi.

Il giornalista, Amir Shouan, ha parlato con soldati di entrambi i sessi in diverse unità ed ha appreso che ci sono anche comandanti che si drogano e comandanti che sanno quali tra i loro soldati fanno uso di cannabis. E ci sono soldati che guadagnano soldi facili utilizzando applicazioni per vendere hashish. Gli spacciatori fanno persino sconti ai soldati.

L’uso di droga non si limita ai periodi di licenza. “In molte unità, alcune delle quali operative e riservate, fumare cannabis è diventato un fatto diffusopersino all’interno delle stesse basi”, scrive Shouan.

L’istinto immediato è trovare una spiegazione positiva al fenomeno. I soldati, per quanto giovani e programmati, si rendono conto che quello che stanno facendo è male: irrompere nelle case; svegliare i bambini nel cuore della notte puntandogli contro i fucili; sparare agli abitanti di quella prigione che è Gaza, che siano manifestanti, pescatori, pastori o agricoltori; proteggere le demolizioni delle case e dei serbatoi d’acqua della gente; o rimanere passivi in base agli ordini mentre ebrei mascherati attaccano pastori e contadini palestinesi.

Una sorta di conferma di questa interpretazione viene da una soldatessa di nome Shira, che ha detto a Shouan di soffrire di turbe emotive a causa del suo servizio militare. “E allora la sola cosa che ti aiuta è  drogarti. La cannabis ti aiuta a rilassarti, a sopportare il dolore – mentale e fisico – e i pensieri. E quando lo fai con un’altra persona, quando c’è qualcuno che ti è complice nel reato, per un momento dimentichi tutti i tuoi problemi.”

Yuval, un soldato in prima linea, spiega perché i soldati si drogano: “E’ un modo gradevole, divertente, per sopportare la situazione. A volte molte cose non hanno senso, ordini noiosi o tutte quelle cose che dobbiamo fare e con cui non siamo d’accordo. Quando sei fatto, ti butti tutto alle spalle. Dici ‘tutto bene, fantastico.”

I pensieri, il dissenso: Bertolt Brecht scrisse una poesia ottimista nel 1938, intitolata “Generale, il tuo carro armato…”: “Generale, l’uomo può fare di tutto / può volare e può uccidere / ma ha un difetto / può pensare.”

Forse i soldati si rendono conto che c’è qualcosa di essenzialmente sbagliato nel prestare servizio in un’istituzione il cui compito è opprimere 4 milioni di persone che si oppongono al governo da dittatura militare che è loro imposto. Forse la droga li aiuta a coprire l’ipocrisia. I soldati sono dipinti come i difensori del popolo, mentre sanno che la loro missione è assicurare la tranquillità e l’espansione dell’impresa di colonizzazione.

L’interpretazione ottimistica suggerisce che i soldati sperimentano in ogni istante il contrasto tra la pretesa moralità di Israele e ciò che in realtà si richiede loro di fare. Sballarsi attenua piacevolmente la vergogna. Il crescente uso di cannabis deriva da un diffuso senso di colpa.

L’interpretazione pessimistica ci ricorda che siamo molto lontani dal 1938, e che Brecht si sbagliava. I soldati pensano che i loro generali abbiano ragione. Si identificano con il loro ruolo e la loro missione, ed anche con Israele. Cercano solo un modo per migliorare le proprie prestazioni.

Uno dei danni emotivi attribuiti all’uso della cannabis è l’aumento dell’aggressività. In un esercito come il nostro, che deve continuamente ricordare a chi è assoggettato che il suo giusto ed eterno posto è in basso, l’aggressività personale non è un difetto. Fa parte dello schema di lavoro.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Pennellate di vita comune dalla Striscia di Gaza

Patrizia Cecconi da Gaza

16 giugno 2018, Pressenza

Ieri era festa grande a Gaza, come in tutti i paesi a prevalenza musulmana. Una festa che non si ignora neanche laddove cadono senza sosta bombe devastatrici di vite e di intere comunità.

Ieri era il primo giorno dell’Eid fitr, quello che segue la fine del Ramadan e che ha ancor più importanza di quanto ne abbia il Natale nei paesi a prevalenza cristiana.

L’Eid fitr è la festa in cui i bambini hanno gli abiti nuovi e girano felici per le strade e le famiglie si fanno visita l’un l’altra. Anche nelle case dei recenti martiri si festeggia l’Eid ed è un’occasione per onorare il martire e ricordare che la sua morte è benedetta sebbene dolorosa.

Molti gazawi hanno deciso di passare questi giorni negli accampamenti della grande marcia lungo il confine. Israele, che non cessa mai di far sentire la sua presenza con il ronzio ossessivo dei droni-spia, ha partecipato all’Eid non solo con l’onnipresenza dei droni ma anche con alcuni missili lanciati su uno degli accampamenti in cui i ragazzi preparavano i temibili aquiloni diventati simbolo della grande marcia. Per fortuna niente vittime e l’Eid fitr continua per altri due giorni come previsto dal rito coranico.

Nei giorni precedenti l’Eid, cioè durante il Ramadan, è normale essere invitati all’iftar, cioè alla cena che interrompe il digiuno dopo il calar del sole. Queste cene sono un’immersione totale nello spirito del luogo. Uno spaccato sociologico che toglie ogni dubbio su quanto ci sia di falso negli stereotipi forniti dai media i quali, a parte pochissime eccezioni, si gingillano in cosiddette analisi di situazioni che non conoscono neanche per un affaccio veloce alla finestra.

Essere invitati all’iftar, in quanto stranieri, è una forma di rispetto e di affetto in tutta la Palestina. Essere invitati all’iftar nella Striscia di Gaza è anche qualcosa di più: è un ringraziamento per esserci, perché in una prigione come Gaza, in cui per gli stranieri è molto difficile entrare e per i gazawi è quasi impossibile uscire, anche se feriti o malati, esserci significa vedere e testimoniare. Testimoniare dal vivo e raccontare il vero, sempre che si abbia l’onestà intellettuale per farlo e non si dipenda dal libro paga di chi stabilisce cosa sia opportuno scrivere.

Quindi, stante la condizione di assoluta libertà di espressione, ecco una cronaca da Gaza arricchita dalle tante interviste informali raccolte durante questi incontri conviviali. Due o tre sono le cose particolarmente rilevanti emerse in queste conversazioni ed una di queste è che, nonostante il taglio dell’elettricità da parte di Israele, ogni casa visitata è illuminata da luce elettrica e non da candele. Come mai? Forse che Israele, detentore dell’assedio e anche dell’elettricità, ha concesso più ore di luce? No. Il motivo è che i gazawi, in questi 11 anni di illegale assedio, hanno sviluppato su vari fronti la loro creatività. Mentre gli ospedali o le grandi strutture usano i generatori e, chi può, usa i pannelli solari, le singole abitazioni – spesso appartamenti arrampicati l’uno sull’altro in uno degli 8 campi profughi, o piccole case ricostruite alla meglio dopo l’ultimo terribile massacro del 2014 – non hanno la possibilità di usare un generatore, sia per il costo dello stesso, sia per il costo del carburante, e allora qualcuno si è inventato l’uso alternativo della batteria dell’automobile. Qualche piccola modifica per poterla alimentare nelle due o tre ore in cui Israele fa passare l’elettricità, cioè verso mezzanotte quando normalmente la famiglia ormai dorme, e qualche altra modifica per alimentare gli impianti domestici con l’energia accumulata nella batteria et voila, il gioco è fatto: Israele vuole lasciare al buio Gaza e Gaza si attrezza sviluppando sistemi alternativi.

In questo periodo sembra che la scelta di rispondere in modo non violento alla negazione dei propri diritti abbia scatenato, in questa comunità di prigionieri, una grande fantasia creativa che ha preso il posto di frustrazione e rabbia. Lo si è visto nelle manifestazioni della Grande marcia del ritorno in cui ai micidiali lanci di tear gas un gruppo di manifestanti aveva organizzato il “rilancio” nel campo nemico usando racchettoni e racchette da tennis, o nel tentativo vagamente pitagorico di utilizzare gli specchi per confondere i cecchini, o nell’incendio dei copertoni il cui denso fumo nero impediva ai cecchini di prendere la mira, riducendo così il numero delle vittime che, comunque, sono state circa 130 alle quali si aggiungono oltre 13mila feriti. Ma l’idea principe è stata sicuramente quella delle mini mongolfiere e degli aquiloni con la codina accesa da far volare oltre la rete dell’assedio, spiegando così all’assediante che i gazawi non si arrendono e pretendono il riconoscimento dei loro diritti. Seguitano anche a spiegare, inascoltati dall’occidente, che dietro a queste decine di migliaia di uomini donne e bambini che si radunano lungo il confine non c’è il coordinamento di Hamas, né di altri partiti politici, bensì la riedizione di un tentativo già sperimentato, ma fallito, nel 2011 e cioè un movimento di base che scavalchi i partiti senza negarli, ma senza lasciarsi irretire dalle rivalità tra i vertici, e che tende a richiamarsi al concetto di fronte unico per ottenere i diritti affermati dall’ONU ma negati da Israele.

Questi i discorsi generali che hanno accompagnato le belle cene dell’iftar nell’ultima settimana del Ramadan. Ma a questi vanno aggiunti spunti e suggestioni che offrono inquietanti motivi di riflessione.

In parte per caso, in parte per scelta, nessuno degli incontri ha avuto come interlocutori militanti o simpatizzanti di Hamas, il partito al potere, il quale in passato ha scelto la lotta armata, compreso l’uso di kamikaze per ottenere senza mai riuscirci – il rispetto dei diritti del popolo palestinese da parte di Israele. Ormai Hamas ha preso un’altra via sebbene Israele trovi molto comodo nella sua propaganda con l’occidente attribuirgli la responsabilità di qualunque azione ostile, violenta o meno, ottenendo in tal modo due risultati: uno verso l’esterno, quello di screditare ogni azione legittima, quale la richiesta di applicare le Risoluzioni ONU, ammantandola di un falso velo di terrorismo grazie ai buoni servigi dei tanti opinion maker israelo-dipendenti. Verso l’interno, invece, quello di ottenere l’accredito di Hamas come organizzazione capace di muovere le masse dei gazawi anche se non sempre questo risponde al vero, restituendogli un carisma che ad un’analisi orientativa sembrava essere in caduta libera.

I due argomenti più interessanti, oggetto delle interviste informali realizzate in questi giorni, hanno riguardato: 1) il comportamento dell’Anp, che qui viene regolarmente riportato al solo presidente Abu Mazen, considerato come responsabile unico della punizione collettiva imposta ai palestinesi di Gaza attraverso il taglio degli stipendi e 2) l’uccisione di bambini e teenager da parte di Israele. Questo secondo argomento creerà sicuramente disappunto e verrà attaccato brutalmente dalle organizzazioni sioniste, se questo articolo verrà letto, come già successo per altri lavori che sono stati oggetto di attacchi rabbiosi ma non destrutturanti di quanto affermato, visto che scriviamo solo ciò che è dimostrabile e documentabile.

Per quanto riguarda il taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza in carico al governo di Ramallah, taglio dovuto al tentativo di fiaccare Hamas accrescendo a dismisura la povertà nella Striscia, sperando in una qualche forma di sollevazione pro Anp, l’effetto si è dimostrato un boomerang dal punto di vista politico e un baratro dal punto di vista morale. A nessuno sfugge l’altissimo livello di vita di Abu Mazen e dei suoi figli, ricchi imprenditori probabilmente per loro proprio merito, ma tacciati di corruzione da tutti gli intervistati. L’amaro senso di tradimento probabilmente porta a queste risposte esasperate, ma queste sono comunque le risposte offerteci. Gaza è assediata, Israele tra i tanti crimini passati sotto silenzio commette anche quello di irrorare di glifosato le coltivazioni gazawe per impedirne il raccolto, e l’Autorità palestinese invece di sostenere i propri figli li getta in un’ancor più nera miseria! Questo non è percepito da nessuno dei miei interlocutori come un errore politico, ma da tutti come un crimine commesso contro i fratelli gazawi per un odio contro Hamas tanto cieco da favorire Israele. Questo dicono i Gazawi.

Agli occhi di un occidentale che non conosce la cultura palestinese tutto questo sembra confliggere col fatto che la Striscia sia piena di Università (nessuna completamente gratuita) e che le università siano piene di studenti e studentesse i quali vengono spessissimo da famiglie in cui si sopravvive grazie ai sussidi dell’Unrwa. Studenti che solo in bassa percentuale hanno partecipato alle manifestazioni al confine ma che plaudono alla grande marcia e che mostrano l’icona dell’infermiera Razan Al Najjar, o dell’artista Mohammed Abu Amr che scolpiva sulla sabbia, o del giornalista Yaser Murtaja, tutti resi martiri da Israele. Studenti che pur non partecipando direttamente alla grande marcia, plaudono alla geniale idea degli aquiloni che è stata capace di mettere in crisi il potentissimo apparato bellico israeliano. Si riconoscono in quelle figure di combattenti disarmati capaci di far vacillare l’immagine di Israele come onnipotente e danno il loro sostegno ideale anche se raramente hanno raggiunto i manifestanti al confine.

Uno dei miei intervistati, padre di alcuni studenti e prima persona che mi ha mostrato con un’espressione vagamente divertita l’apparato elettrico alternativo che illumina la sua casa, lo stesso che mi ha fatto avere come regalo un paio di quei bellissimi aquiloni, che difficilmente potrò riportare in Italia, è uno dei tanti dipendenti legati a Fatah e rimasto senza stipendio per la “lungimiranza” dell’Anp. Tra le tante cose dette, mi dice una frase che riporto testualmente: “Hamas non brilla per creatività, sono i nostri giovani la nostra forza e questo Israele lo sa e per questo li uccide”. E’ lapidaria e terribile la sua affermazione, la contesto. Statistiche alla mano non ho difficoltà a contestarla, non perché voglia difendere Israele, conosco bene la gravità dei suoi crimini e l’ancora maggior gravità del fatto che questi restino regolarmente impuniti, ma mi sembra un’affermazione impropria. Gli faccio notare che per ragioni statistiche, essendo la popolazione gazawa mediamente giovane dato l’alto numero di figli che arricchisce ogni famiglia, è normale che vengano uccisi più ragazzi giovani che popolazione matura. Non è così. Alla conversazione partecipa uno dei medici degli ospedali che hanno fatto miracoli per provare a salvare vite e arti e mi chiede se ricordo che durante la mia visita nel suo ospedale ben tre ragazzi erano stati colpiti ai genitali e resi sterili oltre che invalidi. Mi dice che altri hanno avuto lo stesso destino e che sono troppi perché il fatto possa essere considerato pura coincidenza. Israele ha paura della crescita demografica del popolo palestinese, questo lo sappiamo, ma questo non può significare lo sterminio scientifico di una generazione. Sinceramente mi sembra troppo e insisto nella mia posizione.

Ho davanti a me un uomo che ha conosciuto (come il 90% degli uomini palestinesi) le galere israeliane da quando aveva 16 anni. Arrestato mai per crimini, ma per la sua militanza in Fatah, cosa che ora forse non succederebbe più. Un uomo che la mentalità israeliana e il cinismo scientifico che l’accompagna li conosce bene. Accanto a lui ho un medico ospedaliero che nei suoi tanti anni di professione ha avuto non solo malati ma molti feriti dall’esercito detto il più morale del mondo. Anche lui mi dice che c’è grande scientificità, perfettamente mirata, nei crimini israeliani. Ho di fronte a me anche dei ragazzi che ancora non hanno avuto modo, per fortuna, di conoscere le galere israeliane ma che mi dicono di aver perso un gran numero di amici della loro età nei bombardamenti del 2014. Mi viene ricordato un episodio avvenuto in Cisgiordania negli anni “80 in cui vennero rese sterili circa duemila ragazze. Quattro conti e viene fuori che in un colpo solo Israele ha ridotto la popolazione potenziale di circa 16.000 persone che oggi, per effetto del moltiplicatore generazionale ne avrebbero probabilmente fatte nascere già almeno altre 32.000.

E’ spaventoso oltre che inquietante. Faccio ancora qualche obiezione ma poi mi faccio qualche conto veloce. Prendo in esame solo i due massacri maggiori degli ultimi dieci anni: Piombo fuso e Margine protettivo. Non so quanti diciottenni o ventenni o venticinquenni siano stati ammazzati ma so che sono stati la maggioranza dei circa 1450 morti di piombo fuso e dei 2260 di margine protettivo. So però quanti bambini sono stati ammazzati. Ben 318 nei soli 21 giorni del primo massacro e 570 più un migliaio resi invalidi a vita nei 49 giorni del secondo.

A parere dei miei intervistati tutto questo fa parte della lungimiranza strategica, tanto intelligente quanto cinica, dei governanti israeliani. Non solo di Netanyahu, ma di tutti i governanti israeliani e mi invitano a ricordare che molti di loro erano stati feroci terroristi prima della nascita dello Stato di Israele di cui poi sarebbero diventati onorevoli statisti.

Mi ripetono che questo rientra nella mentalità israeliana e che nessuna uccisione di palestinese in grado di procreare è casuale. “Sono i nostri giovani la nostra forza e per questo Israele li uccide” ripete il mio ospite. Però, con uno spirito assolutamente palestinese, aggiunge “ma non potrà ucciderli tutti e gli interessi che sostengono Israele non saranno eterni. Assaggia la zuppa di verdura che è speciale”. Si cambia registro così, qui a Gaza. Se non fosse così fosse sarebbero stati assuefatti e addomesticati. Qualcuno la chiama resilienza.

Mentre scrivo queste riflessioni dalla mia finestra entrano tre cose: l’insopportabile ronzio dei droni al quale non riuscirò mai ad abituarmi, un caldo che fino a poco fa pare abbia toccato i 42 gradi all’ombra e che mi ha tenuta bloccata in casa, e il rumore di clacson misto a tante voci che vengono dal porto. Tra un po’, appena spirerà un po’ di brezza scenderò sulla spiaggia che ho davanti al mio ufficio e che sarà piena di palestinesi in festa. La spiaggetta in cui nel 2014 vennero fatti a pezzi 4 bambini mentre giocavano a pallone. Ho sempre pensato si trattasse di crudeltà e sadismo, ma dopo le ultime interviste ho cambiato idea: Israele non ha soltanto bisogno di uccidere, come già scritto alcuni giorni fa, per una sindrome non superata dovuta all’olocausto, Israele ha anche l’obiettivo di uccidere per fermare la crescita del popolo palestinese. Lucidamente, scientemente, criminalmente.

Ripensando ad alcuni articoli di Gideon Levy, una delle firme più prestigiose del giornalismo israeliano progressista, mi rendo conto che Levy questo orrendo obiettivo lo denuncia da tempo. Ma solo l’impatto vis à vis con chi è direttamente colpito da questo progetto mi ha dato consapevolezza della sua mostruosità. Se Israele si salverà da se stesso sarà anche perché quella piccola minoranza di cui Gideon Levy fa parte e che rappresenta la parte sana del paese, riuscirà ad ostacolare questa deriva razzista o peggio.

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.”

Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.




Israele ha tre opzioni riguardo a Gaza

Israele ha tre opzioni riguardo a Gaza

Israele potrebbe rioccupare Gaza, scatenare un altro massiccio attacco militare, oppure togliere l’assedio.

Al Jazeera

Di Adnan Abu Amer

20 giugno 2018

Quando i palestinesi hanno indetto la ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo, Israele ha intuito un’opportunità di scontro. Ha cominciato ad abbattere a fucilate un manifestante disarmato dopo l’altro, sparando nel contempo a tutto volume la versione propagandistica sul fatto che questi palestinesi costituivano una ‘minaccia’ alla sua sicurezza e che quindi aveva il “diritto di difendersi”.

Ad oggi i soldati israeliani hanno ucciso oltre 120 manifestanti palestinesi pacifici. Ma gli israeliani non si sono fermati qui.

Dato che l’opinione pubblica internazionale si stava volgendo pericolosamente contro di loro, le forze di occupazione israeliane hanno incominciato a reagire alle manifestazioni pacifiche prendendo di mira i gruppi della resistenza armata a Gaza, bombardando le loro aree di esercitazione, i depositi di armi, i tunnel e le infrastrutture logistiche, ed assassinando anche parecchi dei loro membri.

L’esercito israeliano non ha giustificazioni per questi attacchi; ha voluto semplicemente stabilire una nuova situazione di fatto sul terreno: la resistenza pacifica verrà affrontata con la forza bruta ed ogni escalation porterà ad un più esteso attacco militare.

Dopo qualche discussione, da Gaza è stata lanciata una risposta militare. Molti all’interno dei gruppi della resistenza armata erano convinti che Israele non avrebbe potuto imporre questa nuova  situazione sul terreno e che si doveva dimostrare che ci sarebbe stata una reazione ai suoi attacchi militari.

Ciò che questo episodio dimostra, tuttavia, è che è sempre più difficile per Israele mantenere lo status quo. La sua strategia, secondo cui “Gaza non vivrà e non morirà”, non sembra più funzionare. Esso teme che i palestinesi non si accontenteranno più di piccole concessioni e aggiustamenti.

Ed è in questo contesto che Israele sembra trovarsi di fronte a tre opzioni riguardo a Gaza: la rioccupazione, un’altra guerra o la fine dell’assedio.

Rioccupazione

Ci sono state alcune voci dell’estrema destra nel governo israeliano, nell’esercito e nell’elite intellettuale che hanno auspicato la rioccupazione di Gaza. Ritengono che stabilire nuovamente il controllo militare sulla Striscia potrebbe rimuovere la minaccia che essa costituisce.

Chiedono di occupare l’intera Striscia con truppe sul terreno e operare un radicale smantellamento dei gruppi armati di Gaza. Dopo che ciò sarà avvenuto, Gaza dovrebbe presumibilmente essere consegnata ad una parte terza, come l’Autorità Nazionale Palestinese o un organismo internazionale, che si occupi ed amministri i bisogni umanitari della popolazione.

Coloro che perorano questa soluzione sanno benissimo che stanno prevedendo un sanguinoso disastro. Israele troverà senza dubbio una forte resistenza a Gaza, che causerà decine, se non centinaia, di morti tra i soldati israeliani. Non c’è niente di più doloroso per Israele del ritorno dei suoi soldati dal campo di battaglia in neri sacchi per cadaveri.

Se rioccuperà la Striscia, lo Stato di Israele dovrà fornire livelli minimi di cibo, acqua ed elettricità alla popolazione economicamente sfinita. Ciò imporrebbe un notevole peso sul bilancio statale.

Il numero di vittime che una simile operazione militare causerebbe alla popolazione civile di Gaza  rappresenterebbe per la narrazione israeliana una catastrofe sul piano internazionale. L’indignazione internazionale per i crimini israeliani sta aumentando di giorno in giorno ed alla fine raggiungerà un punto di rottura.

È importante ricordare che questa opzione non è molto apprezzata nelle sfere decisionali di Tel Aviv, sia all’interno del governo che dell’esercito o dell’intelligence, poiché si rendono semplicemente conto di quanto esorbitante sarebbe il prezzo che dovrebbero pagare.

Un nuovo attacco militare

Questa opzione di un nuovo importante attacco militare a Gaza è popolare tra i personaggi politici e militari influenti in Israele, in quanto viene vista come meno onerosa rispetto ad una rioccupazione. Sembra corrispondere all’impellente necessità di trovare un nuovo deterrente contro Hamas dopo i suoi recenti lanci di razzi sugli insediamenti israeliani vicini a Gaza.

Israele si è abituato a scatenare un attacco a Gaza ogni pochi anni, all’interno della sua politica del  “falciare l’erba”. Ogni volta che le risorse di Hamas – sia umane che logistiche – crescono, sorge la necessità di eliminarle con attacchi aerei o uccisioni sul campo che ripristinino la deterrenza di Israele per qualche altro anno.

Dopo le diverse operazioni che Israele ha scatenato tra il 2006 e il 2014, potrebbe ben essere in procinto di scatenarne un’altra. Nonostante la loro convinzione che questa opzione sia urgentemente necessaria, i generali di alto grado sono dubbiosi in proposito perché sanno che nel corso degli ultimi quattro anni i gruppi armati palestinesi hanno ricostituito le loro risorse e addestrato le loro fila.

Una guerra a Gaza non sarebbe una scampagnata, ma loro la vedono come un male necessario o una “guerra senza altra scelta”.

Togliere l’assedio

Questa opzione vedrebbe Israele togliere l’assedio alla Striscia di Gaza sul piano economico ed amministrativo. Implicherebbe anche la costruzione di un porto o di un aeroporto sotto stretto controllo di sicurezza israeliano e con garanzie internazionali.

Questa opzione porrebbe sulle spalle di Israele l’onere di sostenere i due milioni di abitanti di Gaza, ma le sue implicazioni strategiche portano la leadership israeliana ad evitarla. Essa renderebbe possibile la creazione di un’entità palestinese con caratteristiche simili ad uno Stato, senza che debba fornire ad Israele le consuete “garanzie di obbedienza”, come avviene per la Cisgiordania.

Inoltre non vi sarebbero sufficienti garanzie che Hamas non tragga vantaggio da queste nuove strutture portuali per far entrare armi che potrebbero sovvertire lo status quo militare.

Poiché la situazione sul terreno a Gaza si modifica e le minacce di Israele contro i palestinesi aumentano, tutte e tre le opzioni sono possibili. Israele farà i suoi accurati calcoli per ognuna di esse, ma alla fine saranno gli sviluppi sul terreno a determinare quale strada prenderanno gli eventi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Il dottor Adnan Abu Amer è direttore del Dipartimento di Scienze Politiche all’università palestinese Ummah di Gaza

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 

 

 




La storia della Palestina e di Israele

La storia più convincente e sensata della Palestina e di Israele

PalestineChronicle – 19 giugno 2018

Di Rima Najjar

La storia che sta dietro alla Palestina e a Israele è una storia di colonialismo di insediamento di ebrei europei – cioè, sionismo.   E dato che il razzismo è un sintomo e uno strumento del colonialismo di insediamento, il sionismo è visto anche come antisemitismo, e come supremazia etnica o ebraica, arabofobia e islamofobia. 

La triangolazione di antisemitismo, islamofobia e arabofobia nella storia della Palestina e di Israele è parte del movimento coloniale di insediamento del sionismo e non è una “nuova storia” nel senso di come il termine è stato presentato dallo storico israeliano Benny Morris nel 1980 per rendere umane, nel discorso accademico israeliano, le vittime del sionismo.   Riflette semplicemente una terminologia moderna e comprende eventi storici che la mentalità sionista in buona misura ancora non accetta.

In linea generale questi avvenimenti storici sono semplici. Gli ebrei sionisti (che si autoproclamavano atei) decisero di costruire uno Stato ebraico in Palestina e finirono per prendersi con la forza la maggior parte della terra e per espellere la maggior parte della popolazione arabo-palestinese non ebraica, impedendole di tornare.

Ora Israele sta occupando il resto del territorio che l’Organizzazione Sionista Mondiale non era riuscita a prendersi e continua a “insediarvisi”.

Ne “La fine del sionismo: razzismo e lotta palestinese”, Joseph Massad [docente alla Columbia University, ndtr.] scrive:

“Il sionismo, in quanto movimento colonialista, è costituito nell’ideologia e nella prassi da un’epistemologia religiosa e razziale attraverso la quale concepisce se stesso ed il mondo attorno a lui… Non si mette più in discussione, persino tra molti israeliani, che l’impatto del sionismo sul popolo palestinese nell’ultimo secolo include: l’espulsione di una maggioranza di palestinesi dalle loro terre e case, impedendone il ritorno, e la successiva confisca delle loro proprietà per uso esclusivo degli ebrei;  l’imposizione dal 1948 al 1966 di un sistema di  apartheid militare sui palestinesi rimasti in Israele, che da allora si è attenuato in un sistema civile discriminatorio di supremazia ebraica; l’occupazione militare e un sistema di apartheid imposto alla Cisgiordania, alla Striscia di Gaza ed alla loro popolazione per i rimanenti 35 (ora 51) anni, come anche la continua colonizzazione di quei territori occupati.”

In questo senso la storia del colonialismo di insediamento degli ebrei europei – cioè del sionismo – che sta dietro la Palestina e Israele (come opposto alla storia come “narrazione” o mito sionista) ha a monte la voce della ragione, perché rivela un’atrocità a cui si deve porre rimedio.

Riconoscere ed assumersi la responsabilità dei crimini storici ed attuali di Israele contro gli arabi palestinesi è il primo passo per risolvere la Nakba.  I particolari storici riguardo a come e perché questi tragici avvenimenti sono accaduti hanno riempito molti libri, ma non è questo il punto.

La questione generale ha di per sé la voce della ragione, se si considerano anche la giustizia come ragionevole e l’ingiustizia come irragionevole.

Per esempio, cos’è ragionevole e plausibile riguardo ad Ivanka Trump, figlia del presidente USA Donald Trump e moglie di Jared Kushner, che ora può comprarsi una casa a Gerusalemme e “tornare” in Israele grazie alla sua conversione all’ebraismo ed all’ebraicità del suo marito americano, mentre a Ghada Karmi, un’araba palestinese musulmana, viene negato il ritorno alla sua patria e non le viene neppure consentito di ricomprare la casa rubata a suo padre?

In “Umanizzare il testo: la ‘nuova storia’ israeliana e il percorso della storiografia sul 1948”, Ilan Pappe [storico israeliano attualmente docente in Gran Bretagna, ndtr.], universalmente noto per il suo “La pulizia etnica della Palestina”, scrive:

“Una cosa è chiara quando si analizzano le sorti della nuova storia israeliana dal tempo dei suoi inizi, alla fine degli anni ’80, fino alla sua breve/momentanea scomparsa nel 2000: la ricostruzione storica è strettamente legata agli sviluppi e sconvolgimenti politici generali. In società lacerate da fratture e conflitti interni ed esterni, il lavoro degli storici è costantemente pervaso dal dramma politico intorno a loro. In questi contesti geopolitici la pretesa di obiettività è particolarmente fuori luogo, se non totalmente infondata.”    

Storici ebrei dissidenti radicali come Ilan Pappe in Israele sono fondamentali per una storia che ha dalla sua parte la voce della ragione. Sono un ponte verso un pubblico più vasto in Israele.

Spesso i palestinesi si chiedono cosa sia necessario per fare breccia nella coscienza dell’opinione pubblica occidentale riguardo alla tragica storia della Palestina lunga 70 anni.

Credo che il modo migliore per spostare l’opinione pubblica occidentale dall’appoggio ad Israele verso il sostegno alla causa palestinese sia continuare a sottolineare quello che ha già avuto luogo attraverso l’abbandono del cosiddetto “processo di pace” e della “soluzione dei due Stati” – la comprensione, finora  poco chiara, che il problema di Israele risiede nella sua natura di progetto sionista di colonialismo d’insediamento in Palestina, piuttosto che di “occupante” militare.

In “Perché il termine ‘occupazione israeliana’ deve essere rifiutato”, Ramzy Baroud scrive:

“…Spesso si sostiene che Israele è un occupante che ha violato le norme sull’occupazione come stabilite dalle leggi internazionali. Sarebbe stato così un anno, due anni o cinque anni dopo che l’occupazione iniziale ha avuto luogo, ma non 51 anni dopo. Da allora l’occupazione si è trasformata in una colonizzazione a lungo termine.”

Molte persone credono che la “Grande Marcia del Ritorno” abbia riscosso reazioni giornalistiche così positive nei media occidentali perché le proteste sono state essenzialmente non violente – ad esempio, non si può dire che abbiano minacciato la sicurezza di Israele e quindi la forza mortale che Israele utilizza è “sproporzionata” e criminale.

È il massimo a cui arriva l’azione non violenta palestinese. Ciò non fa nulla per cambiare la percezione dell’opinione pubblica occidentale di Israele come uno Stato legittimo simile a quelli occidentali, che protegge le proprie frontiere (benché con una forza sproporzionata) contro un mare di arabi o la percezione dei palestinesi come “turbolenti” e “barbari”, il cui unico desiderio malvagio è di uccidere ebrei.

La resistenza non violenta sicuramente ha i suoi vantaggi, ma a mio parere non deve mai essere imposta ad un popolo oppresso e brutalizzato come se fosse un terreno moralmente superiore di resistenza.

Inoltre l’enfasi sulla tattica della resistenza non violenta delegittima implicitamente altre forme di resistenza, santificando alcuni martiri palestinesi e prigionieri tenuti in detenzione amministrativa [cioè senza un’imputazione né una condanna, ndtr.] in sciopero della fame ed accettando le giustificazioni di Israele per l’uccisione e l’arresto di migliaia di altri palestinesi.

Quello che c’è di diverso nella “Grande Marcia del Ritorno” è che la sua richiesta di tornare mette in rapporto l'”occupazione” e l’assedio [di Gaza] con la Nakba, mettendo in scena per il pubblico occidentale, con la protesta e la resistenza, la colonizzazione di tutta la Palestina.

Questa richiesta, udita per la prima volta nella storia recente della resistenza palestinese, sta spostando la percezione dell’opinione pubblica occidentale.

Sulle reti sociali attivisti per la giustizia in Palestina hanno a lungo utilizzato diverse tattiche (soprattutto documentando e rendendo pubbliche le violazioni delle leggi internazionali e della dignità umana da parte di Israele) per raggiungere il pubblico occidentale (per aprirsi un varco nei principali media dell’Occidente). Le più efficaci sono le campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS – PACBI), che hanno convinto grandi nomi dell’accademia e celebrità della cultura e dello sport ad abbracciare la causa dei palestinesi.

L’opinione pubblica occidentale è anche diventata più informata della reazione violenta sionista contro le campagne del BDS, soprattutto in quanto incide sulla libertà di parola.

In generale, per rivolgersi a un pubblico occidentale, soprattutto quello di sinistra, è efficace fare riferimento ai valori progressisti applicabili alle ingiustizie contro tutti i gruppi marginalizzati nella società occidentale, in quanto ciò evidenzia la contraddittorietà di  prendere in considerazione unicamente la causa palestinese come se fosse un’eccezione.

Il pubblico occidentale si presume faccia parte della tradizione giudaico-cristiana, un termine coniato da George Orwell nei lontani anni ’30 per combattere l’antisemitismo. Sfortunatamente questa tradizione umanistica è stata infangata perché ora antisemitismo e antisionismo vi sono inesorabilmente legati, e quindi lottare contro uno significa lottare contro l’altro.

La civiltà occidentale è stata a lungo definita dalle conquiste coloniali (in Medio oriente con islamofobia e arabofobia) e dal potere imperialista; ciò ha dato vita al sionismo.

Oltretutto,

“… una volta occupata la posizione di superiorità militare, la cultura colonialista produce, attraverso un’ampia gamma di mezzi di comunicazione, un’infinita serie di asserzioni che lentamente e sottilmente – con l’aiuto di libri, giornali, scuole e i loro testi, pubblicità, film, radio – invade le menti e plasma la visione del mondo del gruppo a cui si appartiene…La colonizzazione efficace porta l’oppresso a identificarsi con la visione del mondo dell’oppressore.” [citazione da “Pelle nera, maschere bianche” di Frantz Fanon, ndtr.]

L’Autorità Nazionale Palestinese ora si identifica con il suo oppressore in modo così profondo che non si vergogna, come imposto da Israele, di reprimere brutalmente i palestinesi che in Cisgiordania si riuniscono contro le misure economiche punitive di Mahmoud Abbas a Gaza.

Ciò che alla fine cambierà la percezione del pubblico occidentale saranno gli stessi palestinesi che comunque scelgono di resistere. Devono insistere sulla liberazione – sulla decolonizzazione e non solo sulla “fine dell’occupazione”.

– Rima Najjar è una palestinese la cui famiglia paterna viene dal villaggio di Lifta, nella periferia occidentale di Gerusalemme, svuotato dei suoi abitanti con la forza. È un’attivista, una ricercatrice e docente in pensione di letteratura inglese all’università di Al-Quds, nella Cisgiordania occupata.   Ha offerto quest’articolo a PalestineChronicle.com. 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le sei cose che mostrano le truppe palestinesi nel reprimere le proteste a Ramallah

Haaretz

Amira Hass

18 giugno 2018,

La violenta repressione, mercoledì scorso, da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di una manifestazione di protesta contro le politiche restrittive dell’ANP nei confronti di Gaza dimostra:

  1. Che l’ANP ed il partito alla sua guida, Fatah, non intendono tenere elezioni parlamentari

Chiunque abbia interesse a svolgere libere elezioni non reprime brutalmente una piccola manifestazione con modi che coniugano i metodi dell’occupazione israeliana con quelli delle forze di sicurezza siriane ed egiziane. Chiunque voglia vincere le elezioni non ricorre a metodi che repellono alla maggioranza della propria popolazione, allontanandola ancor più dalla sua dirigenza non eletta.

2.     Che il movimento di Fatah si aggrappa con tutte le sue forze al misero potere che gli deriva dal gestire l’ANP sotto il feroce regime militare israeliano.

Altrimenti si sarebbe pubblicamente e immediatamente dissociato dal modo in cui le agenzie di sicurezza palestinesi hanno strumentalizzato i giovani identificati come membri di Fatah. (Si è detto che almeno alcuni provenivano dal campo profughi Jalazun, come Rami Younes, che scrive sui siti web israeliani Sihah Mekomit e +972. Younes ha partecipato alla manifestazione di mercoledì sera e ne ha riferito agghiaccianti dettagli).

3. Che la paura del presidente palestinese Mahmoud Abbas all’interno del movimento Fatah è molto forte

Ci sono membri di Fatah contrari alla repressione della manifestazione che chiedeva la revoca delle misure punitive imposte da Abbas a Gaza, pur condividendo le critiche rivolte ai manifestanti (per esempio, che minimizzano la responsabilità di Hamas per la situazione a Gaza e il suo sottrarsi ai propri obblighi verso la popolazione civile della Striscia). Questi oppositori all’interno di Fatah restano in silenzio per paura di perdere i loro salari o di essere probabilmente estromessi dalle istituzioni di Fatah, in cui si sentono a casa propria.

4. Che l’ANP è capace di programmare ed organizzare quando vuole farlo, diversamente dall’impressione che hanno gli impiegati nei suoi ministeri

Là regna il caos, la mancanza di pianificazione e organizzazione e lo scarso coordinamento, oltre a una buona dose di apatia.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riuscita in modo straordinario a mettere insieme il lavoro di molte delle proprie istituzioni per scoraggiare potenziali manifestanti dal farsi vedere, e poi a reprimere e punire quelli che non si erano lasciati intimorire. Queste istituzioni includono il governo dell’ANP, l’ufficio del presidente, le forze di sicurezza ufficiali e anche poliziotti in borghese – attivisti di Fatah o qualcuno che finge di esserlo. Tutti hanno lavorato all’unisono come in un macchinario ben oliato.

Sono stati tutti preceduti da redattori, artisti grafici e tipografie che hanno preparato poster giganti appesi in piazza Manara a Ramallah, inneggianti all’ANP ed al suo sostegno finanziario alla Striscia di Gaza, affermando al contempo che la radice del disastro di Gaza sia stata il “colpo di stato” di Hamas (con riferimento alla presa in carico da parte di Hamas delle agenzie di sicurezza nella Striscia di Gaza nel 2007, in seguito alla vittoria del movimento nelle elezioni parlamentari). I poster contenevano anche una propaganda di bassa lega sul fatto che i manifestanti fossero dipendenti di ONG rimpinguate da denaro estero e lavorassero per un progetto straniero.

Martedì scorso il governo palestinese ha condannato le proteste che si erano già svolte prima di mercoledì sera, sostenendo che spostavano l’attenzione dalla responsabilità dell’occupazione israeliana e di Hamas per la situazione a Gaza. La sera stessa è stata diffusa una dichiarazione pubblica secondo cui, su consiglio del consulente di Abbas per gli affari locali, è stato deciso che le manifestazioni e le proteste sarebbero state vietate fino alla fine del Ramadan e della festa di tre giorni di Id al-Fitr, che è iniziata giovedì notte, per evitare di disturbare le festività e lo shopping festivo.

Quelli che hanno sfidato il divieto si sono scontrati con un forte e variegato contingente di forze di sicurezza palestinesi. Nello stesso momento in cui le forze hanno cominciato a lanciare gas lacrimogeni e granate stordenti, e le squadracce in borghese hanno iniziato a confiscare macchine fotografiche e ad aggredire e arrestare manifestanti, sia uomini che donne, a Nablus si stava svolgendo una manifestazione a sostegno di Abbas. Ma nessuno ha disperso quella manifestazione.

5. Che lo status quo è molto apprezzato dall’ANP

L’accordo di Taba del 1995 con Israele vieta ai servizi di sicurezza palestinesi di operare nell’area B della Cisgiordania – la parte ufficialmente sotto controllo militare israeliano e controllo civile palestinese ( in base agli accordi di Oslo, ndtr.) – a meno che ciò sia concordato con Israele. Gli vieta anche di operare nell’area C, che è sotto il totale controllo militare e civile israeliano. Centinaia di migliaia di palestinesi vivono nelle aree B e C, dove si trovano esposti alla violenza dei coloni ebrei e della polizia ed esercito israeliani. L’accordo di Taba è scaduto 19 anni fa, ma l’ANP continua ad osservarlo e non dispiega le proprie forze di sicurezza per difendere fisicamente il suo stesso popolo. Se lo facesse, chissà quali ritorsioni farebbe Israele, forse cancellerebbe le concessioni alla libertà di movimento di cui godono gli alti dirigenti, oppure i permessi di commercio e di estrazione che loro ed i loro parenti hanno ottenuto.

6. Che il governo palestinese aveva ragione a dire che la protesta spostava l’attenzione dall’occupazione

Questo articolo si occupa della violenta repressione della protesta, invece di dedicarsi al fatto che Israele ha prorogato di altri quattro mesi la detenzione amministrativa della deputata palestinese Khalida Jarrar, che è già stata in prigione un anno senza processo. Non stiamo scrivendo dell’ordine di demolizione emesso per la casa di Latifa Abu Hamid nel campo profughi di Al-Amari. Uno dei suoi figli è sospettato dell’uccisione di un soldato dell’unità Duvdevan, che faceva parte delle forze che hanno attaccato il campo circa un mese fa. Israele non riconosce il diritto dei civili palestinesi a difendersi dalle incursioni armate israeliane. Ancor prima che il figlio compaia davanti ad un tribunale militare, tutta la sua famiglia viene punita.

Provate ad immaginare che cosa accadrà nel piccolo e affollato campo quando l’esercito israeliano vi entrerà con i bulldozer e i carri armati. E chi sarà assente? Le forze di sicurezza palestinesi, quelle stesse che sono state addestrate in Russia e Giordania, Egitto e Romania e dall’FBI e dalle polizie europee e che hanno disperso con la violenza una pacifica protesta in piazza Al-Manara a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)