Israele vuole agire con ancora maggiore impunità vietando di filmare i suoi soldati assassini

Asa Winstanley

31 agosto 2018, Middle East Monitor

Uno dei più noti criminali israeliani degli ultimi tempi dovrebbe essere Elor Azaria. Nel 2016 a Hebron il soldato israeliano ha ucciso un giovane palestinese che era a terra gravemente ferito e sanguinante. Abd Al-Fattah Yusri Al-Sharif era già stato ferito dopo essere stato accusato di aver cercato di attaccare un altro soldato che controllava un checkpoint. Hebron è una città palestinese in Cisgiordania, occupata illegalmente da Israele. Una vasta area della città ha una presenza militare israeliana più pesante delle altre, a causa del fatto di essere stata occupata da un gruppo dei coloni sionisti più estremisti.

Questi fanatici religiosi spesso maltrattano, sputano addosso ai palestinesi e li aggrediscono solo per il fatto di essere arabi in quella che essi sostengono essere una “città ebraica”. I coloni di Hebron sono in procinto di cercare di occuparla totalmente, di casa in casa. Per di più, sono difesi ed aiutati dall’esercito israeliano.

Di solito le famiglie palestinesi sono cacciate senza tante cerimonie. Se tentano di resistere anche nel modo più pacifico, i soldati israeliani li buttano a terra e spesso li uccidono con totale impunità.

In una situazione così intollerabile non c’è da stupirsi che qualche singolo giovane palestinese si prenda la responsabilità di lottare contro l’occupazione militare brutale e razzista. Il diritto alla resistenza armata all’occupazione e alla colonizzazione è sancito dalle leggi internazionali, da risoluzioni ONU e dall’etica. Quindi resistere è assolutamente legittimo. Ciò detto, le accuse israeliane di “attacchi all’arma bianca” contro i suoi soldati a volte sono inventati. C’è almeno un caso ben documentato di soldati che hanno messo un coltello sul corpo di un palestinese che avevano già ucciso.

Nel video dell’uccisione di Abd Al-Fattah Yusri Al-Sharif da parte di Azaria si può vedere il religioso fascista Baruch Marzel [dirigente di gruppi di estrema destra religiosa, tra cui il partito Kach, messo fuorilegge per terrorismo in Israele e negli USA, ndtr.] che stringe la mano all’assassino. Il filmato è stato ripreso da un volontario palestinese di un’organizzazione per i diritti umani. Mostra chiaramente che né Azaria né alcun altro soldato con lui erano in pericolo al momento dell’uccisione. Si vede Azaria che chiede tranquillamente ordini al suo superiore prima di prendere in modo assolutamente deliberato la mira e sparare in testa ad Al-Sharif.

Il video è diventato virale sulle reti sociali e il mondo è rimasto scioccato di vedere la crudele e brutale situazione dell’occupazione israeliana. In Israele, tuttavia, Azaria è stato acclamato come eroe nazionale.

Ciononostante, in seguito a pressioni internazionali, egli è stato giudicato, riconosciuto colpevole di – incredibilmente – “omicidio colposo” e condannato solo a 18 mesi di carcere, di cui ne ha scontati 9 simbolici. Significativamente questa è stata più o meno la stessa condanna che l’eroina disarmata della resistenza palestinese Ahed Tamimi ha scontato per aver schiaffeggiato un soldato israeliano che era entrato in casa sua il giorno in cui un suo parente era stato colpito alla testa da un altro membro delle forze armate israeliane. Nell’Israele dell’apartheid, le vite dei palestinesi non valgono niente.

Azaria è stato liberato dalla prigione all’inizio di maggio, e recentemente si è sfacciatamente vantato sui media israeliani che avrebbe di nuovo fatto la stessa cosa. Ha ribadito di “non avere rimorso” per quello che ha fatto. La triste verità è che quello che è successo a Hebron in quel fatale giorno non era niente di straordinario. Al contrario, durante il processo ad Azaria il dirigente di una delle milizie dei coloni ha testimoniato che si tratta della procedura standard. Molti assassinii simili di palestinesi– spesso giovani – in Cisgiordania sono stati documentati e nessuno è stato chiamato a risponderne. L’unico aspetto inusuale del caso di Azaria è che sia stato ripreso dalla videocamera di un coraggioso operatore sul campo palestinese per “B’Tselem”, l’associazione israeliana per i diritti umani.

In seguito a ciò, il volontario ha ricevuto gravi e credibili minacce di morte da coloni israeliani. E ora, invece di rendere responsabili i suoi soldati assassini, la cosiddetta “unica democrazia del Medio Oriente” sta progettando di evitare che si ripeta l’imbarazzo provocato dal fatto che i suoi crimini vengano resi pubblici: Israele sta per vietare a chiunque di filmare i suoi soldati. Come specificato in un articolo di informazione politica del centro palestinese per le libertà in internet “7amleh” (Hamleh sta per “campagna” in arabo), una legge che attualmente sta seguendo il suo iter alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] “punirebbe il fatto di filmare o fotografare l’esercito israeliano nel corso delle sue attività e proibirebbe la diffusione di foto o video che critichino l’esercito israeliano sulle reti sociali e sui principali mezzi di comunicazione.”

Il ministro israeliano della Difesa, l’estremista di destra Avigdor Lieberman [del partito ultranazionalista “Israele casa nostra”, ndtr.], è il promotore della legge. Il razzista antiarabo ha definito il fatto di filmare i suoi soldati un “fenomeno preoccupante” a cui Israele ha assistito per molti anni.

Quello che ciò realmente significa è che Israele vuole la libertà di torturare, mutilare, imprigionare e uccidere palestinesi con totale impunità e nel completo silenzio, senza neppure il minimo sussurro di inefficace “condanna” da parte dei suoi alleati nell’UE e negli USA. Il resto del mondo non può condannare quello che non vede.

La legge è parte di una serie di leggi israeliane simili denunciate da “7amleh”, che ridurranno la libertà su internet. Ciò include la proposta di istituire una nuova “Direzione Nazionale Informatica” che darà al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu il potere di ordinare – senza nessuna supervisione giudiziaria – di violare computer e telefoni di chiunque egli ritenga una “minaccia per la sicurezza informatica di Israele.”

Considerando che attualmente Israele sostiene che l’attivismo popolare non violento per i diritti dei palestinesi in tutto il mondo costituisca “una minaccia strategica del massimo livello,” è tempo che i governi occidentali smettano di assecondare la fantasia che lo Stato [di Israele] sia una democrazia di qualunque genere. Devono far fronte alla minaccia che Israele rappresenta, non solo per i palestinesi, ma anche per ogni singolo individuo e istituzione al mondo, compresi i governi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Collusione per garantire che l’autorità dell’ONU ostacoli il diritto al ritorno dei palestinesi

Ramona Wadi

28 agosto 2018 Middle East Monitor

È possibile che gli argomenti a favore della tutela del diritto palestinese al ritorno cadano nelle trappole semantiche che Israele ha esplicitamente perfezionato per molti decenni. Mentre l’amministrazione Trump si dice stia preparando la propria definizione di coloro che debbano essere catalogati come rifugiati palestinesi, la loro storia e memoria vengono nuovamente frammentate ed isolate, al punto che il popolo è separato dal processo politico.

Il ministro israeliano dell’Educazione, Naftali Bennett, ha dichiarato che “una cancellazione da parte americana del riconoscimento del fittizio ‘diritto’ al ritorno e del fittizio status di rifugiato per discendenza sarebbe un passo coraggioso e giusto che smaschera montagne di bugie.” Definendo il diritto al ritorno un’“invenzione”, ha poi aggiunto: “Lo status di rifugiato non si trasmette per eredità.” A meno che, avrebbe dovuto aggiungere, tu non sia un ebreo, e quindi abbia il “diritto” di andare nella “Terra Promessa”, a prescindere da quante generazioni in esilio siano passate.

Pur con diverse intenzioni e prospettive, anche i palestinesi hanno costruito la loro retorica intorno al concetto di discendenza. L’Agenzia dell’ONU di soccorso e occupazione per i rifugiati palestinesi (UNRWA) è chiara sul fatto che i suoi servizi sono a disposizione dei rifugiati palestinesi e dei loro discendenti.

La comunità internazionale ha incoraggiato Israele a promuovere la narrazione dell’“ereditarietà” della condizione di rifugiato. Con la creazione di un’agenzia dipendente [dall’ONU] ed il sostegno ad un ente politico che attenua il diritto al ritorno dei palestinesi – l’Autorità Nazionale Palestinese – il concetto di rifugiato palestinese è ora imbalsamato in imposizioni umanitarie, mentre i diritti politici sono stati da tempo manipolati. Le radici di ciò si possono trovare nella Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’ONU, una risoluzione non vincolante che dà priorità al processo coloniale israeliano rispetto al diritto al ritorno dei palestinesi.

È facile scorgere come l’affermazione di Bennett si inserisca nel retroterra stabilito dall’ONU. Proprio come l’organizzazione internazionale ha eliminato il contesto coloniale, lo stesso fa l’affermazione di Bennett. Il nocciolo della questione non è il problema dell’ereditare lo status di rifugiato: è la complicità tra Israele e la comunità internazionale che ha creato una popolazione di palestinesi rifugiati permanenti.

Inoltre i parametri restrittivi imposti ai palestinesi dall’ONU hanno facilitato l’assimilazione del concetto di “ereditarietà” dello status di rifugiato anche tra gli stessi palestinesi. Deve essere posto in chiaro che, ben lungi dall’ereditare tale status, i palestinesi sono vittime di una aggressione coloniale che continua, che li ha resi rifugiati a causa della connivenza tra Israele e la comunità internazionale, che impedisce che il diritto dei palestinesi al ritorno sia messo in pratica. Se si aggiungono gli espedienti escogitati dall’ANP quando si tratta dei diritti dei rifugiati, appare chiaro che sono stati fatti sforzi considerevoli per avallare la narrazione internazionale nonostante il fatto che sia del tutto discordante rispetto ai legittimi diritti dei palestinesi.

Perché quindi la questione dello status di rifugiato è predominante? Una delle principali ragioni è la costante definizione del diritto dei palestinesi al ritorno tramite la Risoluzione 194. Dal 1948 in poi, inchinarsi davanti all’ONU ha avuto la precedenza sulla memoria palestinese. L’ONU ha incoraggiato questo atteggiamento disfattista, ben sapendo che il passaggio della causa palestinese da questione di diritti politici a questione umanitaria alla fine avrebbe plasmato il proprio corso. Nel frattempo il diritto al ritorno dei palestinesi ha seguito molteplici traiettorie a partire da un’ottica presumibilmente solidale, diventando oggetto di ricerche, istanze e riflessioni, il tutto con la garanzia che non ci si allontani dalla Risoluzione 194.

Intanto Israele ha manipolato a proprio vantaggio le divergenze. L’affermazione di Naftali Bennett è errata in quanto elimina il contesto coloniale, tuttavia rivela una sottile collusione che insidia i diritti dei rifugiati palestinesi, poiché l’adesione all’ONU, attraverso uno spettro politico che dichiara di sostenere la Palestina, è stato privilegiato rispetto ai diritti legittimi di una popolazione palestinese colonizzata e costantemente deportata con la forza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli aiuti per indebolire i palestinesi,riprendiamo il controllo

Alaa Tartir

29 agosto 2018, Nena News da Middle East Eye

Ramallah, 29 agosto 2018, Nena News – Nel 2006, dopo la vittoria di Hamas alle giuste e democratiche elezioni parlamentari palestinesi, i principali donatori dell’industria internazionale degli aiuti hanno interrotto i finanziamenti ai Territori Occupati di Cisgiordania e Gaza per protesta verso i risultati del voto.

In quel periodo, mentre lavoravo in una nota università palestinese, abbiamo ricevuto lettere su lettere dei donatori che ci informavano che i nostri progetti comuni sarebbero terminati, che la cooperazione era sospesa e che i fondi venivano tagliati.

La brutta faccia degli aiuti

Siamo andati nel panico e ci siamo preoccupati per i progetti che stavamo realizzando; ci siamo sentiti umiliati dal ricevere via fax – nemmeno in un incontro o con una telefonata – una notizia che decideva il nostro futuro. Quell’esperienza ci ha mostrato la brutta faccia dell’industria degli aiuti e ci ha fatto capire quanto cattiva fosse l’idea di lasciare a qualcun altro decidere il nostro destino.

Ci ha anche mostrato che gli aiuti sono un “regalo” due volte dannato: maledice il donatore e il ricevente. Ma ci ha anche insegnato un’importante lezione: se noi palestinesi non diamo dignità al nostro sviluppo, nessuno lo farà.

Questa lezione non è stata compresa bene dalla leadership politica palestinese e da allora gli aiuti internazionali hanno continuato a essere sprecati invece di essere utilizzati efficacemente per trasformare la vita della gente. L’ultimo episodio risale all’inizio dell’anno quando il presidente statunitense Donald Trump ha minacciato di ritirare gli aiuti all’Autorità Nazionale Palestinese.

Non solo taglia i fondi, ma ha anche trasferito l’ambasciata americana a Gerusalemme, riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e attaccato l’Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ndt) e l’inalienabile diritto al ritorno palestinese.

A parte qualche focosa dichiarazione e una brillante retorica, la leadership politica palestinese non ha compiuto alcuna azione di senso per controbattere agli Stati Uniti e al loro trumpismo. La scorsa settimana l’amministrazione Usa ha deciso di tagliare oltre 200 milioni di dollari degli aiuti palestinesi, eppure la risposta dei leader palestinesi continua a essere solo a parole, inefficace, dichiarazioni di condanna ma nessuna azione.

A seguire quattro azioni di buon senso che la leaderhip politica palestinese potrebbe considerare per rispondere ai recenti tagli degli aiuti Usa.

Stop al coordinamento alla sicurezza con Israele

Primo, interrompere tutte le relazioni e la cooperazione con l’Uss, il Coordinatore alla Sicurezza Usa. Sarebbe una mossa in armonia con la decisione dell’Olp, le richieste di tutti i partiti politici palestinesi e quelle del popolo palestinese, interrompere il coordinamento alla sicurezza con Israele e modificare le dinamiche del dominio securitario.

Il coordinamento alla sicurezza è stata la principale ragione della creazione dell’Ussc, più di dieci anni fa. L’Ussc non solo viola i principi chiave internazionali sulla consegna degli aiuti perché il suo intervento continua a danneggiare la popolazione ricevente, ma agisce anche come braccio complementare dell’occupazione coloniale israeliana.

Gli aiuti consegnati dagli Usa attraverso l’intervento dell’Ussc non sono aiuti per la Palestina o i palestinesi. Sono aiuti che sostengono le azioni brutali del loro oppressore (l’occupazione israeliana) e aiuti ai contractor amerciani e al loro personale alla sicurezza.

In aggiunta, l’intervento Ussc non è solo diretto a proteggere la sicurezza dell’oppressore, ma ha anche portato a un ulteriore repressione del popolo oppresso (i palestinesi) rendendo le forze di sicurezza dell’Anp più autoritarie del normale, dietro il pretesto di garantire stabilità e ordine pubblico.

I danni causati dalla missione di sicurezza Usa sono evidenti e palesi ed è tempo di riconoscerli responsabili e rifiutarne l’intervento.

Un intervento dannoso

Secondo, chiudere i progetti Usaid. La penetrazione di Usaid nella società palestinese è stata profonda e dannosa fin dall’inizio. Le condizioni imposte sui palestinesi e il tipo di intervento che persegue non solo hanno condotto a una dipendenza nociva dagli aiuti e al sostegno del deleterio status quo, ma ha anche distorto la struttura della società civile palestinese, i suoi valori, le fondamenta e i sostegni del contratto sociale tra governanti e governati.

Per invertire queste tendenze, è tempo di impedire a Usaid di causare ulteriori danni. Il suo intervento futuro rischia di essere ancora più pericoloso perché implementerà la visione politica dell’amministrazione Usa che non fa presagire nulla di buono per ogni tipo di sviluppo positivo, prosperità o pace.

È tempo di femare il solito business di Usaid e riconoscerli responsabili se è la dignità del popolo palestinese che interessa. Se non sarà possibile contrastare lo storico danno causato, sarà un’occasione d’oro per impedirne altri in futuro e la via maestra per farlo è chiudere i progetti di Usaid.

Obiettivi di buon senso

Terzo, tagliare i rapporti con l’ambasciata Usa a Gerusalemme e con il suo staff, il suo supporto, i suoi progetti, il suo personale. Non è intelligente mantenere stretti rapporti e accogliere a braccia aperte un’entità che chiaramente e palesemente dichiara guerra a te, al tuo popolo e ai tuoi diritti fondamentali.

Neppure i principi basilari di diplomaziona scusano un simile atteggiamento. Controbattere e resistere è la reazione naturale. Mentre l’ambasciata Usa a Gerusalemme continua a celebrare le borse di studio che offre a giovani e brillanti palestinesi, agisce senza dubbio come ombra e braccio del governo statunitense nei Territori Palestinesi Occupati per implementare le sue politiche, strategie e visioni politiche.

La mera indifferenza per le azioni dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, come ha deciso di fare la leadership politica palestinese, non è né sufficiente né efficace nel modificare le dinamiche di potere.

Quarto e ultimo, tagliare i costi (200 milioni di dollari) dal gonfio budget del settore della sicurezza dell’Autorità Palestinese. Visto che il principale costo nel budget è la sicurezza, che mangia circa il 30% del bilancio ma dà molto poco in termini di sicurezza e protezione al popolo palestinese, questa recente decisione dell’amministrazione Trump offre alla leadership politica palestinese l’opportunità di rivedere le sue priorità e di abbandonare il paradigma che l’ha costretta ad essere solo il subappaltatore all’occupazione israeliana.

Tagliare quei 200 milioni e condividere con il popolo palestinese le prove di quel taglio manderà un messaggio chiaro all’amministrazione Usa e agli attori dell’industria degli aiuti: è tempo di cambiare marcia per assicurare dignità, auto-determinazione e proprietà locale della consegna degli aiuti ai palestinesi.

Ovviamente questi quattro obiettivi proposti sono politici di per sé e avranno conseguenze sul presente e il futuro della leadership palestinese creando sofferenza nel breve termine. Ma, dall’altra parte, sono azioni di buon senso che la maggior parte dei palestinesi aspettano.

(Traduzione a cura della redazione di Nena News)




Ahed Tamimi e la forza delle donne palestinesi

Ramzy Baroud

23 agosto 2018, Al Jazeera

Lamia, Reem, Shaima e Dwlat sono donne palestinesi forti proprio come Ahed, ma le loro storie sono state ignorate.

Ahed Tamimi, la diciassettenne militante palestinese del villaggio di Nabi Saleh in Cisgiordania, è un’icona di una giovane generazione ribelle di palestinesi che ha dimostrato di non tollerare le continue violazioni israeliane dei loro diritti e della loro libertà. Dopo aver passato otto mesi in prigione per aver affrontato i soldati dell’occupazione israeliana nel cortile di casa sua, Ahed è uscita ancor più forte e più determinata a trasmettere al mondo le sofferenze e le lotte del suo popolo.

“Il potere è del popolo ed il popolo saprà decidere il proprio destino e il proprio futuro e lo può fare”, ha detto, rivolgendosi alla folla di sostenitori e giornalisti dopo il suo rilascio.

La storia di Ahed ha ricevuto una sproporzionata attenzione da parte delle agenzie di comunicazione internazionali, che invece hanno spesso ignorato il coraggio e la sofferenza di tante ragazze e donne palestinesi che da molti anni vivono sotto l’occupazione e l’assedio militare di Israele.

Cosciente di questo, la madre di Ahed, Nariman, ha detto: “Sinceramente, è stato probabilmente l’aspetto di Ahed che ha provocato questa solidarietà internazionale, e questo è un fatto razzista, perché molti minori palestinesi sono nella situazione di Ahed, ma non sono stati trattati allo stesso modo.”

C’è molto di vero in questa affermazione. Quando le donne palestinesi non sono invisibili nell’informazione dei media occidentali, vengono dipinte come sventurate vittime di circostanze al di là del loro controllo – l’occupazione militare della loro terra e l’“arretratezza” della loro stessa società patriarcale. Difficilmente vengono viste come promotrici di cambiamento; al massimo, sono presentate come intrappolate in un “conflitto” in cui non giocano alcun ruolo attivo.

L’invisibilità delle donne arabe e musulmane nei media occidentali ha radici in una lunga storia di colonialismo, pieno di errate convinzioni e rappresentazioni razziste. Nel caso palestinese, queste errate rappresentazioni pregiudicano l’urgenza politica ed umanitaria della drammatica condizione delle donne palestinesi e del popolo palestinese nel suo complesso.

In realtà le donne palestinesi sono difficilmente mere spettatrici nella persecuzione e nella resistenza dei palestinesi e, a prescindere dal loro orientamento politico, dalla loro religione o residenza, meritano di essere rese visibili e comprese nel più ampio contesto dell’occupazione israeliana della Palestina.

Ciò che segue sono le brevi storie di quattro forti donne di Gaza che, nonostante la loro lotta ed il loro coraggio, rimangono invisibili nei media. Allevano bambini, insegnano musica, partecipano alle proteste alla barriera tra Gaza e Israele, subiscono la perdita dei loro cari e ferite e resistono di fronte ad una dura vita sotto l’assedio.

Tornerò ad unirmi alla Grande Marcia del Ritorno’ – Lamia Ahmed Hussein, 37 anni, Khan Younis

Quando il marito di Lamia, Ghazi Abu Mustafa, il 27 luglio è stato ucciso da un cecchino israeliano alla barriera di separazione tra Gaza e Israele, lei stava lavorando sul campo come volontaria paramedica.

Lamia è la maggiore di nove sorelle e fratelli. La sua famiglia, che ora risiede nella città di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, è originaria della cittadina di B’ir Al-Saba’a nella Palestina storica e, come milioni di palestinesi a Gaza e altrove, è ora in esilio permanente.

La fede di Lamia nel suo diritto a tornare nella casa della sua famiglia in Palestina è ciò che l’ ha motivata ad unirsi alla ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo, in cui ricorreva anche “il Giorno della Terra”.

La sua decisione è stata appoggiata con forza da suo marito Ghazi, di 43 anni, che si è unito alla Marcia proprio il primo giorno. Lamia si è offerta come volontaria paramedica, aiutando centinaia di feriti palestinesi ogni venerdì. Conosceva molto bene quanto importante potesse essere il suo ruolo per quei coraggiosi dimostranti e per le loro famiglie. In passato, suo marito è stato ferito diverse volte negli scontri coi soldati israeliani.

Il suo primo ferimento, che gli tolse la vista all’occhio sinistro, avvenne durante la mobilitazione ampiamente non-violenta contro l’occupazione israeliana (1987-1993), nota come la prima Intifada. Nella Marcia del Ritorno è stato colpito più volte e, con Lamia al suo fianco, è ritornato alla barriera zoppicando, per essere accanto al suo popolo.

Lamia e Ghazi hanno affrontato insieme le loro sfide, hanno cresciuto una famiglia nella impoverita Gaza ed hanno protestato uno accanto all’altra quando la marcia di Gaza ha coinvolto l’intera comunità, sia uomini che donne, come non era mai avvenuto prima.

A luglio Ghazi è stato colpito a morte. È morto mentre Lamia stava salvando la vita di un altro dimostrante gravemente ferito, Nahid Qadeh.

Lamia era distrutta, ma non spezzata. Una vita di difficoltà e sofferenze le ha insegnato la forza e la resilienza. “Una barca impegnata ad aiutare gli altri non affonderà mai”, le ha detto Ghazi un giorno mentre si univano ad una grande folla di manifestanti alla barriera.

Madre di sei figli, rimasta vedova, ha tutte le intenzioni di riprendere il suo lavoro alla barriera.

“Niente farà vacillare la mia fede nel mio diritto al ritorno”, dice, una lezione che insegna continuamente ai suoi figli.

Benché il futuro di Gaza rimanga fosco, la determinazione di Lamia ad ottenere giustizia – per la sua famiglia, per il suo popolo e per sé stessa – rimane indistruttibile.

Non smetterò di cantare’ – Reem Anbar, 28 anni, Gaza City

Reem ha trovato la sua vocazione durante la guerra di Israele contro Gaza nell’estate del 2014. Avrebbe portato il suo ‘oud’ [il liuto arabo, ndtr.] ogni giorno dalla sua casa al Centro culturale Sa’id Al-Mashal, dove avrebbe trascorso ore a suonare per gli impauriti bambini e le loro famiglie, che vi avevano trovato rifugio dagli incessanti bombardamenti.

Per anni Reem ha tentato di lasciare Gaza in cerca di un posto dove sviluppare la sua passione per la musica presso un autorevole istituto artistico. Ma la sua richiesta di uscire è stata ripetutamente respinta da Israele. Ci sono migliaia di studenti come Reem che non hanno potuto usufruire di opportunità educative al di fuori di Gaza per la stessa ragione.

Reem suona l’‘oud’ da quando era piccola. Era il suo compagno, soprattutto nelle lunghe notti dei bombardamenti israeliani. Ogni volta che le bombe cominciavano a cadere, Reem prendeva il suo strumento ed entrava in un magico mondo in cui le note ed i ritmi avrebbero sconfitto il caos assoluto fuori dalla sua finestra.

Quando Israele ha scatenato l’attacco del 2014 contro Gaza, Reem ha invitato altre persone nel suo mondo musicale. Ha suonato per i bambini traumatizzati nel centro culturale, che cantavano mentre le bombe israeliane cadevano sulle loro case. Quando la guerra è finita Reem ha continuato il suo lavoro, aiutando i bambini feriti e resi disabili durante la guerra, nel centro stesso ed altrove. Insieme ad altri giovani artisti ha composto pezzi musicali per loro e ha allestito spettacoli per aiutare questi bambini a superare il trauma e favorire la loro integrazione nella società.

Alla fine del 2017 Reem è finalmente riuscita a lasciare Gaza per intraprendere l’istruzione superiore in Europa. Il 9 agosto 2018 ha appreso col cuore a pezzi che Israele aveva bombardato il Centro Culturale Sa’id Al-Mashal, che è andato completamente distrutto.

Reem intende tornare a Gaza quando avrà completato il suo percorso educativo. Vuole ottenere una laurea magistrale in terapia della musica, per poter contribuire a risanare una generazione di bambini segnata dalla guerra e dall’assedio.

“Vogliono farci smettere di cantare”, dice. “Ma accadrà il contrario. La Palestina sarà sempre un luogo di arte, storia e ‘sumud’ – tenacia. Lo giuro, terremo i nostri concerti nelle strade, se necessario.”

Sconfiggerò il cancro’ – Shaima Tayseer Ibrahim al-Shamali, 19 anni, Rafah

Shaima può a stento parlare. Il suo tumore al cervello ha colpito la sua mobilità e la sua capacità di esprimersi. Eppure è decisa a conseguire la laurea in Educazione di base all’università aperta Al-Quds di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

La sofferenza che affronta questa diciannovenne è straordinaria, anche per gli standard della povera e isolata Gaza. È la maggiore di cinque figli in una famiglia che è caduta in povertà in seguito all’assedio israeliano. Suo padre è pensionato e la famiglia ha dovuto lottare, ma ciononostante Shaima è determinata a poter studiare.

Doveva sposarsi dopo la laurea all’università. La speranza ha ancora modo di insediarsi nei cuori dei palestinesi di Gaza e Shaima sperava in un futuro migliore per sé e per la sua famiglia.

Ma il 12 marzo è cambiato tutto.

Quel giorno a Shaima è stato diagnosticato un tumore aggressivo al cervello. Appena prima della sua prima operazione all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme il 4 aprile, il suo ragazzo ha rotto il fidanzamento.

L’operazione ha lasciato a Shaima una paralisi parziale. Parla e si muove con grande difficoltà. Ma vi erano notizie peggiori; ulteriori analisi in un ospedale di Gaza hanno rilevato che il tumore non era stato del tutto rimosso e doveva essere asportato velocemente, prima che si espandesse di più.

A peggiorare la situazione, il 12 agosto il ministero della Sanità di Gaza ha annunciato che non sarebbe più stato in grado di curare i malati di cancro nell’enclave assediata da Israele.

Shaima sta ora lottando per la sua vita mentre aspetta il permesso israeliano di passare il checkpoint di Beit Hanoun (chiamato da Israele valico di Erez) verso la Cisgiordania, attraverso Israele, per un’operazione urgente.

Molti abitanti di Gaza sono morti in quel modo, nell’attesa di un pezzo di carta, un permesso, che non è mai arrivato. Shaima comunque continua a sperare, mentre tutta la sua famiglia prega costantemente che la loro figlia maggiore vinca la sua battaglia contro il cancro e riprenda i suoi studi universitari.

Difenderò la mia famiglia e il mio popolo’ – Dwlat Fawzi Younis, 33 anni, Beit Hanoun

Dwlat si occupa di una famiglia di 11 persone, compresi i suoi nipoti e suo padre gravemente malato. Ha dovuto diventare capofamiglia quando suo padre, a 55 anni, è stato colpito da insufficienza renale ed è stato impossibilitato a lavorare.

Deve provvedere a tutta la famiglia con il denaro che guadagna come parrucchiera. I suoi fratelli e sorelle sono tutti disoccupati. Aiuta anche loro, tutte le volte che può.

Dwlat è una combattente; è sempre stata così. Forse è stata la sua esperienza del 3 novembre del 2006 a rafforzare la sua determinazione. Un soldato israeliano le ha sparato mentre stava manifestando con un gruppo di donne contro l’attacco israeliano e la distruzione della storica moschea Umm Al-Nasr a Beit Hanoun. Quel giorno sono state uccise due donne. Dwlat è stata colpita da una pallottola al bacino, ma è sopravvissuta.

Dopo mesi di cure è guarita ed ha ripreso la sua lotta quotidiana. Inoltre non ha mai perso occasione per alzare la voce in solidarietà con il suo popolo durante le proteste.

Il 14 maggio 2018, quando gli Stati Uniti hanno ufficialmente trasferito la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, 60 dimostranti palestinesi sono stati uccisi e circa 3000 feriti presso la barriera tra Israele e Gaza. Dwlat è stata colpita alla coscia destra, il proiettile ha trapassato l’osso ed ha tagliato un’arteria.

Da allora la sua salute è peggiorata velocemente ed ora non è in grado di lavorare. Ma Israele non ha ancora approvato la sua richiesta di essere trasferita all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme per esservi curata.

Eppure Dwlat sostiene che continuerà ad essere un membro attivo ed efficiente della comunità di Gaza – per amore della sua famiglia e del suo popolo, anche se questo significa andare alle proteste alla barriera di Gaza con le stampelle.

In realtà, Ahed, Lamia, Reem, Shaima e Dwlat incarnano lo straordinario spirito e coraggio di ogni donna palestinese che vive sotto l’occupazione e l’assedio di Israele in Cisgiordania e a Gaza. Resistono e persistono, nonostante l’enorme prezzo che pagano, e continuano la lotta delle generazioni di coraggiose donne palestinesi che le hanno precedute.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato internazionalmente, consulente in materia di mezzi di comunicazione e scrittore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Ira contro i tagli di Trump agli aiuti a Gaza

Hamza Abu Eltarabesh

21 agosto 2018,The Electronic Intifada

Ho riconosciuto l’uomo steso a terra durante la recente protesta a Gaza City. Il suo nome è Nidal al-Shanti. Un tempo è stato mio insegnante ed è stato gentile con me.

Quando mi sono ferito ad una mano in classe 14 anni fa, al-Shanti mi ha portato all’ospedale. Mi ha comprato un succo d’arancia e – dopo che mi hanno curato – mi ha riportato a casa.

Con mio sollievo, al-Shanti ha presto ripreso conoscenza dopo essere svenuto durante la protesta. Ha bevuto un po’ d’acqua e immediatamente si è lanciato in un’invettiva contro il suo datore di lavoro, l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi.

Era appena venuto a sapere di aver perso il lavoro.

L’UNRWA ha ucciso noi e le nostre famiglie,” ha detto al-Shanti, insegnante di educazione tecnica.

Al-Shanti, di 42 anni, ha recentemente preso in prestito dalla banca 70.000 dollari per poter comprare una nuova casa. Aveva previsto di traslocarvi alla fine dell’anno.

Ora ciò sembra improbabile perché è stato privato del suo stipendio.

Anche l’incertezza su come rispetterà altri impegni finanziari gli provoca tensione. Suo figlio Walid di 9 anni ha la leucemia e necessita di cure che costano 300 dollari al mese.

L’UNRWA, fornitore indispensabile di istruzione e cure mediche per i rifugiati palestinesi, sta attraversando una crisi. Il taglio di 300 milioni di dollari dell’aiuto USA all’agenzia quest’anno ha messo a repentaglio molte delle sue attività.

Lo scorso mese l’agenzia ha annunciato misure che potrebbero colpire 1.000 posti di lavoro, ed anche determinare riduzioni di stipendio per quanti rimarranno sul suo libro paga.

Più di cento dei suoi dipendenti di Gaza sono stati informati in luglio che non avranno il rinnovo del contratto. Circa 580 addetti sono stati messi al lavoro a tempo ridotto.

Benché i tagli ai finanziamenti siano stati imposti dal presidente Donald Trump e dalla sua amministrazione a Washington, molte persone a Gaza dirigono la propria rabbia contro la stessa agenzia.

Collera

Invece di aiutarci in quanto rifugiati, l’UNRWA sta giocando con le nostre condizioni di vita,” dice Fathi Shehada. Come lavoratore sociale, è stato impiegato nei programmi di buoni acquisto alimentari prima dei recenti tagli.

Dalla morte di suo padre nel 2008, la famiglia di Shehada ha contato moltissimo sul suo lavoro per sbarcare il lunario.

Non sono ancora sposato,” dice il trentaduenne. “Ho rimandato il matrimonio per poter aiutare la mia famiglia. Ora pare che dovrò prolungare questo ritardo per altri anni – finché non troverò un altro lavoro.”

Nedaa Ismail, di 31 anni e madre di 4 figli, ha lavorato come psicologa per una scuola dell’UNRWA. Perdere il suo lavoro avrà pesanti conseguenze sulla sua famiglia.

Il salario di suo marito come ufficiale di polizia dell’amministrazione locale di Gaza non è sufficiente per la sopravvivenza della famiglia. Oltretutto negli ultimi tempi egli ha ricevuto solo parte del suo stipendio.

La mia famiglia ha bisogno che io lavori, “dice. “Non ho idea di cosa fare ora. L’UNRWA sta punendo i nostri figli rifugiati.”

La collera del personale dell’UNRWA è stata palpabile durante le recenti proteste. L’agenzia si è lamentata di alcune delle forme di lotta adottate dai manifestanti, come impedire ai dirigenti di raggiungere i propri uffici.

Durante una manifestazione un uomo si è cosparso di gasolio. Altri sono intervenuti per impedire che si desse fuoco.

L’uomo in questione era Jihad Wishah, un trentacinquenne che aveva anche lui lavorato come psicologo in una scuola dell’UNRWA.

Wishah è sposato da 10 anni, ma lui e sua moglie non sono riusciti ad avere bambini. La coppia aveva previsto di andare in Egitto per un trattamento di fertilità alla fine dell’anno. Wishah teme che non potrà pagarsi il viaggio.

Quando ha sentito parlare dei tagli dell’UNRWA, “il mio sogno di avere figli è svanito,” dice Wishah.

Decisione politica”

Gli organizzatori delle proteste hanno giurato di continuarle.

Amir El-Mishal, che rappresenta un sindacato dei dipendenti dell’UNRWA, ha chiesto che la decisione dell’agenzia di tagliare i posti di lavoro sia ritirata.

Un portavoce dei manifestanti, Ismael al-Talaa, ha osservato che la gente che perde il proprio lavoro fornisce servizi indispensabili. Porre fine ai contratti dei lavoratori dell’UNRWA avrà effetti negativi su molte delle persone più vulnerabili di Gaza.

Questa è una decisione politica,” dice al-Talaa, che ha perso il suo lavoro nel programma di buoni alimentari dell’agenzia.

Da quando sono stati annunciati i tagli ai posti di lavoro, sono emerse nuove prove su come importanti figure di Washington intendano danneggiare l’UNRWA.

All’inizio di quest’anno Jared Kushner, consigliere di alto livello e genero di Trump, ha espresso il desiderio di “distruggere” l’UNRWA. In uno scambio di mail Kushner ha sostenuto che l’agenzia è “corrotta” ed “inefficiente”.

L’accusa di Kushner è in contrasto con considerazioni dell’UNRWA secondo cui il governo USA aveva espresso soddisfazione per quanto l’agenzia fosse trasparente ed affidabile.

Datato a gennaio, il messaggio mail di Kushner è stato pubblicato questo mese dalla rivista Foreign Policy [bimestrale USA di politica internazionale e di tendenza conservatrice, ndtr.].

La distruzione favorita da Kushner incrementerà le sofferenze dei palestinesi.

Circa metà dei due milioni di abitanti di Gaza riceve aiuti alimentari dall’UNRWA, che a Gaza gestisce anche più di 250 scuole e 22 strutture sanitarie.

Alla fine della scorsa settimana l’UNRWA ha annunciato che le lezioni per 526.000 bambini rifugiati palestinesi che frequentano le sue 711 scuole in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, in Giordania, in Libano e in Siria inizieranno regolarmente in settembre.

Ma il commissario generale dell’UNRWA ha avvertito che “attualmente abbiamo fondi per gestire i servizi dell’agenzia fino alla fine di settembre,” e che sono necessari altri 217 milioni di dollari per garantire che le scuole rimangano aperte per il resto dell’anno.

Molti palestinesi temono che gli attacchi contro l’UNRWA siano parte di una più pesante aggressione ai diritti dei rifugiati.

Akram Atallah, un analista politico che scrive una rubrica sul giornale al-Ayyam [pubblicato a Ramallah, ndtr.], sospetta che l’amministrazione Trump intenda impedire ai palestinesi di tornare alle case che hanno perso durante la Nakba, la pulizia etnica della Palestina durante il 1948.

Benché questo diritto sia stato confermato da risoluzioni ONU, Israele ed i suoi alleati a Washington hanno lavorato a lungo per sabotarlo. Atallah crede che gli USA vogliano escludere i diritti dei rifugiati da ogni negoziato tra Israele e i dirigenti politici palestinesi.

Dopo che Trump ha annunciato che avrebbe riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, gli USA ed Israele ora stanno lavorando per porre fine alla discussione sui rifugiati,” ha affermato Atallah. “Mi aspetto che la leadership americana presto chiederà che il diritto al ritorno sia eliminato dai negoziati.”

Hamza Abu Eltarabesh è un giornalista di Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Un ‘tradimento nazionale’ da parte di Fatah…o di Hamas?

Ramona Wadi

16 agosto 2018, Middle East Monitor


Ieri, quando è entrato in vigore il cessate il fuoco tra Hamas e Israele, mediato dall’ONU e dall’Egitto, Ramallah è sbottata in una litania di furibondi commenti. L’ importante dirigente di Fatah Azzam Al-Ahmad è stato così citato dall’agenzia di informazioni Wafa: “La tregua tra Hamas e Israele di alcuni giorni fa è un tradimento del popolo palestinese e della sua causa nazionale.” La dirigenza palestinese, ha dichiarato, “non ha tempo per simili inutili pagliacciate.”

Il cessate il fuoco è soltanto un cessate il fuoco. La retorica ostile di Israele prosegue, in particolare da parte del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, che ha ribadito che è imminente una nuova ripresa di violenze contro Gaza. Se si eliminano le sottigliezze diplomatiche, come occorrerebbe fare per ridurre la confusione riguardo alle intenzioni, è chiaro che né Hamas né Israele hanno concordato nulla che sia fuori dall’ordinario. Hamas ha solo chiesto l’adempimento delle condizioni che hanno portato alla conclusione dell’operazione “Margine Protettivo” nel 2014. Questo non è un tradimento nazionale, e neppure una pagliacciata, come sostenuto da Al-Ahmad. È una dimostrazione di quanto Hamas continui ad incontrare vincoli sia nella resistenza che nella diplomazia. Parte della colpa ricade sull’Autorità Nazionale Palestinese e sulla sua disponibilità ad appoggiare la pregiudizievole posizione internazionale che mira alla completa colonizzazione della Palestina.

Il tradimento nazionale di cui i dirigenti di Fatah dovrebbero parlare è, senza dubbio, l’accettazione degli Accordi di Oslo, che si sono dimostrati una grottesca pagliacciata per i palestinesi – per dirla in sintesi, un bagno di sangue che ha lacerato la terra e il popolo attraverso i compromessi su Gerusalemme, l’espansione delle colonie, il coordinamento sulla sicurezza con Israele, il mercanteggiamento sui prigionieri palestinesi, lo sfruttamento della resilienza e resistenza palestinese, il trascurare l’importanza del diritto al ritorno dei palestinesi e la collaborazione con la comunità internazionale nel mantenere la retorica compromissoria dei due Stati e spogliare i palestinesi del loro diritto alla Palestina storica.

Nel momento in cui Hamas si opponeva strenuamente agli Accordi di Oslo, Fatah era impegnata a celebrare il suo status compromissorio. Durante i periodi in cui Israele ha usato Gaza come terreno di sperimentazione per i suoi armamenti, l’ANP invitava i palestinesi ad abbandonare la resistenza. Quando Gaza cercava i mezzi per alleviare le proprie sofferenze dopo l’operazione “Margine Protettivo”, ed anche negli anni seguenti, l’ANP applicava la linea statunitense di costringere Hamas a rinunciare al suo governo dell’enclave. L’ANP ha anche accettato e contribuito alla frammentazione dell’identità palestinese tra Gaza e la Cisgiordania occupata, contrapponendo la resistenza armata a quella nonviolenta come prerogative di differenti entità, piuttosto che come strumenti complementari attraverso cui i palestinesi possono costruire la propria lotta anticoloniale.

Se Fatah può criticare Hamas riguardo ad un frettoloso accordo, non è forse tempo che l’ANP si guardi allo specchio e si faccia un’autocritica per aver accettato le condizioni che hanno lasciato i palestinesi senza opzioni politiche? I palestinesi non si fanno illusioni sulla sostanza dell’accordo. L’impegno del popolo palestinese alla resistenza rimane intatto. Perché Hamas sia accusato di tradimento nazionale, deve abbassarsi alle tattiche utilizzate dall’ANP. Se questo accadesse, sarà il popolo palestinese a parlare di tradimento nazionale. Non dimentichiamo che i palestinesi già sanno che cosa sia un tradimento nazionale – gli Accordi di Oslo e le loro conseguenze coloniali.

Suona ironico che Fatah dica di non avere tempo per “inutili pagliacciate”, quando la sua struttura non è altro che una gerarchia di patetici intrattenitori.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gaza. Grande marcia. Sarà l’ultimo venerdì?

Patrizia Cecconi

17 agosto 2018, L’Antidiplomatico

Oggi Gaza sembra pronta per la prova generale che stabilirà se la mediazione dell’Egitto (e le promesse del Qatar) siano state in grado di portare alla tregua tra la forza politica che governa la Striscia e il governo israeliano.

Un tentativo anticipato da due concessioni israeliane che in realtà sono già diritto dei palestinesi, ma che fanno parte di quei diritti che Israele prima conculca e poi “concede” a patto che i gazawi stiano buoni a cuccia come dichiarato, con termini diversi ma altrettanto espliciti, da Lieberman.

La Grande marcia oggi andrà avanti lo stesso e i dati forniti dal Ministero della Salute (v. video) sono tali da far supporre che la determinazione della “Gaza resistente” difficilmente si arrenderà a una tregua che ha come contropartita l’entrata di un po’ di merci (peraltro israeliane) e la restituzione ai pescatori di una fetta di mare ora illegalmente bloccata. Queste le generose “concessioni”.

Certo, dopo aver affamato la popolazione ed averla spinta verso l’abisso depressivo, è facile lavorare in modo tale da dare scacco matto ad Hamas: se non accetta avrà contro gran parte dei gazawi che vivono di sussidi, se accetta verrà accusato di tradimento dalla parte resistente.

Inoltre c’è il problema principale, quello che richiede lungimiranza e intelligenza politica in misura tale da accantonare, almeno temporaneamente, le differenze ideologiche tra i laici di Fatah e i religiosi di Hamas. Senza questo sforzo non ci sarà riconciliazione e senza riconciliazione non ci sarà nessuna vittoria da parte del popolo palestinese. Questo Israele lo ha ben chiaro, e infatti tenta gli accordi separati con Hamas che, comprensibilmente, fanno infuriare Mahmoud Abbas.

Ferme restando tutte le critiche che piovono su una parte e sull’altra, una cosa è chiara agli occhi di qualunque osservatore: senza riconciliazione tra le due maggiori fazioni politiche non c’è futuro per la Palestina. Questo sembra averlo chiaro anche il portavoce del Movimento di Resistenza Popolare Khaled al-Azbout,, attualmente nella delegazione che sta discutendo della tregua con Israele al Cairo.

In proposito, come pubblicato dall’agenzia araba on line Alwatanvoice, Al-Azbout ha rilasciato un comunicato stampa in cui, dopo aver dichiarato che ” …una serie di richieste sono diritti naturali del nostro popolo e non un favore, e attraverso l’ottenimento di quei diritti vogliamo l’accesso a una vita dignitosa ma non siamo disposti a pagare qualsiasi prezzo politico… e la battaglia continuerà fino a quando continua l’occupazione della Palestina…. Vogliamo raggiungere l’accordo entro l’Aid al Adha  (l’aid al adha o festa del sacrificio di Abramo è una delle due maggiori festività musulmane e cade il 21 agostoNdr)” ha aggiunto che “la riconciliazione è una priorità assoluta …e

tutte le parti sulla scena sono chiamate a superare la divisione discutendo in dettaglio le soluzioni per ogni questione … tuttavia – aggiunge Al Azbout – in questo contesto la revoca delle procedure per la Striscia di Gaza è il vertice della piramide e l’inizio del round…ma puntiamo alla riunificazione storica della patria per cui dobbiamo far cadere tutte le cospirazioni contro la nostra causa”.

Discutendo i dettagli dell’accordo, finalizzati a far rivivere Gaza rapidamente, sembra si sia anche concordato un canale marittimo per collegare la Striscia al mondo, sotto la supervisione internazionale.
La delegazione al Cairo ha anche richiesto garanzie reali per obbligare Israele a rispettare i termini dell’accordo se questo verrà raggiunto, pena il suo fallimento in caso contrario, visto che già in passato Israele ha mostrato di non rispettare gli accordi presi senza pagarne prezzo.

Ma non sembra così facile concludere questo percorso in modo onorevole. Da una parte perché sembra che possa concludersi solo cedendo, nei fatti, al “deal of the century” proposto da Trump, dall’altra perché, seppure si tratta di un compromesso che umilierebbe Hamas, i falchi israeliani, tra cui la Zipni Livni di triste e sanguinaria memoria benché appartenga ad un partito non di estrema destra, non sono d’accordo.

Inoltre, mentre i gazawi stanno cominciando a recarsi nei campi “al awda” lungo il border, qualcuno si chiede cosa ci sia dietro il “mistero” degli incontri tra il presidente Al Sisi e Netanyahu avvenuti nell’ultima settimana di maggio, incontri che secondo indiscrezioni ormai pubbliche avrebbero portato a concludere che la crisi di Gaza si sarebbe risolta con l ritorno dell’Anp nella Striscia nonostante l’opposizione di Abu Mazen.

Intanto oggi, nonostante i 168 uccisi e i circa 18.000 feriti, numeri davvero impressionanti, la marcia sta partendo. Il tema odierno è “Venerdi di rivoluzione per Al Quds e per Al Aqsa”.
Tra qualche ora sapremo se i dati di cui sopra dovranno essere ancora una volta ritoccati o se le armi israeliane saranno state fermate in attesa della eventuale conclusione degli accordi.

Non crediamo che Hamas riuscirà a bloccare i manifestanti, se questo è il desiderio di Israele, ma intanto di sicuro li tiene sul piatto della bilancia per realizzare al meglio gli accordi.
Se ci riuscirà in modo onorevole e nel rispetto delle istanze poste dal Comitato di Resistenza Popolare che ha pagato con martiri di tutte le fazioni politiche questa fantastica “Grande marcia per il ritorno” i palestinesi avranno vinto. In caso contrario la tregua si chiamerà capitolazione.




I drusi e la legge sullo Stato Nazione

Yara Hawari

16 agosto 2018, Al Jazeera

Questa legge dimostra che non importa quanto cooperi – se non sei ebreo, questo Stato non è per te

L’approvazione lo scorso mese della legge sullo Stato-Nazione, che afferma il carattere ebraico dello Stato israeliano e riduce l’importanza della lingua araba, ha riacceso un dibattito tra i cittadini palestinesi di Israele, soprattutto in merito alla loro situazione precaria all’interno dello Stato. In particolare ha suscitato un’intensa discussione nella comunità dei drusi palestinesi in Israele, oltre a provocare una serie di dimissioni da parte di ufficiali drusi che prestano servizio nell’esercito israeliano. Il 4 agosto 50.000 drusi si sono riuniti contro la legge in piazza Rabin a Tel Aviv sventolando sia bandiere israeliane che druse. L’immagine della piazza invasa dalla bandiera drusa multicolore e da quella israeliana una vicino all’altra evidenzia la diversa relazione che la comunità drusa ha con Israele rispetto a quella degli altri cittadini palestinesi.

In seguito alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, la dirigenza sionista cercò di dividere la comunità palestinese sopravvissuta [alla pulizia etnica, ndtr.] attraverso la nozione di particolarismo – in altre parole, mettendo in evidenza differenze religiose e tradizionali al suo interno. I sionisti concentrarono la loro attenzione sulla comunità drusa di lingua araba (la religione drusa si è sviluppata dall’Islam ismailita [corrente dell’Islam sciita, ndtr.] e i suoi membri sono concentrati in Libano, Siria e Palestina).

Già nel 1948 alcuni drusi vennero reclutati dall’Haganà [principale milizia sionista, ndtr.], – una cosa all’epoca negata agli altri palestinesi – con la promessa di consentirgli di fare il raccolto agricolo nelle loro terre. Nel 1956 i dirigenti drusi accettarono un accordo di coscrizione obbligatoria nell’esercito israeliano in cambio della protezione della comunità in quanto minoranza.

Tutt’altro che d’accordo, molti villaggi drusi protestarono contro la coscrizione e contro la collaborazione dei loro dirigenti con il regime sionista. Tuttavia, nel corso del tempo, la maggioranza della comunità venne cooptata e inserita a forza all’interno del regime sionista, contribuendo a conservare il mosaico culturale israeliano di facciata. Eppure ironicamente continuarono ad essere privati delle loro terre e gli vennero negate le stesse infrastrutture e servizi a disposizione delle loro controparti ebraiche. Infatti, dalla nascita di Israele, i drusi hanno perso oltre tre quarti della loro terra a favore dello Stato e allo stesso tempo gli è stato vietato il permesso di costruire, provocando una situazione di sovraffollamento e strangolamento simile a quella degli altri palestinesi in Israele.

Questa vicenda di continue discriminazioni e la storia dei drusi che si rifiutano e resistono è spesso stata marginalizzata dalla narrazione egemonica. Più di recente, nel 2013 è stato formato un gruppo di giovani drusi chiamato “Urfod” (“rifiuto” in arabo) che ha promosso il rifiuto di fare il servizio militare nell’esercito israeliano e una campagna per abolire la coscrizione obbligatoria. Formatosi nel villaggio druso di Rameh, in Galilea, “Urfod” sta iniziando a sfidare la narrazione egemonica della collaborazione dei drusi con il regime sionista mettendo in evidenza la resistenza attuale e passata dei drusi. Il villaggio di Rameh è anche il luogo d’origine di uno dei più famosi e prolifici poeti palestinesi, Samih al-Qassim, un palestinese druso. La sua poetica si concentra sulla resistenza e sull’amore per la Palestina. Sia gli attivisti di Urfod che Samih al-Qassim rappresentano un monito che non c’è niente di naturale o intrinseco nella collaborazione dei drusi con Israele – al contrario, è stata e continua ad essere una dei molti metodi utilizzati per disintegrare la società palestinese.

Tuttavia questa rinnovata e diffusa indignazione nel corso delle ultime settimane all’interno della comunità drusa nei confronti di questa legge non riflette necessariamente un incremento del rifiuto dei drusi. La legge è stata vista come uno schiaffo morale per una comunità “leale” piuttosto che la consacrazione di una supremazia ebraica già in atto. I timori per una “nuova” situazione in un’era di cittadinanza di serie B ha portato i dirigenti drusi, compreso il capo spirituale, lo sceicco Muwafaq Tarif, a incontrarsi con Netanyahu per discutere la prosecuzione della protezione dei drusi come minoranza. Nell’incontro Netanyahu ha anche espresso la speranza che la manifestazione dei drusi, organizzata in risposta alla legge, venisse annullata. Benché Tarif e Netanyahu abbiano raggiunto un accordo, il comizio ha avuto ugualmente luogo. Lungi dall’essere critico nei confronti di Israele o mettere in discussione la collaborazione dei drusi con lo Stato, ha ospitato oratori dell’esercito che hanno insistito sulla fedeltà dei drusi e hanno descritto la legge come un insulto piuttosto che come parte di una legislazione intesa a sostenere le reali caratteristiche razziste dello Stato.

Questo tentativo di cooptare le minoranze è stato a lungo una strategia per distruggere e frammentare la società palestinese. Le promesse di integrazione e di opportunità economiche e sociali non sono state mantenute, come dimostrato dal fatto che i drusi palestinesi continuano a essere vittime di discriminazione, marginalizzazione ed esclusione. Infatti una delle maggiori tragedie è come Israele sia riuscito a dividere il popolo palestinese ed abbia creato gruppi minoritari che lottano per le briciole della tavola del padrone. Se non altro questa legge dimostra che non importa quanto cooperi o collabori – se non sei ebreo, questo Stato non è per te.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Yara Hawari è l’esperta di politica palestinese di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Metodi fascisti: come i detrattori di Jeremy Corbyn stanno tramando per toglierlo di mezzo

David Hearst

Martedì 14 agosto 2018,Middle East Eye

Agli oppositori del leader del partito Laburista non importa niente dell’antisemitismo. Faranno solo di tutto per eliminare Corbyn

Ogni volta che ti connetti, ti chiedi quanto sarà ancora più sporca la campagna per spodestare Jeremy Corbyn come leader del partito Laburista, quanto più in basso i suoi nemici stanno per sprofondare. E ogni giorno essi si superano nella corsa verso la fogna della politica britannica.

La scorsa settimana tre giornali ebrei britannici, che di solito si scontrano tra loro, hanno unito le forze per postare un editoriale unitario in cui si dichiara che un governo diretto da Corbyn rappresenterebbe una “minaccia esiziale” per gli ebrei britannici.

Il vero scopo della campagna

Sabato il “Daily Mail” [secondo quotidiano più venduto in GB, di tendenza conservatrice, ndtr.] ha affermato che Corbyn ha lasciato una corona di fiori sulla tomba di due palestinesi che avrebbero organizzato il massacro alle Olimpiadi di Monaco. Oggi il giornale popolare “The Sun” [giornale più venduto in GB, di tendenza molto conservatrice, ndtr.] ha pubblicato due articoli nella stessa edizione. Uno era una lettera di un lettore in cui si dichiarava che Boris Johnson [importante politico conservatore, ndtr.] ha “colto nel segno” quando ha detto che le donne che portano il burqa sembrano cassette delle lettere o rapinatori di banche: “A Boris dovrebbe essere consentito di parlare sinceramente, non ha niente di cui scusarsi.”

Immaginate solo quello che sarebbe successo se Corbyn avesse preso in giro la kippah [copricapo degli ebrei osservanti, ndtr.], apertamente e spudoratamente, su un giornale nazionale.

L’altro era un editoriale in cui si affermava che Corbyn non è adeguato ad essere il leader del partito Laburista e “non gli si può consentire di avvicinarsi al governo.” Almeno –finalmente – siamo arrivati allo scopo di questa campagna. È chiaro ora che non ha niente a che vedere con la reale e verificabile situazione dell’antisemitismo nel partito Laburista, o al fatto che Corbyn si sia ritrovato nei cimiteri di Tunisi nel 2014 per i rifugiati palestinesi.

È evidente che l’obiettivo è togliere di mezzo il capo dell’opposizione utilizzando metodi fascisti – diffamazione, calunnia, intimidazione.

Incapaci di presentare un candidato in grado di sconfiggerlo con metodi democratici, nelle urne, incapaci di attaccarlo per le sue politiche, che riscuotono un sostegno maggioritario nel Paese, i detrattori di Corbyn si sono metodicamente e costantemente concentrati sul compito di diffamarlo.

E, ovviamente, funziona.

Dare da mangiare ai coccodrilli

Corbyn sta affrontando la più grande minaccia alla sua leadership dal “golpe” organizzato dai parlamentari del suo partito. È anche sempre più isolato tra i suoi stessi sostenitori. John McDonnell, l’alleato più vicino a Corbyn, che evita la politica estera,[in quanto] pensa che non sia un argomento di lotta del partito Laburista. Emily Thornberry, il suo ministro ombra degli Esteri [il partito laburista, all’opposizione, ha un governo ombra, ndtr.], non ha detto una parola.

Ed Milliband, l’ex leader del partito Laburista sotto la cui direzione l’antisemitismo è stato storicamente maggiore che durante la segreteria di Corbyn, gli ha fornito uno scarso appoggio. I dirigenti del sindacato si sono tenuti lontano. I gruppi musulmani non ne vogliono sapere. Corbyn è solo.

E il risultato è che Corbyn sente di essere lasciato senza alternative se non cedere, chiedere scusa, accettare uno dopo l’altro i controversi “esempi pratici” della definizione di antisemitismo dell’”International Holocaust Remembrance Alliance” [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto] (IHRA) in una lenta e penosa ritirata.

È un disastroso errore di valutazione. Le “scuse” di Corbyn per misfatti di cui è innocente, non fanno che alimentare il coccodrillo. Come dicono i georgiani: “Una volta che hai esaurito le galline da gettare al coccodrillo, si prenderà il tuo braccio.” Che Corbyn sopravviva a questo attacco o no, chiunque partecipi, consapevolmente o meno, a questa campagna deve essere conscio di quello che vuole.

Qualunque cosa accada a Corbyn, ci sono tre vittime di questa sporca faccenda.

Le vittime

La prima è la verità. Praticamente ogni volta che prendi in considerazione una specifica accusa e la esamini, la prova si sgretola come sabbia nelle mani. Prendiamo l’ultima: che Corbyn ha lasciato una corona di fiori sulle tombe di due terroristi palestinesi. Risulta che non ha lasciato una corona di fiori su quella tomba, che era a 13 metri di distanza, ma era presente quando ne è stata lasciata una. La corona era per tutti quelli che si trovavano nel cimitero: palestinesi morti sotto un bombardamento, quelli assassinati e quelli che sono semplicemente morti in esilio. Quindi Corbyn ha onorato i morti palestinesi 22 anni dopo Oslo.

E comunque, chi erano questi due terroristi? Entrambi erano uomini dell’OLP, la fazione palestinese che ha negoziato ad Oslo ed ha riconosciuto Israele. Uno era Salah Khalaf, che si è incontrato con l’ambasciatore USA a Tunisi come parte del dialogo con l’OLP autorizzato dal segretario di Stato USA James Baker. Ciò rende Baker colpevole dello stesso crimine appena commesso da Corbyn?

Khalaf era stato individuato dagli americani come una persona pragmatica che stava spostando la politica dell’OLP. Il secondo era Atef Bseiso, il funzionario di collegamento dell’OLP con la CIA. Israele lo ha accusato di coinvolgimento nel massacro di Monaco, benché quanti degli assassinati [dai servizi segreti israeliani, ndtr.] fossero direttamente legati a Monaco sia un argomento di discussione storica. I servizi segreti francesi ricondussero il suo [di Bseiso, ndtr.] assassinio a Parigi ad Abu Nidal [gruppo palestinese dissidente rispetto alla politica dell’OLP, ndtr.], e l’OLP accusò il Mossad [il servizio segreto israeliano, ndtr.]. Stiamo dicendo che due uomini dell’OLP che hanno creato dei canali paralleli che avrebbero portato alla conferenza di Madrid, e quindi a Oslo, non dovrebbero essere onorati?

Khalaf, noto anche come Abu Iyad, era il capo dell’intelligence dell’OLP e braccio destro di Arafat. Jack Straw [ex-parlamentare ed ex-ministro laburista, ndtr.] ha lasciato una corona di fiori sulla tomba di Arafat. Ora Straw dovrebbe essere denunciato per averlo fatto? Bseiso e Khalaf furono acclamati dai giorni del Settembre Nero all’inizio degli anni ’70.

E quanto indietro vogliamo andare nella storia? Israele ha avuto due primi ministri che erano ex terroristi per gli attentati che contribuirono a organizzare nel 1944.

Menachim Begin era il capo dell’Irgun, un gruppo paramilitare clandestino sionista il cui scopo era di obbligare gli inglesi a lasciare la Palestina. L’Irgun mise in atto una serie di attentati nel 1944 contro obiettivi britannici, l’ufficio immigrazione, gli uffici delle imposte, una serie di commissariati di polizia. Il suo volto compare su un manifesto con la scritta “ricercato” emanato dalla forza di polizia palestinese [del Mandato britannico, ndtr.].

Yitzak Shamir era un membro del Lehi, o della famosa Banda Stern, che assassinò lord Moyne, il governatore inglese in Medio Oriente. In Israele sia Begin che Shamir sono celebrati come combattenti della libertà.

Maccartismo al lavoro

La seconda vittima di questa campagna sono i palestinesi. Lo scopo è quello di intimorire tutti i politici, che siano conservatori, laburisti, liberal democratici o dell’SNP [il partito nazionalista scozzese, ndtr.] dall’avere qualunque contatto con organizzazioni palestinesi, che potrebbe essere usato per screditarli in futuro. Ognuno ora è messo in guardia per qualunque testimonianza esista di contatti e conferenze che abbiano avuto luogo molto tempo fa. La definizione di antisemitismo dell’IHRA, che non è giuridicamente vincolante, sarà usata come arma retroattiva.

Se ciò assomiglia ai metodi che il senatore USA Joseph McCarthy utilizzava all’inizio degli anni ’50 contro i sospetti comunisti – “rossi sotto il letto” – al culmine della guerra fredda, è perché è così. D’ora innanzi ogni passato contatto, ogni evento, ogni palco condiviso con gruppi, sostenitori, attivisti a favore dei palestinesi e ogni foto che salti fuori dai meandri dei server psicologici di Israele potrebbe essere usato per distruggere la reputazione di politici britannici con altrettanta efficacia che con Corbyn. Che egli sopravviva o meno, la reputazione internazionale di Corbyn è stata intaccata. Se tu fossi un candidato democratico negli USA, ora ti incontreresti con lui?

È la politica di tutti i partiti britannici sostenere –l’ormai moribonda – soluzione dei due Stati. Ogni partito politico appoggia la formazione di uno Stato palestinese indipendente e sostenibile. Proprio per questa ragione questa campagna paralizza nei fatti ogni comunicazione tra attivisti palestinesi, di qualunque tendenza, e politici britannici.

Sto dedicando questo punto in particolare ai nemici di Corbyn alla destra del partito e ai parlamentari del partito. Volete seriamente che gli stessi metodi che avete utilizzato, o di cui siete stati complici, contro Corbyn, vengano utilizzati contro di voi? Pensate davvero che il risultato finale sia la vittoria della democrazia britannica?

Se qualcuno pensa che, tolto di mezzo Corbyn, questa campagna finirà lì, si sbaglia.

La lotta di tutti

La terza vittima di questa campagna è chiunque, palestinese o israeliano, musulmano, cristiano o ebreo, sia identificato e preso di mira da Israele in quanto oppositore.

Si ricordi quello che è successo al giornalista ebreo americano Peter Beinart all’aeroporto Ben Gurion. Beinart, che ha pubblicamente manifestato il proprio appoggio al boicottaggio di prodotti delle colonie nella Cisgiordania occupata, è stato interrogato per un’ora sui suoi articoli di politica e sulle sue attività.

L’incontro è finito quando chi mi interrogava mi ha chiesto, chiaro e tondo, se stavo pensando di partecipare ad un’altra protesta,” ha scritto Beinart. “Ho risposto sinceramente: No. Con ciò sono stato rimandato alla sala d’attesa.” Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha fatto immediatamente marcia indietro ed ha sostenuto che l’interrogatorio di Beinart è stato un “errore amministrativo”.

Per gli ebrei americani e quelli britannici, questo è un vero campanello d’allarme. Questo è il cammino lungo cui Israele è guidato, e lungo cui Israele sta trascinando anche la diaspora ebraica. Schieratevi ora e resistete prima che sia troppo tardi. La lotta di Corbyn per la sua stessa integrità, reputazione e onestà è la lotta di tutti.

Se non lo fate, se ve ne tenete fuori, se state zitti, se sogghignate scientemente e non fate niente, potreste essere i prossimi.

– David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. È stato caporedattore degli esteri di “The Guardian” [giornale inglese di centro sinistra, ndtr.], ex editorialista associato degli esteri, per l’Europa, capo della redazione a Mosca, corrispondente dall’Europa e dall’Irlanda. È arrivato a “The Guardian” dallo “Scotsman”, dov’era corrispondente per l’educazione.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La crisi dell’UNRWA ha sia conseguenze che soluzioni

Essam Yousef

10 agosto 2018, Middle East Monitor

Dalla sua nascita nel 1949 la United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East [Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente] (UNRWA) è stata sul punto di andare in pezzi ad ogni momento a causa del suo legame con fattori politici, giuridici e umanitari relativi alla causa palestinese. La situazione politica ha spianato la strada affinché giocasse il ruolo di “carta di pressione politica”, non da ultimo perché riguarda direttamente le vite dei rifugiati del problema più complicato nella storia contemporanea.

L’agenzia è stata fondata in base alla risoluzione 302 dell’Assemblea Generale dell’ONU, connessa alla risoluzione 194 approvata un anno prima, relativa al diritto al ritorno dei profughi palestinesi alla loro terra. Quest’ultima risoluzione ha aggiunto una dimensione politica alla decisione di fondare l’UNRWA, soprattutto nei termini di un contributo positivo al ritorno dei rifugiati alle loro case, da cui erano stati espulsi con la forza – qualcuno l’ha chiamata una “pulizia etnica” – dalla creazione dello Stato di Israele.

Tra le raccomandazioni dell’Assemblea Generale dell’ONU c’era l’incarico all’UNRWA di dare assistenza ai rifugiati finché si fosse trovata una soluzione permanente alla loro causa. Questo appoggio includeva programmi di aiuto per educazione e salute, opportunità di lavoro, programmi di assistenza e servizi sociali.

Riguardo alle questioni politiche e giuridiche, l’Assemblea Generale ha affrontato periodicamente il problema dei rifugiati palestinesi come punto all’ordine del giorno. Inoltre ha frequentemente ripetuto e riconosciuto “l’inalienabile diritto dei rifugiati a tornare alle proprie case e al risarcimento per le proprietà perse a causa dell’occupazione e dell’espulsione.” Tuttavia la mancanza di ogni volontà internazionale di obbligare lo Stato israeliano occupante a mettere in pratica le condizioni delle risoluzioni dell’ONU ha fatto sì che sia tuttora un problema in sospeso in attesa di essere risolto, nonostante il fatto che la stessa adesione di Israele all’ONU fosse e rimanga condizionata al fatto di consentire ai rifugiati il ritorno alle proprie case.

Le condizioni in base alle quali l’agenzia è stata creata e i suoi limiti – dovuti al fatto che il suo finanziamento è quasi totalmente dipendente dalle donazioni volontarie da parte degli Stati membri dell’ONU, per la maggior parte dagli USA e dall’Europa, seguiti dai Paesi del Golfo come l’Arabia saudita – rendono più facile capire l’attuale riduzione dei servizi dell’UNRWA per i rifugiati. Le donazioni possono essere – e pare siano – negate per ragioni politiche, il che rende la vita ancora più difficile a milioni di rifugiati palestinesi che dipendono dall’UNRWA in Cisgiordania e nella Striscia Gaza occupate, in Giordania, in Siria e in Libano.

L’ONU non solo delibera e poi emana risoluzioni, ma controlla anche i meccanismi necessari per la loro messa in pratica tranne, a quanto pare, quando queste decisioni sono a favore del popolo palestinese e dei suoi legittimi diritti, compreso quello al ritorno. Ciò non a causa dell’egemonia militare di Israele in Medio Oriente. È molto più importante il fatto che il suo principale benefattore e protettore, gli USA, sia anche il principale Stato che muove i fili all’ONU, dove esercita un grado di influenza sproporzionato. L’America e i suoi alleati sono i veri garanti nel mantenere l’esistenza, l’espansione coloniale e la sicurezza di Israele.

Perché, allora, l’ONU ha creato l’UNRWA e continua così da decenni, se non ha mai avuto nessuna concreta intenzione o capacità di far tornare i rifugiati palestinesi alla loro terra, e quindi di porre fine alla necessità fondamentale dell’esistenza dell’agenzia? Credo che i Paesi occidentali, il cui senso di colpa dopo l’Olocausto porta a far finta di niente riguardo al disprezzo di Israele per leggi e convenzioni internazionali, temano anche lo scandalo che li sommergerebbe se i rifugiati palestinesi fossero lasciati a cavarsela da soli nei Paesi che li ospitano, per i quali rappresentano già un grave peso. Questo peso si accrescerebbe in modo notevolissimo se non ci fosse l’UNRWA a fornire una rete di protezione economica, medica ed educativa. In parte questo spiega anche perché l’Occidente ha creato e finanzia l’Autorità Nazionale Palestinese – che non ha assolutamente nessuna reale autorità – come entità pseudo-nazionale che agisce a favore delle autorità occupanti e non degli stessi palestinesi.

A ciò vanno aggiunti i tentativi degli Stati che controllano l’ONU di rinviare ogni serio tentativo di risolvere il problema dei rifugiati, concedendo a Israele altro tempo per creare “fatti sul terreno” – colonie illegali su terra palestinese rubata – e quindi predeterminare l’eventuale risultato del farsesco “processo di pace”. Come diretta conseguenza di ciò, le priorità sono passate dal consentire ai rifugiati di tornare alle loro case, come loro diritto, alla ricerca di modi per integrarli nei rispettivi Paesi che li ospitano. Sono anche state ventilate delle compensazioni per la perdita del diritto al ritorno. La mancanza di potere degli arabi nella regione ha consentito alle superpotenze di controllare l’UNRWA e la sua impostazione, perché queste ultime sono importanti Paesi donatori dell’agenzia e nessun programma di aiuto umanitario per i rifugiati può essere attuato senza il loro sostegno economico. L’aiuto degli arabi e dei musulmani all’UNRWA è estremamente ridotto rispetto a quello di USA ed Europa.

Ovviamente l’UNRWA è stata creata dopo la “dichiarazione d’indipendenza” dello Stato di Israele. La risoluzione che l’ha istituita era stata ideata per rafforzare la nuova situazione e include articoli che si riferiscono a “prendere misure efficaci il prima possibile per porre fine all’aiuto internazionale”. Ciò è risultato evidente dalle politiche che ha adottato, compreso il fatto di destinare la maggior parte del bilancio all’integrazione dei rifugiati in comunità diasporiche piuttosto che a fornire loro assistenza.

Tuttavia il tracollo dei servizi dell’UNRWA, iniziato anni fa, si è di recente accentuato, dato che il principale Stato donatore, gli USA, ha tagliato i propri finanziamenti all’agenzia. Nel 2017 gli USA donavano 157 milioni di dollari al bilancio del principale programma dell’UNRWA, ma quest’anno li hanno ridotti a soli 60 milioni. Ciò ha avuto un effetto disastroso sulla crisi umanitaria che i rifugiati devono affrontare nei territori palestinesi e nei campi della diaspora.

Il disastro umanitario ha iniziato a manifestarsi già quando l’UNRWA ha annunciato di non essere in grado di accettare studenti nelle sue scuole per l’anno scolastico 2018/19 a causa della mancanza di fondi sufficienti. Ciò è stato preceduto dalla sospensione del Programma Alimentare Mondiale di aiuto alimentare a 92.000 palestinesi in condizione di povertà estrema nella Striscia di Gaza; di nuovo, questo è dovuto alla mancanza di finanziamenti sufficienti da parte della comunità internazionale.

Una delle conseguenze della difficile situazione finanziaria dell’UNRWA è stato il licenziamento all’inizio di quest’anno di decine di dipendenti che lavoravano per l’agenzia in Giordania. Gran parte del bilancio dell’UNRWA è destinato ai salari, e molti dei suoi dipendenti sono loro stessi rifugiati, per cui le loro entrate sono una parte fondamentale dell’economia dei rifugiati. La riduzione del personale in Giordania ha colpito gli addetti alle pulizie ed i custodi di scuole e centri di salute gestiti dall’UNRWA in ogni campo di rifugiati palestinesi – sono 10 – nel Regno hascemita, che è la patria “temporanea” di 2 milioni di rifugiati palestinesi registrati.

Recentemente l’agenzia ha licenziato anche 1.000 dipendenti nella Striscia di Gaza. Secondo gli stessi dati dell’UNRWA, essa si appresterebbe a licenziare altro personale se la crisi finanziaria dovesse continuare, oltre al taglio di programmi regolari come i campi estivi ed altre attività per i bambini.

Fin dall’elezione di Donald Trump a presidente, Washington ha adottato un atteggiamento estremamente ostile verso l’UNRWA. La natura dei cambiamenti riguardanti l’agenzia riflette le politiche dell’amministrazione Trump in merito ai rifugiati palestinesi e al complessivo conflitto arabo-israeliano in Medio Oriente. In generale, la nuova posizione degli USA è persino più allineata con la posizione e gli interessi di Israele di prima, mentre quest’ultimo vorrebbe che l’UNRWA venisse chiusa per cancellare del tutto i rifugiati palestinesi dall’agenda politica internazionale.

Recentemente la posizione dell’America è stata espressa esplicitamente nell’entusiasmo dell’amministrazione Trump verso Israele e il suo espansionismo colonialista a spese del popolo della Palestina e della sua causa. La questione dei rifugiati è stata tenuta ben lontana da quelli che sono stati presentati come “negoziati”, ma che in realtà sono semplicemente il fatto che ai palestinesi viene detto cosa fare, o altrimenti… In ogni caso, “o altrimenti” è in genere il risultato finale. Siamo ora nella fase in cui gli USA dicono che l’UNRWA è “dannosa per i rifugiati palestinesi e che il suo mandato è controproducente.” Davvero sorprendente.

È ingenuo fraintendere la natura della situazione che devono affrontare 5.3 milioni di rifugiati palestinesi sparsi tra Cisgiordania, Striscia di Gaza, Giordania, Siria e Libano. Hanno crescenti necessità relative alla salute, all’educazione e ad altri servizi mentre sappiamo tutti benissimo il livello dei problemi economici e di sicurezza dei Paesi ospitanti.

È difficile immaginare come centinaia di migliaia di famiglie private della rete di protezione dell’UNRWA potranno sopravvivere. Quale destino attende le decine di migliaia di dipendenti dell’UNRWA che si troveranno senza lavoro e senza fonti di reddito?

Non ho dubbi che le conseguenze politiche e di instabilità di una simile impennata di miseria e disillusione nel processo di pace siano state prese in considerazione nelle capitali regionali e in Occidente. Il Medio Oriente è già nel caos, ma può andare ancora peggio, a meno che non si faccia qualcosa per arginare i tagli ai finanziamenti dell’UNRWA. Lo spettro di un incremento dell’estremismo e del terrorismo è molto concreto, e la causa non saranno la religione o la radicalizzazione, ma la scarsa disponibilità dell’Occidente – guidato dall’America – a finanziare in modo adeguato l’UNRWA e a fare sforzi sinceri per risolvere il problema palestinese in base alla volontà espressa dalla comunità internazionale attraverso le risoluzioni dell’ONU.

I funzionari dell’UNRWA sono ben consapevoli del cupo panorama che gli si sta profilando ed hanno lanciato appelli e campagne per ridurre il deficit di bilancio dell’agenzia. Sanno più di chiunque altro – con la possibile eccezione degli stessi rifugiati – quanto sia importante che l’UNRWA sia in grado di rispettare i suoi obblighi umanitari, morali e giuridici per milioni di palestinesi. I Paesi arabi e islamici devono dimostrarsi all’altezza della situazione e prendere le misure necessarie per evitare un disastro, destinando all’UNRWA donazioni che siano al livello delle dimensioni, della complessità e della natura della crisi dei rifugiati.

Le organizzazioni umanitarie e di beneficienza nel mondo arabo e islamico possono anche giocare un ruolo chiave intervenendo nei settori in cui l’UNRWA non è in grado di portare aiuto. Possono contribuire a rafforzare la rete di sicurezza sociale nei campi profughi, soprattutto in più di 700 scuole dell’UNRWA responsabili di mezzo milione di alunni palestinesi. Anche i circa 150 importanti centri di salute possono essere sostenuti dal volontariato, così come progetti di aiuto, sistemi di micro-credito per promuovere l’economia e aiuto umanitario. Tuttavia per fare concretamente ciò i governi devono smettere di politicizzare l’aiuto umanitario ed alleggerire la pressione sugli enti di beneficienza, soprattutto quelli che operano in aree ad alto rischio, come i territori palestinesi occupati.

In pratica è necessario preparare alternative a lungo termine per la situazione di crisi economica e politica dell’UNRWA. Il progetto di una “Organizzazione Araba e Islamica”, per esempio, potrebbe essere responsabile delle questioni politiche ed amministrative dei rifugiati palestinesi, compresa l’erogazione di aiuto finanziario in ogni settore, come educazioni e salute, così come di supporto umanitario, evitando quindi che Paesi donatori controllino e politicizzino l’aiuto che forniscono ai palestinesi e ai Paesi che ospitano rifugiati.

Peraltro non dobbiamo ignorare il sostegno politico necessario a proteggere i punti fermi palestinesi, soprattutto il diritto al ritorno dei rifugiati. Dobbiamo essere in grado di sfidare gli schemi che intendono annientare la causa palestinese. Sarà una priorità di una simile “Organizzazione Araba e Islamica” essere basata sulla religione, con una fede ferma e duratura nei diritti del popolo palestinese, come il diritto al ritorno dei rifugiati ed al risarcimento, oltre ad appoggiare il loro diritto a costruire uno Stato indipendente con Gerusalemme come capitale.

Se c’è la volontà politica ciò non è irragionevole, perché il sostegno popolare sta solo aspettando che si prenda una simile iniziativa. L’UNRWA e il popolo della Palestina hanno dovuto dipendere per troppo tempo da Stati che hanno trasformato la crisi umanitaria in un rimpallo di responsabilità politica; è tempo che ciò finisca. Gli USA e i loro alleati devono smettere di giocare con la vita della gente in questo modo pernicioso; anche le vite dei palestinesi sono importanti [riferimento al movimento per i diritti degli afroamericani “Black lives matter”, ndtr.].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)