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Israele sotto tiro per gli attacchi a giornalisti palestinesi ed agenzie di informazione

30 luglio 2017, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Nei giorni scorsi le forze israeliane sono state oggetto di una severa condanna per attacchi a giornalisti palestinesi e agenzie di informazione, in seguito ad un’incursione nella notte di sabato contro una società di produzione mediatica a Ramallah ed a molteplici attacchi a giornalisti che informavano sulle proteste di massa nei territori palestinesi occupati contro le misure di sicurezza, ora ritirate, alla Moschea di Al-Aqsa.

In un raid all’alba di sabato le forze israeliane hanno fatto irruzione nella sede di PalMedia, una società di produzione nel settore dei media, che fornisce servizi di trasmissione a parecchi organi di informazione, tra cui Russia Today, al-Mayadeen, al-Manar e al-Quds News, hanno messo a soqquadro gli uffici e distrutto attrezzature, con l’accusa di presunta “istigazione”.

Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha denunciato il raid in una dichiarazione in cui ha affermato che “le politiche israeliane di violenza e repressione sono un palese tentativo di spezzare la risolutezza del popolo palestinese” e configurano una violazione delle leggi internazionali sui diritti umani relativamente alla libertà di espressione.

Israele si sta chiaramente impegnando in una costante politica che prende di mira deliberatamente i mezzi di comunicazione ed i giornalisti palestinesi che lavorano con coraggio per rappresentare la narrazione umana palestinese e che informano sull’ occupazione militare israeliana e le sue permanenti politiche di apartheid e di pulizia etnica,” ha detto.

Queste politiche israeliane di violenza e repressione, come anche i recenti attacchi contro esponenti della stampa palestinese all’interno e intorno a Gerusalemme est occupata, sono un palese tentativo di spezzare la tenacia del popolo palestinese.”

Ha invitato la comunità internazionale ad agire immediatamente per “frenare la continua violazione da parte di Israele delle leggi e delle convenzioni internazionali e per sostenere i nostri sforzi nonviolenti e diplomatici per chiedere giustizia e protezione per il popolo palestinese in tutte le sedi giuridiche internazionali.”

Anche il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) domenica ha rilasciato una dichiarazione in risposta al raid contro PalMedia ed a ciò che ha definito un palese incremento degli attacchi contro giornalisti “che svolgono il proprio lavoro informando circa i sit-in pacifici organizzati da abitanti di Gerusalemme.”

La grande quantità di violenti attacchi indiscriminati contro media e giornalisti conferma la persistenza delle violazioni e dell’aggressione dell’occupazione israeliana alle libertà dei mezzi di comunicazione con diversi mezzi violenti”, ha dichiarato l’ONG con sede a Ramallah.

Mada considera questi incidenti come mezzi per impedire che si diffonda al resto del mondo la vera immagine di ciò che sta avvenendo sul terreno e le politiche messe in atto contro i palestinesi, ed inoltre insiste sull’urgente necessità di perseguire i responsabili di tali attacchi, che sono tuttora impuniti.”

Mada ha affermato che, nelle ultime due settimane, ha osservato decine di violazioni commesse dalle forze israeliane nei confronti di giornalisti a Gerusalemme.

Questi attacchi erano di diverso tipo, ma comprendevano arresti, pestaggi, minacce, confisca e distruzione di attrezzature, impedimento di trasmettere gli avvenimenti, interrogatori ed il fatto di prendere di mira giornalisti con pallottole vere e lacrimogeni.”

Il 22 luglio la corrispondente televisiva di Ma’an Mirma al-Atrash è stata colpita da un candelotto di gas lacrimogeno e lievemente ferita al viso durante una protesta nella città di Betlemme, in Cisgiordania.

Mada ha sottolineato il violento arresto, filmato, del fotogiornalista Fayez Abu Rmeila durante una protesta il 25 luglio, aggiungendo che egli è stato sottoposto a due interrogatori dopo che è stato spinto e picchiato da un poliziotto che gli ha anche confiscato la carta di identità e la memory card.

Abu Rmeila ha detto a Mada che “a causa di una disputa insorta tra me ed il poliziotto, lui mi ha aggredito e minacciato di spaccarmi la testa se avessi parlato in malo modo.” In seguito ha detto di essere stato nuovamente picchiato, insultato ed ingiuriato nel centro di detenzione.

Il rapporto di Mada elenca almeno altri 11 giornalisti, inviati di organi locali ed internazionali come la Reuters, aggrediti a Gerusalemme da poliziotti israeliani.

Anche l’Ong “Reporter Senza Frontiere” ha condannato gli ostacoli posti dalle forze israeliane alla copertura mediatica nel corso della crisi di Al-Aqsa, azione che era già stata ampiamente denunciata dal sindacato palestinese dei giornalisti, dal ministero dell’Informazione palestinese, dal “Comitato di Protezione dei Giornalisti” e da altri.

In una dichiarazione rilasciata venerdì, l’organizzazione internazionale per la libertà di stampa ha accusato le forze israeliane di fare uso di “intimidazione, divieto di accesso, violenza ed arresti per limitare o impedire la copertura mediatica delle manifestazioni e degli scontri scatenati dall’introduzione di ulteriori misure di sicurezza intorno alla Moschea di Al-Aqsa nella città vecchia di Gerusalemme.”

In seguito ad un precedente raid contro l’ufficio di PalMedia tre anni fa, “Reporter Senza Frontiere” ha affermato che il raid “si è aggiunto al lungo elenco di violazioni dei diritti dei mezzi di informazione palestinesi da parte delle forze di sicurezza israeliane, attraverso continue minacce, arresti ed operazioni militari.”

Israele è stato accusato di etichettare qualunque mezzo di informazione critico nei confronti di Israele e delle sue politiche nelle comunità palestinesi come “istigazione”, allo scopo di reprimere le critiche alle politiche discriminatorie di Israele, alla sua perdurante occupazione della Cisgiordania giunta al suo cinquantesimo anno e al suo decennale assedio della Striscia di Gaza, che ha precipitato quel territorio in una interminabile crisi umanitaria.

Nel bel mezzo delle proteste a Gerusalemme, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha anche accusato la rete televisiva satellitare Al Jazeera, con sede in Qatar, di aver “incitato deliberatamente alla violenza” ad Al-Aqsa attraverso la sua informazione sugli eventi, ed ha chiesto che gli organi competenti israeliani chiudano i suoi uffici in Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Giornalisti del NYT, della Reuter e dell’Economist autocensurano i propri articoli da Israele in modo da non essere “brutalmente presi di mira”- John Lyons

Philip Weiss – 26 luglio 2017,Mondoweiss

Negli USA la lobby israeliana viene citata di rado in modo critico sui media più importanti. Ma controllate questo brano del programma politico ” Drum ” [“Tamburo” in inglese] della ABC australiana di due giorni fa: i corrispondenti, veterani del Medio Oriente, Antony Loewenstein e John Lyons descrivono le incessanti pressioni da parte di Israele e della sua lobby su giornalisti che sono critici nei confronti di Israele.

La conduttrice del programma Ellen Fanning ha notato che nel nuovo libro di Lyons (“Balcony Over Jerusalem: A Middle East Memoir” [ “Balcone su Gerusalemme: ricordi del Medio Oriente”]) egli ricorda di essersi incontrato con un importante corrispondente dell’agenzia di stampa France-Presse e di avergli chiesto: “Quanti corrispondenti dall’estero si autocensurano? “

Lyons:

“Ha risposto: ‘Tutti’, e lui è uno dei più duri capi redazione in circolazione. Come parte del libro ho intervistato The New York Times, the Economist, Reuters, AFP, ed ho scoperto una caratteristica comune. La Reuters [agenzia di stampa inglese, ndt.] ha persino proprie parole specifiche che si possono utilizzare per non far arrabbiare gli israeliani. Sono andato là con l’idea che se fossi stato a Washington e a New York avrei raccontato quello che vedevo. Ma ogni volta che avessi voluto parlare di colonie, qualcosa di reale, sarei stato preso di mira, in quanto giornalista.”

“Se racconti la verità su quello che vedi davanti a te in Israele e in Cisgiordania, sarai brutalmente preso di mira.”

Lyons è un giornalista di grande esperienza. E’ stato corrispondente per sei anni da Gerusalemme per “The Australian” [principale quotidiano australiano, ndt.] ed ora è co- direttore editoriale del giornale.

Gli attacchi non vengono solo da Israele, ma dalla lobby filo-israeliana globale. Lyons:

“Beh, nel libro ho scritto un capitolo intitolato ‘La lobby”, che riguarda essenzialmente la lobby australiana, prende in considerazione i numerosi viaggi che ogni sorta di politici e giornalisti e tutti quanti fanno. Incessanti carovane che attraversano Gerusalemme, che è una parte ridotta di ciò…Ma posso dire…in base alla mia esperienza personale nell’ “Autralian”, che è un giornale molto filo-israeliano, eppure i miei direttori, la pressione su di loro, di cui hanno parlato per il libro – la pressione c’è, è chiaro che non sono contenti di quello che hai fatto, e delle infinite lamentele –

Due o tre anni fa ho fatto un reportage per “Four Corners” [“Quattro angoli”, importante programma televisivo australiano di attualità politica, ndt.]. E allora ho dovuto difenderlo per mesi e mesi. Alla fine ci siamo difesi da ogni obiezione…Ancor prima che “Four Corners” andasse in onda, uno dei gruppi di Melbourne ha fatto circolare: ‘Questo è il link per le proteste, clicca qui, e invia una protesta automatica alla ABC’.”

Per cui i viaggi sono solo la parte “delicata” di ciò!”

Ecco il reportage di “Four Corners” del 2014: documenta il fatto che l’esercito israeliano stava prendendo di mira ragazzini palestinesi per arrestarli e incarcerarli e “minacciando i bambini di violentarli”, nel tentativo di rendere insopportabile la vita ai palestinesi in Cisgiordania. Queste pratiche ovviamente non sono terminate ( e ricordate che su “60 minuti” [programma televisivo statunitense di notizie della CBS, ndt.] cinque anni fa il defunto Bob Simon [giornalista americano della rete televisiva CBS, ndt.] ha protestato contro Michael Oren [politico, diplomatico, scrittore e storico israeliano nato negli USA, dirigente del partito centrista “Kulanu”, ndt.] perché si era rivolto ai suoi superiori nel tentativo di interferire sul suo reportage a proposito dei cristiani che lasciano la Palestina).

Anche Antony Loewenstein è un giornalista con molta esperienza. Ha pubblicato vari libri sulla Palestina e su altre questioni internazionali, e recentemente ha concluso una missione di un anno e mezzo a Gerusalemme.

Egli afferma:

“Quello che dice John è vero. Ho scritto di questo per 15 anni. Il modo in cui spesso funziona è che un giornalista che è critico – ebreo, non-ebreo, musulmano, palestinese, cristiano, qualunque cosa sia – se è critico contro le colonie, contro l’occupazione, contro il governo israeliano, contro il modo in cui la lobby israeliana in Australia, secondo me in modo dannoso e disonesto, fa pressione sul sistema dei media, ABC ed altri, e sui governi, sarà preso di mira in privato e in pubblico.”

Cosa dire della lobby palestinese? Chiede Fanning. Loewenstein:

“Esiste una lobby, è ridotta ma in crescita. Ha influenza ma è relativamente insignificante. E’ più che altro il modo in cui penso funzioni il potere politico in questo Paese.

Chiunque passi del tempo in Israele o in Cisgiordania o a Gaza, che, come dice John, sono state occupate per 50 anni…Secondo me ora è permanente. Ci dobbiamo chiedere perché così tanta gente nei media e nelle elite politiche rifiuta di parlare della realtà. Un’occupazione permanente è un orrore…

Occorre essere molto più sinceri con i nostri politici ed essere giornalisti che non cedono alle intimidazioni della lobby israeliana, cosa che succede continuamente.”

Però Loewenstein in seguito osserva che l’opinione pubblica si è spostata in modo evidente, nonostante i media siano decisamente a favore di Israele.

E conclude:

“La lobby ha il diritto di esistere. La questione è che gruppi come AIJAC (Australia/Israel & Jewish Affairs Council [Consiglio Australia/Israele e delle questioni ebraiche]) sono così bellicosi e di estrema destra, stanno appoggiando le politiche del governo israeliano che sono a favore delle colonie, dell’occupazione, anti-arabe e profondamente razziste.”

La lobby israeliana in Australia ha già attaccato Loewenstein per i suoi commenti durante il programma.

Non c’è neanche bisogno di dire che la lobby israeliana continuerà ad esercitare un potere spropositato finché giornalisti e politici si rifiuteranno di parlarne apertamente. Cosa che non sta succedendo negli USA.

Grazie ad Ofer Neiman [probabilmente si tratta di uno dei leader del movimento BDS israeliano “Boycott from Within”, “Boicottaggio dall’interno”, ndt.]

(traduzione di Amedeo Rossi)




Quando Israele minaccia i palestinesi di una nuova Nakba, minaccia sé stesso di estinzione

Bradley Burston, 25 luglio 2017 ,Haaretz

C’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato o neanche riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno.

Che cosa ci dice riguardo ad Israele il fatto che un importante ministro del governo, che è anche una pappamolla, ritiene necessario, in un momento di tensioni al limite della guerra con i palestinesi, andare alla televisione israeliana e su Facebook a diffondere un messaggio di puro incitamento all’uso delle armi?

Il ministro della Cooperazione Regionale Tzachi Hanegbi, un alleato chiave di Netanyahu che spesso proclama e difende le politiche del primo ministro, è stato per lungo tempo considerato un elemento relativamente moderato nel governo più ferocemente oltranzista nella storia della Nazione.

Eppure, questa settimana, quando Israele si è trovato di fronte ad esplosioni di violenza al suo interno e con i suoi vicini, Hanegbi ha usato uno dei termini più incendiari per avvertire i palestinesi delle possibili conseguenze dei brutali omicidi di tre israeliani, un settantenne e due dei suoi figli adulti, avvenuti sabato sera:

Ecco come inizia una ‘Nakba’”, ha minacciato Hanegbi il giorno dopo sulla sua pagina Facebook.

Esattamente così”, ha scritto, citando il termine arabo per “catastrofe”, che è diventato sinonimo dell’esperienza palestinese della guerra del 1948, in cui centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono o furono cacciati dalle forze israeliane dalle loro case nella Terra Santa.

Ricordatevi il ‘48”, ha poi scritto. La guerra, che ha portato alla nascita dello Stato di Israele, ha creato anche circa settecento mila rifugiati palestinesi. La Nakba è un evento profondamente traumatico per i palestinesi. Il dolore e la rabbia che si accompagnano alla Nakba sono stati indirettamente riconosciuti dal governo Netanyahu nei suoi sforzi di impedire che la narrazione palestinese fosse oggetto di insegnamento nelle scuole arabe in Israele.

Ricordatevi il ‘67”, ha continuato. Centinaia di migliaia di palestinesi, alcuni dei quali profughi della guerra del 1948, furono sfollati dalla guerra dei Sei Giorni, in cui le forze israeliane occuparono Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza.

Hanegbi, che in una precedente intervista nello stesso giorno ha detto che la violenza non stava conducendo ad una terza intifada, ma ad una terza Nakba, ha ribadito il concetto nel post su Facebook: “Quando vorrete fermarla, sarà già stata persa. Sarà già avvenuta la terza ‘Nakba’.”

L’attento uso delle virgolette da parte di Hanegbi per modificare – più precisamente, per attenuare – il termine Nakba non è certamente sfuggito ai lettori palestinesi. Né lo è stato il senso della sua conclusione:

Per due volte avete pagato il prezzo della follia dei vostri dirigenti. Non provocateci nuovamente, perché il risultato non sarà diverso. Siete stati avvertiti!”

Il post di Hanegbi è arrivato in un momento in cui la rabbia covata sotto la cenere dei social media, scaturita da quel vulcano sacro nel cuore di Gerusalemme, stava infiammando gli animi di mezzo mondo.

Arriva anche nel periodo in cui i dirigenti israeliani, da Benjamin Netanyahu in giù, stanno dedicando un’enorme quantità del loro prezioso tempo per parlare di istigazione [all’odio].

Parlano di come l’istigazione può diventare armata, trasformarsi in atti di assassinio, di terrore, di escalation, di intransigenza, di vendetta e di guerra. E non mancano loro gli esempi, dal momento che i social media arabi diffondono innumerevoli esempi di minacce terroristiche e ignobili caricature antisemite.

Ma c’è una vera e propria operazione di istigazione che le autorità israeliane non hanno affrontato e neppure riconosciuto per decenni. E’ il violento discorso di odio che inizia dall’interno. Attacchi verbali vergognosamente fanatici contro i palestinesi. Dichiarazioni di dirigenti israeliani e di rabbini compiacenti che descrivono tutti gli arabi come bestie feroci, esseri subumani, una razza di terroristi sanguinari.

Incoraggiate e appoggiate da mezzi di informazione condiscendenti e scandalistici, le deboli e fragili coalizioni delle politiche israeliane non hanno fatto che accelerare l’istigazione israeliana, mentre i politici fanno a gara su tutti i social media per mostrare quanto può essere distruttiva la loro volontà di rendere le cose sempre più insopportabili.

E così è accaduto che, invece di operare per disinnescare l’atmosfera esplosiva dell’ultima settimana, i politici di estrema destra si sono avvicendati nelle trasmissioni televisive per promuovere misure di ulteriore privazione del diritto dei palestinesi di pregare alla moschea di Al-Aqsa, premendo al tempo stesso per dare via libera agli ebrei per pregare sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee per i musulmani, ndt.], che è parte dello stesso complesso. In toni che potevano essere seri ma anche non esserlo, il deputato di estrema destra Bezalel Smotrick ha suggerito in un tweet che dovrebbe essere immediatamente costruita una sinagoga sul Monte.

Quando gli attivisti musulmani hanno accusato Israele di pianificare di impadronirsi del sito a proprio uso esclusivo, gli attivisti ebrei sono apparsi fin troppo felici di confermare le accuse.

Al tempo stesso, quando alcuni ministri del governo hanno chiesto l’introduzione della pena di morte, un deputato del partito di Netanyahu, il Likud, li ha superati.

Voglio dire la verità senza sembrare, dio non voglia, troppo estremista”, ha detto il deputato Oren Hazan in un video postato nel weekend.

Ma se fosse dipeso da me, ieri notte sarei andato dalla famiglia dell’assassino, avrei preso lui e i suoi familiari e li avrei ammazzati tutti. Sì, proprio così. Senza alcun rimorso. Li avrei ammazzati.”  

Cosa ci dice questo su Israele? Che se vuoi che la tua voce sia ascoltata, puoi dire – impunemente – “Vedrò la demolizione delle vostre case e la pena di morte per voi, ed aggiungerò l’esecuzione di massa di civili.”

Che cosa ci dice questo sui leaders israeliani? Che per mantenere l’illusione di essere più duri di chiunque altro, possono fare minacce che arrivano fino all’ espulsione di massa e alla pulizia etnica – una nuova Nakba. Proprio il genere di minacce che in un mondo come il nostro possono alla fine offrire il pretesto per minacciare lo stesso Israele di estinzione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La crisi del Monte del Tempio: il suo timore dei rivali politici ha portato Netanyahu a commettere un grave errore

Barak Ravid – 23 luglio 2017, Haaretz

Netanyahu sa di cosa c’è bisogno per affrontare le attuali tensioni, ma ha votato nel modo opposto; senza una controparte di sinistra da incolpare, è bloccato tra l’incudine e il martello.

Subito dopo l’attacco al complesso del Monte del Tempio [compiuto da tre palestinesi con cittadinanza israeliana armati che hanno ucciso due poliziotti prima di essere a loro volta uccisi, ndt.] una settimana fa, il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva capito che questo incidente conteneva i semi di un’esplosione più grande. Dopotutto ha alle sue spalle la saggezza dell’esperienza. Netanyahu ricorda bene quello che è avvenuto durante il suo primo mandato in seguito all’apertura dei tunnel del muro occidentale nel 1996, dopo la passeggiata di Ariel Sharon sulla spianata nel 2000 e gli avvenimenti dell’estate 2015, dopo che anche il membro del suo governo Uri Ariel [del partito di estrema destra “Casa ebraica”, ndt] vi si è recato.

Netanyahu ha risposto con cautela calcolata, nonché intavolando insolitamente una conversazione telefonica con il presidente palestinese Mahmoud Abbas per prevenire insieme un’escalation.

Data la sua condotta responsabile nelle prime ore dopo l’aggressione, è sconcertante come 24 ore più tardi abbia commesso un errore così grave con la precipitosa decisione dello scorso sabato di installare metal detector in tutti gli ingressi al complesso [la Spianata delle Moschee, ndt.]. Dopo 24 ore in cui in apparenza ha impedito un’escalation, questa decisione ha invertito la tendenza e gravemente accentuato le tensioni, portando all’esplosione scoppiata durante il fine settimana.

La decisione di installare metal detector è stata presa durante una riunione telefonica di 30 minuti che Netanyahu ha convocato poco prima di prendere l’aereo per una visita di cinque giorni a Budapest e a Parigi. Erano collegati in linea il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, quello della Sicurezza Pubblica Erdan e importanti membri dell’esercito israeliano, dello Shin Bet [il servizio segreto interno israeliano, ndt.] e della polizia. La questione dei metal detector è stata brevemente citata, ma non c’è stata una seria discussione. Se qualcuno dei partecipanti pensava che fosse un errore, non l’ha detto. Sono passati ad altro.

L’errore di Netanyahu non è stato solo nell’installazione dei metal detector, ma soprattutto nel processo decisionale che l’ha preceduta. Benché sapesse benissimo che il Monte del Tempio [definizione ebraica della Spianata delle Moschee, ndt.] era il punto più esplosivo del Medio Oriente, se non del pianeta, quella sera ha deciso di occuparsi di una questione complessa e strategica in base a considerazioni tattiche relative alla sicurezza. Ogni complessità è stata ignorata e il problema è stato ridotto ai metal detector.

L’errore di calcolo di Netanyahu in questa discussione e nel collocare quei metal detector lo ha spinto in un vicolo cieco. Quando è emerso che questa iniziativa stava incontrando una forte opposizione, il governo è rimasto senza valide soluzioni, preso tra l’incudine e il martello. Se li avesse tolti, sarebbe stato interpretato come un segno di debolezza, mostrando di cedere alle minacce e ammettendo di non avere una reale sovranità sul Monte del Tempio. Se li avesse lasciati al loro posto, si sarebbe trovato tra una violenta esplosione a Gerusalemme e in Cisgiordania e una crisi con tutto il mondo musulmano.

Nell’ultima settimana Netanyahu ha parlato in pubblico in varie occasioni, esprimendo la sua preoccupazione per l’escalation intorno al Monte del Tempio o persino per il rischio di una possibile guerra di religione. Per alcuni giorni è stato propenso a togliere i metal detector, ma durante la riunione di governo alla fine ha votato per mantenerli. La stessa cosa è avvenuta nel voto sull’esproprio dei proprietari privati palestinesi, la cosiddetta “Legge regolatoria” [che consente a Israele di espropriare terreni privati palestinesi a favore dei coloni, ndt.]. Lo stesso Netanyahu ha avvertito che questa legge avrebbe portato Israele davanti alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, anche se alla fine ha votato a favore.

In entrambi i casi la ragione è la stessa – il suo timore nei confronti dei rivali politici alla sua destra. Netanyahu si è ritrovato in un governo senza un oppositore di sinistra come Ehud Barak, Tzipi Livni o Moshe Ya’alon su cui contare per bloccare le iniziative pericolose e quindi è stato preso di mira dalla lobby dei coloni nel governo, nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] e nei media.

Con le sue stesse mani e per via delle sue paure, Netanyahu ha creato un contesto di lavoro nel governo – messo insieme per garantire la sua sopravvivenza politica – che non gli consente di prendere decisioni ragionevoli in materia di sicurezza nazionale. Assurdamente, il ministro della Difesa ha votato contro le raccomandazioni delle istituzioni della difesa. Teoricamente Netanyahu sapeva quale fosse la mossa corretta riguardo al Monte del Tempio, ma le decisioni prese sono state l’esatto contrario. Nella riunione di governo di domenica Netanyahu potrebbe rimediare. Speriamo che non sia troppo tardi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ecco perché gli Stati arabi sono palesemente silenziosi sulla crisi del Monte del Tempio

Zvi Bar’el – 23 luglio 2017, Haaretz

Le tensioni sul luogo sacro potrebbero spingere gli Stati arabi in rotta di collisione con i movimenti islamici, ma la calma dipende dalla rimozione dei metal detector israeliani dal Monte.

Quando il primo ministro Benjamin Netanyahu si è impegnato in discorsi vanagloriosi in merito agli incontri con leader arabi – compresa la recente indiscrezione su un incontro segreto di cinque anni fa con il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti – sembrava ignorasse le forze islamiche che stavano attente a queste iniziative diplomatiche. Le recenti tensioni sul Monte del Tempio [denominazione israeliana della Spianata delle Moschee, ndt.] di Gerusalemme ha messo in chiaro che ogni mossa diplomatica o per la sicurezza è anche immediatamente misurata su una prospettiva che trascende l’importanza religiosa dei luoghi santi.

La moschea di Al-Aqsa sul Monte del Tempio, come la Kaaba alla Mecca e la Tomba dei Patriarchi [denominazione israeliana della moschea di Ibrahim, ndt.] a Hebron, è un luogo islamico inseparabile dai problemi nodali del conflitto israelo-palestinese. Sono luoghi che, se danneggiati, provocano nell’opinione pubblica sdegno che può spingere i regimi negli Stati arabi ed in altri Stati musulmani in rotta di collisione con i movimenti islamici dei rispettivi Paesi.

Ciò li spinge anche in conflitto con un’opinione pubblica musulmana sensibile, che può delegittimare rapporti più stretti tra Israele e Paesi arabi e con un’opinione pubblica araba laica, che vede gli avvenimenti come un tentativo deliberato da parte di Israele di appropriarsi dei siti palestinesi.

Il riconoscimento del potere del popolo e la minaccia che l’opinione pubblica araba rappresenta sono uno dei più importanti prodotti emersi dalle Primavere arabe, soprattutto quando ciò riguarda Israele ed i luoghi santi. Queste questioni costituiscono un ampio, anche se forse l’unico, comun denominatore che questi settori dell’opinione pubblica condividono.

Finora in questi Paesi la rabbia araba e musulmana non si è tradotta in dimostrazioni pubbliche nella forma di manifestazioni di massa o in articoli aspramente critici. Gli avvenimenti sul Monte del Tempio della scorsa settimana o simili hanno già meritato titoli in prima pagina nella maggior parte del mondo arabo, ma finora – forse per la prima volta – non si sono viste le consuete proteste anti-israeliane nelle strade del Cairo, di Amman e del Marocco.

Come previsto, il sito web della Fratellanza Musulmana ha accusato il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi di aver capitolato davanti ad Israele. Un sito web ha parlato del presidente egiziano e dei “sionisti” come forze alleate. In un’ intervista con un sito egiziano, un membro del Comitato Popolare per la Difesa del Sinai, Ahmed Samah al-Idarusi, ha lamentato che, rispetto al passato, “ora riscontriamo un silenzio diplomatico e culturale egiziano tale che neppure le elite sono capaci di rilasciare un solo comunicato congiunto di condanna.”

Lo stesso Sisi ha chiesto ad Israele di agire immediatamente per calmare le tensioni riguardo al Monte del Tempio. Ma la sua retorica è stata molto più tenue che nel settembre 2015, quando ha accusato Israele di dissacrare sfacciatamente la santità del luogo.

Secondo informazioni dall’Egitto, il ministro delle Dotazioni Religiose del Paese, Mukhtar Gumaa, ha chiesto ai predicatori delle moschee di evitare di fare commenti sulla moschea di Al-Aqsa nei loro sermoni del venerdì e di parlare invece solo di come trattare bene i turisti stranieri in Egitto.

L’Arabia saudita, il cui re, Salman, ha fatto pressione sugli Stati uniti perché spingano Israele a riaprire il complesso del Monte del Tempio ai fedeli musulmani, si è astenuta dal fare dichiarazioni in materia – e il silenzio non è stato solo da parte di importanti dirigenti sauditi. E’ stato anche impossibile trovare notizie dettagliate nella stampa saudita di venerdì sulla sequenza di avvenimenti sul Monte del Tempio.

Solo un evento mediatico è diventato virale, ed è stato quando uno spettatore di un programma trasmesso dalla televisione in lingua araba con sede a Londra Al-Hiwar ha chiamato la stazione ed ha dichiarato: “Sono contrario ad una vittoria di Al-Aqsa, perché una vittoria di Al-Aqsa sarebbe una vittoria di Hamas e del Qatar!”

Può darsi che questo spettatore rappresenti una nuova opinione, considerando che l’attuale conflitto tra l’Arabia saudita e il Qatar e Hamas è ciò che determinerà la natura della risposta araba. Da questo punto di vista, finché il Qatar verrà considerato un sostenitore della Fratellanza musulmana e di Hamas, e finché gli eventi sul Monte del Tempio saranno attribuiti ad Hamas, i disaccordi tra arabi giocheranno un ruolo importante nella politica araba.

Ma anche se questa opinione non può essere ignorata, ciò non significa che sarà possibile per questi Stati mettere un freno alle rivolte dell’opinione pubblica musulmana, che obbligherà i regimi arabi ad unirsi nella battaglia per il loro luogo sacro se vi continueranno violenti scontri.

Israele, che si sta scambiando segnali con l’Arabia saudita e sta portando avanti precipitose consultazioni con il re giordano Abdullah e il presidente egiziano Sisi, sta ora cercando una soluzione a doppio taglio: affrontare la sicurezza sul Monte del Tempio e gestire la sua perdita di prestigio. Può prevedere di ottenere una simile soluzione se decide di togliere i metal detector che sono stati piazzati dopo l’attacco del 14 luglio sul Monte del Tempio, che ha ucciso due poliziotti israeliani.

Secondo fonti giordane, le soluzioni che sono state discusse finora non hanno prodotto un accordo. Una proposta è stata che i metal detector siano utilizzati da poliziotti giordani in borghese; un’altra che gli attuali metal detector che si dovrebbero attraversare siano sostituititi da dispositivi manuali, oppure che l’operazione di controllo con i metal detector sia gestita da una forza di polizia congiunta israeliana-palestinese-giordana.

Il problema è che ognuna di queste proposte danneggia la reputazione di Israele, che sta pretendendo la sovranità totale quando si tratta degli ingressi al Monte, o la richiesta dei palestinesi, che per il momento stanno rifiutando ogni coinvolgimento israeliano sul Monte del Tempio e sugli ingressi ad esso.

La dichiarazione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, secondo cui l’ANP sta interrompendo i contatti con Israele, potrebbe non aiutare, ma ciò non impedisce uno scambio di segnali con i funzionari della sicurezza palestinese nel contesto della cooperazione per la sicurezza o uno scambio di idee tra Israele, i palestinesi e i giordani.

Sabato un dirigente giordano ha detto ad Haaretz che il re Abdullah comprende la necessità di controlli per la sicurezza, ma ha aggiunto: “Quando la questione viene percepita come una lotta per il prestigio tra Israele ed i palestinesi, e, cosa non meno [importante], come una lotta politica interna nel governo israeliano, il re non può chiedere ai palestinesi di cedere in nome della stabilità del governo israeliano.”

Questi commenti contengono un indizio dell’attesa dei giordani di un gesto da parte di Israele che dia argomenti al monarca giordano per convincere Abbas ad accettare nuovi accordi per la sicurezza sul Monte del Tempio. E’ possibile che Netanyahu riceva messaggi simili dal presidente egiziano.

Ora la questione decisiva è in quale misura il primo ministro israeliano possa accettare di spogliare i metal detector del simbolismo che hanno assunto ed acconsentire a proposte che siano accettabili anche per i dirigenti arabi. In questo processo, potrebbe anche rafforzare le fondamenta delle relazioni con loro.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gerusalemme unifica i musulmani attraverso la lotta

Amira Hass – 23 luglio 2017, Haaretz

Benché alla maggioranza dei palestinesi non sia consentito visitare Al-Aqsa, questo luogo sacro sta facendo quello che l’assedio di Gaza e l’espansione delle colonie non riescono a fare: unirli.

Un giovane laico della zona di Ramallah ha espresso il suo stupore per come Gerusalemme ha unificato l’intero popolo palestinese ed ha paragonato l’assalitore di venerdì notte ad Halamish [colonia israeliana in cui un palestinese ha ucciso a coltellate tre coloni, ndt.], Omar al Abed, al Saladino. Un paragone stupido, siamo tutti d’accordo. Eppure il bisogno di tirare in ballo il Saladino racchiude tutta la difficoltà tra i palestinesi in merito a quelli che percepiscono come i nuovi crociati.

Questo giovane non può andare a Gerusalemme est e nella Città Vecchia, che si trova a meno di 30 km (circa 18 miglia) da casa sua, perché anche in periodi normali Israele non concede permessi di ingresso “come quello” a persone della sua età. E forse è tra coloro che considerano umiliante dover chiedere un permesso di ingresso per andare in una città palestinese. L’ultima volta che ha visitato [Gerusalemme] aveva 13 anni – cioè circa 13 anni fa.

Quindi questo giovane palestinese venerdì non ha sentito alcuni dei predicatori parlare a Gerusalemme della loro discendenza da Saladino. Poiché i palestinesi sono stati bloccati dal loro [dei religiosi musulmani, ndt.] divieto di entrare ad Al-Aqsa attraverso i metal detector israeliani, sedicenti predicatori hanno parlato a gruppi di fedeli che si sono radunati nelle strade di Gerusalemme est e della Città Vecchia, circondati dal personale della polizia di frontiera che puntava contro di loro i lunghi fucili.

Uno di questi predicatori ha detto che se non fosse stato per le posizioni e le azioni di vari regimi stranieri nel passato e nel presente, gli ebrei non avrebbero sconfitto i palestinesi. Poi ha fatto una pausa ed ha aggiunto: “Se non fosse per l’Autorità Nazionale Palestinese, collaborazionista, gli ebrei non avrebbero il sopravvento.” Ed ha anche chiesto: “E’ possibile che oggi, in tutti gli eserciti musulmani del mondo, nessuno possa generare un Saladino?” E allora ha promesso che verrà il giorno in cui eserciti da Giacarta, da Istanbul e dal Cairo arriveranno per liberare la Palestina, Gerusalemme e Al-Aqsa.

Un altro predicatore ha fatto affermazioni simili a un turista turco prima del sermone. Il contenuto e lo stile ricordavano il partito islamista salafita Hizb El Tahrir: non c’è da sostenere una lotta armata contro gli occupanti israeliani, ma una fede incrollabile nel giorno in cui il mondo musulmano si mobiliterà e sconfiggerà i “crociati ebrei”.

Quando il predicatore se n’è andato, solo in pochi si sono uniti all’appello che metteva in guardia gli ebrei che “l’esercito di Maometto ritornerà” – ma nessuno ha protestato contro la definizione dell’ANP come “collaborazionista”. In ogni caso, le sue attività sono vietate a Gerusalemme. Israele ha estromesso l’OLP (a cui l’ANP è in teoria subordinata) da ogni ruolo di unificazione, culturale, sociale o economico, che ha avuto fino al 2000. Un vuoto di potere come questo può essere riempito solo da enti religiosi e da portavoce che possano dar senso ad una vita piena di sofferenze. La coerente posizione dell’OLP e dell’ANP, secondo cui questo non è un conflitto religioso e che ad Israele non dovrebbe essere consentito di trasformarlo in tale, a Gerusalemme non risulta molto convincente.

Dato che la maggioranza dei palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania non può andare a Gerusalemme, la città – e soprattutto la moschea di Al-Aqsa – è per loro un luogo astratto, un “concetto” o una foto sul muro; non una realtà che conoscono concretamente. Ma questo luogo astratto, Al-Aqsa, sta facendo quello che non riesce a fare l’assedio di Gaza con i suoi 2 milioni di prigionieri, l’espansione delle colonie e la confisca dei serbatoi di acqua e dei pannelli solari alle comunità dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, la parte della Cisgiordania temporaneamente sotto totale controllo israeliano, ndt.]: li sta unificando. Il discorso anti-colonialista, che è essenzialmente nazionalista, politico e laico, è canalizzato dai post di Facebook, dagli articoli eruditi che non raggiungono il grande pubblico e da vuoti slogan pronunciati da leader, il cui periodo di leadership e di governo è ormai da tempo scaduto.

In altre parole, il discorso e la vecchia dirigenza nazionalisti oggi non sono più considerati importanti. Al contrario, Al-Aqsa riesce a creare un’opposizione popolare di massa al dominio straniero da parte di Israele – e ciò scatena l’immaginazione e l’ispirazione delle masse di altri che non possono andare a Gerusalemme. Non solo persone non credenti si sono recate ai luoghi di preghiera a Gerusalemme il venerdì per stare con il proprio popolo. Anche numerosi palestinesi cristiani si sono uniti ai fedeli musulmani ed hanno pregato, a modo loro, verso Al-Aqsa e la Mecca.

Ovviamente, si tratta in primo luogo della forza del credo religioso. Più profonda è la fede, maggiore è lo sfregio alle sue componenti sacre. Il fatto che Al-Aqsa sia un luogo per tutti i musulmani è un elemento che le attribuisce maggiore importanza. Ma non si tratta solo di quello: Gerusalemme ha la maggior concentrazione di palestinesi che si trovano a diretto contatto con il potere straniero di Israele, con tutto quello che ciò rappresenta in termini di negazione dei loro diritti e di umiliazione per loro. Non hanno bisogno di “luoghi simbolici” dell’occupazione, come i posti di controllo militari, per ricordarsi dell’occupazione o esprimere la loro rabbia. E la spianata di Al-Aqsa, da parte sua, è il luogo in cui la maggior parte dei gerosolimitani si possono riunire in un unico posto per sentirsi parte di una collettività. E dal momento in cui questo diritto di riunirsi gli viene tolto, protestano come un sol uomo – il che ricorda anche agli altri palestinesi che sono tutti uno solo, e stanno soffrendo per lo stesso dominio straniero.

Ma questa stessa opinione pubblica unificata non può più esprimere la propria unità in azioni collettive. E’ chiusa e tagliata fuori all’interno di enclave sovrane, e divisa in classi sociali con differenze sociali, economiche ed emotive sempre più grandi. La via verso il luoghi simbolici dell’occupazione, che circondano ogni enclave, è bloccata dalle forze di sicurezza palestinesi come dall’adattamento alla vita all’interno dell’enclave.

Questa è la base politica e reale della continua presenza di assalitori solitari, che non fanno riferimento all’origine delle loro azioni: prima di tutto, l’intollerabile prosecuzione dell’occupazione; poi la suggestione di Al-Aqsa come un luogo che unifica, religiosamente e socialmente; la dirigenza deludente, indebolita e debole; la volontà di morire che è una miscela di fede nel paradiso e di disperazione nei confronti della vita.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Senza precedenti e incendiario: perché il boicottaggio di Al-Aqsa è importante

Richard Silverstein – 21 luglio 2017, Middle East Eye

Le nuove misure di sicurezza sull’Haram al-Sharif violano gli accordi tra Giordania ed Israele, non evitano la ripetizione dell’ultimo attacco di venerdì e alimentano ulteriormente l’odio.

Lo scorso venerdì tre palestinesi con cittadinanza israeliana della città settentrionale di Umm al Fahm hanno attaccato poliziotti fuori dall’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, ndt.], il terzo luogo più sacro per l’Islam (noto agli ebrei israeliani come il “Monte del Tempio”).

Negli ultimi anni Israele ha imposto una serie di misure che restringono l’accesso dei musulmani al luogo, mentre periodicamente ha anche incrementato aggressioni armate da parte di poliziotti contro la moschea di Al-Aqsa e i fedeli che vi si trovavano.

Queste violazioni della sacralità dei luoghi hanno fatto infuriare i musulmani in tutto il mondo, ma soprattutto i palestinesi, sia in Israele che in Cisgiordania. Molte delle continue violenze degli attacchi di ‘lupi solitari’ contro bersagli israeliani, che hanno lasciato circa 50 israeliani e 250 palestinesi uccisi, sono state motivate da sdegno religioso contro la condotta di Israele.

L’attacco di venerdì è stato il più audace in tempi recenti. Tre membri di un clan locale, tutti denominati Muhammad Jabareen, sono riusciti a far passare armi all’interno della città santa di Gerusalemme, poi le hanno recuperate ed hanno sparato contro la polizia. Hanno ucciso due poliziotti drusi israeliani e ne hanno leggermente ferito un altro.

Come è tipico di queste situazioni, lo Shin Bet ha imposto un ordine restrittivo delle informazioni su alcuni aspetti del caso. Ha rifiutato di dire il nome degli aggressori, benché avesse le loro carte d’identità e sapesse chi erano. Ho pubblicato i loro nomi e foto delle carte d’identità con l’aiuto di fonti riservate della sicurezza israeliana. In seguito la misura restrittiva è stata tolta.

Dopo aver attaccato la polizia, gli uomini armati sono fuggiti all’interno dell’Haram al Sharif, dove le forze di sicurezza israeliane li hanno inseguiti ed uccisi. Un video girato da palestinesi mostra uno degli aggressori a terra disarmato. Dopo essersi alzato ed aver tentato di scappare, viene abbattuto da una scarica di proiettili.

E’ normale che in simili circostanze le forze israeliane uccidano gli attaccanti indipendentemente dal fatto che siano armati o che abbiano causato danno ad altri. Il metodo di esecuzione è a volte definito il “colpo di grazia”. Una volta che un palestinese ha ucciso o ferito un israeliano in questi attacchi, la sua vita è considerata nella maggioranza dei casi persa.

Tante accuse, nessuna responsabilità

In altri Paesi, dopo una minaccia grave alla sicurezza, le autorità prenderebbero approfonditamente in esame le circostanze che hanno consentito che avvenisse l’incidente, una assunzione di responsabilità che l’opinione pubblica pretenderebbe a gran voce.

Mentre i responsabili israeliani della sicurezza potrebbero aver condotto questa analisi, pochi hanno messo in discussione come lo Shin Bet [servizio di intelligence interno, ndt.] e la polizia abbiano permesso a tre uomini armati di lanciare un attacco così sanguinoso. Invece questi due organi si sono impegnati in una guerra tra loro, additandosi per incolparsi l’un l’altro. Nel frattempo nessuno si è assunto la responsabilità concreta.

La principale discussione riguarda se i metal detector, che sono stati installati immediatamente dopo l’attacco, avrebbero dovuto essere stati usati prima, e se avrebbero evitato l’aggressione.

Tuttavia non c’è una tale sicurezza, salvo che la polizia israeliana voglia obbligare ogni palestinese che entra da ogni porta della Città Vecchia a sottomettersi a simili controlli. Ciò richiederebbe la militarizzazione totale di una delle più sacre città al mondo e il posizionamento di decine, se non centinaia, di metal detector. Ciò significherebbe lunghe file per chi desidera entrarvi, anche per i turisti che alimentano una parte importante dell’economia locale.

I poliziotti e gli aggressori

L’identità etnica sia dei poliziotti morti che dei loro assassini è di particolare importanza. I poliziotti erano drusi israeliani. La loro religione è una derivazione dell’islam, ma sono sempre stati considerati una minoranza e a volte perseguitati.

Dalla fondazione di Israele nel 1948, lo Stato ha coltivato relazioni di amicizia con i drusi ed essi in cambio hanno servito nell’esercito israeliano, a differenza del resto dei musulmani palestinesi, che rifiutano il servizio militare.

Anche se ciò sta cambiando negli ultimi anni, i drusi sono visti come ancora più aggressivi del soldato ebreo israeliano medio. I soldati drusi sono stati coinvolti in molte uccisioni controverse di civili disarmati a Gaza ed altrove.

I rapporti tra i drusi e gli ebrei israeliani sembrano seguire un tipico modello coloniale, in cui il potere dominante cerca di dividere la popolazione nativa maggioritaria favorendo una singola tribù minoritaria a danno del resto. In altre parole, divide et impera.

Gli sparatori erano, come ho detto, di una città del nord di Israele. Umm al Fahm è un focolaio a sostegno della sezione settentrionale del Movimento Islamico, guidato dal leader musulmano, l’ imam Raed Salah. E’ anche la sua città natale. E’ stato più volte arrestato per aver incitato alla resistenza contro la gestione israeliana dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme.

Negli ultimi anni la maggior parte degli attacchi palestinesi contro israeliani sono stati perpetrati da persone che vivevano a Gerusalemme, nei dintorni o in Cisgiordania. Relativamente pochi di questi attacchi hanno coinvolto palestinesi con cittadinanza israeliana, che sono in genere considerati una popolazione più leale e “affidabile” di quella fuori da Israele (in Cisgiordania e a Gaza).

Con questa rivolta, che ora coinvolge la minoranza palestinese israeliana, Israele entra in un periodo ancora più teso ed instabile di quello che ha affrontato in passato.

Resistenza alla repressione

La risposta ufficiale israeliana all’attacco è stata pronta e pesante. Tutta la Haram al-Sharif è stata chiusa per la prima volta da quando un cristiano evangelico australiano con problemi mentali tentò di iniziare una guerra santa facendo saltare in aria la moschea di Al-Aqsa nel 1969.

Andando persino oltre, le forze di sicurezza hanno chiuso tutta la Città Santa con molteplici posti di controllo destinati ad evitare che chiunque entrasse nella parte palestinese della all’interno delle mura. Mercanti con i negozi nel suk sono stati minacciati con pesanti sanzioni se li avessero tenuti aperti. Anche questa è stata un’iniziativa senza precedenti.

Mentre Israele l’ha presentato come un tentativo di impedire ai palestinesi di mettere in atto proteste di massa che avrebbero potuto portare a una nuova “Intifada”, ciò ha colpito i palestinesi come una forma di punizione collettiva per l’attacco contro la polizia israeliana. Simili azioni sono una violazione delle Convenzioni di Ginevra, a cui in simili circostanze Israele spesso attribuisce scarso valore.

Lunedì Israele ha riaperto l’Haram al-Sharif e in parte la Città Vecchia, benché la maggior parte delle porte nella zona siano rimaste chiuse. Ma ci sono stati cambiamenti radicali nelle procedure della sicurezza. Personale della sicurezza ha installato metal detector e videosorveglianza in modo unilaterale. Questa è stata una violazione del cosiddetto status quo, a cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha falsamente detto che Israele si stava attenendo.

In base a queste regole, qualunque cambiamento dei luoghi sacri deve essere accettato sia dalle autorità giordane (che sono i custodi dei luoghi musulmani) che israeliane. Ma Israele ha messo in pratica questi cambiamenti senza alcuna consultazione.

Se i britannici reprimessero i cattolici

Il risultato è stato un prolungato boicottaggio musulmano al luogo sacro. Nei tre giorni successivi i fedeli hanno pregato appena fuori dai nuovi metal detector installati, rifiutando di sottoporsi a questo atto avvilente. I musulmani vedono questo come una dissacrazione dello status sacro del luogo e un insulto alla loro fede.

Immaginate se i britannici, che hanno quella anglicana come religione di Stato, decidessero che i fedeli cattolici rappresentano una minaccia alla sicurezza nazionale e imponessero metal detector, videocamere e una massiccia presenza della polizia fuori dalla principale cattedrale cattolica. Ci sarebbe sicuramente una rivolta di massa, non solo tra i cattolici ma probabilmente anche tra gli anglicani.

La classe politica israeliana tratta il problema palestinese in modo schizofrenico. Rifiutano di vedere gli interessi dei palestinesi come parte dei più complessivi interessi israeliani. Essi si dividono in due classi diverse: gli interessi degli ebrei israeliani che sono di primaria importanza e tutto il resto che è isolato e secondario.

E’ così che Netanyahu, di fronte a una gravissima crisi di fiducia tra la minoranza palestinese-israeliana, può ignorare la questione e iniziare un viaggio di cinque giorni nelle capitali centro-europee (tra cui Budapest e Varsavia), i cui governi appoggiano massicciamente il suo programma islamofobo e contro i rifugiati.

I media israeliani vedono il viaggio come un disperato tentativo di uscire dal peso di un crescente scandalo che coinvolge la corruzione legata all’acquisto di sottomarini nucleari tedeschi per 10 miliardi di dollari.

Nessuno suggerisce che Netanyahu dovrebbe posticipare il suo viaggio per affrontare la crisi di Gerusalemme. Non c’è neppure un ripensamento nelle sue valutazioni politiche, nonostante il primo ministro in difficoltà abbia appena annunciato che avrebbe ridotto di un giorno la sua visita.

– Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato a denunciare gli eccessi dello Stato della sicurezza nazionale israeliano. Il suo lavoro appare su “Haaretz”, su “Forward”,” sul “Seattle Times” e sul “Los Angeles Times”. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006 “Tempo di denunciare apertamente” (Verso) e ha un altro saggio nella raccolta che sta per uscire: “Israele e Palestina: prospettive di statualità alternative” (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Robert Piper dell’ONU: gli attori politici stanno perdendo di vista la sofferenza dei civili a Gaza

Ma’an News– 11 luglio 2017

Chloe Benoist

Gerusalemme (Ma’an) – Martedì le Nazioni Unite hanno reso pubblico un rapporto che lancia l’allarme rispetto alla situazione umanitaria in continuo peggioramento nella Striscia di Gaza sotto assedio, un mese dopo che il territorio palestinese ha segnato il decimo anniversario sotto il blocco israeliano.

Il rapporto, intitolato “Gaza dieci anni dopo”, avverte soprattutto che l’acquifero di Gaza potrebbe diventare inutilizzabile entro la fine dell’anno, oltre alle continue crisi energetiche e sanitarie, mentre più di metà dei due milioni di abitanti di Gaza soffre di insicurezza alimentare.

Resta fondamentale che la gente di Gaza abbia la possibilità di vivere una vita degna, sana e produttiva in pace e sicurezza e che l’attuale spirale discendente sia invertita,” ammonisce il rapporto. “Senza questi passi Gaza diventerà più isolata e più disperata, aumenterà la minaccia di una nuova e più devastante escalation e le prospettive di una riconciliazione tra i palestinesi scemeranno – e lo stesso avverrà con le prospettive di pace tra Israele e Palestina.”

In occasione della diffusione del rapporto, il coordinatore per l’aiuto umanitario e le attività di sviluppo nei territori palestinesi dell’ONU si è incontrato martedì con Ma’an ed ha discusso della perdurante crisi a Gaza, così come della gestione da parte dell’ONU delle tensioni quando si occupa delle violazioni delle leggi internazionali nei territori palestinesi occupati. L’intervista, pubblicata per la sua chiarezza e brevità, può essere letta qui di seguito.

Quali erano le intenzioni dell’ONU nella pubblicazione del rapporto, due anni dopo aver messo in guardia sul fatto che Gaza potrebbe diventare invivibile entro il 2020?

In primo luogo, ogni volta che cerchiamo di condividere la vicenda di Gaza, siamo costantemente attaccati da diverse angolature perché la successione dei fatti sarebbe sbagliata, perché banalizzeremmo la situazione, perché non citeremmo qualcuno, e così di seguito. Nell’ambito dell’ONU c’è questa preoccupazione che, anno dopo anno, perdiamo di vista i civili coinvolti nella tragedia che è oggi Gaza, e non dobbiamo perdere alcuna occasione per parlare della loro vicenda.

In secondo luogo, è il decennale, un anniversario tragico di almeno tre avvenimenti: la presa di potere violenta da parte di Hamas a Gaza, il rafforzamento della chiusura veramente rigida – un vero e proprio blocco da quando Hamas ha preso il sopravvento – e la conseguente separazione che ne è seguita tra Gaza e la Cisgiordania.

Nel rapporto lei afferma di aver visitato Gaza due volte al mese. Cosa le hanno detto i gazawi su come vedono la situazione?

I gazawi sono davvero molto resilienti. Sono orgogliosi, e non vogliono in un certo senso lamentarsi e dimostrare debolezza, c’è un elemento di incredibile stoicismo e resistenza che è veramente sbalorditivo. Ma si ha rapidamente questa sensazione di sfinimento tra i comuni gazawi, che ne hanno passate così tante, per così tanto tempo, e hanno la sensazione che nessuno sia realmente dalla loro parte. Francamente non hanno niente di buono da dire su nessun dirigente. Penso che si sentano terribilmente abbandonati.

E quando incontri un sottogruppo di persone particolarmente vulnerabili – donne con cancro al seno, bambini che necessitano di apparecchiature per la dialisi – capisci che, mentre ci può essere una parte della gente che in qualche modo se la può cavare, ben presto arrivi ad un’altra fascia di persone terribilmente vulnerabili che sono imprigionate a Gaza, sono terribilmente dipendenti dall’elettricità, dalle cure mediche, dai permessi (israeliani) per raggiungere un ospedale, e sono sempre più disperate.

Crede che ci sia tempo per evitare una crisi umanitaria ancora peggiore o abbiamo ormai raggiunto un punto in cui Gaza è invivibile?

E’ possibile modificarla, ma dobbiamo fare in fretta, e in primo luogo bisogna mettere quella gente, se non in cima, almeno un po’ più in alto nell’agenda. Al momento stanno languendo troppo in fondo alla lista delle priorità, ma c’è molto che si può fare e può essere fatto in fretta. La situazione non è facile da risolvere perché ci sono tante di quelle diverse dimensioni che vanno insieme contemporaneamente, ma assolutamente, siamo al cento per cento ottimisti che sia fattibile se c’è la volontà da parte degli attori principali che questo avvenga.

Pensa che oggi ci sia questa volontà?

Il fatto che abbiamo dovuto scrivere questo rapporto e che questo rapporto racconti una storia così triste di un de-sviluppo praticamente secondo ogni possibile indicatore, penso risponda a quella domanda. Non c’è il tipo di interessamento che ci dovrebbe essere, non c’è il tipo di impegno che ci aspettiamo di vedere oggi.

Il rapporto afferma che tenta di “guardare oltre le polemiche” quando si discute della crisi di Gaza – ma perché il documento cita solo brevemente la recente decisione dell’ANP di tagliare l’elettricità a Gaza, una decisione che lei ha denunciato in giugno?

Stiamo realmente tentando di dedicare attenzione ad una vicenda di dieci anni di decadimento strutturale in praticamente tutti i settori. Non ci sono aggiustamenti a breve termine, per cui abbiamo preso la decisione consapevole di non approfondire troppo la crisi attuale, perché è oscurata da una storia decennale. Spero davvero che la saga attuale sulle forniture di elettricità israeliane sia solo una nota marginale sperabilmente risolta in un tempo relativamente breve, ma di nuovo, dobbiamo essere molto chiari: nei giorni buoni Gaza ha il 40% dell’elettricità di cui ha bisogno. Nessun bambino di 12 anni ricorda più di 12 ore di elettricità al giorno. E’ terribile, e stiamo cercando di attirare l’attenzione su quella vicenda.

Il rapporto mette davvero in luce le responsabilità di Hamas nella situazione di Gaza e le sue violazioni delle leggi internazionali, ma è formulato in modo ambiguo quando si riferisce alle violazioni israeliane, facendo spesso riferimento al blocco con il termine più velato di “restrizioni all’accesso ed al movimento.” Ciò è parte della decisione di “andare oltre le polemiche”?

Penso che troverà che il documento fa riferimento in modo non ambiguo al blocco, che troverà la condanna delle azioni da parte di Israele, della mancanza di responsabilizzazione, di “punizione collettiva”. Troverà alcuni commenti realmente duri su Hamas e su come governa Gaza, ma troverà anche qualche analisi di opportunità mancate da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e così di seguito. Penso che vi troverà qualcosa riguardo a ciascuno.

Se vuole essere onesta nel cercare di raccontare la vicenda (a Gaza), deve mettere in collegamento questi tre avvenimenti – il blocco, la presa di potere di Hamas, la divisione dell’amministrazione palestinese. Quello che ci siamo rifiutati di fare è stato di isolare ognuno di questi fattori e dire “se solo non fosse successo questo, tutto sarebbe andato bene.” Sono tutte parti integranti nella comprensione del disastro che Gaza è oggi. Penso che una lettura onesta del rapporto arriverebbe alla conclusione che nessuno la fa franca e nessun problema è preso da solo come l’unica causa determinante.

Per utilizzare un solo esempio, quando il rapporto parla del ricorrente conflitto nella Striscia di Gaza e quindi invita “entrambe le parti” a rispettare “i principi di distinzione, proporzionalità e precauzione” durante i periodi di guerra, cosa risponde l’ONU alle critiche secondo cui questo tipo di affermazioni mette sullo stesso piano le violazioni palestinesi ed israeliane ed elimina le violazioni su più larga scala di tali principi di una delle parti?

Probabilmente lei sa molto bene che durante le ostilità del 2014 ci sono state violazioni da entrambe le parti e c’è stata una commissione di inchiesta indipendente del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU che ha dettagliato correttamente le prove e le raccomandazioni in merito alle violazioni da parte di entrambi. L’ONU da allora ha chiesto che ne rendessero conto e non ha visto quasi nessuno da entrambe le parti [pagare le conseguenze]. A quel punto, non ci siamo addentrati in problemi di proporzionalità – penso che quando le leggi internazionali sono violate, sono violate, e questo è tutto. In questo rapporto non abbiamo davvero avuto lo spazio – o il desiderio – di entrare in maggiori dettagli. Per noi il punto è che entrambe le parti hanno violato le leggi internazionali, e che non c’è stata una sufficiente assunzione di responsabilità da parte di entrambi per queste violazioni, e non penso che noi dobbiamo andare molto oltre.

Lei pensa che ci sia una qualche reticenza degli organismi dell’ONU nell’essere troppo critici di una parte specifica del conflitto – Israele – date le reazioni a un rapporto dell’ESCWA [Commissione economica e sociale dell’ONU per l’Asia occidentale, un cui rapporto del marzo 2017 che accusava Israele di praticare un sistema di apartheid a danno dei palestinesi è stato censurato dal Segretario Generale. In seguito a ciò la presidentessa dell’ESCWA ha presentato le sue dimissioni per protesta, ndtr.] e alla recente risoluzione dell’UNESCO [che ha stabilito che La Città Vecchia di Hebron e la Tomba dei Patriarchi/Moschea di Ibrahim sono parte del patrimonio culturale palestinese e sono in pericolo, ndt] quest’anno? E’ una cosa che avete preso in considerazione?

Prendiamo in considerazione come questi rapporti verranno recepiti, ma non ci si sbagli: possiamo essere impopolari per chiunque in diversi momenti dell’anno. E’ la natura del nostro lavoro, soprattutto in un contesto in cui abbiamo quello che chiamiamo un’operazione di protezione. L’obiettivo fondamentale di questo rapporto – e resta da vedere se ci riuscirà o meno – è fare la storia dell’impatto di queste misure su civili innocenti al centro della narrazione, invece che delle politiche o della sicurezza, e non consentire che questa vicenda sia monopolizzata da parti interessate. I dati di questo rapporto – l’impatto sull’acquifero, il peggioramento dei servizi per la salute, l’insicurezza alimentare peggiorata, i livelli di povertà e di disoccupazione – questi dati non sono politici. E’ una vicenda di sofferenze umane che devono essere messe al centro, e ciò non deve essere strumentalizzato da nessuno, e sfideremo chiunque a farlo.

Lei pensa che questi problemi possano essere affrontati separatamente dal contesto politico?

Non separatamente, ma se lei mette gli interessi (umanitari) di due milioni di persone al primo posto quando guarda alle soluzioni, sicuramente ciò influenzerà e orienterà le scelte politiche che si faranno. Il grado in cui sei disposto ad arrivare a compromessi è in parte sicuramente determinato da quanta importanza si attribuisce al livello di sofferenza che si sta vedendo oggi a Gaza.

Quali azioni concrete lei spera che prenderà la comunità internazionale in seguito a questo rapporto?

Penso che la comunità internazionale debba essere presente sia nei momenti di crisi in termini di soccorso, ma anche per appoggiare a lungo termine gli investimenti necessari. Gaza si trova in una specie di circolo vizioso di crisi, ricostruzione, crisi, ricostruzione. Abbiamo bisogno di importanti investimenti infrastrutturali, per cui onestamente si tratta di un altro tipo di fondi da parte di un diverso tipo di investitori rispetto a quelli che sono stati disponibili per Gaza nell’ultimo decennio. Abbiamo bisogno di una comunità internazionale con una maggiore disponibilità al rischio di quella di oggi, perché questo è un contesto complicato e ad alto rischio. Molti investitori, molti donatori sono preoccupati di investire molto denaro in un simile contesto.

C’è anche la necessità di una comunità internazionale che faccia pressione sugli attori coinvolti in modo consistente e coordinato. Non ci possiamo permettere di avere una comunità internazionale frammentata che reagisce all’ultimo sviluppo di una crisi, abbiamo bisogno di coesione della comunità internazionale, che è una cosa veramente rara da vedere.

Pensa che il suo lavoro sia stato influenzato dall’elezione del presidente USA Donald Trump?

Il mio non è un lavoro politico, è umanitario e per lo sviluppo, per cui non sono così tanto sensibile a ciò. Per essere onesto, penso che buona parte del lavoro che facciamo è stato sottoposto a intense pressioni ormai da parecchi anni. Se misuriamo il nostro lavoro in termini del numero di demolizioni nell’Area C [zona della Cisgiordania sotto temporaneo controllo totale israeliano in base agli accordi di Oslo, ndt.], del numero di persone che hanno ottenuto un permesso di cura del cancro fuori da Gaza, è veramente molto scoraggiante, ad essere onesti, non solo negli ultimi sei mesi, ma negli ultimi anni. Per cui penso che abbiamo sfide difficili di fronte a tutti noi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La politica miope di Abbas a Gaza

Tareq Baconi – 6 luglio 2017,Al-Shabaka

I tentativi del leader dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas di accentuare l’isolamento di Hamas – tagliando i salari e poi l’energia elettrica alla Striscia di Gaza – rispecchiano le dinamiche regionali nell’era Trump. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e l’Egitto si sono tutti mobilitati per isolare il Qatar, un importante investitore nella Striscia di Gaza e un sostenitore della Fratellanza Musulmana in Egitto e di Hamas a Gaza.

La crisi elettrica a Gaza è stata scongiurata, con un voltafaccia ironico, dalla volontà del presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi di fornire carburante alla centrale elettrica di Gaza come misura temporanea nonostante le proteste di Abbas. La decisione è stata mediata da Mohammed Dahlan, storicamente nemico di Hamas, non da ultimo per il suo tentativo di togliere dal potere Hamas in seguito alla sua [di Hamas] vittoria nelle elezioni democratiche.

La maldestra strategia di Abbas

Abbas rimane legato al presupposto del blocco di Gaza, in atto dal 2007: questo crescente isolamento di Hamas e le sofferenze dei palestinesi di Gaza destabilizzeranno il governo di Hamas e provocheranno la ribellione dei palestinesi contro il movimento – anche se ciò dovesse portare a un “collasso totale”, come le organizzazioni per i diritti umani hanno definito la riduzione di elettricità.

Questa logica suppone che l’ANP sarebbe in grado di assumere l’amministrazione della Striscia di Gaza una volta che il potere di Hamas venisse indebolito. Ciò è improbabile per due ragioni:

  • Israele trae vantaggio dalla divisione geografica e politica nei territori palestinesi ed ha minato precedenti tentativi di unità, anche con un intervento militare. L’accordo di Shati [campo profughi nella Striscia di Gaza, ndt.] del 2014 tra Hamas e Fatah è stato una delle ragioni dell’attacco militare israeliano contro la Striscia di Gaza di quell’anno.

  • Il ritorno dell’ANP a Gaza implicherebbe una ripresa del coordinamento per la sicurezza con Israele. Perché ciò avvenga, Hamas dovrebbe disarmare. Ciò è improbabile persino con un ulteriore isolamento , in quanto ciò provocherebbe uno scontro esistenziale per Hamas, che potrebbe preparare la strada a un altro episodio di guerra civile armata.

Implicazioni delle ultime iniziative di Abbas

  • Esse dimostrano la volontà di Abbas di adottare la logica della punizione collettiva su cui poggia il blocco e di perpetuare le sofferenze di due milioni di palestinesi per interessi di fazione. Ciò è moralmente condannabile per un presunto leader della lotta dei palestinesi.

  • Istituzionalizzano le divisioni tra Gaza e la Cisgiordania, e portano Gaza ad avvicinarsi all’Egitto, aiutando a realizzare la politica israeliana di divide et impera nei territori palestinesi.

  • Creano una possibilità di alleanza tra Dahlan [ex-dirigente di Fatah a Gaza, espulso prima dalla Striscia insieme ai militanti del movimento e poi da Fatah ed attualmente in esilio, ndt.] e Hamas e un’opportunità per Dahlan di rientrare nel contesto politico palestinese, portando con sé la sua volontà di vedere la lotta palestinese attraverso le lenti della sicurezza imposte dagli USA e da Israele.

Cosa possono fare i palestinesi

  • Chiedere conto alla dirigenza della Cisgiordania del fatto che utilizzi i palestinesi di Gaza come pedine del gioco politico, mettendo in luce l’illegalità del blocco come una continuazione dell’occupazione e una forma di punizione collettiva. In particolare i palestinesi dovrebbero chiedere, e ricordare, alla leadership in Cisgiordania che sono responsabili di tutti i palestinesi, compresi quelli di Gaza.

  • Spingere per misure economiche che riducano la crisi umanitaria a Gaza chiedendo al contempo una soluzione politica del conflitto in termini complessivi.

  • Garantire che ogni misura riavviata per affrontare l’impasse tra palestinesi ed israeliani non lasci ai margini la Striscia di Gaza o la presenti come un semplice problema umanitario che può essere gestito dall’Egitto o da un’autorità di autogoverno locale.

TareqBaconi

Tareq G. Baconi è un collaboratore politico di Al-Shabaka che risiede negli USA. Il suo libro in uscita, “Hamas: le politiche di resistenza, consolidamento a Gaza” sta per essere pubblicato dalla Stanford University Press. Tareq ha conseguito un dottorato in relazioni internazionali al Kings College di Londra, che ha completato insieme a un’attività di consulente energetico. Ha anche ottenuto titoli all’università di Cambridge (Relazioni internazionali) e all’Imperial College di Londra (Ingegneria chimica). Tareq è ricercatore associato presso “US Middle East Project [Progetto USA per il Medio Oriente, un istituto di analisi politica indipendente sul Medio oriente con sedi a New York e a Londra, ndt.]. I suoi scritti sono apparsi su Foreign Affairs, Sada: Carnegie Endowment for International Peace, The Guardian, The Huffington Post, The Daily Star, Al Ghad e Open Democracy.

(traduzione di Amedeo Rossi)




In Cisgiordania sia archeologi israeliani che palestinesi rivendicano il patrimonio culturale

Daniel Estrin Parallels -16 febbraio 2017

Se la storia è un argomento di polemiche in Medio oriente, lo è anche una parte dell’attività archeologica in corso per documentare e preservare i resti di quella storia.

L’esercito israeliano ha un’unità di archeologia che è responsabile degli scavi in buona parte della Cisgiordania, terra conquistata da Israele nel 1967 e rivendicata dai palestinesi per uno Stato indipendente.

In base ad un accordo israelo-palestinese, lo status della Cisgiordania – ed i manufatti che vi vengono trovati – deve essere regolato con accordi di pace definitivi. Fino ad allora gli archeologi militari continuano a scavare in Cisgiordania – e concedono permessi di scavo ad accademici israeliani.

“Il nostro lavoro è soprattutto la conservazione della storia della zona,” dice Benny Har-Even, il vice capo di stato maggiore per l’archeologia, camminando tra le rovine di un villaggio datato del II° secolo a.C.

Lì vicino i lavoratori palestinesi che l’esercito utilizza versano cemento per rinforzare una fila di pietre, predisponendo il luogo come attrazione turistica.

Gli archeologi militari vedono il proprio lavoro come una corsa per salvare circa 3.000 siti archeologici noti nella zona. “Dobbiamo occuparci di loro, proteggerli, cercare di evitare che i banditi li distruggano,” afferma Har-Even.

Ma, secondo l’archeologo israeliano Rafi Greenberg di “Emek Shaveh”, un gruppo di archeologi di sinistra che criticano gli scavi, alcuni aspetti dell’attività archeologica israeliana in Cisgiordania non sono resi pubblici dall’esercito.

“Non rendono pubblica la lista degli scavi o l’elenco di chi scava o dei ritrovamenti o dei luoghi dei loro depositi,” sostiene Greenberg. “E’ tutto mantenuto sotto il segreto di Stato.”

Il gruppo accusa Israele di utilizzare l’archeologia per rafforzare il suo controllo sulla Cisgiordania e si è rivolto a un tribunale per scoprire, tra le varie informazioni, a quali studiosi israeliani sono stati concessi i permessi per scavare là.

A novembre un giudice israeliano ha sentenziato che l’identità di questi archeologi rimarrà secretata per proteggerli dal boicottaggio da parte dei loro colleghi nel resto del mondo che sono contrari alla collaborazione con l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania.

Greenberg crede che la segretezza parli da sola.

“Se è sbagliato, allora non farlo. E se è giusto, parlane con tutti,” afferma. “Ma questo approccio, di non volerlo far sapere solleva sospetti. Cosa si può dire? Se qualcuno non è trasparente, ha qualcosa da nascondere.”

In un’intervista un archeologo di un’università israeliana che ha effettuato scavi in Cisgiordania e che ha pubblicato vari libri sulle sue scoperte, ha chiesto di non essere identificato per timore che attirare l’attenzione su di sé potrebbe portarlo ad essere boicottato.

“Non penso di star facendo qualcosa di sbagliato,” dice l’archeologo. “Penso che sto salvando documentazione.”

Gli archeologi dell’esercito dicono che il loro lavoro è necessario per proteggere importanti ritrovamenti storici dall’abbandono al florido commercio dei ladri palestinesi di antichità. Ma l’ex-capo dell’Autorità Palestinese per le Antichità Hamdan Taha ritiene che siano gli archeologi israeliani che si comportano come ladri di oggetti antichi, facendo scavi sotto la cappa dell’anonimato in una terra occupata.

“Ciò fornisce loro un quadro giuridico per un palese saccheggio,” dice Taha. “Stravolge il ruolo dell’archeologia da ricostruzione scientifica del passato a caccia al tesoro.”

Gli archeologi dell’esercito portano i manufatti che scoprono in determinati magazzini e a volte li prestano a musei e istituti di ricerca perché vengano esposti. A novembre il tribunale israeliano ha stabilito che non venga rivelata l’ubicazione dei depositi. Ha anche deciso che non venga rivelato quali manufatti vengano esposti né identificate le istituzioni che li mettono in mostra, assecondando, tra le altre cose, le preoccupazioni del governo israeliano secondo cui rendere pubbliche queste informazioni potrebbe danneggiare le relazioni internazionali di Israele e compromettere i futuri negoziati con i palestinesi.

Gli archeologi dell’Autorità Nazionale Palestinese conducono i propri scavi nelle zone della Cisgiordania sotto il loro controllo e collaborano con colleghi internazionali, ma non effettuano scavi con l’esercito israeliano. I palestinesi che lavorano per gli archeologi militari israeliani sono manovali non dipendenti dal governo palestinese.

Alcuni archeologi israeliani sostengono di svolgere un importante servizio in Cisgiordania perché gli scavi non sarebbero realizzati con la stessa professionalità dagli archeologi palestinesi, che secondo loro non sono sufficientemente qualificati. Taha respinge questa tesi.

“E’ un’affermazione che vale poco e non voglio rispondere, perché è esattamente la mentalità dell’occupante: la dominazione,” dice.

Taha riconosce che ci sono problemi: alcuni edifici storici sono stati demoliti da imprenditori privati palestinesi in appalto per fare spazio a nuove strutture in Cisgiordania, fatto che Taha addebita a una legge palestinese obsoleta che non protegge adeguatamente i siti del patrimonio culturale. E il campo degli studi archeologici palestinesi nelle istituzioni accademiche della Cisgiordania è recente e in via di sviluppo. L’Autorità Nazionale Palestinese non ha ancora sostituito Taha da quando nel 2014 ha lasciato il suo posto di capo delle antichità.

Tuttavia, dice, persino durante i periodi di violenza, i palestinesi non hanno permesso che i luoghi archeologici subissero lo stesso destino di siti in Siria e in Iraq distrutti dall’ISIS.

(traduzione di Amedeo Rossi)