Le uccisioni sul confine di Gaza mettono in evidenza la vera mentalità di Israele

Zeev Sternhell

27 aprile 2018, Haaretz

E Bezalel Smotrich, come il volto cinico di Avigdor Lieberman, riflette il nostro volto, il volto di avamposto dell’Occidente di Netanyahu

Benjamin Netanyahu, ci ricorda Anshel Pfeffer [giornalista inglese che scrive su Haaretz, ndt.], non vede il conflitto arabo-israeliano come un problema in sé, ma come parte inscindibile dello scontro di civiltà tra l’Islam e il mondo occidentale (“La visione di Netanyahu in 467 pagine”, 18 aprile). Per lui Israele è l’avanguardia dell’Occidente in una lotta durata 1.500 anni.

Quando è stato pubblicato il suo [di Netanyahu] libro “A Place Among the Nations” [“Un posto tra le Nazioni”], l’ho considerato come niente più che propaganda, l’intenzione di inventarsi una copertura ideologica per continuare l’occupazione sponsorizzata dal neo-conservatorismo americano nella sua forma più semplicistica. È un vero peccato che gente rispettabile cada ancora nella trappola.

Netanyahu ha da molto tempo capito che i palestinesi sono incapaci di resistere con la forza all’occupazione, per cui essa non finirà in un futuro prevedibile. Ma poiché nessuna situazione può persistere senza una copertura ideologica, e la narrazione biblica non si vende bene negli Stati Uniti al di fuori dei circoli evangelici, ci prova con la protezione della cultura occidentale, nello spirito della tendenza neoconservatrice della fine del XX secolo.

Tuttavia, per più di 300 anni la cultura occidentale ha presentato due approcci: quello liberale, da cui si sono sviluppati la democrazia e i diritti umani dell’Illuminismo francese e britannico, e quello che subordina l’individuo a una comunità etnica e cerca nella storia la legittimazione delle proprie politiche. Questa tendenza iniziò a far germogliare, alla fine del XIX secolo, i vari movimenti nazionalisti e razzisti di destra, compresi quelli che si sono sviluppati nel fascismo e nel nazismo.

Questi movimenti sapevano come sfruttare il diritto al suffragio universale per eliminare il principio di uguaglianza tra gli esseri umani. Poi hanno eliminato la stessa democrazia. Il nazionalismo razzista non fu inventato da Hitler, ma emerse gradualmente dalla rivoluzione di destra che iniziò a travolgere l’Europa. Questo approccio nazionalista radicale è l’”Occidente” di Netanyahu, in cui trova la legittimazione per la politica colonialista di annessione e oppressione che ha architettato da quando è salito al potere.

Questo è il punto di vista che il giovane israeliano educato in America ha adottato per se stesso: laggiù la sua immaginazione non è stata accesa dall’eredità del movimento per i diritti civili, ma piuttosto dall’oscuro tenore della cultura politica americana. Mentre la rivoluzione francese liberava gli ebrei e gli schiavi, in America – insieme alla devozione quasi religiosa per le libertà individuali e il bilanciamento dei poteri, ancorati alla Costituzione e alla Dichiarazione di Indipendenza – la schiavitù è esistita per altri 100 anni. Per ulteriori 100 è prevalsa la brutale oppressione sociale dei neri. Il giovane Netanyahu ha imparato là che l’Occidente contiene tutto, il meglio e il peggio, e ognuno può scegliere da solo quello che gli serve.

Quindi è così che funziona la destra israeliana: dopo aver rafforzato il colonialismo tratta gli arabi fondamentalmente come nativi. I britannici in Kenia e i francesi in Algeria hanno fatto scuola. Le uccisioni settimanali sul confine della Striscia di Gaza sono una campagna di brutalità, che mette in evidenza la mentalità della società nel cui nome l’esercito agisce: possiamo fare tutto quello che vogliamo. Come Elor Azaria, che ha giustiziato un terrorista ferito e presto uscirà di prigione come un eroe, così come i giovani in uniforme che massacrano civili disarmati sui confini di Gaza sono i “figli di tutti noi”. E Bezalel Smotrich [deputato del partito di estrema destra dei coloni “Casa ebraica, ndt], che vuole che si spari a una gamba ad Ahed Tamimi [ragazza palestinese detenuta in Israele. Smotirch ha sostenuto che le si dovrebbe almeno sparare a un ginocchio, ndt.], è il parlamentare di tutti noi. Non abbiamo sentito i dirigenti del suo partito o i ministri dell’Educazione e della Giustizia [entrambi di “Casa ebraica”, ndt.] urlare con orrore. Smotrich, come il volto cinico di Avigdor Lieberman [ministro della Difesa, del partito di estrema destra “Israele casa nostra”, ndt.], riflette il nostro stesso volto, il volto dell’avamposto dell’Occidente di Netanyahu.

Questa è la dura verità che i festeggiamenti per il settantesimo dell’indipendenza hanno reso ancora più evidente.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Einstein parla di Israele, 70 anni fa – Il fantasma di Herut*

Ramzy Baroud

25 aprile 2018, palestinechronicle

Il 4 dicembre 1948 Albert Einstein, insieme ad altre personalità ebree tra cui Hannah Arendt, pubblicò una lettera sul New York Times. Erano passati solo pochi mesi da quando Israele aveva dichiarato l’indipendenza, e centinaia di villaggi palestinesi erano stati intenzionalmente demoliti dopo averne espulsi gli abitanti.

La lettera denunciava il nuovo partito Herut di Israele e il suo giovane leader, Menachem Begin.

Herut era una costola della banda terroristica Irgun, famosa per i numerosi massacri di comunità arabe palestinesi conclusisi nella Nakba, la catastrofica pulizia etnica del popolo palestinese, cacciato dalla propria patria storica nel 1947-48.

Nella lettera, Einstein e gli altri descrivevano il partito Herut (Libertà) come un “partito politico strettamente affine nell’organizzazione, nei metodi, nel pensiero politico e nell’ascendente sociale ai partiti nazisti e fascisti”.

Che una lettera simile venisse pubblicata solo qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale e la tragedia dell’Olocausto è un’importante indicazione dell’autentico abisso che separava gli intellettuali ebrei dell’epoca: i sionisti che sostenevano Israele e la violenza della sua nascita, e quelli che, in base ad una morale superiore, vi si opponevano.

Purtroppo, quest’ultimo gruppo – sebbene esista ancora – perse la battaglia.

Successivamente, Herut si unì ad altri gruppi per formare il Likud. Begin ha ricevuto il premio Nobel per la pace e il Likud è ora il principale partito nella coalizione israeliana di governo più di destra. La filosofia “nazista e fascista” di Herut ha prevalso e ora travolge e determina la società civile di Israele.

Questa tendenza a destra è più spiccata tra i giovani israeliani che nelle generazioni precedenti.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu è capo del partito di Begin, il Likud. La sua attuale coalizione comprende il ministro della Difesa di origine russa Avigdor Lieberman, fondatore del partito ultranazionalista Yisrael Beiteinu [Israele Casa Nostra, che rappresenta soprattutto gli immigrati russi, ndt.].

In risposta alle continue proteste popolari dei palestinesi assediati a Gaza, e a giustificazione dell’elevato numero di morti e feriti fra i manifestanti disarmati dovuti all’esercito israeliano, Lieberman ha affermato che ” a Gaza non ci sono innocenti “.

Quando il ministro della Difesa di un Paese rilascia questo tipo di dichiarazioni, non può stupire il fatto che i cecchini israeliani sparino ai giovani palestinesi, e che esultino in un video mentre colpiscono il bersaglio [un filmato circolato in rete mostra alcuni soldati che si rallegrano con un cecchino che ha sparato ad un ragazzo palestinese, ndt.].

Questo tipo di discorso – fascista per eccellenza – non è affatto una narrazione marginale nella società israeliana.

La coalizione di Netanyahu pullula di personaggi altrettanto moralmente deplorabili.

Una politica israeliana, Ayelet Shaked, ha spesso invocato il genocidio dei palestinesi.

I palestinesi “sono tutti nemici combattenti e il loro sangue dovrebbe coprirne le teste”, ha scritto in un post su Facebook nel 2015. “E questo comprende anche le madri dei martiri … Dovrebbero scomparire, come le case, luoghi fisici in cui hanno allevato i serpenti. Altrimenti, altri piccoli serpenti vi saranno allevati”.

Pochi mesi dopo la pubblicazione di questa dichiarazione, Netanyahu, nel dicembre 2015, l’ha nominata Ministro della Giustizia del Paese.

Shaked appartiene al partito Jewish Home [Casa Ebraica, partito di estrema destra dei coloni, ndt.], con a capo Naftali Bennett. Quest’ultimo è il ministro dell’Istruzione israeliano ed è noto per dichiarazioni altrettanto violente. È stato uno dei primi politici a difendere i soldati israeliani accusati di violazione dei diritti umani sul confine di Gaza. Altri importanti politici israeliani ne hanno seguito l’esempio.

Il 19 aprile, Israele ha celebrato la propria indipendenza. La mentalità “nazista e fascista” che caratterizzava Herut nel 1948 caratterizza ora la più potente classe dirigente che Israele abbia avuto. I leader di Israele parlano apertamente di genocidio e omicidio, e nonostante ciò celebrano e promuovono Israele come un’icona di civiltà, di democrazia e dei diritti umani.

Perfino gli appartenenti al passato Sionismo Culturale [corrente del sionismo, rappresentata da Achad Haam e da Martin Buber, che sostenteva la rigenerazione dell’ebraismo e la convivenza con gli arabi, ndt.] sarebbero completamente inorriditi dalla creatura che è diventato il loro amato Israel a sette decenni dalla nascita.

Sicuramente il popolo palestinese sta ancora combattendo per la propria terra, identità, dignità e libertà. Ma la verità è che il più grande nemico di Israele è Israele stesso. Il Paese non è riuscito a staccarsi dalla politica e dall’ideologia violente del passato. Al contrario, il dibattito ideologico in Israele è andato decisamente a favore della violenza senza fine, del razzismo e dell’apartheid.

Nella presunta “unica democrazia del Medio Oriente”, il margine di critica è ormai molto limitato.

Sono quelli come Netanyahu, Lieberman, Bennett e Shaked che rappresentano adesso l’Israele contemporaneo e, dietro di loro, un massiccio elettorato di religiosi di destra e di ultranazionalisti che poco badano ai palestinesi, ai diritti umani, al diritto internazionale e a valori apparentemente futili come la pace e la giustizia.

Nel 1938, Einstein aveva messo in discussione l’idea che stava alla base della creazione di Israele. È contro la “natura fondamentale dell’ebraismo”, disse.

Qualche anno dopo, nel 1946, affermò davanti alla Commissione d’inchiesta anglo-americana sulla questione palestinese: “Non riesco a capire perché ce ne sia bisogno [di Israele] … Credo sia sbagliato”.

Inutile dire che se Einstein fosse vivo oggi, si sarebbe unito al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), che mira a far pagare ad Israele le sue pratiche violente e illegali contro i palestinesi.

Allo stesso tempo, sarebbe sicuramente stato etichettato come antisemita o “ebreo che odia se stesso” dai leader israeliani e dai loro sostenitori. I sionisti di oggi sono davvero imperterriti.

Ma questo tragico paradigma deve essere rovesciato. I bambini palestinesi non sono terroristi e non possono essere trattati come tali. Non sono neanche ‘piccoli serpenti’. Le madri palestinesi non dovrebbero essere uccise. Il popolo palestinese non è un “nemico combattente” da sradicare. Il genocidio non deve essere normalizzato.

Settant’anni dopo l’indipendenza di Israele e dopo la lettera di Einstein, l’eredità del Paese è ancora segnata dal sangue e dalla violenza. Nonostante la festa in corso a Tel Aviv, non c’è alcun motivo di festeggiare e molti motivi per piangere.

Tuttavia, la speranza è mantenuta in vita perché il popolo palestinese sta ancora resistendo, e ha bisogno che il mondo sia solidale. È l’unico modo perché il fantasma di Herut smetta di perseguitare i palestinesi, e le ideologie “nazista e fascista” vengano sconfitte per sempre.

*[il maggior partito politico di centro-destra del Parlamento israeliano dagli anni quaranta fino al 1988]

Ramzy Baroud è giornalista, autore e curatore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra 2018). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Mondiali e Internazionali all’Università della California a Santa Barbara.

(Traduzione di Luciana Galliano)

 

 




Rompendo un tabù politico, alcuni coloni israeliani si schierano con i beduini nella lotta contro le demolizioni

Yotam Berger

26 aprile 2018,  Haaretz

Decenni fa i fondatori di Kfar Adumim dichiararono che il vicino accampamento beduino di Khan al-Ahmar avrebbe dovuto essere demolito, ma ora 15 coloni cercano di unirsi alla battaglia legale a favore dei loro impoveriti vicini.

Già nel documento del 1979 che proponeva la costruzione di Kfar Adumim alcuni dei fondatori della colonia in Cisgiordania individuarono un problema nell’area circostante. “Lo spazio è privo di ogni insediamento permanente, e in particolare di insediamenti ebraici,” afferma il documento.

E prosegue: “Oggi vi si trovano due comunità precarie. Molti beduini lavorano la terra. Dato che la zona è utilizzata dall’esercito e molte delle attività economiche dei dintorni servono al sistema di difesa, l’area deve cessare di essere abitata dai beduini, i quali devono essere evacuati.”

Il documento suggeriva di popolare la zona con colonie attraverso le quali sarebbe stato possibile creare un “corridoio ebraico dalla costa, attraverso Gerusalemme, fino al fiume Giordano. Tale corridoio taglierebbe la continuità territoriale dell’insediamento arabo tra la Giudea e la Samaria [la Cisgiordania, ndt.].”

Il documento è firmato dai membri del cosiddetto consiglio locale di Ma’ale Adumim Bet, che più tardi è diventata Kfar Adumim, a est di Gerusalemme sulla strada principale che porta al Mar Morto (Ma’ale Adumim attualmente è la più grande colonia urbana). Tra i firmatari c’era un abitante di Kfar Adumim che in seguito l’ha resa importante nella politica nazionale: il ministro dell’Agricoltura e dello Sviluppo rurale Uri Ariel, di “Habayit Hayehudi” [“Casa Ebraica” partito di estrema destra dei coloni, ndt.]

Sono passati 39 anni da quando è stato stilato il documento, ma la lotta per eliminare i beduini dalla zona circostante è ancora in corso. La terra della limitrofa area industriale di Mishor Adumim è piena di piccoli accampamenti e villaggi beduini, i cui abitanti si guadagnano stentatamente da vivere allevando pecore e facendo lavoretti, e sono tra le comunità più povere della Cisgiordania.

La maggior parte della zona occupata dai beduini è terra dello Stato, non di proprietà privata – e la maggioranza delle tende e delle baracche di latta in cui vivono non ha permessi di costruzione o l’approvazione del piano regolatore. Perciò, il governo ha tentato di spostarli in costruzioni permanenti lontane dalle colonie ebraiche.

Mercoledì l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] deciderà ancora una volta su una serie di ricorsi relativi all’ultima fase della lotta contro l’evacuazione di comunità beduine non autorizzate nei pressi di Khan al-Ahmar. Si tratta della più grande di queste comunità, con decine di strutture. È diventata un simbolo soprattutto per la sua cosiddetta “scuola di gomme”, costruita nel 2009 con l’aiuto di una ONG italiana. La scuola è una grande struttura ben costruita, piuttosto strana nel paesaggio circostante, ed è stata edificata senza permesso: per qualche tempo lo Stato ha cercato di demolirla e di spostarla.

La “scuola di gomme” è diventata un simbolo non solo per i beduini del posto, ma anche tra i diplomatici stranieri, soprattutto europei, che la visitano regolarmente come parte di una più generale protesta contro l’espulsione dei beduini.

Una delle parti che hanno presentato una petizione all’Alta Corte perché ordini l’ evacuazione si trova nei pressi di Kfar Adumim, la qual cosa ha reso l’incontro dello scorso venerdì di quattro residenti di questa cittadina con gli abitanti di Khan al-Ahmar nient’affatto scontato. I quattro fanno parte di un gruppo di 15 abitanti di Kfar Adumim che recentemente hanno presentato una petizione all’Alta Corte, chiedendo di consentire loro di diventare parte in causa del processo – ma a favore dei beduini. L’Alta Corte mercoledì prenderà in considerazione anche la loro richiesta.

Il gruppo è guidato dal prof. Dan Turner, un medico residente da 20 anni a Kfar Adumim. Turner ha detto ad Haaretz di aver sempre creduto che Kfar Adumim “abbia fatto ogni sorta di offese ai beduini, ma non ho mai saputo i dettagli.” Poi ha sentito del tentativo di demolire la scuola e, poco dopo, dell’intenzione di distruggere tutto Khan al-Ahmar.

Mi sono sentito molto a disagio. Non conoscevo le persone che vivevano qui, persone completamente invisibili che vivono a 300 metri da casa mia,” dice Turner.

Ora sembra che per Turner le cose siano cambiate, e, dopo esserci andato la prima volta un anno fa, ora si sente a casa a Khan al-Ahmar. Alcuni degli abitanti oggi lo riconoscono. Turner abbraccia Eid Hamis Jahalan, uno dei capi della comunità, anche se qualcun altro sembra meno a proprio agio nel farlo. Ma dopo che viene servito il tè sotto al grande albero nei pressi della tenda di Eid, l’atmosfera pare più rilassata.

Seduti sotto quell’albero si può vedere la colonia di Kfar Adumim, le sue case di pietra e i tetti di tegole. Anche se sono poche centinaia di metri, le differenze nel modo e nella qualità di vita tra i coloni e i loro vicini beduini sono quasi inimmaginabili. Quando Noa Meridor, uno dei fondatori di Kfar Adumim, dichiara: “Ci siamo opposti all’idea secondo cui tutto questo spazio debba essere ebraico” – Jahalan ascolta parole che non sono mai state pronunciate dai rappresentanti dei coloni.

Tensione ancora palpabile

Anche durante il recente, inusuale incontro la tensione è palpabile. Gli abitanti di Kfar Adumim sentono che è importante sottolineare che non si ritengono di sinistra. Quando Jahalan afferma che la situazione dei beduini in Cisgiordania ricorda quella degli ebrei nella Germania nazista, i suoi quattro ospiti ebrei rifiutano il paragone. Eppure riescono a rompere una specie di muro di vetro tra i due gruppi che vivono vicini e praticamente non avevano avuto alcun contatto.

Da parte sua Jahalan dice di non essere mai stato criticato per la sua collaborazione con i coloni. Sostiene di essere stato persino elogiato per essere riuscito in quello che organizzazioni affiliate all’Autorità Nazionale Palestinese non sono mai state in grado di fare: portare persone delle comunità vicine ad appoggiare i beduini: “È la prima volta che succede qualcosa del genere. Quelli di sinistra (israeliani) si possono vedere in posti come Nabi Saleh, a Na’alin (villaggi palestinesi della Cisgiordania). Ma coloni che vengano ed appoggino i beduini – è la prima volta.”

Il gruppo di Kfar Adumim che desidera appoggiare i vicini beduini all’Alta Corte è piccolo e marginale, e farvi parte ha delle conseguenze sui rapporti sociali. Hefziba Kelner, un’insegnante, dice che non ne parla con i suoi amici: “È un argomento molto delicato e mi pare che non sai mai chi è con te e chi non lo è. E’ difficile. Devi adeguare le tue risposte, anche ora, e capire che ci sono altre opinioni. Ci penso due volte prima di dire qualcosa in pubblico.”

L’appoggio di un ex-giudice

Il gruppo di Kfar Adumim ha allegato una lettera molto inusuale alla sua richiesta perché gli venga concesso di essere parte in causa a favore dei beduini. È stata scritta da un ex-vicepresidente della Corte Suprema, Elyakim Rubinstein. Con quella che è un’iniziativa molto rara per un giudice appena pensionato, Rubinstein esprime il proprio sostegno alla richiesta del gruppo.

Rubinstein scrive che, poiché durante gli anni ha avuto a che fare con molti casi relativi alla zona, avrebbe difficoltà a prendere parte personalmente a una campagna pubblica sull’argomento, ma “vi (ai coloni) sto scrivendo in segno di rispetto per la vostra umanità, espressa nelle vostre attuali iniziative.”

L’ex giudice scrive che, benché il governo voglia soltanto discutere su come portare avanti i progetti di evacuazione dei beduini, spera ancora che con l’aiuto di Dio e un po’ di buon senso si possa ancora trovare un compromesso condiviso.

Insieme alla lettera di Rubinstein, gli abitanti di Kfar Adumim hanno presentato all’Alta Corte il parere di una serie di famosi vincitori del premio “Israel” [una delle maggiori onorificenze israeliane, ndt.] e di intellettuali israeliani, tra cui gli scrittori David Grossman, A. B. Yehoshua e Amos Oz. Questo appoggio sta aiutando la causa dei beduini e del loro gruppo di avvocati. Shlomo Lecker, l’avvocato che rappresenta la comunità di Khan al-Ahmar, ha detto ad Haaretz che già nel 2009 aveva cercato di coinvolgere intellettuali ed accademici di Kfar Adumim perché stessero dalla parte dei beduini contro il tentativo di demolire la loro scuola – e “sono stato accolto da uno sconfortante silenzio.” Ha aggiunto di essere rimasto sorpreso dal gruppo dei 15 che si sono uniti alla lotta, e spera che il suo impegno ottenga un risultato.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come il Mossad compie i suoi omicidi

Ali Younes

22 aprile 2018, Al Jazeera

La sparatoria mortale in Malaysia rivela la politica dei servizi segreti israeliani di omicidi mirati degli attivisti palestinesi.

L’omicidio dello scienziato palestinese trentacinquenne Fadi al-Batsh nella capitale malese Kuala Lumpur ha rivelato il programma riservato di uccisioni mirate di palestinesi considerati da Israele una minaccia.

Al-Batsh studiava ingegneria elettrica a Gaza prima di iniziare il Dottorato di Ricerca nella stessa disciplina in Malaysia.

Era specializzato in sistemi elettrici e risparmio energetico, e aveva già pubblicato numerosi articoli scientifici sull’argomento.

Hamas, il partito leader a Gaza, ha affermato che al-Batsh era un membro importante del partito e ha accusato l’agenzia di intelligence Mossad di essere responsabile di quanto accaduto sabato.

Chiamandolo membro “leale”, Hamas ha definito al-Batsh uno degli “scienziati della gioventù palestinese” che ha offerto “importanti contributi” e partecipato a convegni internazionali nel campo dell’energia.

Parlando ad al Jazeera, il padre di al-Batsh ha concentrato i suoi sospetti sul Mossad come responsabile dell’uccisione di suo figlio e si è appellato alle autorità malesi affinché portassero quanto prima a termine le indagini sull’assassinio.

Secondo il giornalista investigativo israeliano Ronen Bergman, uno dei principali esperti di intelligence israeliano e autore del libro Rise and Kill First, [Muoviti e uccidi per primo]l’uccisione di al-Batsh presenta tutti i tratti di un’operazione del Mossad.

Il fatto che gli assassini abbiano usato una motocicletta per colpire il loro obiettivo, già usata in molte operazioni del Mossad, e il fatto che sia stato un colpo preciso e fuori da Israele, fa sospettare il coinvolgimento del Mossad”, ha detto Bergman ad al Jazeera in un’intervista telefonica.

Identificazione dell’obiettivo

All’interno del Mossad, la più vasta società di intelligence israeliana L’identificazione di un obiettivo da eliminare in genere coinvolge diversi elementi a livello istituzionale e organizzativo, e la leadership politica.

A volte l’obiettivo è identificato da altri servizi militari o degli interni israeliani.

Per esempio, al-Batsh potrebbe essere stato identificato come obiettivo da diverse agenzie di intelligence per mezzo di unità all’interno di organizzazioni israeliane militari e di spionaggio che controllano Hamas.

Al-Batsh potrebbe anche esser stato identificato attraverso altre operazioni di spionaggio israeliano o tramite la rete di spie israeliane in tutto il mondo.

Alcune fonti hanno confermato ad al Jazeera che i contatti tra Gaza, Istanbul (Turchia), e Beirut (Libano), sono strettamente monitorati dalla rete di spionaggio israeliana. Dunque, una prima “selezione” di al-Batsh potrebbe essere stata fatta attraverso questi canali.

Gli amici di al-Batsh che hanno parlato con al Jazeera in forma anonima hanno affermato che il dottorando non aveva mai nascosto i suoi legami con Hamas.

Era conosciuto nella comunità palestinese per i suoi legami con Hamas”, ha detto un amico.

La procedura dell’omicidio

Una volta che al-Batsh fosse identificato come obiettivo, il Mossad avrebbe valutato se fosse necessario ucciderlo, quali ne fossero i benefici, e il modo migliore per farlo.

Quando l’unità specializzata del Mossad ha terminato la sua ricerca sull’obiettivo, porta i suoi risultati alla dirigenza della Commissione per i Servizi di Intelligence, che comprende i direttori delle organizzazioni di spionaggio israeliani e sono conosciute con l’acronimo ebraico VARASH, Vaadan Rashei Ha-sherutim.

VARASH discute dell’operazione e apporta suggerimenti.

Tuttavia, non ha l’autorità legale per approvare un’operazione.

Solo il primo ministro israeliano ha l’autorità di prendere tale decisione.

Bergman ha affermato che i premier israeliani solitamente preferiscono non prendere da soli tali decisioni per ragioni politiche.

Spesso il primo ministro coinvolge uno o due ministri per approvare un’operazione del genere, e sovente comprende il ministro della difesa,”.

Una volta ottenuto il via libera, l’operazione torna al Mossad per la pianificazione ed esecuzione, che potrebbe richiedere settimane, mesi o addirittura anni, a seconda dell’obiettivo.

L’unità Cesarea

La Cesarea è un’unità sotto copertura del Mossad che si occupa di addestrare e gestire spie principalmente nei paesi arabi e in tutto il mondo.

L’unità fu fondata nei primi anni Settanta, e uno dei suoi creatori fu la famosa spia israeliana Mike Harari.

Cesarea utilizza la sua vasta rete di spie negli Stati arabi, e più diffusamente in Medio Oriente, per raccogliere informazioni e sorvegliare attuali e futuri obiettivi.

Harari ha poi fondato l’unità più spietata di Cesarea, nota in ebraico come Kidon (“la baionetta”), composta da killer professionisti specializzati in omicidi e sabotaggi.

I membri di Kidon spesso provengono da settori dell’esercito israeliano, comprese le forze speciali.

Probabilmente sono stati proprio membri di Kidon a uccidere al-Batsh a Kuala Lumpur, secondo alcune fonti di al Jazeera.

Il Mossad non punta solamente a leader e attivisti palestinesi, ma anche a siriani, libanesi, iraniani ed europei.

Gli omicidi mirati

Cesarea è l’equivalente del Centro di Attività Speciali (CAS), della CIA, che veniva definito Divisione Attività Speciali prima della sua riorganizzazione e cambio di nome nel 2016.

La CIA conduce le sue missioni paramilitari top-secret, compresi omicidi mirati, attraverso il Gruppo per le Operazioni Speciali, che è parte del CAS e ha alcune somiglianze con il Kidon.

Bergman scrive che, fino al 2000, anno della seconda Intifada nei Territori Occupati, Israele ha commesso più di 500 operazioni omicide, causandola morte di più di un migliaio di persone, compresi gli obiettivi e i passanti.

Durante la seconda Intifada, Israele ha condotto più di 1000 operazioni, di cui 168 con successo, ha scritto Ronen Bergman nel suo libro.

Da allora, Israele ha condotto almeno altre 800 operazioni con lo scopo di uccidere civili appartenenti ad Hamas e leader militari nella Striscia di Gaza e all’estero.

La cooperazione araba con il Mossad

Il Mossad mantiene collegamenti formali di tipo organizzativo e storico con un certo numero di servizi segreti arabi, in particolare con agenzie di spionaggio giordane e marocchine.

In tempi più recenti, in seguito a un mutamento nelle alleanze nella regione e alla crescente minaccia di attori non statali, il Mossad ha allargato i suoi legami con le agenzie di intelligence arabe, includendo un certo numero di Stati del Golfo arabo e l’Egitto.

Il Mossad ha la sua principale struttura organizzativa per le operazioni mediorientali nella capitale giordana Amman.

Quando il Mossad tentò di assassinare il leader di Hamas Khaled Meshaal ad Amman nel 1997, spruzzandogli una dose letale di veleno nell’orecchio, l’episodio ha rischiato di far revocare all’anziano re Hussein l’accordo di pace con Israele, e di far chiudere la sede dell’agenzia di spionaggio ad Amman, oltre che di interrompere i collegamenti tra il Mossad e la Giordania al punto che Israele fornì l’antidoto che salvò la vita di Meshaal.

Nel suo libro, Bergman cita fonti del Mossad per affermare che il Generale Samih Batikhi, il capo dello spionaggio giordano dell’epoca, si arrabbiò con il Mossad che non l’aveva tenuto informato sul tentato omicidio poiché voleva organizzare congiuntamente l’operazione.

Un altro paese arabo che ha forti legami con il Mossad fin dagli anni Sessanta è il Marocco, secondo le ricerche di Bergman.

Il Marocco ha ricevuto notevole assistenza di intelligence e tecnica da Israele, e in cambio, l’anziano re Hassan ha permesso agli ebrei marocchini di emigrare in Israele, e il Mossad ha avuto il diritto di stabilire un’agenzia permanente nella capitale Rabat, da cui spiare i paesi arabi”, scrive Bergman.

L’operazione raggiunse il suo apice quando il Marocco permise al Mossad di spiare le sale di riunioni e le camere private dei capi di stato arabi e dei loro comandanti militari durante il summit della Lega Araba nel 1965.

Il summit era stato convocato per organizzare il comando militare unificato.

I metodi della CIA e del Mossad

Diversamente dal Mossad e da altre organizzazioni di intelligence israeliane che hanno un certo margine di decisione nel decidere chi uccidere, la CIA americana utilizza uno strenuo processo legale a più livelli, coinvolgendo l’ufficio del consiglio generale della agenzia, il ministero di giustizia statunitense, e l’ufficio del consiglio legale della Casa Bianca.

L’esecuzione di un’operazione concernente un omicidio mirato da parte della CIA dipende dall’autorizzazione presidenziale, rilasciata con un documento legale spesso redatto dall’ufficio del consiglio generale della CIA e dal dipartimento di giustizia.

L’autorizzazione presidenziale fornisce autorità legale con cui la CIA può eseguire la sua missione di omicidio mirato.

Un processo di revisione che coinvolge diverse agenzie, condotto principalmente da giuristi del dipartimento di giustizia, dalla Casa Bianca e dalla CIA, deve aver luogo prima che il presidente firmi l’autorizzazione.

Si stima che Barack Obama, in qualità di presidente degli Stati Uniti, autorizzò circa 353 operazioni di omicidi mirati, soprattutto per mano di droni.

Il suo predecessore George W Bush ne autorizzò circa 48.

Il processo legale

Un ex ufficiale della CIA ha detto ad al Jazeera, in modo anonimo, che “la CIA non decide chi uccidere”.

Il processo legale rende davvero difficile alla CIA l’uccisione di qualcuno solo perché la CIA pensa che sia un nemico”, ha affermato.

La maggior parte degli omicidi mirati della CIA coinvolgono l’uso di droni e sono attuate su autorizzazione presidenziale.

Parlando con al Jazeera, Robert Baer, un ex funzionario operativo della CIA, ha detto: “la Casa Bianca deve firmare per ogni omicidio mirato, soprattutto se è un obiettivo molto pericoloso”.

È un caso diverso, tuttavia, se l’operazione è condotta sul campo di battaglia o durante un conflitto, come in Afghanistan o in Iraq, caso in cui gli ufficiali sul campo hanno più potere legale per portare a compimento i loro omicidi mirati”.

Per il Mossad, la legittimità dell’omicidio di unqualunque obiettivo è più larga e non coinvolge elementi legali simili a quelli della CIA, secondo fonti a conoscenza del procedimento.

Fa parte della politica nazionale”, ha concluso Baer, riferendosi alla politica israeliana degli omicidi mirati.

( Traduzione di Veronica Garbarini)




La copertura dei media: difendere Israele è una questione di politica

Ramzy Baroud

18 aprile 2018, Palestine Chronicle

Il termine “parzialità dei media” non rende giustizia del rapporto

che i mezzi di comunicazione occidentali hanno con Israele e la Palestina. Che è, infatti, molto peggio della semplice tendenziosità. Non è neppure una questione di ignoranza. È una campagna premeditata e di lunga durata, intesa a proteggere Israele e a demonizzare i palestinesi.

L’attuale scandalosa informazione sulle proteste popolari mostra come la posizione dei media tenda a cancellare la verità sulla Palestina, ad ogni costo e con ogni mezzo. La simbiosi politica, l’affinità culturale, Hollywood, la capillare influenza dei gruppi filoisraeliani e sionisti nei circoli politici e mediatici occidentali sono alcune delle ragioni che molti di noi hanno dato sul perché Israele sia spesso visto con occhi comprensivi e i palestinesi e gli arabi condannati.

Ma queste spiegazioni non sono ancora sufficienti, Attualmente ci sono vari canali di informazione che cercano di compensare lo sbilanciamento, molti dei quali mediorientali, ma anche di altre parti del mondo. Giornalisti, intellettuali e personalità della cultura palestinesi ed arabi sono presenti come mai prima sulla scena mondiale perfettamente in grado di fronteggiare, se non sconfiggere, il discorso filoisraeliano dei media.

Tuttavia sono in gran parte invisibili ai mezzi di comunicazione occidentali: è il portavoce israeliano che continua ad occupare il centro della scena, parlando, urlando, teorizzando e demonizzando a suo piacere.

Non è dunque una questione di ignoranza dei media, ma una politica.

Anche prima del 30 marzo, quando parecchi palestinesi di Gaza sono stati uccisi e migliaia feriti, i mezzi di comunicazione USA e britannici, per esempio, avrebbero dovuto quanto meno chiedere perché a centinaia di cecchini israeliani e carri armati dell’esercito sia stato ordinato di schierarsi sul confine di Gaza per affrontare manifestanti palestinesi.

Invece hanno parlato di scontri tra giovani di Gaza e cecchini, come se fossero forze equivalenti in una battaglia ad armi pari.

I media occidentali non sono ciechi. Se la gente comune è sempre più in grado di vedere la realtà riguardo alla situazione in Palestina, esperti giornalisti occidentali non possono ragionevolmente non vederla. Sanno, ma scelgono di rimanere in silenzio.

Il principio secondo cui la propaganda ufficiale israeliana, o “hasbara”, è troppo scaltra non basta più. Nei fatti non è neanche tanto vero.

Dov’è la scaltrezza nel modo in cui l’esercito israeliano ha spiegato l’uccisione di palestinesi disarmati a Gaza?

Ieri abbiamo visto 30.000 persone,” ha tweettato l’esercito israeliano il 31 marzo. ”Siamo arrivati preparati e con i rinforzi necessari. Niente è stato fatto per caso; tutto è stato accurato e misurato, e sappiamo dove è finito ogni proiettile.”

Se non bastasse, il ministro della Difesa di Israele, l’ultranazionalista Avigdor Lieberman, ha fatto seguito a questa auto-accusa dichiarando che “non ci sono persone innocenti a Gaza”, legittimando quindi il fatto di aver preso di mira ogni gazawi all’interno della Striscia assediata.

La scorretta informazione dei media non è alimentata dalla semplicistica nozione ”astuto Israele, arabi imprudenti.” I media occidentali sono attivamente coinvolti nella difesa di Israele e nella promozione della sua immagine in crisi, demolendo al contempo in modo accurato quella dei nemici di Israele.

Prendete per esempio l’infondata propaganda di Israele secondo cui Yasser Murtaja, il giornalista di Gaza che è stato ucciso a sangue freddo da un cecchino israeliano mentre informava sulle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” sul confine di Gaza, sarebbe stato un membro di Hamas.

All’inizio, “fonti ufficiali anonime” in Israele hanno affermato che Yasser era “un membro dell’apparato di sicurezza di Hamas.” Poi Lieberman ha offerto ulteriori dettagli (artefatti) secondo cui Yasser era sul libro paga di Hamas dal 2011 e “ricopriva un ruolo pari a quello di capitano”. Molti giornalisti hanno ripreso queste affermazioni e le hanno ripetute, associando continuamente ad Hamas ogni informazione sulla morte di Yasser.

Si è poi saputo che, secondo il Dipartimento di Stato USA, la nuova agenzia giornalistica di Yasser a Gaza aveva in realtà ricevuto un piccolo finanziamento da USAID [ente federale USA di cooperazione allo sviluppo, legata alla politica estera USA, ndt.], che ha sottoposto l’impresa di Yasser a un rigoroso processo di valutazione.

Ancora, un rapporto della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha affermato che Yasser era stato in realtà arrestato e picchiato dalla polizia di Gaza nel 2015 e che il ministero della Difesa israeliano stia costruendo una montatura.

A giudicare da ciò, l’apparato mediatico israeliano è inaffidabile e contraddittorio tanto quanto quello della Corea del Nord; ma non è questa l’immagine trasmessa dai media occidentali, che continuano a collocare Israele su un piedestallo mettendo al contempo in cattiva luce i palestinesi, indipendentemente dalle circostanze.

Ma nell’approccio dei mezzi di comunicazione occidentali alla Palestina e a Israele c’è di più della protezione ed esaltazione di Israele, con la demonizzazione dei palestinesi. Spesso i media lavorano per distrarre del tutto l’attenzione dai problemi, come oggi in Gran Bretagna, dove l’immagine di Israele sta rapidamente peggiorando.

Per impedire che si parli della Palestina, dell’occupazione israeliana e dell’incondizionato appoggio del governo britannico ad Israele, i principali media britannici hanno concentrato l’attenzione su Jeremy Corbyn, il popolare leader del partito Laburista.

Accuse di antisemitismo hanno perseguitato il partito fin dall’elezione di Corbyn nel 2015. Eppure Corbyn non è razzista, al contrario si è opposto al razzismo, a favore della classe operaia e di altri gruppi svantaggiati. La sua posizione fortemente favorevole ai palestinesi, in particolare, minaccia di imporre un cambiamento epocale su Palestina e Israele all’interno del rilanciato e rivitalizzato partito Laburista.

Purtroppo la contro-strategia di Corbyn è praticamente inesistente. Invece di rilasciare una dichiarazione di condanna di ogni forma di razzismo e di passare ad affrontare gli urgenti problemi in questione, compreso quello della Palestina, egli permette ai suoi detrattori di determinare la natura della discussione, se non di tutto il discorso. Ora è intrappolato in un dibattito senza fine, mentre il partito Laburista sta sistematicamente espellendo suoi membri per presunto antisemitismo.

Considerando che Israele e i suoi alleati nei media ed altrove confondono le critiche a Israele e alla sua ideologia sionista con quelle contro gli ebrei e l’Ebraismo, Corbyn non può vincere la sua battaglia.

Neppure gli amici di Israele sono interessati a vincere. Vogliono semplicemente prolungare un dibattito futile in modo che la società britannica rimanga invischiata in un diversivo e risparmi ad Israele ogni obbligo di rendere conto delle sue azioni.

Se i media britannici sono effettivamente ansiosi di denunciare il razzismo e di isolare i razzisti, perché allora si discute così poco sulle politiche razziste di Israele che prendono di mira i palestinesi?

Le acrobazie dei media continuano a fornire ad Israele i margini necessari per proseguire con le sue politiche violente contro il popolo palestinese, senza nessun costo morale. Rimarranno leali ad Israele, creando una barriera tra la verità e il pubblico.

Tocca a noi mettere in evidenza questo squallido rapporto e chiedere ragione ai media del fatto di nascondere i crimini di Israele, così come in primo luogo a Israele del perché li sta commettendo.

Ramzi Baroud è un giornalista, autore ed editorialista di Palestine Chronicle. Il suo libro di prossima pubblicazione è “The Last Earth: A Palestinian Story” [“L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato in Studi Palestinesi all’università di Exeter ed è docente non residente presso l’“Orfalea Center for Global and International Studies” dell’università della California a Santa Barbara.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Ufficiale israeliano in carcere per nove mesi per aver ucciso un adolescente palestinese

Chloé Benoist

mercoledì 25 aprile 2018,Middle East Eye

La famiglia di Nadim Nuwara dice che ricorrerà in appello contro Ben Deri, che ha sparato alla schiena al figlio di 17 anni durante la marcia del 2014 per commemorare la Nakba.

Un poliziotto di frontiera israeliano sarebbe stato condannato a nove mesi di prigione e multato con il corrispettivo di 13.955 dollari per aver ucciso nel 2014 il ragazzo palestinese Nadim Nuwara durante una manifestazione in commemorazione della Nakba.

Il giornale israeliano Haaretz ha riportato che mercoledì un giudice della corte distrettuale di Gerusalemme ha condannato Ben Deri, riscontrando un “significativo livello di negligenza” e ne ha chiesto l’incarcerazione, pur specificando che Deri è “un eccellente ufficiale di polizia rispettoso degli ordini.”

Siyam Nuwara, padre di Nadim, ha detto a Middle East Eye che la famiglia stava pensando di presentare appello contro il verdetto e ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire sul caso.

Non c’è giustizia in Israele,” ha detto. “Abbiamo raccolto tutte le prove, ma non c’è giustizia.”

Nuwara aveva 17 anni quando venne colpito alla schiena fuori dalla prigione di Ofer, l’unica prigione israeliana situata all’interno della Cisgiordania occupata, durante una protesta per ricordare il 66° anniversario della Nakba, l’espulsione di 750.000 palestinesi durante la creazione di Israele.

Telecamere di sicurezza e troupe televisive ripresero il momento in cui Nadim fu ucciso.

Quel giorno anche un altro giovane palestinese, Mohammed Odeh Abu al-Thahir, venne colpito ed ucciso, tuttavia le autorità israeliane non hanno aperto nessuna inchiesta giudiziaria sulla sua morte.

Alcuni gruppi per i diritti umani, compreso Human Rights Watch, hanno affermato che il ragazzo non costituiva una minaccia imminente quando è stato ucciso, e HRW ha definito il caso “un evidente crimine di guerra”.

Inizialmente le forze israeliane negarono che quel giorno fossero stati sparati proiettili veri, mentre alcune fonti ufficiali israeliane, tra cui l’allora ambasciatore negli Stati Uniti, Michael Oren, sostennero che le morti di Nuwara e al-Thahir erano una messa in scena.

L’esame autoptico dimostrò che Nuwara era stato colpito al torace. Deri venne arrestato sei mesi dopo e in un primo tempo accusato di omicidio.

La difesa di Deri si è imperniata sulla versione secondo cui un proiettile vero era caduto “accidentalmente” nel caricatore dell’arma dell’ufficiale, mentre lo stava caricando con pallottole di acciaio ricoperto di gomma.

All’inizio del 2017 Deri ha accettato un patteggiamento che ha derubricato l’imputazione contro di lui a omicidio colposo per negligenza.

La famiglia di Nuwara ha contestato il patteggiamento di fronte al tribunale, sostenendo che era stato raggiunto senza che loro ne fossero a conoscenza e che quel giorno Deri aveva usato consapevolmente proiettili veri.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’tselem ha affermato in un comunicato: “Il processo a Ben Deri esemplifica come il sistema investigativo e legale di Israele insabbi le continue uccisioni di palestinesi.”

Persino in questo caso, inusuale in quanto le accuse sono state formulate e si è persino arrivati al processo, l’insabbiamento continua. Il giudizio è finito con una sentenza vergognosamente mite, che serve solo a sottolineare il solito messaggio: le vite dei palestinesi sono a perdere.

Israele sicuramente si vanterà di questo processo come un chiaro esempio della sua capacità di fare giustizia. Al diavolo i fatti, quello che conta è la propaganda.”

L’udienza di mercoledì si è tenuta mentre Israele affronta le critiche per la politica di fuoco indiscriminato nella Striscia di Gaza assediata, dove dal 30 marzo l’esercito israeliano ha ucciso 39 palestinesi e ferito altre migliaia di manifestanti che partecipavano alla “Grande Marcia del Ritorno.”

Le autorità israeliane raramente incriminano soldati che hanno ucciso palestinesi. Quando membri delle forze israeliane sono imputati per queste morti, le condanne sono spesso brevi – creando quello che l’ong israeliana per i diritti umani Yesh Din ha chiamato un contesto di “quasi impunità”.

Hanan Ashrawi, membro direttivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha denunciato il doppio standard del sistema giudiziario israeliano.

È ridicolo che la ragazzina palestinese Ahed Tamimi, che ha affrontato un soldato israeliano che stava invadendo casa sua nella Cisgiordania occupata, sia stata obbligata a scontare otto mesi in una cella di un carcere israeliano,” ha detto.

Nel contempo il poliziotto di frontiera israeliano Ben Deri…ha avuto una sentenza di soli nove mesi.”

Finché la comunità internazionale rimarrà in silenzio, l’ingiustizia e l’oppressione del popolo palestinese continueranno senza sosta. Israele deve essere chiamato a rendere conto della sua violenza incontenibile e delle gravi violazioni contro il popolo palestinese.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




È così che si fa, signorina Portman, ma è solo l’inizio

Gideon Levy

22 aprile 2018, Haaretz

Il rifiuto di Natalie Portman di prendere parte alla cerimonia del Premio Genesis è stato un grande colpo. Il suo chiarimento ha attenuato la portata del passo compiuto.

L’annuncio della decisione di Natalie Portman di boicottare la cerimonia del Premio Genesis è stato un colpo formidabile. Eccolo qui, che arriva dalla vetta del glamour, da un’innamorata di Israele quale lei è, ebrea, che parla ebraico, nata in Israele, cittadina di Israele e una fonte di orgoglio per Israele, e che ha molto da perdere. Non un’antisemita o una fondamentalista, non di estrema destra o della sinistra radicale, non Roger Waters, neppure una del BDS [movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, ndt.]. Proprio un colpo al centro, dal cuore del centro ebraico: una critica a Israele, le bibliche “ferite di un amico” [“Fedeli sono le ferite di un amico, ma ingannevoli sono i baci di un nemico” da Proverbi, 27:6, ndt.], persino una specie di boicottaggio.

Mentre artisti israeliani “di sinistra” hanno paura del rapper “The Shadow” [“L’ombra”, rapper israeliano di estrema destra, ndt.] e soprattutto della loro stessa ombra, un’artista del suo calibro arriva e fa una chiara dichiarazione su Israele. Insieme ad una coscienza, è necessaria una grande quantità di coraggio per un simile passo, soprattutto di fronte a una Hollywood ebraica, sionista, spietata, che non perdonerà Portman né se ne dimenticherà.

Né la perdonerà per questo la Destra israeliana: il ministro della guerra (contro il movimento BDS), cioè quello della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan, ha subito pubblicato una lettera in cui spiega a Portman la situazione. Quello che sta succedendo a Gaza non è a causa nostra, è tutta colpa di Hamas. La solita propaganda insensata e menzognera, proprio nel giorno in cui i tiratori scelti dell’esercito israeliano hanno ucciso a sangue freddo un altro quindicenne e la foto di Mohammed Ayoub sanguinante sulla sabbia di Gaza è stata pubblicata in tutto il mondo. Si è subito scoperto che Erdan, come molti altri, era sicuro che il massacro di manifestanti a Gaza sia stato ciò che ha appiccato l’incendio nello stomaco di Portman. Ma non è stato così.

Il chiarimento di Portman ha attenuato la portata del passo compiuto: “Ho scelto di non partecipare perché non voglio apparire come una sostenitrice di Benjamin Netanyahu,” ha scritto. Un grande passo avanti e un piccolo passo indietro. Netanyahu è certamente un problema, ma non il problema su cui Portman, come persona di coscienza e sionista, deve far sentire la propria voce. Netanyahu è Israele.

Portman ha fatto molta strada, non solo dal suo primo film al suo Oscar, ma anche dalla lettera che pubblicò sull’ “Harvard Crimson” [“Harvard Cremisi”, giornale dell’università di Harvard, ndt.] 16 anni fa in difesa di Israele e negando la sua situazione di apartheid, al passo fatto venerdì.

Il cambiamento in lei, che a quanto pare è avvenuto in molti ebrei, è una buona notizia, come lo è il suo coraggio. Ma la strada è ancora lunga. Portman ha scritto che non sarebbe venuta a causa della “violenza, corruzione, disuguaglianza e abuso di potere.” Neppure una sola parola esplicita sul peccato originale, l’occupazione.

Né la protesta di Portman è diretta all’indirizzo giusto. È un’autodifesa incolpare Netanyahu di tutto. Come molti ebrei (e israeliani) progressisti, Portman considera Netanyahu la radice di ogni male. E cosa dire dei suoi predecessori, quelli che hanno seminato la distruzione e le uccisioni a Gaza e in Libano, che hanno imposto a Gaza un blocco crudele, che hanno rafforzato l’occupazione in Cisgiordania e triplicato il numero di coloni (lei ha stretto le loro mani, meno quella di Netanyahu)?

Il potere mediatico di Portman è enorme. Venerdì mattina la sua dichiarazione su Instagram aveva già riscosso 100.000 “mi piace”. Gli ebrei, come molti israeliani, hanno tirato un sospiro di sollievo. Portman è contro il BDS e contro Netanyahu, ma continua a onorare “il cibo, i libri, l’arte, il cinema e la danza israeliani”.

Con tutto il rispetto, signorina Portman, il cibo, la danza e il cinema israeliani sono anch’essi macchiati, in misura più o meno grande, dall’occupazione. Siamo tutti da condannare per questo. Il modo per porvi fine, che è la prima e fondamentale condizione per rendere Israele un Paese più giusto, passa da iniziative coraggiose come quella che lei ha preso, ma devono rivolgersi al cuore dell’inferno e non solo ai suoi margini; all’origine del tumore e non solo alle sue metastasi. Devono diventare iniziative concrete, come quelle che chiede il movimento BDS. È l’unico modo per scuotere Israele dall’autocompiacimento.

Mi tolgo umilmente il cappello di fronte a lei ed al suo coraggio, signorina Portman. La sua direzione è quella giusta; senza il vento in poppa da persone come lei, qui non cambierà niente. Ma è solo l’inizio.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Come Israele disumanizza la resistenza palestinese

Ramona Wadi

Lunedì 23 aprile 2018, Middle East Eye

Senza un intervento internazionale la pressione di Israele per far sparire i palestinesi completerà il ciclo di isolamento.

C’è un metodo standard con il quale la comunità internazionale reagisce alle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele, a seconda della visibilità delle misure oppressive e che esse corrispondano alle caratteristiche di precedenti condanne. Il risultato è un processo di sensibilizzazione selettiva, in base al quale l’incarcerazione di minori palestinesi, le demolizioni di case, l’espansione delle colonie e il dislocamento forzato sono destinati a futili critiche e condanne.

Tuttavia, quando si tratta di altre misure che dimostrano direttamente l’intenzione di Israele di prendere di mira la resistenza palestinese e di far sparire palestinesi, il silenzio è sorprendente. All’inizio di febbraio i genitori di un soldato ucciso a Gerusalemme est occupata hanno detto alla Commissione per gli Affari Interni della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] che i corpi di palestinesi nelle mani di Israele dovrebbero essere trattenuti per sempre o gettati “in mare” come forma di deterrenza.

Durante la stessa sessione, la richiesta è stata ripetuta dal presidente della Commissione degli Affari Interni, il deputato Yoav Kisch [del Likud, principale partito israeliano, ndt.], che ha fatto riferimento alla versione USA riguardo al fatto che il corpo del leader di Al-Qaeda Osama Bin Laden sarebbe stato gettato in mare.

Precedenti storici

La riproposizione della versione USA serve a vari obiettivi. Incoraggia le azioni di uno dei principali alleati di Israele, mentre sfrutta anche la propaganda sul “terrorismo” per demolire la lotta anticolonialista palestinese – una tattica che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha utilizzato in molte occasioni con il pretesto di preoccupazioni per la sicurezza.

Ci sono precedenti storici della scomparsa di oppositori politici adottata come prassi corrente. L’America latina, dove dittature sostenute dagli USA hanno inculcato il terrore facendo sparire i propri oppositori, presenta moltissimi esempi.

Cile ed Argentina, rispettivamente sotto Augusto Pinochet e Jorge Rafael Videla, hanno fatto uso di “voli della morte”, gettando nell’oceano da elicotteri i corpi torturati di oppositori. In Argentina si stima che siano scomparse circa 30.000 persone.

L’esistenza di Israele si basa sulla premessa dell’inesistenza della Palestina. Senza che niente giustificasse le affermazioni del primo sionismo in merito ad una terra deserta, la pulizia etnica e la sistematica espulsione durante la Nakba [la “catastrofe”, cioè la pulizia etnica di centinaia di migliaia di palestinesi nel territorio divenuto poi lo Stato di Israele, ndt.] vennero in seguito perfezionate con una serie di misure oppressive che portarono agli stessi risultati in un lungo periodo di tempo.

La reazione internazionale ha favorito Israele: ripetute violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali non hanno suscitato che condanne ripetitive. Ciò ha consentito al governo israeliano di ampliare il proprio discorso securitario e le misure repressive.

Nel febbraio 2016 il ministro dell’Educazione israeliano Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni “Casa Ebraica”, ndt.] ha fatto un appello per “seppellire i combattenti palestinesi contro l’occupazione in cimiteri segreti e distruggere tutte le case dei loro villaggi d’origine.” Mentre Bennett è ben noto per la sua virulenza, la sua dichiarazione deve essere letta all’interno di un contesto di costante rifiuto di Israele di consegnare ai familiari del defunto i corpi dei palestinesi uccisi.

Normalizzazione della violenza israeliana

A dicembre la Corte Suprema israeliana ha sentenziato contro questa prassi, tuttavia il governo ha continuato, nonostante questa pratica contravvenga sia alla legge israeliana che all’articolo 130 della Quarta Convenzione di Ginevra.

I parlamentari israeliani hanno anche difeso questa prassi durante il recente incontro della commissione della Knesset. Accusando l’esistenza di forme di istigazione [alla violenza] durante i funerali, il deputato Mickey Levy [di Yesh Atid, partito di centro, ndt.] ha descritto la restituzione dei corpi in piena notte sotto rigide misure di sicurezza: “Ho schierato 700 soldati in modo che nessun altro se non i familiari più stretti lasciassero la casa.”

Da notare in modo particolare le dichiarazioni conclusive del deputato Kisch: “L’Alta Corte deve anche capire il contesto umano. È una situazione assurda – stiamo distruggendo con le nostre mani gli strumenti per lottare contro il terrorismo.”

Per supportare la normalizzazione della violenza israeliana, per l’entità coloniale è necessario disumanizzare la resistenza palestinese. L’occultamento del contesto della resistenza armata palestinese è un fattore importante per Israele – che la comunità internazionale ha rapidamente imitato.

C’è stato un altro esempio all’inizio dell’anno, quando una controversa proposta del ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra “Israele è casa nostra”, ndt.] ha ottenuto l’approvazione preliminare della Knesset. La legge presentata renderebbe più facile ad un tribunale israeliano comminare la pena di morte a chi viene condannato per attacchi “terroristici”. L’espressione “terrorista” è applicata esclusivamente ai palestinesi coinvolti in attività di resistenza contro l’oppressione israeliana.

Criminalizzare la resistenza

Complessivamente Israele ha già perfezionato la normalizzazione delle continue violazioni, a cui il mondo non reagisce. Le distruzioni di case e le espulsioni sono classificate come relative alla questione dei rifugiati. La privazione di necessità fondamentali ricade sotto l’agenda umanitaria. L’ambiente inquinato di Gaza è stato definito “inabitabile”.

Al tempo stesso, i palestinesi coinvolti in attività di resistenza vengono criminalizzati al punto che la loro umanità viene negata.

Negli scorsi anni, tra le altre cose, il governo israeliano ha imposto l’alimentazione forzata a prigionieri palestinesi in sciopero della fame, ha perpetrato esecuzioni extragiudiziarie, ha comminato lunghe pene detentive a palestinesi che hanno lanciato pietre per resistere alla violenza dello Stato e dei coloni e ha trattenuto i corpi di palestinesi uccisi da Israele.

Nel frattempo lo Stato coloniale gode dell’impunità per le proprie provocazioni, come far sparire palestinesi in cimiteri segreti o chiedere che i loro corpi vengano gettati in mare.

In questo modo Israele sta garantendosi che tutti i palestinesi vengano puniti severamente. Le varie forme di punizione collettiva distolgono l’attenzione dal più complessivo tentativo di sottomettere completamente i palestinesi, mentre consentono alla comunità internazionale di fingere di sostenere la causa umanitaria mentre ignora palesemente l’umanità degli attori della resistenza palestinese.

Silenzio internazionale

L’assenza di indignazione per il fatto che Israele prenda di mira i palestinesi e per il suo incitamento a far sparire quelli che partecipano alla lotta anticoloniale è un’anomalia nel contesto dei diritti umani. Da una prospettiva internazionale, tuttavia, il silenzio era prevedibile.

A differenza dei movimenti sociali in America Latina, che sono stati in grado di mobilitarsi contro le violazioni e le sparizioni, i palestinesi devono affrontare un crescente isolamento, fino al punto che, per esempio, l’opposizione dell’UE alla proposta di pena di morte si è ridotta a un generico tweet. Le richieste di ministri del governo e di coloni di far sparire palestinesi non hanno suscitato reazioni a livello internazionale.

Cosa significa per i palestinesi questo silenzio collettivo e premeditato? Con la resistenza e la sopravvivenza minacciate da misure punitive, i palestinesi – sia che resistano o che rimangano passivi – stanno affrontando un programma di eliminazione che non viene messo in discussione dalla comunità internazionale.

Quanto ci vorrà per denunciare a voce alta la degenerazione delle istituzioni internazionali e il loro sfruttamento dei diritti umani? La storia ha mostrato che la pulizia etnica della Palestina nel 1948 venne ignorata dall’ONU per dare il benvenuto alla nascita di Israele.

Senza un approccio collettivo e internazionale, la sparizione dei palestinesi completerà il ciclo di isolamento, concludendosi nell’oblio.

– Ramona Wadi è una ricercatrice indipendente, giornalista freelance, critica letteraria e blogger specializzata nella lotta per la memoria in Cile e in Palestina.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




A Gaza Israele uccide un minorenne e spezza ossa

Maureen Clare Murphy

20 aprile 2018, Electronic Intifada

Le forze israeliane hanno ucciso quattro palestinesi, compreso un ragazzino, mentre per il quarto venerdì consecutivo si svolgevano manifestazioni di massa lungo il lato orientale di Gaza come parte di una protesta di sei settimane per la “Grande Marcia del Ritorno”.

Muhammad Ibrahim Ayyoub, 14 anni, colpito venerdì alla testa a est di Jabaliya nel nord di Gaza, è il quarto minorenne tra i più di 30 palestinesi uccisi durante le proteste da quando, il 30 marzo, le manifestazioni sono iniziate.

Infermieri che oggi hanno portato via il ragazzino hanno dichiarato che è stato colpito alla testa con un proiettile letale a circa 50 metri dalla barriera, a est di Jabaliya, senza nessun indizio che rappresentasse un pericolo per le forze israeliane,” ha affermato venerdì l’ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie.

L’inviato delle Nazioni Unite per la pace in Medio Oriente Nickolay Mladenov ha abbandonato le sue abitualmente caute dichiarazioni che esprimono “preoccupazione” e chiedono “la massima moderazione”.

Su Twitter Mladenov ha sostenuto che è “vergognoso sparare a un ragazzino!” ed ha aggiunto che “il tragico incidente deve essere indagato.”

Gli altri tre palestinesi uccisi venerdì sono stati identificati dal ministero della Salute di Gaza come Ahmad Nabil Abu Aqel, 20 anni, Ahmad Rashad al-Athamna, 24, e Saad Abd al-Majid Abd al-Al Abu Taha, 29.

Abu Aqel, di Beit Hanoun, nella parte settentrionale di Gaza, è stato colpito da un proiettile alla nuca durante proteste a est del campo di rifugiati di Jabaliya. Fotografie che circolano sulle reti sociali mostrano che parte del suo cranio è stata strappata via.

Immagini che mostrano Abu Aqel prima che venisse colpito sono circolate sulle reti sociali in seguito all’annuncio della sua morte.

Una di queste lo mostra mentre viene curato da un medico per una lieve ferita prima che venisse ucciso.

Secondo il gruppo per i diritti umani “Al Mezan”, con sede a Gaza, Abu Aqel era “seduto su una collina di sabbia a circa 150 metri a ovest della barriera di confine, e voltava la schiena alle forze di occupazione israeliane quando queste ultime gli hanno sparato” venerdì.

Abu Aqel usava le stampelle in seguito al fatto di essere rimasto ferito da un proiettile vero alla gamba sinistra durante la protesta dell’8 dicembre contro il riconoscimento USA di Gerusalemme come capitale di Israele.

Al Mezan afferma che l’uccisione di Abu Aqel, un disabile che non rappresentava nessuna ragionevole minaccia per le forze israeliane, a molta distanza e protette da fortificazioni di terra e da barriere, ricorda l’uccisione da parte di un cecchino, nel dicembre 2017, di Ibrahim Abu Thurrayya, un uomo in sedia a rotelle che aveva perso le sue gambe in un precedente attacco israeliano.

Ahmad Rashad al-Athamna è stato ferito mortalmente venerdì da una pallottola alla schiena a Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza.

Dopo l’annuncio della sua morte sulle reti sociali è circolata una sua foto.

Il ministero della Salute di Gaza ha affermato che Saad Abd al-Majid Abd al-Al Abu Taha è stato colpito al collo durante proteste a est di Khan Younis.

Il ministero ha informato che più di 700 persone sono rimaste ferite durante le proteste di venerdì, 156 delle quali da proiettili veri. Quattro sarebbero state gravemente ferite.

Al Mezan” ha chiesto “alla comunità internazionale di passare dalla semplice condanna a un’azione concreta per proteggere i civili e garantire il rispetto dei principi dei diritti umani e delle leggi umanitarie.”

Il gruppo ha aggiunto che la continua tolleranza nei confronti del comportamento di Israele costituisce “un incoraggiamento perché le forze israeliane mettano in atto sistematiche violazioni delle leggi internazionali.”

Secondo “Al Mezan” dal 30 marzo più di 1.600 palestinesi di Gaza sono rimasti feriti da proiettili veri durante le proteste.

Questa settimana il gruppo palestinese per i diritti umani “Al-Haq” ha affermato di aver documentato ferite da parte delle forze israeliane “che hanno preso di mira deliberatamente specifiche parti del corpo dei manifestanti palestinesi a Gaza, provocando la morte o ferite gravi e permanenti.”

Il direttore del pronto soccorso dell’ospedale al-Shifa, il più grande di Gaza, ha detto ad “Al-Haq” che la maggior parte delle ferite sono state provocate da “munizioni vere, per lo più dirette agli arti inferiori, con la rottura di vaste parti ossee, il taglio di vene, nervi e muscoli e la perdita di pelle nella zona ferita.”

Secondo Al-Haq l’ospedale ha osservato “una nuova caratteristica delle ferite” dall’inizio delle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” il 30 marzo, “per cui il punto di entrata del proiettile è piccolo mentre il foro d’uscita è grande.” Questi casi “richiedono operazioni di molte ore e una equipe medica più numerosa.”

Al-Shifa ha anche avuto casi senza precedenti di danni provocati da gas lacrimogeni che comprendono “commozione cerebrale, forti crampi e perdita dei sensi a causa dell’inalazione dei gas, che necessitano di immediata sedazione, ausili respiratori e trattamenti di evaporazione.”

Il gruppo umanitario “Medici senza Frontiere” ha anche osservato nelle scorse tre settimane “ferite insolitamente gravi e devastanti da armi da fuoco.”

La grande maggioranza dei pazienti – per lo più giovani, ma anche qualche donna e bambino – presenta ferite insolitamente gravi agli arti inferiori,” ha affermato il gruppo, sottolineando che alcuni dei fori d’uscita erano “delle dimensioni di un pugno.”

Giovedì l’associazione umanitaria ha dichiarato che “il numero di pazienti curati nei nostri ambulatori nelle ultime tre settimane è maggiore del numero di quelli che abbiamo assistito durante tutto il 2014, quando è stata lanciata l’operazione militare israeliana “Margine protettivo” contro la Striscia di Gaza.

Marie-Elisabeth Ingres, capo della missione di “Medici senza Frontiere” in Palestina, ha affermato in un comunicato stampa che “metà dei più di 500 pazienti che abbiamo accolto nei nostri ambulatori presenta ferite in cui la pallottola ha letteralmente distrutto il tessuto dopo aver fatto a pezzi l’osso.”

Questi pazienti necessiteranno di operazioni chirurgiche estremamente complesse e molti di loro rimarranno disabili a vita,” ha aggiunto.

Alcuni pazienti dovranno subire l’amputazione delle gambe se non riceveranno da Israele il permesso di avere cure mediche specialistiche fuori da Gaza, come è già successo per molti manifestanti feriti.

Jamie McGoldrick, il vice-coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente, giovedì ha affermato che “l’attuale picco di necessità umanitarie è una crisi che è più grave di una catastrofe.”

McGoldrick ha aggiunto che “gli operatori dei servizi essenziali di Gaza non hanno al momento la possibilità di gestire l’attuale situazione.”

Venerdì l’ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari ha detto che il sistema sanitario di Gaza è “sull’orlo del collasso in seguito al blocco decennale, alla divisione politica sempre più profonda tra i palestinesi, alla crisi energetica in peggioramento, al pagamento irregolare del personale medico del settore pubblico e alla crescente mancanza di medicine e di prodotti monouso.”

L’OCHA ha aggiunto che “l’esposizione alla violenza durante le ultime tre settimane ha anche avuto conseguenze significative per la salute mentale e psicosociale, soprattutto tra i bambini.”

Propaganda israeliana

Israele continua a sostenere la versione secondo cui la sua repressione mortale contro manifestanti disarmati è necessaria per difendere i suoi confini e i civili da “disordini” utilizzati come copertura del “terrorismo” di Hamas.

Un video propagandistico dell’esercito afferma: “È per questo che l’IDF (l’esercito israeliano) deve proteggere la barriera di sicurezza.”

Non un solo soldato o civile israeliano risulta essere stato ferito in seguito alle proteste della “Grande Marcia del Ritorno”.

Due terzi dei due milioni di abitanti di Gaza sono rifugiati provenienti dalle terre su cui è stato dichiarato lo Stato di Israele nel 1948. Israele ha da molto tempo impedito ai rifugiati palestinesi di tornare nelle loro terre e case in quanto non sono ebrei.

Venerdì mattina l’esercito israeliano ha lanciato su Gaza volantini che mettono in guardia gli abitanti dall’avvicinarsi o danneggiare la barriera di confine tra Gaza e Israele.

L’IDF prenderà iniziative contro qualunque tentativo di danneggiare la barriera e le sue parti e di ogni altra struttura militare”, afferma il volantino.

L’avvertimento dell’esercito aggiunge: “Hamas vi sta utilizzando per promuovere gli interessi del suo movimento. Non seguite gli ordini di Hamas che mettono in pericolo le vostre vite.”

All’inizio della settimana il COGAT, il braccio amministrativo dell’occupazione militare israeliana, ha affermato che avrebbe sanzionato 14 compagnie di autobus che trasportano “terroristi di Hamas e rivoltosi violenti” al confine orientale di Gaza.

Il COGAT aveva in precedenza pubblicato quella che ha sostenuto essere una registrazione tra uno dei propri funzionari e un rappresentante della compagnia di autobus di Gaza, in cui il funzionario dice che “non consentiremo che tu e la tua famiglia manteniate un qualunque rapporto commerciale o imprenditoriale o personale con il lato israeliano” come punizione per aver trasportato manifestanti.

I messaggi di Israele non sembrano aver avuto effetto, in quanto Israele ha ricevuto un avvertimento dalla procura generale della Corte Penale Internazionale che i suoi dirigenti potrebbero dover affrontare un processo per l’uccisione di manifestanti disarmati.

Ha anche ricevuto la condanna di una serie di esperti dei diritti umani dell’ONU che hanno chiesto la fine immediata del blocco di Gaza.

La scorsa settimana Israele ha pubblicato una foto che mostrerebbe giornalisti utilizzati come scudi umani durante le proteste a Gaza.

L’agenzia France Press ha informato che, quando per la prima volta ha distribuito la foto, il 13 aprile, l’esercito ha sostenuto che mostrava “un terrorista che brandiva un oggetto sospettato di essere un ordigno esplosivo utilizzato per fini terroristici mentre giornalisti e una persona invalida gli stavano vicino.”

Un’inchiesta dell’APF ha scoperto, invece, che il “terrorista” mostrato nella foto stava “cercando senza riuscirci di accendere quello che sembrava un normale fuoco d’artificio mentre era a terra in mezzo al fumo nero di copertoni incendiati.”

Il giornalista dell’AFP che si vede nell’immagine ha detto che l’uomo “in seguito ha rinunciato e se n’è andato.”

Secondo la “Commissione per la Protezione dei Giornalisti”, dal 30 marzo almeno 13 giornalisti palestinesi sono stati colpiti da cecchini israeliani mentre informavano sulle proteste, compreso uno che è stato ucciso.

Venerdì quattro giornalisti sono stati feriti da proiettili veri, da inalazioni di gas lacrimogeni e da un candelotto lacrimogeno.

In una lettera al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu la “Commissione per la Protezione dei Giornalisti” (CPJ) ha osservato che la maggior parte dei giornalisti colpiti dal 30 marzo portava giubbotti con la scritta “STAMPA” al momento del ferimento.

I colpi sparati suggeriscono che le autorità israeliane potrebbero star cercando di reprimere la copertura mediatica delle proteste,” ha affermato il CPJ.

Persino se l’IDF (l’esercito israeliano) non stesse deliberatamente prendendo di mira giornalisti,” ha aggiunto il gruppo, “il suo uso di munizioni letali come primo strumento da utilizzare invece di mezzi non letali sottopone i giornalisti – soprattutto i fotografi e i video operatori che devono essere in prima linea per riprendere le immagini – a un rischio terribile, rendendo il loro lavoro quasi impossibile.”

Anche le affermazioni fatte dal ministro della Difesa di Israele Avigdor Lieberman secondo cui Yaser Murtaja, un cameraman ucciso il 6 aprile dalle sue forze armate mentre stava informando sulle proteste, era un membro stipendiato dell’ala militare di Hamas, sono state smentite da organi di controllo della libertà di stampa, compresa la CPJ.

Nel contempo il gruppo della resistenza palestinese Jihad Islamica ha diramato un proprio video propagandistico, avvertendo Israele che “state uccidendo la nostra gente a sangue freddo e pensate di essere al sicuro, ma i mirini dei nostri cecchini sono puntati sui vostri comandanti in capo.”

Il video mostra ufficiali dell’esercito, compreso il capo del COGAT Yoav Mordechai, visti attraverso un binocolo e il mirino di un fucile.

Il video della Jihad Islamica sembra essere una risposta alla propaganda presentata dal portavoce in arabo dell’esercito israeliano, che mostra manifestanti, compreso un bambino, inquadrati da un binocolo con l’avvertimento che “vi vediamo bene” o minacce del genere.

In risposta al video [della Jihad Islamica, ndt.], il ministro israeliano dell’Intelligence Yisrael Katz ha diramato una minaccia secondo cui qualunque aggressione a importanti personalità dell’esercito israeliano da parte dei gruppi della resistenza palestinese “porterà immediatamente alla ripresa degli omicidi mirati dei dirigenti di Hamas.”

Un rapporto di “Human Rights Watch” [organizzazione per i diritti umani con sede a New York, ndt.] afferma che la violenza letale di Israele contro i palestinesi che manifestavano durante l’inizio della “Grande Marcia del Ritorno” è stata premeditata, illegale in base alle leggi internazionali e ordinata dai più alti livelli del governo.

(traduzione di Amedeo Rossi)




In realtà, Natalie, tu STAI praticando il BDS

Yousef Munayyer

The Forward 21 aprile 2018

Cara Natalie (se me lo consenti),
negli ultimi giorni, ho seguito attentamente la tua decisione di non partecipare a una cerimonia di premiazione in Israele e le tue dichiarazioni in merito. La tua decisione per me è stata importante non solo perché sono palestinese, ma perché mi sono reso conto che abbiamo qualcosa in comune, tu ed io. Sono nato in Israele, a soli 50km. da Gerusalemme, dove sei nata tu; a Lydda, la città della mia famiglia (la mia famiglia non si è trasferita in Israele, è Israele che è venuto da noi). Tu ed io siamo anche quasi coetanei, anche se sicuramente abbiamo vissuto il nostro essere cittadini israeliani in modi molto diversi. Per me, palestinese, ha voluto dire essere etichettato e trattato come “minaccia demografica”, mentre tu hai parlato bene di Israele e sei orgogliosa di esserne cittadina. Abbiamo entrambi lasciato Israele e ci siamo trasferiti negli USA da piccoli, insieme alle nostre famiglie. Chissà, magari abbiamo sorvolato l’Atlantico sullo stesso aereo, anche se sono praticamente certo che la tua esperienza con la polizia aeroportuale sia stata molto diversa dalla mia (anche se probabilmente entrambi abbiamo applaudito quando il pilota ci ha fatto atterrare sani e salvi). Ma se, una volta negli USA, la tua esperienza è stata simile alla mia, allora vuol dire che nemmeno tu ti sei mai sentita completamente a tuo agio né qui né lì, un piede qua e uno là, e un cuore perennemente desideroso di una casa. E arriviamo al punto in cui le nostre strade si separano. Tu hai intrapreso una carriera di attrice, fino a vincere un Oscar. La mia carriera d’attore si è fermata al Mago di Oz, in seconda media: io ero il leone, e forse ho un po’ esagerato con l’accento di Bert Lahr. Penso di aver fatto un buon lavoro, ma la mia passione mi ha portato a seguire un’altra strada, che poi è il motivo per cui oggi ti scrivo. La motivazione che hai dato per il tuo rifiuto del Genesis Prize è che non volevi condividere il palco con Netanyahu e non volevi in alcun modo dare l’impressione di sostenerlo. Penso di andare sul sicuro se ipotizzo che il tuo avercela con Netanyahu non sia un fatto personale. Non riguarda la tinta di capelli che ha scelto o l’uso continuo di patetici giochetti e slogan durante i suoi discorsi, ma ha a che fare con la politica e con le politiche che lui rappresenta, politiche che violano il diritto internazionale e i diritti fondamentali dei palestinesi, ammazzati quotidianamente dallo stato israeliano. E, con il tuo rifiuto di tollerare queste politiche e il loro sostenitore, stai dimostrando di capire che lo stato israeliano non pensa che le proprie politiche siano un problema. Ciò che invece loro credono è che la percezione che il mondo ha delle loro politiche sia diventata il vero problema. Se solo potessero far capire al mondo che, in qualche modo, è accettabile negare perennemente i diritti fondamentali a milioni di persone, a quanto pare per loro tutto andrebbe meglio. Gli sforzi di Israele per convincere il mondo ad accettare questa spoliazione includono il portare persone famose come te su palchi israeliani, mandando il messaggio ai loro fan che quel che Israele fa va bene. Questa è una strategia di pubbliche relazioni particolarmente importante per Israele, appunto perché è rivolta a un target giovane che si sta allontanando dallo stato israeliano. Con la tua decisione, hai mandato un messaggio a Israele: le loro politiche, che violano i diritti umani e civili, sono ingiustificabili. Ecco perché è così importante che tu abbia deciso di non partecipare a questa cerimonia. So che potresti non vederla così. Nel tuo comunicato, hai scritto: “Non faccio parte del movimento BDS e non lo sostengo”. “Come molti israeliani ed ebrei nel mondo, posso criticare la leadership in Israele senza per questo voler boicottare l’intera nazione; considero preziosi i miei amici israeliani e la mia famiglia, il cibo israeliano, i libri, l’arte, il cinema e la danza.” Per un cittadino israeliano, la pratica del boicottaggio può apparire complicata. Tu ed io abbiamo entrambi la famiglia in Israele, persone che amiamo e che non possiamo immaginare di non rivedere. Gli israeliani, come tutti, hanno molto da offrire al mondo. Quindi io comprendo la tua esitazione a “boicottare l’intera nazione”. Ma non è questo, il BDS. I singoli individui non sono l’obiettivo del boicottaggio, è lo Stato ad esserlo. Queste cose possono e devono essere separate. La verità è che il BDS non è nemmeno un movimento. Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni sono una serie di strategie nonviolente che vengono utilizzate da molti movimenti, ma che le istituzioni della società civile palestinese hanno chiesto alla comunità internazionale di adottare come parte del movimento nonviolento per i diritti dei palestinesi, per mandare a Israele il messaggio che deve smettere di negarli. E lo stato di Israele, dal canto suo, terrorizzato dall’adozione su vasta scala di queste strategie, ha cercato di diffamare gli attivisti e di mettere zizzania tra i palestinesi e gli internazionali che vogliono sostenerne i diritti, nel tentativo di far desistere la gente dall’uso di queste strategie nonviolente. Alla fine, israeliani e palestinesi dovranno raggiungere un accordo sulle regole politiche che governeranno la loro coesistenza. Ma questo non può succedere finché lo stato israeliano non si rende conto che lo status quo è inaccettabile, immorale e costoso. L’importante è che il messaggio venga inviato. Israele ha bisogno di sentirlo. Ma il modo in cui ognuno decide di mandare il messaggio, beh, questo dipende da ogni singola persona. Sicuramente c’è modo di fare soggiorni etici che non forniscono sostegno o legittimazione allo stato israeliano e alle sue politiche. Io preferisco un’azione economica nonviolenta contro lo stato israeliano e le istituzioni o le aziende legate allo stato che fanno profitti dalle sue politiche abusive o lavorano per mascherarle. Ciò non vuol dire che io non possa comprare l’hummus nel makolet (negozio di alimentari, n.d.t.) di mio cugino quando vado a trovare la mia famiglia. E a quanto pare tu hai trovato il tuo modo di partecipare, boicottando il Genesis Prize. C’è un’ultima differenza tra noi che mi piacerebbe sottolineare. Magari hai pensato di tornare a vivere in Israele, un giorno, con la tua famiglia. Il tuo partner, Benjamin, coreografo francese, potrebbe ottenere la residenza e poi la cittadinanza perché tu sei cittadina israeliana. La mia compagna ed io, invece, non possiamo tornarci insieme, perché lei, professoressa di chimica, è palestinese della Cisgiordania, terra occupata da Israele. Ciò significa che, anche se io sono cittadino israeliano, lo stato impedisce a me e ad altri, sposati con palestinesi, di vivere con loro in Israele. Questo perché, come ha spiegato Benjamin Netanyahu, ciò comporterebbe “un’esplosione demografica”. La differenza, vedi, è che lo stato si preoccupa dei miei figli non ancora nati, ma non dei tuoi. Tu hai contribuito a modo tuo, questa settimana, a mettere fine a questa situazione perversa, mettendoci la faccia contro questo tipo di ineguaglianze. Spero che tu e gli altri che potrebbero trarre ispirazione dalla tua decisione continuerete a farlo, in modi che facciano sentire sempre più forte il messaggio, finché non potrà più essere ignorato.
Con affetto, Yousef
Yousef Munayyer, analista politico e scrittore, è Direttore Esecutivo della Campagna USA per i diritti dei Palestinesi.
(Traduzione di Elena Bellini) su Facebook