False accuse e scudi umani a Gaza

La falsità delle accuse israeliane sugli scudi umani a Gaza

Cercando disperatamente di giustificare l’uccisione di manifestanti disarmati, Israele usa ancora una volta il suo mantra degli ‘scudi umani’.

Al-Jazeera

Di Neve Gordon e Nicola Perugini, 18 giugno 2018

È diventato un macabro rituale. Ogni settimana migliaia di palestinesi marciano verso la barriera che circonda la piccola striscia di terra in cui sono imprigionati da anni, mentre i cecchini israeliani scelgono le loro vittime e sparano.

Dal 30 marzo, 132 palestinesi sono stati uccisi e oltre 13.000 feriti perché hanno coraggiosamente protestato contro le conseguenze del permanente assedio militare israeliano a Gaza.

Ad alcuni la marcia palestinese potrebbe sembrare suicida, ma per i palestinesi è l’estremo atto di resistenza pacifica. La malnutrizione, la mancanza di acqua potabile, le quotidiane interruzioni di corrente elettrica, la disoccupazione di massa e l’estrema povertà non sono slogan astratti per i civili che hanno preso parte a queste manifestazioni.

Quindi, settimana dopo settimana, marciano verso la barriera nella speranza che il mondo ascolti la loro disperazione e che qualche Paese, qualche leader, o anche qualche movimento appoggi la loro causa e li aiuti a rompere l’assedio.

Ma ogni settimana Israele fa di tutto per proporre una narrazione diversa. L’esercito israeliano ha diffuso sui social media immagini e video di bambini presenti nelle proteste. Un breve videoclip trasmette una ninnananna interrotta dal suono di spari e chiede retoricamente: “Dove sono oggi i bambini di Gaza?” Dopo aver mostrato i bambini in mezzo alle manifestazioni, visualizza sullo schermo la parola “qui” scritta tutta in maiuscolo.

Simili video vengono utilizzati come “prova definitiva” che i palestinesi usano i bambini come scudi umani.

La propaganda israeliana sugli “scudi umani” ha riguardato anche civili adulti. In seguito all’indignazione internazionale per l’assassinio della ventunenne Razan Al-Najjar, uccisa mentre curava un manifestante ferito, l’esercito israeliano ha fatto circolare un video montaggio intitolato “Hamas usa i paramedici come scudi umani”.

Il video si basa su un’intervista alla rete televisiva Al Mayadeen in cui Razan descrive il proprio lavoro come medico: “Mi chiamo Razan Al-Najjar. Sono qui in prima linea come scudo umano per proteggere e salvare i feriti in prima linea.”

L’unità multimediale dell’esercito israeliano ha opportunamente modificato l’intervista, omettendo l’affermazione di Razan secondo cui per lei fare scudo ai feriti fa parte delle sue responsabilità come operatore medico. Hanno anche volutamente ignorato un’altra clip postata sul sito web del New York Times, in cui lei descrive le manifestazioni di protesta come un tentativo “di mandare un messaggio al mondo: senza armi, possiamo fare molto.”

Israele giustifica i suoi attacchi violenti continuando ad accusare Hamas di usare scudi umani, nella strenua speranza di sollevare indignazione morale, cercando al contempo anche di predisporre una difesa legale  per ciò che è ingiustificabile.

Sul piano morale, l’accusa lascia intendere che i palestinesi sono dei barbari. Non diversamente dall’immaginario sui barbari pagani che offrivano i figli agli dei, suggerisce che i palestinesi di Gaza non hanno problemi a mandare i propri figli e figlie in prima linea. Il messaggio implicito è che i popoli civilizzati proteggono i propri figli, mentre i palestinesi li sacrificano.

In termini giuridici, uno scudo umano è un civile che viene usato per fare in modo che un legittimo obbiettivo militare non possa essere attaccato. Accusando Hamas di utilizzare scudi umani, Israele spera di spostare la colpa dal cacciatore alla preda poiché, in base al diritto internazionale, la responsabilità per la morte degli scudi umani non grava su chi uccide, ma su chi li utilizza.

Il messaggio che Danny Danon, ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite, ha consegnato in una lettera inviata al Consiglio di Sicurezza è esattamente questo: “i terroristi continuano a nascondersi dietro a bambini innocenti per garantire la propria sopravvivenza”.

Con questa affermazione, Danon non solo sposta le responsabilità [sui palestinesi] ma, di fatto, qualifica chiunque partecipi alla ‘Marcia del Ritorno’ come obiettivo militare.

Proprio in quanto gli scudi umani, per definizione, sono posti a difesa di legittimi obiettivi militari, l’accusa apparentemente senza fine che i palestinesi usano scudi umani per proteggere i manifestanti rivela che per Israele tutti i manifestanti palestinesi sono potenziali bersagli.

Ma nonostante il massimo impegno da parte di Israele, l’argomento “scudi umani” è sempre meno convincente. In un recente rapporto Human Rights Watch ha accusato Israele di perpetrare crimini di guerra  nei suoi tentativi di reprimere le richieste palestinesi di liberazione.

Intanto l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato a schiacciante maggioranza una risoluzione di condanna dell’uso da parte di Israele di “violenza indiscriminata”, mentre il responsabile ONU per i diritti umani  Zeid Ra’ad al-Hussein ha chiesto un’indagine.

Ciò che è ancora più spaventoso, tuttavia, è che Gaza non è un’eccezione.

Dal Venezuela, dove i preti hanno difeso  militanti antigovernativi dalla violenza mortale della polizia antisommossa, al Sudafrica, dove studenti bianchi hanno fatto scudo a studenti neri quando essi hanno manifestato contro le tasse scolastiche insostenibili, agli Stati Uniti, dove  veterani [di guerra] hanno cercato di proteggere nativi americani pacifici brutalmente assaliti dai cani delle forze di sicurezza, colpiti dagli idranti con temperature sotto zero e da proiettili ricoperti di gomma nella Riserva di Standing Rock, sempre più persone sono definite scudi umani o agiscono realmente come scudi umani.

Nonostante le differenze tra queste situazioni, l’immagine dello scudo umano – che venga usata per giustificare la violenza coloniale o per proteggere i dimostranti – è divenuta onnipresente nel nostro attuale panorama politico.

Questo a sua volta suggerisce che i manifestanti sono considerati sempre più come bersagli legittimi e che il repertorio delle violenze e delle giustificazioni legali utilizzato in guerra è entrato nell’ambito della vita civile e sta diventando la normalità.

Le opinioni espresse in questo articolo sono degli autori e non rispecchiano necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Neve Gordon è un ricercatore dell’istituto Marie Curie e docente di diritto internazionale alla Queen Mary University di Londra.

Nicola Perugini è docente alla Scuola di scienze politiche e sociali dell’università di Edinburgo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I bulldozer, i beduini e la pulizia etnica annunciano la morte della soluzione dei due Stati

Peter Oborne

Venerdì 15 giugno 2018, Middle East Eye

Gli abitanti del villaggio beduino di Khan al-Ahmar temono che la loro comunità in Cisgiordania, da tempo minacciata, possa essere demolita entro pochi giorni.

KHAN AL-AHMAR, Cisgiordania occupata – Ci vogliono circa 30 minuti per andare in macchina da Gerusalemme all’ormai condannata comunità beduina di Khan al-Ahmar, situata sull’autostrada per Gerico in Cisgiordania. Ma non c’è un’uscita sull’autostrada. Dobbiamo parcheggiare in una vicina piazzola, scavalcare la barriera metallica, evitare [di essere travolti dal] veloce traffico in arrivo e poi arrampicarci su un ripido pendio per raggiungere il villaggio.

A Khan al-Ahmar abitano 173 persone, molti sono pastori beduini che vivono nella zona da tempi immemorabili. Ma lo Stato di Israele è determinato a demolire il villaggio per fare spazio all’espansione della vicina colonia di Kfar Adumim.

Tre settimane fa, dopo anni di battaglie legali, il governo ha ricevuto dalla Corte Suprema l’autorizzazione a trasferire i beduini. I giudici hanno stabilito che la demolizione può essere effettuata perché i beduini non hanno le licenze edilizie. Ma questa è una mistificazione: i beduini non hanno modo di ottenere i permessi.

Per quanto riguarda i beduini, adesso a loro non resta che attendere l’arrivo dei bulldozer e dell’esercito israeliano che li portino via.

È stato loro assegnato un nuovo luogo per abitare vicino a una discarica a Gerusalemme est. In questa zona urbana, sulla quale non sono stati consultati, non c’è spazio per pascolare le loro greggi e quasi nessuna prospettiva di altri lavori. In realtà i beduini dicono che il luogo che è stato loro proposto per andarvi ad abitare è maleodorante, contaminato, tossico e inadatto perché vi vivano degli esseri umani.

Sono in viaggio con una guida dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. Quando raggiungiamo il villaggio incontriamo Ibrahim Jahalin, un pastore. Sua figlia di 11 anni gioca lì accanto. Che cosa farà, gli domando, quando arriveranno i bulldozer?

Perché mai dovrei andare altrove?”, dice. “Sono nato qui. Loro sono arrivati dopo. Noi non ce ne andremo, qualunque cosa accada. Resteremo qui.”

Continue umiliazioni

Questa minaccia di trasferimento è solo l’ultima di una serie di umiliazioni inflitte dagli israeliani ai beduini palestinesi.

Jahalin appartiene ad una tribù espulsa dal deserto del Negev dall’esercito israeliano negli anni ’50. Si sono spostati dove ora c’è la vicina colonia di Kfar Adumim, ma sono stati espulsi anche di là.

Israele nega ai beduini l’accesso ai servizi pubblici e alle infrastrutture di base, come fa con la maggior parte dei palestinesi che vivono nell’area C della Cisgiordania [più del 60% della Cisgiordania, sotto completo controllo israeliano in base agli accordi di Oslo, ndtr.]. Non hanno accesso alla rete elettrica. Nel 2015 l’amministrazione civile israeliana ha confiscato 12 pannelli solari che erano stati donati ai beduini, anche se poi sono stati restituiti in seguito ad una causa legale.

Non vi è accesso all’autostrada Gerico-Gerusalemme, anche se si trova a circa 100 metri di distanza e mentre parliamo possiamo sentire le automobili che passano.

Ibrahim mi dice: “Ci vogliono dieci minuti per arrivare a Gerico in autostrada. Dato che noi non siamo collegati alla strada, ci impieghiamo mezz’ora.”

Questo isolamento ha conseguenze tragiche. Ibrahim ha perso la sua giovane figlia Aya per un incidente domestico. Attribuisce la responsabilità di ciò ai ritardi nel portarla in ospedale. “È morta, ma poteva essere salvata”, dice.

Io e Ibrahim chiacchieriamo nel cortile della vicina scuola, ascoltando i bambini che cantano nell’aula. E’ previsto che anche questo sito – che ospita oltre 150 alunni, molti dei quali delle comunità vicine – venga demolito.

Parlo a Ibrahim della crescente collera in Gran Bretagna e in Occidente riguardo ai piani di demolizione del suo villaggio. Boris Johnson, il ministro degli Esteri britannico, è “profondamente preoccupato”, e 100 deputati hanno scritto all’ambasciatore israeliano avvertendo che la demolizione potrebbe violare il diritto umanitario internazionale.

Ma i beduini sono comprensibilmente scettici riguardo a quest’ultima manifestazione di preoccupazione da parte dell’Occidente. Tutti sono troppo abituati alle dichiarazioni di sostegno dell’Occidente che non contano niente. Il libro dei visitatori del villaggio suona come un appello di persone importanti. Alistair Burt, sottosegretario agli Esteri per il Medio Oriente, il suo predecessore Tobias Ellwood, Ed Milliband, ex capo del partito Laburista, Valerie Amos, sottosegretaria delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari e coordinatrice degli aiuti di emergenza, Martin Shulz, ex capo del partito socialdemocratico tedesco, Emily Thornberry, ministra ombra degli Esteri [del partito Laburista, ndt.], William Hague, ex ministro degli Esteri, sono tra i 60 nomi presenti nel libro. Sono stati tenuti incontri all’ONU, al Parlamento britannico, al Parlamento europeo, in Svezia, in Norvegia. Tutto ciò non ha prodotto alcun effetto su Israele.

Se Israele procede con la demolizione, allora sarà un momento importante nella storia dell’occupazione della Cisgiordania. Nei decenni scorsi Israele ha condotto una politica che, in gran parte, ha evitato il trasferimento forzato della popolazione.

Le autorità hanno invece creato condizioni terribili per i palestinesi, nella speranza che alla fine se ne andassero di propria spontanea volontà. Adesso stanno optando per la deportazione: di fatto la sostituzione di un gruppo etnico con un altro attraverso la violenza.

Questa è pulizia etnica.

Con le parole di B’Tselem: “Questa non è una volgare o insignificante violazione del diritto umanitario internazionale, ma una violazione che costituisce un crimine di guerra.”

Cambio di passo’ nell’occupazione

Dopo la nostra visita a Khan al-Ahmar siamo ritornati sulla strada e siamo saliti alla vicina colonia di Kfar Adumim. Abbiamo costeggiato piccoli negozi, uno studio fotografico ed una scuola elementare. In plateale contrasto con il nostro viaggio al villaggio beduino, l’accesso è facile lungo strade asfaltate. I coloni vivono in confortevoli case distanziate tra loro, con vista spettacolare su un panorama dalle reminiscenze bibliche.

Parcheggiamo in cima alla collina e guardiamo giù verso il villaggio beduino. Mi sono chiesto: che cosa vedono i coloni quando guardano i beduini laggiù? Dei criminali? Dei terroristi? Una specie subumana di cui si può disporre a proprio piacimento?

Ibrahim mi ha parlato di quando alcuni coloni di Kfar Adumim si sono schierati con lui. Sono scesi nella notte a dormire nel suo accampamento in modo da poter essere d’aiuto se arrivavano i bulldozer. Un’ombra di umanità. Ma sono stati i coloni di Kfar Adumim a inviare la petizione per chiedere la distruzione della scuola del villaggio.

Ibrahim mi ha detto: “Temo che accadrà in questo fine settimana, quando c’è la festa per la fine del Ramadan.”

Sembra inevitabile che questa comunità verrà cacciata e diventerà un’altra vittima dell’occupazione. E che sarà un altro passo da gigante verso la creazione di un blocco di colonie urbane che separerà la parte sud e quella nord della Cisgiordania.

Significherà anche un cambio di passo nell’occupazione, in quanto Israele è orientato ad una politica di trasferimento forzato di altre comunità. E la soluzione dei due Stati apparirà sempre più come un sogno infranto.

Peter Oborne nel 2017 ha vinto il premio come miglior commentarista/blogger e nel 2016 è stato nominato giornalista freelance dell’anno del premio per i media online per gli articoli che ha scritto per Middle East Eye. E’ stato anche premiato come editorialista della stampa britannica dell’anno 2013. Nel 2015 si è dimesso da capo editorialista politico del Daily Telegraph. I suoi libri includono: ‘The triumph of the political class’ [Il trionfo della classe politica], ‘The rise of political lying’ [La nascita delle menzogne in politica], ‘Why the West in wrong about nuclear Iran’ [Perché l’Occidente si sbaglia sul nucleare iraniano].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Giornalisti picchiati, macchine fotografiche distrutte: la polizia palestinese disperde la protesta anti-Abbas a Ramallah

Amira Hass, Jack Khoury

14 giugno 2018, Haaretz

Decine di persone picchiate e arrestate, tra cui giornalisti stranieri, nella repressione delle manifestazioni contro le sanzioni economiche di Abbas a Gaza

La polizia antisommossa dell’Autorità Nazionale Palestinese ha sciolto con la forza una manifestazione a Ramallah mercoledì sera, imponendo il divieto di protesta in nome della festa di Id al-Fitr, che segna la fine del mese di digiuno del Ramadan.

La polizia ha arrestato giornalisti e decine di dimostranti, ha rotto le telecamere e picchiato molti dei manifestanti.

I dimostranti chiedevano al presidente palestinese Mahmoud Abbas di rimuovere le sanzioni che ha imposto a Hamas e ai residenti della Striscia di Gaza, dopo che Hamas ha fallito nel portare avanti un accordo di condivisione del potere.

Le forze di sicurezza palestinesi hanno sparato gas lacrimogeni, granate stordenti e sparato proiettili in aria. Hanno confiscato fotocamere e smartphone, ne hanno rotti alcuni e hanno ordinato ai giornalisti di non intervistare i dimostranti. La polizia ha arrestato giornalisti stranieri e palestinesi e ha picchiato un gran numero di manifestanti. Anche molti cittadini israeliani hanno partecipato alla protesta.

Nonostante la violenta repressione della protesta, un piccolo gruppo di manifestanti è riuscito a sfuggire alla polizia e si è radunato nelle strade secondarie, scandendo slogan come: “Disgrazia e vergogna” e “Con anima e sangue ti riscatteremo, Gaza.

I corrispondenti riferiscono che da sei a quindici persone sono state ricoverate in ospedale per ferite tra cui l’inalazione di gas lacrimogeno. Decine di persone sono state arrestate; un rapporto porta il numero a 80, tra cui alcune giovani donne. I giornalisti stranieri presi in custodia sono stati rilasciati durante la notte.

Mercoledì la polizia palestinese ha disperso una protesta simile a Nablus.

Martedì scorso, l’Autorità Nazionale Palestinese ha vietato le dimostrazioni fino alla fine dei tre giorni di festeggiamenti per Id al-Fitr, che segnano la fine del mese di digiuno del Ramadan. L’Autorità Nazionale Palestinese ha dichiarato che la decisione era stata presa per evitare qualsiasi interruzione alle celebrazioni festive. L’ultimo giorno del digiuno è giovedì e la festa inizia la sera, dopo il tramonto.

Mercoledì gli organizzatori, un gruppo di personaggi pubblici e di attivisti sociali che hanno aperto la pagina Facebook “Le sanzioni contro Gaza sono un crimine”, hanno annunciato che avrebbero comunque svolto la manifestazione disobbedendo al divieto. Prima di quest’ultima dimostrazione, una dichiarazione rilasciata dagli organizzatori ha riferito che essi sono stati oggetto di una campagna diffamatoria sui social media, che si diceva contenesse minacce e intimidazioni e li aveva presentati come agitatori esterni.

La prima di una serie di proteste contro le sanzioni di Abu Mazen a Gaza si è tenuta domenica sera con circa 1.500 partecipanti. Una seconda protesta molto più piccola si è tenuta martedì pomeriggio.

Quando mercoledì i manifestanti sono arrivati a piazza Manara a Ramallah, sono stati accolti da un gran numero di poliziotti palestinesi in tenuta antisommossa, con uniformi nere e mimetiche, armati di fucili, gas lacrimogeni, granate assordanti e manganelli. La polizia ha cercato di impedire ai manifestanti di riunirsi e ha ordinato a tutti di disperdersi e di lasciare immediatamente la strada.

I testimoni dicono di aver visto la polizia afferrare un manifestante, picchiarlo e condurlo a un veicolo della polizia, mentre altri ufficiali hanno cercato di sgomberare la strada principale dal resto dei manifestanti. Poiché non ci sono riusciti, i poliziotti hanno iniziato a sparare gas lacrimogeni e granate stordenti contro i manifestanti e i molti passanti che riempivano le strade la sera dopo la fine della giornata di digiuno del Ramadan.

Forze di sicurezza in borghese hanno picchiato i manifestanti e anche arrestato alcuni di loro nelle strade piene di gas lacrimogeni. Dopo che queste misure non sono riuscite a fermare la protesta, un terzo gruppo è apparso in abiti civili con cappelli da baseball del movimento Fatah. Anche loro hanno picchiato i manifestanti e cercato di disperdere la folla, mentre urlavano slogan a sostegno di Abbas e in memoria di Yasser Arafat.

In risposta all’arresto dei giornalisti, l’associazione della stampa palestinese ha rilasciato una dichiarazione secondo cui i suoi membri non avrebbero pubblicato notizie sul governo dell’Autorità Nazionale Palestinese e le forze di sicurezza fino a nuovo avviso. Hanno invitato il primo ministro palestinese Rami Hamdallah a dimettersi, ritenendolo responsabile della repressione delle proteste. Molti commenti sulla pagina Facebook dell’associazione hanno accusato lo stesso Abbas della decisione di reprimere la protesta. Non è la prima volta che l’Autorità Nazionale Palestinese ha usato una simile violenza per reprimere le proteste e mettere a tacere l’opposizione.

Le proteste erano contro una serie di sanzioni economiche che Abbas ha imposto a Gaza dopo la rottura dell’accordo di riunificazione dello scorso anno. Ad aprile sono stati congelati i salari agli impiegati dell’ANP nella Striscia. I funzionari hanno riferito di piani per estendere ulteriormente queste misure – che hanno aggravato una situazione già disperata di povertà a Gaza – e per interrompere anche il servizio bancario e Internet.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Trovare la verità in mezzo alle menzogne di Israele

Ilan Pappe

30 maggio 2018, The Electronic Intifada,

Una tristezza e una sofferenza immense hanno riempito le strade – un convoglio dopo l’altro di profughi che si fanno strada [verso il confine libanese]. Lasciano i villaggi della loro terra e la terra dei loro antenati e si spostano in una terra straniera, sconosciuta, piena di problemi. Donne, bambini, neonati, asini – tutti in cammino, in silenzio e tristemente, verso nord, senza guardare né a destra né a sinistra.

Una donna non riesce a trovare suo marito, un bambino non riesce a trovare suo padre… Tutto ciò che può camminare si muove, fuggendo via senza sapere che fare, senza sapere dove sta andando. Molti dei loro effetti personali sono sparpagliati lungo i lati della strada; più camminano e più sono esausti, quasi non riescono più a camminare – sbarazzandosi di tutto quello che avevano provato a salvare mentre sono sulla via dell’esilio…

Ho incontrato un bambino di 8 anni che si dirigeva a Nord e conduceva davanti a sé due asini. Suo padre e suo fratello sono morti nella battaglia, e ha perso la madre… Sono passato sulla via tra Sasa e Tarbiha, e ho visto un alto uomo, piegato, che strofinava qualcosa con le mani sul terreno roccioso e duro. Mi sono fermato. Mi sono accorto di una piccola incavatura nel terreno che era stata scavata a mani nude, con le unghie, sotto un ulivo. L’uomo vi ha riposto il corpo di un bambino che era morto nelle braccia di sua madre, e lo ha seppellito con della terra e [coprendolo] con piccole pietre. Poi è tornato indietro sulla strada e ha continuato a dirigersi verso nord, sua moglie camminava curva pochi passi dietro di lui, senza guardare indietro. Mi sono imbattuto in un uomo anziano, che era svenuto su una roccia sul lato della strada, e nessuno dei profughi osava aiutarlo… Quando siamo entrati a Birim, tutti sono corsi, spaventati, nella direzione della valle che guardava a nord, portando i loro bambini piccoli e quanti più abiti potevano. Il giorno dopo sono tornati indietro, perché i libanesi non avevano permesso loro di entrare. Sette bambini sono morti di ipotermia.

Questa commovente descrizione non è stata scritta da un attivista dei diritti umani, un osservatore ONU o un giornalista interessato. E’ stata scritta da Moshe Carmel (militare e politico israeliano, membro del parlamento, ndtr.) e compare nel suo libro Northern Campaigns – pubblicato per la prima volta nel 1949.

[Carmel, ndt] viaggiò per la Galilea a fine ottobre del 1948, dopo aver comandato l’operazione Hiram, in cui le forze israeliane commisero alcune delle atrocità peggiori nella Nakba, la pulizia etnica della Palestina. I crimini furono così gravi che alcuni dirigenti sionisti le descrissero come azioni naziste.

Il libro di Carmel, e decine come esso – libri di brigata, diari, e storie militari – si potevano trovare sugli scaffali delle librerie nelle case di ebrei israeliani dal 1948 in poi. Riesaminarli, a 70 anni di distanza, rivela una verità elementare: sarebbe stato possibile scrivere la “nuova storia” del 1948 senza un solo nuovo documento declassificato, ma semplicemente se si fossero lette queste fonti aperte, come le chiamo io, con una lente non sionista.

L’espressione famosa – e ormai abusata – secondo cui la storia è scritta dai vincitori può essere confutata in molti modi. Un modo è quello di smontare le pubblicazioni dei vincitori in modo da rivelare le menzogne, le falsificazioni e le interpretazioni errate, nonché le loro azioni meno consapevoli.

Una rilettura di queste fonti aperte sulla Nakba, scritte per lo più dagli israeliani stessi, sblocca delle nuove prospettive storiografiche sul quadro generale di quel periodo – mentre i documenti declassificati ci permettono di vedere tale quadro in una più alta risoluzione.

Questo recupero si sarebbe potuto svolgere in qualsiasi momento tra il 1948 e oggi – se gli storici avessero utilizzato la lente critica necessaria per una tale analisi.

Rileggere le fonti aperte, specialmente accostandole alle numerose storie orali della Nakba, rivela la barbarie e la disumanizzazione che hanno accompagnato la catastrofe. La barbarie è comune alle comunità di coloni negli anni della formazione del loro progetto di colonizzazione e può, talvolta, essere oscurata dal linguaggio secco ed evasivo dei documenti militari e politici.

Non intendo con questo sminuire l’importanza dei documenti di archivio. Sono importanti nel dirci cosa è successo. Tuttavia, le fonti aperte e le storie orali sono cruciali per capire il significato di ciò che è accaduto.

Una tale rilettura mette in luce il DNA di colonialismo d’insediamento del progetto sionista e il ruolo della pulizia etnica del 1948 insito in esso.

Disumanizzazione su scala di massa

Prendete ad esempio il passaggio citato da Carmel. Come poteva qualcuno che stava sovrintendendo a tali atrocità scrivere con tale compassione?

L’indizio sta in un’altra frase all’interno della stessa citazione che sembra quasi una digressione: “E poi, mi accorsi di un ragazzo di 16 anni, totalmente nudo, che ci sorrideva mentre gli passavamo accanto (strano, quando l’ho sorpassato non ho saputo dire, a causa della sua nudità, a che popolo appartenesse, e l’ho visto solamente come un essere umano).”

Per un momento totalmente eccezionale, quel ragazzo palestinese è stato umanizzato (all’interno delle parentesi del testo). Tuttavia la disumanizzazione avveniva su una scala che si osserva solo in crimini di massa come la pulizia etnica e il genocidio.

La regola era che i bambini venivano considerati come parte del nemico, che dovevano essere eliminati in nome dello Stato ebraico, o, come la metteva Carmel – un giorno dopo aver terminato il suo tour nella Galilea – in nome della liberazione.

Mandò questo messaggio alle sue truppe: “L’intera Galilea, l’antica Galilea israeliana, è stata liberata tramite la potente e devastante forza dell’IDF [l’esercito israeliano] … Abbiamo eliminato il nemico, lo abbiamo distrutto e lo abbiamo costretto alla fuga … Abbiamo [conquistato] Meiron [Mayrun], Gush Halav [Jish], Sasa e Malkiya … Abbiamo distrutto i nidi del nemico a Tarshiha, Eilabun, Mghar e Rami … I castelli del nemico sono crollati uno dopo l’altro.

Settant’anni dopo la Nakba, la lingua ebraica è uno strumento importante quanto lo è l’accesso agli archivi israeliani chiusi. Il testo ebraico ci dice chiaramente chi era il nemico – il nemico che era fuggito, era stato eliminato ed espulso dai suoi “castelli”.

Queste erano le persone che Carmel aveva incontrato. E per un momento, egli si era commosso per la loro sofferenza.

Redenzione?

Gli elementi discorsivi più importanti in questo tipo di relazioni sono i concetti di liberazione ed eliminazione (shihrur e hisul). Il significato di ciò, in realtà, era un tentativo di indigenizzare gli occupanti della Palestina tramite la de-indigenizzazione dei palestinesi.

Questa è l’essenza di un progetto di colonialismo di insediamento, e il libro di Carmel – e quelli di altri – lo rivelano in pieno. Carmel vedeva l’occupazione del 1948 come una redenzione della Galilea romana.

Questi atti violenti contro i palestinesi avevano molto poco a che fare con il trovare un rifugio dall’antisemitismo.

Il progetto sionista era, ed è ancora, un progetto di de-indigenizzazione della popolazione palestinese e di sua sostituzione con un’altra composta da coloni ebrei. Costituiva, in molti modi, l’implementazione di un’ideologia nazionalista romantica, simile a quella che aveva nutrito i nazionalismi fanatici di Italia e Germania alla fine del XIX secolo e oltre.

Questo collegamento è chiaro in libri che trattano le brigate nell’esercito israeliano. Uno di questi libri, The Alexandroni Brigade and The War of Independence, è un caso esemplare.

La brigata Alexandroni fu incaricata di occupare la maggior parte della costa palestinese, a Nord di Jaffa, per un totale di quasi 60 villaggi. Prima dell’occupazione dei villaggi, le truppe furono istruite sul contesto storico delle loro operazioni. La narrazione fornita dagli ufficiali è ripetuta nel libro in due capitoli. Il primo è intitolato “The Military Past of the Alexandroni Space” (Il passato militare del fronte Alexandroni, ndtr.), e comincia dicendo: “il fronte in cui la brigata Alexandroni combatté nella guerra di indipendenza è unico nella storia militare della regione e di Eretz Israel [il Grande Israele] in particolare.”

Si trattava del Sharon – la costa della Palestina nella narrazione sionista – che è un termine inventato senza radici nella storia. Lo Sharon, come ci dice il libro sulla brigata Alexandroni, era “una terra ricca e alquanto fertile” che “attraeva” gli eserciti durante i loro “viaggi di occupazione” all’interno della terra di Israele. Questo capitolo storico è pieno di racconti di eroismo, dove si sostiene, per esempio, [che, ndt] “quì è dove [il popolo di] Israele, sotto [la guida, ndt] [del profeta] Shmuel aveva affrontato i Filistei”.

Gli ebrei erano sempre svantaggiati nella battaglia contro i loro nemici, ma “allora come oggi, fu lo spirito superiore a far spostare l’equilibrio a favore di Israele.”

Sotto Baibars, il sultano mamelucco, sostiene il libro, lo Sharon fu distrutto come terra agricola e “da allora in poi [lo Sharon] non avrebbe recuperato la sua vitalità economica fino al suo riassestamento con l’immigrazione sionista [aliya]”. Baibars, tra l’altro, era stato là nel 1260. Quindi il libro sulla brigata Alexandroni dice ai suoi lettori che lo Sharon era rimasto senza popolazione per più di 600 anni, che è l’interpretazione sionista della storia al suo meglio.

Durante il periodo ottomano, lo Sharon “era in totale devastazione, pieno di discariche e di malaria”, aggiunge il libro. “Solo con la aliya e l’insediamento ebraico alla fine del XIX secolo, cominciò un nuovo periodo di prosperità [nella storia dello Sharon].”

I sionisti “restituirono” lo Sharon alla sua precedente gloria, e esso divenne una delle aree più ebraiche nell’ “Eretz Israele Mandatario” – come il libro chiama la Palestina quando era amministrata dal mandato britannico.

I villaggi devono essere distrutti”

La pulizia etnica della costa ebraica cominciò mentre la Palestina era sotto il controllo britannico. La Gran Bretagna era, sotto molto aspetti, un alleato cruciale del movimento sionista. Tuttavia non facilitò la colonizzazione della Palestina rapidamente quanto i sionisti avrebbero voluto. Il libro sulla brigata Alexandroni dipinge perciò la Gran Bretagna come un ostacolo a volte disumano per la “redenzione” ebraica.

Lo Sharon aveva ancora [abitanti, ndt] arabi al suo interno. Il libro rappresenta la regione come un’ancora di salvezza per la comunità ebraica, e tuttavia suggerisce allo stesso tempo che la vita ebraica era disturbata dai molti villaggi arabi circostanti.

Era soprattutto la parte orientale dello Sharon ad essere “puramente araba e a costituire il principale pericolo per gli insediamenti ebraici; un pericolo che doveva essere preso in considerazione in qualsiasi pianificazione militare.”

Il “pericolo” fu “preso in considerazione” prima tramite attacchi isolati ai villaggi. Il libro dice che fino al 29 novembre del 1947 il rapporto tra ebrei e palestinesi era buono e che continuò ad essere tale dopo quella data. Tuttavia, una frase successiva nel libro ci dice che “all’inizio del 1948, il processo di abbandono dei villaggi arabi cominciò. Si possono vedere i primi segni di questo nell’abbandono di Sidan Ali (al-Haram) da parte dei suoi 220 abitanti arabi e di Qaisriya da parte dei suoi 1100 abitanti arabi a metà febbraio del 1948.” Ci furono due espulsioni di massa che ebbero luogo mentre le forze britanniche, che avevano la responsabilità di mantenere l’ordine e la legalità, guardavano e non interferivano. Poi “a marzo, con l’inasprirsi dei combattimenti, il processo di abbandono si intensificò.”

L’“escalation” iniziò con l’ attuazione del piano Dalet – un progetto per la distruzione dei villaggi palestinesi. Il libro sulla brigata Alexandroni riporta un riassunto degli ordini emanati dal piano. Gli ordini includevano il compito di “individuare i villaggi arabi di cui ci si doveva impadronire o che dovevano essere distrutti”.

C’erano 55 villaggi, secondo il testo, nell’area occupata in base al Piano Dalet. Lo Sharon ebraico fu quasi completamente “liberato” nel marzo 1948 quando la costa “fu ripulita” dei villaggi arabi, tranne quattro. Nelle parole del libro: “La maggior parte delle zone vicino alla costa furono ripulite dai villaggi arabi, tranne… un ‘piccolo triangolo’ in cui c’erano i villaggi arabi di Jaba, Ein Ghazal e Ijzim – che spiccavano come un pollice dolente, sovrastando la strada Tel Aviv-Haifa; c’erano arabi anche a Tantura sulla costa.”

Un’analisi più profonda di questi testi e di altre fonti aperte getterebbe luce sulla natura strutturale del progetto di colonialismo d’insediamento in corso in Palestina, la Nakba in corso.

La storia della Nakba perciò non è solo una cronaca del passato, ma un’analisi di un momento storico che continua nel tempo dello studioso di storia. Gli scienziati sociali sono lontani dall’avere gli strumenti per occuparsi di “obbiettivi in movimento” – cioè per analizzare fenomeni contemporanei – ma gli storici, così ci viene detto, hanno bisogno di distanza per riflettere e per vedere il quadro completo.

Si potrebbe sostenere che 70 anni dovrebbero offrire una distanza sufficiente, ma d’altro canto, sarebbe simile al tentativo di comprendere l’Unione Sovietica, oppure le Crociate, da parte di contemporanei, e non di storici.

I luoghi della memoria, per usare il concetto di Pierre Nora, così come i passi avanti accademici degli anni recenti, sono stati suscitati non dalla declassificazione in sé, ma dalla loro rilevanza per le lotte contemporanee.

I progetti di storia orale, così come i libri di brigata, sono tutti risorse cruciali e accessibili che penetrano gli autentici e cinici scudi di inganno sionisti, e più tardi israeliani. Aiutano a capire perché il concetto di uno stato coloniale democratico o illuminato è un ossimoro.

La storia approvata di Israele

Una decostruzione della storia approvata di Israele è il miglior modo per sfidare un processo che trasforma le parole: da pulizia etnica a auto-difesa, da furto di terra a redenzione, e da pratiche di apartheid a preoccupazioni per la “sicurezza”.

C’è una percezione, da un lato, che dopo anni di negazione il quadro storiografico sia stato rivelato in giro per il mondo con chiari contorni e colori. La narrativa israeliana è stata messa in discussione con successo sia nel mondo accademico che nello spazio pubblico.

Tuttavia, rimane un sentimento di frustrazione, dovuto all’accesso limitato per gli studiosi, anche israeliani, ai documenti declassificati in Israele, mentre gli studiosi palestinesi non possono nemmeno sperare, nel clima politico contemporaneo, di avervi alcun accesso.

Andare oltre i documenti di archivio sulla Nakba è, perciò, necessario non solo per una migliore comprensione dell’evento. Potrebbe anche essere una soluzione per i ricercatori nel futuro, date le nuove politiche israeliane di declassificazione.

Israle ha chiuso la maggior parte della documentazione del 1948.

Le risorse alternative e gli approcci suggeriti in questo articolo sottolineano diversi punti. Una conoscenza dell’ebraico può essere di aiuto, e la necessità di continuare con i progetti di storia orale è essenziale.

Il paradigma del colonialismo di insediamento rimane anche rilevante per analizzare da capo sia il progetto sionista che la resistenza ad esso. Tuttavia ci sono ancora problemi con l’adattabilità del paradigma – come, per esempio, se possa essere applicato agli ebrei provenienti da paesi arabi che si sono spostati in Palestina – e questi dovrebbero essere ulteriormente esplorati.

Ma più di qualsiasi cosa dobbiamo insistere che l’impegno per la Palestina non sia un ostacolo per buoni studi, ma un elemento di potenziamento per essi. Come scrisse Edward Said: “Dove sono i fatti, tuttavia, se non radicati nella storia, e poi ricostituiti e recuperati da attori umani mossi da qualche narrativa storica percepita o desiderata o sperata, il cui scopo futuro è quello di ristabilire la giustizia per gli oppressi?”

La giustizia e i fatti, le posizioni morali, l’acume professionale e l’accuratezza accademica non dovrebbero essere messi l’uno davanti all’altra ma intesi, piuttosto, come tutti elementi che contribuiscono ad un’attività storiografica integra. Pochi progetti storiografici hanno bisogno di un tale approccio integrativo come la ricerca sulla Nakba in corso.

Autore di numerosi libri, Ilan Pappe è professore di Storia e direttore del ‘European Centre for Palestine Studies’ all’Università di Exeter.

(Trad. di Tamara Taher)

 




Le donne in prima linea rischiano la morte per i loro diritti

Isra Saleh el-Namey

9 giugno 2018, Electronic Intifada

Islam Khreis ha recentemente lanciato qualche pietra contro le truppe israeliane.

“Queste sono giornate storiche”, ha detto la ventottenne abitante di Gaza. “Stiamo dicendo al mondo intero che non abbiamo mai dimenticato il nostro legittimo diritto al ritorno nei nostri villeggi e città che ci hanno rubato.”

Lanciare pietre è un semplice atto di resistenza per i palestinesi. È un modo simbolico di affrontare uno dei Paesi più militarizzati del mondo.

È una tattica che è stata usata da alcuni partecipanti alle proteste della ‘Grande Marcia del Ritorno’, che chiedeva che i palestinesi potessero tornare ai villaggi e alle città da cui le forze sioniste li espulsero nel 1948.

Anche se le fotografie di palestinesi che lanciano pietre con le fionde in genere mostrano giovani uomini, Khreis era tra le molte donne che lo hanno fatto. In effetti ha svolto ogni tipo di attività. Ha aiutato a prestare i primi soccorsi ai manifestanti feriti dai cecchini israeliani e, come studentessa di giornalismo all’università Al-Aqsa di Gaza, ha fatto anche interviste ai manifestanti, benché, in quanto non accreditata, lo ha fatto senza avere la protezione derivante da scritte specifiche sui suoi indumenti.

Khreis prova un sentimento di solidarietà con le persone che si sono avventurate vicino alla barriera di separazione tra Gaza e l’attuale Israele. Più di 100 manifestanti disarmati sono stati uccisi da Israele da quando è iniziata la ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo.

“Il mio cuore si spezza quando vedo un giovane cadere a terra dopo essere stato colpito dai proiettili dei cecchini israeliani”, ha detto Khreis. “Questo è il risultato dell’ingiusto assedio imposto a Gaza. Se quei giovani avessero un lavoro decente, una buona educazione, servizi essenziali e libertà di movimento, non dovrebbero marciare verso la morte.”

Ovviamente anche molte donne e ragazze sono state ferite durante le proteste.

Una ragazzina, Wesal al-Sheikh Khalil, è stata uccisa mentre partecipava alla manifestazione il 14 maggio. E all’inizio di giugno l’infermiera ventunenne Razan al-Najjar è stata colpita a morte mentre aiutava a evacuare e curare i feriti.

“Un chiaro messaggio”

Mariam Mattar, di 16 anni, è stata colpita ad una gamba durante le recenti proteste. Stava sventolando una bandiera palestinese.

“Ho perso conoscenza”, ha raccontato a The Electronic Intifada. “Quando mi sono svegliata, ero in un letto d’ospedale.”

Nonostante la ferita, Mariam approva in pieno le proteste. “Vogliamo mandare un chiaro messaggio al mondo intero”, ha detto. “Il popolo palestinese sogna il giorno in cui potrà tornare alle proprie case. Speriamo che giunga presto.”

L’ampio uso dei gas lacrimogeni da parte di Israele – un’arma chimica che è stata lanciata sui manifestanti dai droni – ha colpito anche molte donne.

Amani Abu Jidian è andata alle recenti manifestazioni – che si tenevano normalmente di venerdì – con i suoi figli.

“I miei due figli hanno insistito per andare ogni venerdì”, ha detto. “So che è pericoloso, quindi per essere sicura che loro restassero al sicuro e non si avvicinassero troppo [alla barriera], li ho accompagnati mentre si avvicinavano al confine. Non ho smesso di sorvegliarli.”

L’11 maggio Abu Jidian era all’interno di una delle tende costruite a supporto delle proteste, quando l’hanno attaccata coi gas lacrimogeni.

“Mi sono sentita soffocare”, ha detto.

Insegnare le tradizioni

Anche se le tende non forniscono una reale protezione, si sono dimostrate importanti luoghi di aggregazione.

Maryam Abu Zubaida, di 63 anni, preparava i pasti per i manifestanti distribuiti nelle tende. Questi comprendevano piatti tradizionali come il maftoul – couscous palestinese – e la sumaghiya, uno stufato di carne di bue e ceci.

Quando si recava nelle tende, cantava canzoni nazionali e ricamava, per aiutare i manifestanti.

“È un bel modo per me di passare il tempo coi miei amici”, ha detto a ‘The Electronic Intifada’. “E nello stesso tempo facciamo un buon lavoro di insegnamento delle nostre tradizioni alle generazioni più giovani per conservarle nel futuro.”

Un giorno Maryam ha portato la sua nipotina Farah di 7 anni in una tenda. Recandosi là, Farah ha imparato canzoni come “Zareef al-Tool”, un lamento per le città e i villaggi che i palestinesi furono costretti a lasciare nel 1948.

“Mi piace quando finisco le lezioni e mia nonna accetta di portarmi con lei alla tenda”, ha detto Farah. “Là mi sono divertita molto.”

Quando Israele ha attaccato le manifestazioni, le donne hanno curato i feriti. Le uccisioni di Razan al-Najjar e, prima di lei, di Mousa Abu Hassanein, hanno messo in evidenza i rischi che corrono i medici.

Anwar Mohammed, un’infermiera di 26 anni, ha prestato i primi soccorsi ai manifestanti colpiti.

“Il nostro lavoro è stato molto impegnativo nelle scorse settimane”, ha detto. “Ci siamo occupati di un gran numero di vittime.”

Mohammed ha lavorato in un ospedale da campo, ma a volte le è stato chiesto di avvicinarsi alla barriera di confine per fornire assistenza di emergenza.

“La pressione e lo stress cui eravamo sottoposti è stato enorme, soprattutto durante le proteste del venerdì”, ha aggiunto.

Il coraggio che ha dimostrato le è valso un notevole rispetto.

“Era una novità per i manifestanti vedere infermiere donne in prima linea”, ha detto a ‘The Electronic Intifada’. Ci esponevamo al pericolo e aiutavamo a salvare vite umane. Ma non c’ è voluto molto perché i manifestanti si abituassero a noi. Ascoltavano le nostre istruzioni e vi si sono attenuti.”

Isra Saleh el-Namey è giornalista a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La Grande Marcia del Ritorno: il massacro dei cecchini a Gaza

Richard Falk

10 giugno 2018, Global Justice in the 21st century

Nessun paese agirebbe con maggior moderazione di Israele”, Nikki Haley, Ambasciatrice USA alle Nazioni Unite.

Nota preliminare: Il massacro dei cecchini a Gaza in risposta alla Grande Marcia del Ritorno è un’altra pietra miliare nella resistenza palestinese e un ennesimo terrificante episodio nella storia dell’apartheid israeliano di violenza eccessiva e crudele, un sequel vergognoso di crimini per i quali non esiste un possibile tribunale giudicante che renda giustizia alle vittime. L’articolo che segue consiste nella giustapposizione di notizie, del bruciante editoriale di un giornalista israeliano coraggiosamente intransigente, Gideon Levy, e di un ampio e brillante commento del mio amico Jim Kavanaugh. L’articolo è dedicato alla memoria di Razan al-Najjar, la coraggiosa paramedica di 21 anni colpita a morte mentre assisteva i manifestanti palestinesi feriti più o meno vicino alla recinzione di Gaza. Questa giovane donna incarna la purezza della resistenza non violenta ed eroica, un’identità a cui è stata data profondità storica grazie alla sua gioia di vivere e al supremo sacrificio impostale dalla brutalità di un cecchino.

Si presume che la leadership politica e i comandanti militari israeliani abbiano scelto una tale esibizione di violenza eccessiva e vendicativa per un chiaro obiettivo politico, che rimarrà segreto. Sembrerebbe voler sfruttare il sostegno illimitato della presidenza Trump e una situazione politica regionale più che favorevole nella loro storia, ma ci si può ancora chiedere “a quale scopo?” Per me l’ipotesi migliore è che l’azione sia stata progettata per convincere la gente di Gaza, più che Hamas, che la resistenza, e in particolare la resistenza disarmata, è inutile. Senza un piano diplomatico e con il processo delle annessioni che procede senza ostacoli, Israele profitterebbe del riconoscimento palestinese che la lotta è finita e che i palestinesi hanno perso. La Grande Marcia del Ritorno è stata una sfida e un rifiuto ad ammettere la sconfitta, senza dubbio irritando Israele, e infliggendo una grande sconfitta nell’altra guerra: la Guerra di Legittimazione combattuta per conquistare i cuori e le menti sulla base di un elevato fondamento morale e politico.

Insomma, dobbiamo capire che il problema di vincere la Guerra di Legittimazione è principalmente una lotta per far sì che la verità venga ascoltata, venga compresa in tutte le principali questioni in campo. La legge e la morale sono dalla parte delle richieste palestinesi, ma questo si è sinora dimostrato politicamente irrilevante in quanto la geopolitica e le capacità militari pendono fortemente dalla parte di Israele. Può la resistenza palestinese, rafforzata da un crescente movimento di solidarietà globale, superare il vantaggio israeliano? Il tempo lo dirà. Finora le associazioni dei media si sono schierate con Israele, ed è un campo di battaglia nella Guerra di Legittimazione in cui i palestinesi hanno sinora sostanzialmente fallito.]

(Traduzione di Luciana Gagliano)




Dopo aver ucciso Razan al-Najjar, Israele assassina il suo personaggio

Gideon Levy

10 giugno 2018, Haaretz

Quando non c’è più onestà, ciò che rimane non è altro che propaganda

Poche parole – “Razan al-Najjar non è un angelo della misericordia” – riassumono la profondità della propaganda israeliana. Avichay Edraee, il portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano, che parla anche in mio nome, è il rappresentante di un esercito della misericordia che ora si è autonominato giudice del livello di misericordia di una dottoressa che curava un ferito palestinese sul confine di Gaza con Israele e che i soldati dell’esercito israeliano hanno ucciso senza misericordia. Dopo averla uccisa, era anche necessario assassinare il suo personaggio.

La propaganda è uno strumento a disposizione di molti Paesi. Meno le loro politiche sono giuste, più incrementano i propri sforzi propagandistici. La Svezia non ha bisogno di propaganda. La Corea del Nord sì. In Israele viene chiamata ‘hasbara’ – diplomazia pubblica – in quanto: perché avrebbe bisogno di propaganda? Recentemente la sua propaganda è scesa a una bassezza talmente deprecabile che niente può dimostrare meglio di così che le sue giustificazioni sono esaurite, le sue scuse finite, che la verità è la nemica e che ciò che rimane sono menzogne e calunnie.

Si rivolge soprattutto al consumo interno. Nel resto del mondo pochi abitanti di Gaza ci crederebbero in ogni caso. Ma come parte del disperato tentativo di continuare con la repressione e la negazione psicologiche, nell’incapacità di dirci la verità e nell’elusione di ogni responsabilità – tutto è accettabile quando si tratta di questi sforzi.

Una dottoressa con un camice da infermiera è stata uccisa con un colpo di fucile da cecchini dell’esercito israeliano – come hanno fatto con giornalisti con i giubbotti con la scritta “stampa” e con un invalido senza gambe su una sedia a rotelle. Se ci fidiamo dei cecchini dell’esercito israeliano per sapere cosa stanno facendo, contando su di loro per essere i più corretti al mondo, allora queste persone sono state uccise deliberatamente. Sicuramente se l’esercito credesse alla giustezza della campagna militare che sta combattendo a Gaza, si sarebbe preso la responsabilità di queste uccisioni, manifestando rincrescimento e offrendo un risarcimento.

Ma quando la terra scotta sotto i nostri piedi, quando sappiamo la verità e capiamo che sparare contro manifestanti e ucciderne più di 120 e rendere centinaia di altri disabili assomiglia di più a un massacro, non si può chiedere scusa e esprimere rincrescimento. E allora l’aggressiva, goffa, imbarazzante e vergognosa macchina della propaganda del portavoce dell’esercito entra in azione – una fragorosa voce dal ministero della Difesa che aggrava semplicemente quello che è stato fatto. Martedì il maggiore Edraee ha reso pubblico un video in cui si vede da dietro un’infermiera, forse Najjar, mentre lancia lontano un lacrimogeno che i soldati avevano sparato verso di lei. Lo stesso Edraee avrebbe fatto altrettanto, ma quando si tratta di una propaganda disperata, è una prova inconfutabile: Najjar è una terrorista. Ha anche detto di essere uno scudo umano. Sicuramente un medico è un difensore di esseri umani.

Un’inchiesta militare israeliana, basata ovviamente solo su testimonianze dei soldati, dimostra che non è stata colpita volontariamente. Chiaro. La macchina della propaganda è andata oltre ed ha suggerito che potrebbe essere stata uccisa da armi da fuoco palestinesi, che sono state usate molto di rado durante gli ultimi due mesi.

Forse si è sparata da sola? Tutto è possibile. E ci ricordiamo forse di una qualunque inchiesta dell’esercito israeliano che abbia dimostrato il contrario? L’ambasciatore israeliano a Londra, Mark Regev, che è un altro grande, raffinato propagandista, è stato veloce nel twittare in merito alla “dottoressa volontaria” tra virgolette, come se una palestinese non potesse essere una dottoressa volontaria. Invece, ha scritto, la sua morte è “un ulteriore dimostrazione della brutalità di Hamas.”

L’esercito israeliano uccide un medico in camice bianco, durante una vergognosa violazione delle leggi internazionali, che garantiscono protezione al personale medico in zone di conflitto. E ciò nonostante il fatto che il confine di Gaza non costituisca una zona di guerra. Ma è Hamas che è brutale.

Uccidimi, signor ambasciatore, ma chi potrebbe mai seguire questa logica contorta, malata? E chi può credere a questa propaganda a buon mercato se non qualche membro del Consiglio dei Deputati degli Ebrei Britannici – la più grande organizzazione rappresentativa dell’ebraismo britannico – insieme a Merav Ben Ari [del partito di centro Kulanu, all’opposizione, ndt.], la deputata della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] che ha subito approfittato dell’occasione e ha dichiarato: “Risulta che la dottoressa, proprio quella, non era solo un medico, come vedete.” Sì, quella. Come vedete.

Israele avrebbe dovuto essere scioccato dall’uccisione della dottoressa. Il volto innocente di Najjar avrebbe dovuto toccare ogni cuore israeliano. Organizzazioni di medici avrebbero dovuto esprimersi. Gli israeliani avrebbero dovuto nascondere la faccia per la vergogna. Ma sarebbe potuto succedere solo se Israele avesse creduto alla giustezza della propria causa. Quando non c’è più onestà, ciò che rimane non è altro che propaganda. E da questo punto di vista, forse questa caduta ancora più in basso annuncia novità positive.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il ministro della Difesa di Israele definisce l’idea di aiutare Gaza ‘delirante’. Ma mente intenzionalmente

Noa Landau

10 giugno 2018, Haaretz

Domenica mattina il ministro della Difesa [israeliano] Avigdor Lieberman si è nuovamente pronunciato contro gli aiuti umanitari a Gaza.

In un’intervista alla radio dell’esercito prima dell’incontro del comitato sulla sicurezza di domenica su questo argomento, Lieberman ha definito l’ipotesi che misure di aiuto umanitario condurrebbero alla cessazione del terrorismo “allucinante e delirante”. Ma alla domanda di specificare che cosa avrebbe consigliato precisamente a riguardo, ha eluso una chiara risposta ed ha continuato ad esprimersi con slogan.

Lieberman, capo del partito Yisrael Beitenu [“Israele Casa Nostra, partito di estrema destra nazionalista, ndtr], in un certo senso ha ragione; le misure di aiuto umanitario qui e nella Striscia di Gaza non sono una soluzione a lungo termine ad un problema che verte essenzialmente sulle aspirazioni alla liberazione nazionale. Ma ha anche torto e mente, perché sa molto bene che la posizione del suo governo, propugnata dall’esercito e dal suo ministero, sostiene gli aiuti umanitari affiancati a vari interventi di sostegno allo scopo almeno di interrompere la violenza nella regione.

Ma è vero che la drammatica situazione economica a Gaza non influisce sul livello delle minacce terroristiche? Dipende da chi si interpella nel governo e da quanto sono negativi i sondaggi per l’intervistato. Solo la scorsa settimana, durante la sua visita in Europa, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto ai giornalisti che l’escalation nella Striscia è dovuta allo strangolamento economico, “chiaro e semplice”, come ha detto lui. Ovviamente Netanyahu accusa Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese per la crisi, a causa degli “enormi investimenti sotterranei” di Hamas, cioè i tunnel. Ma il risultato, secondo il primo ministro, è che “stanno soffocando sul piano economico e hanno deciso chiaramente e semplicemente di schiantarsi contro la barriera (di confine).”

Netanyahu ha anche detto: “Stiamo esaminando varie possibilità per prevenire una crisi umanitaria là [a Gaza]. Israele è quello che fa di più e forse l’unico che si attiva su questo problema.” L’ultima affermazione non è esatta; si stanno sollecitando sforzi internazionali non meno che quelli israeliani per una soluzione e, a differenza di Israele, i governi stranieri stanno anche investendo denaro dei propri cittadini. Ma nei mesi scorsi Israele ha certamente bussato ad ogni porta per raccogliere fondi per l’assistenza a Gaza. Per esempio, a gennaio, durante una conferenza di emergenza a Bruxelles dei Paesi e delle organizzazioni donatori verso i palestinesi, Israele ha presentato un piano di emergenza per la ricostruzione umanitaria di Gaza ed ha chiesto alla comunità internazionale di finanziarlo.

Il piano israeliano per salvare Gaza, che è stato preparato sotto la guida del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori – cioè dell’esercito, quindi dell’ambito di competenza di Lieberman – comprende una proposta di costruzione di un impianto di desalinizzazione, un impianto di depurazione, un impianto di raccolta dei rifiuti, il potenziamento della zona industriale di Erez e altre voci, per un costo totale previsto di 1 miliardo di dollari. Israele ha proposto di fornire competenze tecniche e tecnologia per i progetti e di avere maggiore flessibilità riguardo all’importazione di materiali “a doppio utilizzo”, che potrebbero essere usati anche per atti di terrorismo, a Gaza. Questo significa che ci può essere più flessibilità nel blocco quando Israele lo decide. L’ex Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori, general maggiore Yoav Mordechai, ha detto più volte in passato che “il problema è soprattutto di Hamas e dell’ANP, ma ha un forte impatto su Israele. È una componente ulteriore della concezione di sicurezza dell’esercito

La buona notizia, se così si può dire, è che anche il pubblico israeliano sembra ormai capire la falsità di politici come Lieberman e i suoi epigoni. In un’inchiesta condotta di recente dall’israeliana “Meet the Press” [‘Incontra la stampa’, programma televisivo di Canale 2 israeliano, ndtr.], come risposta alla domanda su che cosa dovrebbe fare Israele riguardo alla Striscia di Gaza, il 41% degli israeliani era d’accordo che Israele dovrebbe fornire “aiuto agli abitanti della Striscia di Gaza”. Questo dato va raffrontato con il 28% che ha detto che Israele dovrebbe “sconfiggere e rovesciare il governo di Hamas”, il 18% che ha auspicato di “lasciare la situazione com’è”, e l’11% senza un’opinione su una questione che influisce così pesantemente sulle loro vite e su quelle dei loro vicini. E questa è la risposta migliore ai politici populisti e incendiari: la gente non è sempre stupida.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La Palestina non è occupata, è colonizzata.

Ramzy Baroud

5 giugno 2018, Middle East Monitor

Il 5 giugno 2018 ricorre il 51° anniversario dell’occupazione israeliana di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza.

Ma, a differenza della mobilitazione popolare di massa che ha preceduto l’anniversario della Nakba – la catastrofica distruzione della Palestina nel 1948 – il 15 maggio, è difficile che l’anniversario dell’occupazione generi una tale mobilitazione.

Il prevedibile fallimento del ‘processo di pace’ e l’inevitabile fine della ‘soluzione dei due Stati’ hanno spostato l’attenzione dal porre fine all’occupazione in sé al problema più ampio, e complessivo, del colonialismo israeliano in Palestina.

Le mobilitazioni dal basso a Gaza e in Cisgiordania, nonché tra le comunità beduine nel deserto del Negev, stanno di nuovo facendo crescere le aspirazioni nazionali nel popolo palestinese. Aspirazioni che per decenni, a causa della visione limitata della leadership palestinese, sono state confinate a Gaza e Cisgiordania.

In un certo senso, l’‘occupazione israeliana’ non è più un’occupazione secondo gli standard e le definizioni internazionali. È una semplice fase della colonizzazione sionista della Palestina storica, un processo che è iniziato più di 100 anni fa e continua ancora oggi.

Secondo il sito del Comitato della Croce Rossa Internazionale, “la legislazione sull’occupazione è innanzitutto motivata da considerazioni di tipo umanitario; sono esclusivamente la situazione sul campo a determinarne l’applicazione”.

È per motivi pratici che spesso utilizziamo il termine ‘occupazione’ in riferimento alla colonizzazione israeliana del territorio palestinese occupato dopo il 5 giugno 1967. Il termine consente l’enfasi costante sulle norme umanitarie che dovrebbero regolare il comportamento di Israele come potenza occupante.

Tuttavia, Israele ha già violato, e per diverse volte, la maggior parte delle condizioni di ciò che, da una prospettiva di diritto internazionale, viene considerata ‘occupazione’, come formulato nella Convenzione dell’Aia del 1907 (artt. 42-56) e nella Quarta Convenzione di Ginevra del 1949.

Secondo tali definizioni, con ‘occupazione’ si intende una fase provvisoria, una situazione temporanea che dovrebbe terminare con l’applicazione del diritto internazionale in relazione a quella particolare situazione.

Occupazione militare’ non vuol dire sovranità dell’occupante sull’occupato; non può comprendere il trasferimento di cittadini dai territori della potenza occupante verso le terre occupate; non può includere la pulizia etnica, la distruzione delle proprietà, le punizioni collettive e le annessioni.

Spesso si sostiene che Israele è un occupante che ha violato le regole dell’occupazione come stabilite dal diritto internazionale.

Sarebbe stato questo il caso un anno, due o cinque dopo che è avvenuta l’occupazione iniziale, ma non dopo 51 anni. Da allora, l’occupazione si è trasformata in una colonizzazione a lungo termine.

Una dimostrazione evidente è l’annessione, da parte di Israele, di territori occupati, comprese le Alture del Golan siriano e la palestinese Gerusalemme Est nel 1981. Tale decisione non ha rispettato in alcun modo le leggi internazionali, il diritto umanitario o qualsiasi altra normativa.

I politici israeliani hanno, per anni, discusso pubblicamente dell’annessione della Cisgiordania, soprattutto di aree popolate da insediamenti ebraici illegali, costruiti in violazione del diritto internazionale.

Le centinaia di insediamenti che Israele ha costruito in Cisgiordania e a Gerusalemme Est non sono considerati strutture temporanee.

La divisione della Cisgiordania in tre zone – area A, B e C [in base agli accordi di Oslo e a seconda dell’attribuzione all’ANP o a Israele del controllo amministrativo e militare, ndt.] – ognuna regolamentata secondo diversi dettami politici e norme militari, non ha precedenti nel diritto internazionale.

Israele sostiene, contrariamente al diritto internazionale, di non essere più potenza occupante a Gaza; tuttavia, sulla Striscia è imposto, da oltre 11 anni, un assedio israeliano terrestre, marittimo e aereo. Tra un susseguirsi di guerre israeliane che hanno ucciso migliaia [di palestinesi, ndt] e un blocco ermetico che ha spinto la popolazione palestinese sull’orlo della carestia, Gaza sopravvive in isolamento.

Gaza è ‘territorio occupato’ solo di nome, senza che nessuna delle leggi umanitarie venga applicata. Solo nelle ultime 10 settimane, sono stati uccisi oltre 120 manifestanti disarmati, giornalisti e medici e 13.000 sono stati feriti, eppure la comunità e il diritto internazionale restano inerti, non in grado di far fronte o sfidare i leader israeliani o di sconfiggere i veti americani ugualmente spietati.

I Territori Palestinesi Occupati hanno passato, già da molto, il confine tra l’essere occupati e l’essere colonizzati. Ma ci sono dei motivi per i quali noi restiamo prigionieri delle vecchie definizioni, il principale dei quali è l’egemonia americana nei discorsi legali e politici sulla Palestina.

Uno dei più importanti risultati giuridici e politici della guerra israeliana del giugno del 1967 contro molti Paesi arabi – guerra condotta con il pieno supporto degli USA – è la ridefinizione della terminologia giuridica e politica sulla Palestina.

Prima di quella guerra, il dibattito era per lo più dominato da questioni urgenti come il ‘diritto al ritorno’ dei rifugiati palestinesi, che dovevano poter tornare alle loro case e proprietà nella Palestina storica.

La Guerra dei sei giorni ha spostato completamente gli equilibri di potere, e ha consolidato il ruolo dell’America come principale sostenitore di Israele sulla scena internazionale.

Vennero approvate numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU per delegittimare l’occupazione israeliana: le risoluzioni n. 242, 338 e quella di cui si parla meno, ma ugualmente significativa, la n.497.

La Risoluzione 242 del 1967 chiedeva “il ritiro delle forze armate israeliane” dai territori da esse occupati nella Guerra dei sei giorni. La Risoluzione 338, che seguì alla guerra del 1973, accentuò e rese più chiara quella richiesta. La Risoluzione 497 del 1981 fu la risposta all’annessione israeliana delle Alture del Golan. Rese tale iniziativa ‘nulla, come non avvenuta e priva di effetti sul piano legale e internazionale’.

Lo stesso dicasi per l’annessione di Gerusalemme e per ogni altro insediamento coloniale o tentativo israeliano volto a cambiare lo status legale della Cisgiordania.

Ma Israele agisce secondo uno schema mentale totalmente differente.

Considerando che oggi ci sono tra i 600.000 e i 750.000 ebrei israeliani che vivono nei ‘Territori Occupati’, e che la più grande colonia, quella di Modi’in Illit [a nord di Gerusalemme, ndt.], ospita oltre 64.000 ebrei israeliani, bisognerebbe chiedersi che tipo di progetto di occupazione militare stia mai implementando Israele.

Israele è un progetto coloniale di insediamento, iniziato quando il movimento sionista aspirava a costruire una patria esclusiva per gli ebrei in Palestina, a spese degli abitanti nativi di quella terra alla fine del XIX° secolo.

Da allora non è cambiato niente. Solo la facciata, le definizioni legali e il discorso politico. La verità è che i palestinesi continuano a soffrire le conseguenze del colonialismo sionista e continueranno a portare questo fardello finché quel peccato originale non sarà coraggiosamente affrontato e rimediato con la giustizia.

Il punto di vista espresso in questo articolo appartiene all’autore e non riflette necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Elena Bellini)

 




Registi LGBTQ rifiutano di consentire a Israele di utilizzarli per nascondere dietro al rosa i suoi crimini

Ali Abunimah

8 giugno 2018, Electronic Intifada

Arriva a 11 il numero di artisti che hanno lasciato il festival, parte di una crescente ondata di appoggio internazionale al Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) [contro Israele] in seguito ai massacri da parte di Israele di palestinesi disarmati durante le manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

Il canadese Marc-Antoine Lemire ha ritirato il suo corto “Pre-Drink”, che ha vinto il premio per il miglior corto canadese al festival internazionale del cinema di Toronto.

Recentemente siamo venuti a sapere della strategia israeliana di “pinkwashing” [lett. “lavaggio rosa” in riferimento all’uso propagandistico delle tematiche LGBTQ, ndt.], e desideriamo esprimere il nostro rifiuto a contribuirvi, oltre al nostro appoggio alla comunità LGBTQ+,” ha scritto Lemire.

In seguito al movimento di protesta di parecchi registi e artisti in disaccordo con le politiche di Israele contro la Palestina, abbiamo deciso di prendere posizione a favore di questo movimento. Soprattutto con i recenti avvenimenti, rifiutiamo la strumentalizzazione del nostro film.”

Il regista francese Antoine Héraly ha annullato una sua prevista apparizione al festival per la proiezione del suo film “Furniture Porn Project”.

Dopo un’intensa settimana di riflessione e di letture e di discussioni con organizzazioni e un ampio spettro di intellettuali, sono arrivato alla conclusione che, se io dovessi partecipare fisicamente alla proiezione per presentare “Furniture Porn Project”, la mia coscienza sarebbe assente dalla sala cinematografica,” ha scritto Héraly agli organizzatori del festival.

Se avessi avuto un periodo di tempo più lungo in cui mettere insieme le mie idee, vi avrei chiesto di togliere il mio film dal festival, con cui non mi posso identificare, in quanto è finanziato dallo Stato e quindi parte delle politiche israeliane di ‘pinkwashing’”, ha aggiunto Héraly.

Egli ha sottolineato che il festival in ogni caso ha proiettato film di altri registi che avevano chiesto che venissero cancellati, una cosa che Héraly ha definito “inaccettabile”.

TLVFest è una pietra miliare della campagna di “pinkwashing” di Israele. Il “pinkwashing” è una strategia di pubbliche relazioni che utilizza la presunta apertura di Israele verso le questioni LGBTQ per sviare critiche contro le sue violazioni dei diritti umani e fare appello in particolare al pubblico progressista dell’Occidente.

Ciò spesso implica grossolane esagerazioni delle politiche progressiste israeliane, insieme ad assolute menzogne sui palestinesi.

Governi filo-israeliani che hanno puntualmente evitato di condannare o agire per porre fine alla deliberata uccisione a Gaza di palestinesi disarmati, compresi minori, medici e giornalisti, da parte di Israele, sono diventati sostenitori particolarmente entusiasti del “pinkwashing”.

Venerdì molte ambasciate dell’Unione Europea hanno di nuovo partecipato alla sfilata dell’orgoglio gay a Tel Aviv, come parte dei loro tentativi di etichettare la città come una destinazione turistica aperta e progressista, nonostante il modo in cui ha rappresentato un contesto violento, razzista e ostile per i palestinesi e gli africani [si riferisce soprattutto alle vicende dei richiedenti asilo africani, ndt.].

TLVFest è finanziato dal ministero della Cultura di Israele, che è guidato dall’esponente politica di estrema destra Miri Regev.

Regev è nota per la sua esternazione razzista, in cui ha paragonato rifugiati da Stati africani a un “cancro”, e per aver postato su Facebook un video in cui lei e un gruppo di tifosi di calcio israeliani incitavano alla violenza contro i palestinesi.

Tra gli sponsor di TLVFest c’è la “Saison France-Israël”, un’iniziativa di pubbliche relazioni sostenuta da entrambi i governi e intesa a promuovere l’immagine di Israele.

Boicottaggio di “Pop-Kultur”

Il musicista americano John Maus è diventato il quarto artista a ritirarsi dall’imminente festival “Pop-Kultur” di Berlino, in seguito alla sponsorizzazione da parte dell’ambasciata israeliana.

Il festival ha emesso un comunicato in base al quale Maus e il suo gruppo “preferiscono non suonare all’interno di uno scenario politicizzato.”

Tre artisti britannici – Gwenno Saunders, Richard Dawson e Shopping – hanno già annunciato il proprio ritiro.

Saunders ha scritto: “Non posso mettere in discussione il fatto evidente che il governo e l’esercito israeliani stanno uccidendo palestinesi innocenti, violando i loro diritti umani, e che questa situazione disperata deve cambiare.”

Richieste di annullare la partita di Israele in Irlanda

Queste ultime azioni in solidarietà con i palestinesi sono arrivate dopo che i grandi nomi Shakira e Gilberto Gil hanno abbandonato il progetto di esibirsi a Tel Aviv, e dopo l’annuncio congiunto dello scorso mese di decine di gruppi musicali che avrebbero rispettato l’appello palestinese al boicottaggio.

Ci sono state anche crescenti richieste di boicottare la gara canora “Eurovisione” del prossimo anno se, come è stato anticipato, Israele la ospiterà in seguito alla vittoria di quest’anno di Netta Barzilai.

Ma il maggior risultato per i palestinesi è stato la cancellazione da parte dell’Argentina di una partita “amichevole” contro Israele che era prevista a Gerusalemme questo fine settimana.

L’incontro, parte della preparazione per la Coppa del Mondo di quest’estate, sarebbe stata il fiore all’occhiello delle iniziative propagandistiche israeliane.

Sulla base dell’impulso che viene da quella vittoria della campagna BDS, il partito irlandese [della sinistra nazionalista, ndt.] Sinn Féin sta ora chiedendo la cancellazione di un’ “amichevole” tra Israele e l’Irlanda del Nord prevista a settembre.

Faccio questa richiesta in seguito al recente massacro di oltre 100 manifestanti e alle mutilazioni di migliaia di altri da parte dell’esercito israeliano,” ha detto Sinéad Ennis, parlamentare del Sinn Féin dell’Irlanda del Nord. “La comunità internazionale dovrebbe opporsi allo Stato israeliano per il massacro indiscriminato e le continue discriminazioni contro i palestinesi.”

Il Sinn Féin appoggia la campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro Israele che riguarda i rapporti culturali, accademici e sportivi,” ha affermato Ennis.

La IFA, l’ente che gestisce il calcio nell’Irlanda del Nord, si sta già opponendo a questa richiesta.

Il Sinn Féin rappresenta tradizionalmente i nazionalisti irlandesi che pensano che l’Irlanda del Nord dovrebbe diventare parte di uno Stato irlandese unitario.

In genere i nazionalisti non si identificano con la squadra dell’Irlanda del Nord nelle competizioni internazionali e tifano per la Repubblica d’Irlanda.

Il Sinn Féin è uno dei due maggiori partiti dell’Irlanda del Nord, mentre l’altro è il Partito Democratico Unionista (DUP), che appoggia decisamente il mantenimento della divisione dell’Irlanda e il Nord come parte del Regno Unito.

Come partito di tutta l’Irlanda, il Sinn Féin si candida alle elezioni anche nella Repubblica d’Irlanda, e il sindaco di Dublino del Sinn Féin è stato un sostenitore accanito dei diritti dei palestinesi, come riflesso dell’ampia solidarietà per la Palestina nella società irlandese.

In aprile il consiglio comunale di Dublino ne ha fatto la prima capitale europea a sostenere il BDS.

E in maggio il consiglio di Derry, una città della parte dell’Irlanda controllata dalla Gran Bretagna, ha approvato una mozione presentata dal Sinn Féin per l’illuminazione di edifici comunali con i colori della bandiera palestinese in segno di solidarietà.

Al contrario il DUP, cristiano sionista e fortemente filo-israeliano, attualmente tiene in piedi il governo londinese della prima ministra Theresa May, il che gli dà un enorme potere nel Regno Unito.

I politici del DUP appoggiano decisamente la partita Israele-Irlanda del Nord.

(traduzione di Amedeo Rossi)