Le molte questioni della Dichiarazione Balfour

Joseph Massad

8 Novembre 2017,The Electronic Intifada

Alla fine del XVIII° secolo gli illuministi europei, nel loro tentativo di ripulire l’Europa da poco inventata da qualunque cosa che non fosse cristiana e di conseguenza non occidentale, inventarono quella che chiamarono “la questione orientale” e “questione ebraica”, complementare alla prima.

Entrambe le questioni dovevano diventare fondamentali per gli obiettivi imperialisti europei di disgregare l’impero ottomano ed occupare i suoi territori. All’inizio del XX° secolo, quando la Prima Guerra Mondiale stava per terminare, questi europei illuminati decisero di risolvere le due questioni trasformandole, attraverso il colonialismo di insediamento, in quella che chiamarono la “questione palestinese”.

La “questione orientale”

La “questione orientale” fu quella relativa all’Oriente che invadeva l’Occidente, cioè era il problema dell’impero ottomano che doveva essere sconfitto. Questa sconfitta fu finalmente raggiunta alla fine della Prima Guerra Mondiale e, con essa, l’Occidente risolse la “questione orientale”.

Riguardo alla “questione ebraica”, era legata alla permanenza dell’Oriente in Occidente, che i cristiani europei, illuminati o meno, trovavano intollerabile. È vero che sia l’Ebraismo che il Cristianesimo sono religioni palestinesi. È anche un fatto storico indiscutibile che gli abitanti di quella che più tardi sarebbe stata chiamata “Europa”, sia cristiani che ebrei, si convertirono a quelle religioni palestinesi secoli dopo che l’avevano già fatto i palestinesi.

È vero anche che questi nuovi cristiani di quella che sarebbe diventata Europa non pensarono mai a se stessi come diretti discendenti degli antichi cristiani palestinesi che parlavano aramaico, ma si vedevano giustamente come convertiti più recenti a questa religione palestinese. Eppure questi stessi convertiti al Cristianesimo ribadivano spesso che i convertiti all’Ebraismo in quella che sarebbe diventata l’Europa erano in qualche modo discendenti degli antichi ebrei palestinesi che parlavano anche loro aramaico al tempo della cosiddetta espulsione da parte dei romani nel I° secolo [D.C.].

Ciò era importante perché questi convertiti al Cristianesimo accusarono i convertiti all’Ebraismo dell’uccisione del Cristo palestinese. Più tardi né i cristiani ortodossi né i cattolici pensarono mai di espellere questi ebrei verso la Palestina. Né questi convertiti all’Ebraismo avevano mai desiderato di emigrare in massa dai propri Paesi in Palestina.

Dato che i convertiti al Cristianesimo riflettevano sul luogo geografico da cui la fede a cui si erano convertiti era stata originata, decisero che doveva passare in loro potere. Questa fu l’origine del primo Sionismo cristiano europeo, che venne chiamato “Crociate”. I protestanti, i fondamentalisti cristiani del Rinascimento, iniziarono ad essere ossessionati dagli ebrei europei, vedendoli di nuovo non come convertiti locali all’Ebraismo, ma come in qualche modo ancora legati all’antica Palestina, e iniziarono a invocare il loro cosiddetto “ritorno” alla Terra Santa come parte del progetto millenaristico per accelerare il secondo avvento di Cristo. Gli ebrei europei resistettero e, insieme ai correligionari americani, resistono ancora adesso a questi appelli per l’auto-espulsione dall’Europa e dagli Stati Uniti verso una lontana terra asiatica.

La “questione ebraica”

È in questo contesto che gli europei illuminati posero quella che alla fine del XVIII° secolo chiamarono “la questione ebraica” come un problema di stranieri asiatici orientali che vivevano nell’Europa occidentale. Napoleone chiese agli ebrei francesi di garantire che non stessero più praticando l’Ebraismo orientale, che consentiva agli uomini di sposare più di una donna, prima di accettarli come cittadini con gli stessi diritti nella Francia post-rivoluzionaria. Una delegazione di ebrei francesi gli garantì che gli ashkenaziti [letteralmente “germanici”, ebrei dell’Europa centro-orientale, ndt.] europei avevano bandito queste eresie non cristiane nel XII° secolo e che quindi erano praticamente dei cristiani.

Nel XIX° secolo masse di ebrei dell’Europa occidentale si affrettarono a convertirsi formalmente al Cristianesimo o a creare una nuova forma di Ebraismo che chiamarono “Ebraismo riformato”, un Ebraismo così simile al Cristianesimo che si potrebbero quasi confondere uno con l’altro – quasi!

Ma ciò non era sufficiente; verso la metà del XIX° secolo, con il sorgere delle scienze biologiche e razziali, la “questione ebraica” non riguardò più una popolazione le cui origini erano state de-europeizzate e trasformate in asiatiche, ma l’estraneità e l’inferiorità razziale.

Ciò si sviluppò nell’era dei nazionalismi europei che spesso si basarono su lingua e territorio comuni, ma sempre più sull’invenzione di una razza comune. Articolata per la prima volta dai linguisti europei alla fine del XVIII° secolo, la differenza tra quelle che chiamarono lingue indo-europee o ariane e le lingue semitiche alla metà del XIX° secolo venne trasformata in una questione biologica razziale.

Non importa che gli ebrei europei non parlassero affatto una lingua semitica; l’affermazione falsa che fossero discendenti degli antichi ebrei era sufficiente. Che gli antichi palestinesi cristiani, come gli antichi ebrei palestinesi, parlassero aramaico, che ora veniva definita una lingua semitica, non rendeva tuttavia i cristiani europei dei “semiti”. Erano decisamente indo-europei, e i fortunati tra loro, ariani puri.

La risposta ebraica

La risposta degli ebrei europei a questi sviluppi fu diversificata e prese la forma di quattro risposte organizzate che rivaleggiarono tra loro per ottenere l’appoggio degli ebrei come dei cristiani.

Il gruppo meno importante, che si mise contro la maggioranza degli ebrei, fu il Sionismo. Fondato con un congresso dell’agosto 1897, questo gruppo decise di allearsi consapevolmente con gli antisemiti, i protestanti millenaristi e gli imperialisti e adottò un nazionalismo ebraico basato sulla razza che si unì ai nazionalismi europei razzisti nella loro missione colonialista.

Il suo fondatore, Theodor Herzl, parlò senza peli sulla lingua quando dichiarò che “gli antisemiti diventeranno i nostri più fidati amici, i Paesi antisemiti i nostri alleati.” I sionisti credevano che gli ebrei fossero una razza e una nazione a parte e che tutti gli ebrei dovessero unirsi al progetto nazionalista coloniale di insediamento sionista.

Il secondo gruppo era impegnato per il socialismo, e includeva ebrei che si unirono ai partiti socialisti e all’”Unione Generale dei Lavoratori Ebrei” in Lituania, Polonia e Russia, noto come il Bund. Il Bund venne fondato poche settimane dopo il primo congresso sionista, nell’ottobre 1897. A differenza del Sionismo, i militanti del Bund, e tutti gli altri ebrei socialisti, si allearono con i nemici dell’antisemitismo, dell’imperialismo e del nazionalismo su base razziale. Videro i sionisti come nemici di destra degli ebrei e del comunismo.

Il terzo gruppo era per lo più composto da ebrei assimilati dell’Europa occidentale e degli Stati uniti, che credevano che la loro assimilazione e il loro Ebraismo riformato li rendesse inseparabili dalle Nazioni degli specifici Paesi in cui risiedevano e dai loro nazionalismi. Quindi gli ebrei tedeschi, inglesi, francesi e americani vedevano se stessi come tedeschi, inglesi, francesi e americani, come fa ancor oggi la maggioranza di loro. Anche loro lottarono contro i sionisti in quanto minacciavano la loro condizione nei rispettivi Paesi.

Il quarto gruppo era composto dagli ebrei ortodossi che, nella loro maggioranza, erano contrari al sionismo su basi religiose e lo vedevano come una pericolosa eresia anti-ebraica. Gli ebrei riformati assimilati e gli ebrei ortodossi tedeschi si unirono, impedirono a Herzl di convocare il primo congresso sionista a Monaco e lo obbligarono a spostarlo nella vicina città svizzera di Basilea.

Durante la Prima Guerra Mondiale i sionisti tentarono di trovare alleati tra gli ebrei assimilati (con maggior successo negli Stati Uniti che in Europa) e con gli ortodossi (nel caso di questi ultimi, riuscirono solo ad ottenere che un gruppo di ebrei ortodossi ashkenaziti, che si chiamarono movimento “Mizrachi”, si unisse a loro).

Tuttavia è indossando i panni dell’anticomunismo e sposando le idee antisemite sull’estraneità degli ebrei e sulla loro trasformazione in razza, così come appoggiando l’imperialismo, che furono in grado di avere alleati molto più forti tra le potenze coloniali cristiane europee.

Herzl fece in modo di entrare in contatto con tutti i governi europei che avevano colonie e territori in Asia o in Africa, o che probabilmente le avrebbero avute presto (comprese Italia, Germania, Belgio, Portogallo, Gran Bretagna e Russia) così come con gli ottomani, per guadagnarseli come alleati e sostenitori del suo progetto di mandare ebrei europei in Palestina. La sua strategia richiese un po’ di tempo, ma sarebbero stati i suoi compagni dell’Organizzazione Sionista Mondiale che avrebbero raccolto i frutti di questi rapporti. I successori di Herzl sarebbero stati in grado di garantirsi un sostenitore coloniale in occasione della prima catastrofe internazionale del XX° secolo, cioè durante la Prima Guerra Mondiale.

La preistoria della Dichiarazione Balfour

Ma la storia inizia tra i due secoli [XIX° e XX°, ndt.]. Sarebbe stato l’alleato imperialista britannico di Herzl dell’epoca, cioè il segretario per le colonie Joseph Chamberlain, che avrebbe preparato il terreno per la Dichiarazione Balfour.

Come spiega Regina Sharif nel suo importante libro del 1983 “Non-Jewish Zionism” [“Sionismo non-ebraico”], Chamberlain era un imperialista, un protestante sionista e uno dei primi sostenitori del sionismo ebraico. Noto antisemita, non era motivato solo dal suo essere protestante, ma anche dalle finanze e dal denaro che potevano aiutare l’imperialismo britannico che, in linea con diffuse opinioni antisemite, pensava che “gli ebrei” possedessero.

Durante il Quarto Congresso Sionista, tenutosi a Londra nel 1900, Herzl aveva già sostenuto che la Gran Bretagna sarebbe stata fondamentale per il movimento sionista. Dichiarò che “da qui il movimento sionista spiccherà il volo sempre più in alto…. l’Inghilterra la Grande…con i suoi occhi sui sette mari ci capirà.”

Poiché gli ebrei dell’Europa orientale stavano fuggendo dai pogrom antisemiti verso l’Europa occidentale, compresa la Gran Bretagna, e verso gli Stati uniti, politici britannici che si opponevano ad accoglierli lì costituirono una commissione che si occupasse del problema. Herzl venne invitato nel 1902 per testimoniare davanti alla Commissione Reale sull’Immigrazione Straniera.

Tra i 175 testimoni della commissione, egli offrì una soluzione al problema, cioè “una deviazione del flusso migratorio…proveniente dall’Europa orientale. Gli ebrei dell’Europa orientale non possono rimanere dove sono adesso – dove dovrebbero andare? Se ritenete che qui non siano i benvenuti, allora dev’essere trovato un luogo in cui possano migrare senza che questa migrazione sollevi i problemi che affrontano qui. Questi problemi non sorgeranno se gli si troverà una patria che sia riconosciuta legalmente come ebraica.”

Fu questa testimonianza che colpì Nathaniel Rothschild, il primo lord Rothschild, che era membro della Commissione Reale come rappresentante degli ebrei e che fino ad allora aveva avversato Herzl e il Sionismo. (Sarebbe stato suo figlio Lionel, il secondo lord Rothschild, a cui sarebbe stata diretta la Dichiarazione Balfour).

La colonizzazione sionista della Palestina avrebbe scongiurato la necessità di dover fare i conti con gli immigrati ebrei in Gran Bretagna. L’antisemita e cristiano sionista Chamberlain si sarebbe presto incontrato con Herzl per organizzare il modo in cui l’imperialismo britannico e il protestantesimo sionista avrebbero potuto aiutare il Sionismo ebraico a eliminare il problema ebraico della Gran Bretagna.

Il sionismo antisemita di Balfour

Fu alla luce di questo obiettivo comune che Chamberlain offrì a Herzl la penisola egiziana del Sinai e El-Arish [sulla costa mediterranea del Sinai, ndt.], che i britannici controllavano, come patria per gli ebrei già nel 1902, e poco dopo offrì anche l’Africa orientale britannica, o l’Uganda, alla colonizzazione ebraica e alla fondazione di una patria ebraica.

Chamberlain come previsto si oppose all’immigrazione degli ebrei in Gran Bretagna, e insieme ai sionisti propose altre possibili destinazioni per gli ebrei dell’Europa orientale che scappavano dai pogrom russi. Ciò non si fondava solo sul suo protestantesimo sionista, ma anche sui progetti imperialisti inglesi nel Sinai e sulla protezione del canale di Suez.

Quando nel 1905 il primo ministro britannico Arthur Balfour, un ardente protestante sionista, presentò la legge sugli stranieri alla Camera dei Comuni per vietare l’immigrazione degli ebrei dell’Europa orientale, la sua preoccupazione era di salvare il Paese da quelli che chiamò “gli indiscutibili mali” di “un’immigrazione che era in grande misura ebraica.” Come Chamberlain, l’antisemita e cristiano sionista Balfour aveva in mente un’altra destinazione coloniale per gli immigrati ebrei.

Mentre il Sesto Congresso Sionista aveva rifiutato l’offerta dell’Uganda, sarebbe stato il Settimo Congresso Sionista che si riunì a Basilea nel 1905, a metterla definitivamente da parte. A causa della legge sugli stranieri il Settimo Congresso condannò Balfour come “antisemita”, e dichiarò che le sue opinioni corrispondevano a “esplicito antisemitismo contro tutto il popolo ebraico.” Ma al contempo il congresso ringraziò il governo britannico guidato da Balfour per la sua offerta filo-sionista dell’Uganda. Il congresso notò “con soddisfazione il riconoscimento accordato dal governo britannico all’organizzazione sionista nel suo desiderio di giungere a una soluzione del problema ebraico ed esprime la sincera speranza che possano essere concessi i futuri buoni uffici del governo britannico, ove possibile, in ogni questione che esso possa adottare in accordo con il programma di Basilea” della colonizzazione della Palestina.

Sia Chamberlain che Balfour credevano nella superiorità e nelle virtù uniche della razza anglosassone. Anche Balfour, come gli ebrei sionisti, credeva che gli ebrei fossero “un popolo a parte e non avessero semplicemente una religione diversa dalla grande maggioranza dei loro concittadini.”

Nel 1914 disse al suo amico Chaim Weizmann di condividere molte delle opinioni antisemite sugli ebrei tedeschi sostenute da Cosima Wagner, moglie del compositore Richard Wagner, notoriamente antisemita. All’epoca Weizmann era impegnato a trasmettere l’idea sionista ebraica al primo ministro, protestante sionista, Llyod George.

Dal 1914 in poi i sionisti, nella persona del politico ebreo inglese Herbert Samuel, sostennero che una volta che la “questione orientale” fosse stata risolta con la caduta dell’impero ottomano, coloni ebrei avrebbero colmato il vuoto in Palestina nell’interesse degli obiettivi dell’impero britannico, proteggendo il Paese dal fatto che venisse occupato dai rivali dell’imperialismo britannico, i francesi, o, peggio, i tedeschi.

Samuel, i cui tentativi furono centrali per garantire il sostegno britannico al sionismo ebraico, sarebbe diventato il primo alto commissario britannico della Palestina nel luglio 1920.

La “questione comunista”

Quando si stava risolvendo la “questione orientale”, tuttavia, un nuovo problema stava rapidamente prendendo il suo posto come minaccia agli interessi imperialisti europei, cioè quello del comunismo.

Lo spettro del comunismo, come Marx aveva previsto, aveva ossessionato l’Europa per mezzo secolo, e l’attacco contro la Comune di Parigi nel 1871, pur avendo avuto successo, non aveva eliminato la crescente minaccia.

Ma il termine “antisemitismo”, che era stato inventato nel 1879 per distinguere dal punto di vista razziale, e non religioso, gli ebrei dagli ariani, venne presto accompagnato dall’anticomunismo. Mentre i sionisti erano in combutta con gli antisemiti, per i quali gli ebrei europei avrebbero dovuto essere spostati in Asia, Africa o America latina, i socialisti dell’Europa dell’est – sia ebrei che cristiani – stavano lavorando per porre fine ai regimi tirannici ed antisemiti e per liberare il popolo dal loro giogo.

L’associare gli ebrei con il comunismo da parte degli antisemiti era prevedibile. A cominciare dalle origini ebraiche di Marx, la teoria della cospirazione sosteneva che il comunismo in Europa, e soprattutto il bolscevismo, fosse parte di una cospirazione ebraica per porre fine alla “civiltà occidentale”. Poiché i comunisti russi (compreso il Bund ebraico) stavano conquistando sempre più terreno dopo la rivoluzione di febbraio che portò al potere Alexander Kerensky, e poiché le truppe britanniche si stavano avvicinando alla Palestina, Balfour fece la sua infame dichiarazione.

Che il protestantesimo sionista di Lloyd George e di Balfour, che ritornò come ministro degli Esteri dal 1916 al 1919, fosse pienamente compatibile con l’imperialismo britannico non era affatto casuale. Il tempismo della dichiarazione Balfour, che conteneva l’impegno britannico nei confronti di lord Rothschild e dei sionisti, emanata solo cinque giorni prima del trionfo della Rivoluzione d’Ottobre in Russia, non fu una pura coincidenza.

Il trionfo dei comunisti russi, sia ebrei che cristiani, che erano il nemico dell’antisemitismo e del sionismo, significava che gli ebrei dell’Europa orientale non avevano più ragioni di emigrare, mettendo a repentaglio i progetti dell’imperialismo britannico e del sionismo riguardo alla Palestina. Impegnandosi a contribuire a garantire un “focolare ebraico” per il popolo ebraico in Palestina, i britannici stavano offrendo un nuovo luogo per gli ebrei dell’Europa dell’est e chiedendo loro di non sostenere i comunisti.

L’antisemitismo sionista di Churchill

Benché l’affermazione antisemita secondo cui il comunismo e il bolscevismo erano “cospirazioni ebraiche” sia spesso attribuita ai nazisti che l’avrebbero importata dalla propaganda dei russi bianchi [le forze controrivoluzionarie russe che parteciparono alla guerra civile dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, ndt.], nell’Europa occidentale fu nientemeno che Winston Churchill a formulare per primo chiaramente il discorso del comunismo come una “cospirazione ebraica” per dominare il mondo, contro il sionismo come collaboratore dell’imperialismo e che offriva una soluzione imperialista al “problema ebraico”.

In un articolo che pubblicò nel “Sunday Herald” nel febbraio 1920, Churchill espresse il suo appoggio agli ebrei assimilati che si identificavano con il Paese di cui erano cittadini, ma pensava a loro come estranei all’equazione di potere che voleva formulare, cioè quella tra il sionismo ed il comunismo.

Iniziò manifestando disprezzo contro quelli che denominò “ebrei internazionalisti” ed identificò il comunismo come una “cospirazione ebraica a livello mondiale per la distruzione della civiltà”:

Il fatto che in molti casi gli interessi ebraici ed i luoghi di culto ebraici siano stati risparmiati dalla totale ostilità dei bolscevichi ha mostrato sempre più la tendenza ad associare la razza ebraica in Russia con le infamie che ora vi si stanno perpetrando… Di conseguenza diventa particolarmente importante favorire e sviluppare qualunque movimento ebraico fortemente caratterizzato che li allontani direttamente da questa fatale collaborazione. Ed è qui che il sionismo attualmente ha un così profondo significato per tutto il mondo…Il sionismo offre il terzo campo per le concezioni politiche della razza ebraica. In violento contrasto con il comunismo internazionale, presenta agli ebrei un’idea nazionalista di carattere imperativo. Ricade sul governo britannico, in conseguenza della conquista della Palestina, avere l’opportunità e la responsabilità di garantire una patria e un centro di vita nazionale alla razza ebraica di tutto il mondo. La saggezza politica e la sensibilità storica del signor Balfour sono state pronte a cogliere questa opportunità. Sono state rilasciate dichiarazioni che hanno irrevocabilmente deciso la politica della Gran Bretagna.”

All fine Churchill conclude:

Il sionismo è già diventato un elemento nelle convulsioni politiche della Russia, come una potente influenza in competizione nei circoli bolscevichi con il sistema comunista internazionalista. Niente può essere più significativo della furia con cui Trotsky [che era di origine ebraica, ndt.] ha attaccato i sionisti in generale e il dottor (Weismann) in particolare. Il crudele acume della sua mente non gli lascia nessun dubbio sul fatto che i suoi schemi di uno Stato comunista mondiale sotto dominio ebraico sono direttamente contrastati e ostacolati da questo nuovo ideale, che dirige le energie e le speranze degli ebrei di ogni terra verso un più semplice, vero e molto più raggiungibile obiettivo. La lotta che ora sta iniziando tra gli ebrei sionisti e bolscevichi è poco meno che una lotta per l’anima del popolo ebraico.”

L’inimicizia del sionismo nei confronti degli ebrei comunisti sarebbe diventata una tradizione di lunga durata. Quando l’antisemitismo ufficiale americano prese di mira comunisti ebrei come spie sovietiche, processò e giustiziò Julius ed Ethel Rosenberg nel 1953 in base a prove inconsistenti, Israele non disse una parola per protestare. (I rabbini israeliani, tranne il capo rabbino ashkenazita di Israele, inviarono una petizione al presidente Truman chiedendo clemenza per i Rosemberg, anche se alcuni di essi in seguito espressero pubblicamente il proprio pentimento per averla firmata).

Quando nel 1956 i fascisti ungheresi e i neonazisti vennero fatti entrare dalla CIA illegalmente a Budapest dal confine austriaco durante il regime di Imre Nagy [presidente comunista riformista ungherese ucciso durante la repressione sovietica, ndt.] e iniziarono a massacrare i comunisti ebrei e gli ebrei ungheresi in quanto “comunisti”, Israele e altri ebrei sionisti rimasero in silenzio e lo rimangono fino ad oggi. Persino quando ebrei di sinistra vennero presi di mira dai generali argentini antisemiti alla fine degli anni ’70, gli ebrei argentini sionisti e Israele li ripudiarono e Israele mantenne una stretta alleanza con il regime militare.

L’argomentazione di Churchill chiarisce i rapporti tra i sionisti protestanti ed ebrei, tra il nazionalismo su base razziale e il comunismo antirazzista, e tra il colonialismo di insediamento sionista e l’anti-imperialismo comunista. Il razzismo imperialista, condiviso dai britannici e dal movimento sionista, nei confronti dei palestinesi e altri asiatici e africani rese di nessuna importanza la loro presenza sulle proprie terre, per non parlare della loro opposizione e resistenza al colonialismo di insediamento.

Lo stesso Balfour sostenne che “il sionismo, sia esso giusto o sbagliato, buono o cattivo, è radicato in una tradizione secolare, in necessità attuali, in speranze future molto più profonde dei desideri e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che ora abitano in quella antica terra.”

Fu lord Sydenham, un conservatore britannico membro del parlamento, ad identificarsi con i palestinesi contro il sionismo: “”Gli ebrei”, disse, “non hanno più diritti sulla Palestina di quelli che hanno i discendenti degli antichi romani su questa terra.”

La storia dell’ultimo secolo del colonialismo sionista e della colonizzazione della Palestina che i britannici appoggiarono e continuano ad appoggiare e della resistenza palestinese che ciò ha fomentato è viva tutt’oggi. Le prime proteste palestinesi e l’opposizione al furto del loro Paese e della loro terra da parte degli europei convertiti all’ebraismo, agevolati da europei convertiti al cristianesimo, vennero liquidate come immotivate.

Nei suoi incontri con il governo inglese del 1923 Herbert Samuel sostenne che l’opposizione araba al sionismo era fondata su un’incomprensione dei suoi obiettivi e che i dirigenti sionisti responsabili non avevano intenzione di confiscare terre arabe o invadere il Paese con immigrati ebrei. Tutto quello che i palestinesi temevano e si aspettavano divenne realtà, ma tutto quello che sionisti cristiani ed ebrei si aspettavano non lo fu. I palestinesi non si arresero e oggi continuano a lottare contro il colonialismo e il razzismo sionisti.

Israele ha ucciso più di 100.000 palestinesi ed arabi dal 1948 [anno di fondazione dello Stato di Israele, ndt.], migliaia di altri vennero uccisi dai britannici e dai sionisti tra il 1917 e il 1948. Israele ha espulso metà della popolazione della Palestina storica, che continua a vivere in esilio, mentre l’altra metà vive soggetta a diverse leggi e regolamenti razzisti e colonialisti in Israele, in Cisgiordania e a Gaza.

La maggioranza degli ebrei del mondo oggi vive nei propri Paesi di origine e rifiuta di andare in Israele. Essa include la maggioranza degli ebrei degli USA, dell’America Latina, della Francia, della Russia e della Gran Bretagna, tra gli altri.

Quando la dichiarazione Balfour venne emanata nel 1917, una maggioranza degli ebrei britannici importanti vi si oppose. Quando il governo USA la appoggiò, poco dopo la sua pubblicazione, 300 importanti personalità pubbliche ebree americane, compresi membri del Congresso, rabbini e uomini d’affari, firmarono petizioni contro di essa. Questa opposizione ebraica rimase forte fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Benché il movimento sionista e Israele siano stati in grado, dopo l’Olocausto nazista e il 1948, di sviare l’ebraismo mondiale dalla sua precedente opposizione al sionismo, non sono riusciti a convincere la maggioranza di essi a lasciare i propri Paesi e ad andare in Israele. La maggioranza degli ebrei che è andata in Israele non l’ha fatto per un impegno ideologico, ma per sfuggire all’oppressione e per la negazione di qualunque altra destinazione (nel caso degli ebrei arabi, Israele organizzò attacchi contro di loro, come fece il Mossad in Iraq, per spronarli ad emigrare). Eppure l’oppressione colonialista israeliana contro i palestinesi e il furto delle loro terre proseguono senza sosta.

I continui crimini della Gran Bretagna

Nel frattempo la “questione orientale”, quella “ebraica” e la minaccia comunista si sono tramutate nella “questione palestinese”, che continua ad esistere, nonostante tutte le difficoltà, nella forma del colonialismo di insediamento sionista. Durante il secolo scorso tutti i tentativi da parte degli inglesi, di Israele, della Francia, della Germania e degli Stati uniti (per non parlare dei Paesi arabi) di sconfiggere il popolo palestinese sono falliti.

I festeggiamenti del governo britannico per il centenario della dichiarazione Balfour sono di fatto una manifestazione dell’orgoglio per l’eredità antisemita, anticomunista e razzista colonialista della Gran Bretagna, che il governo britannico insiste a perpetrare sulla terra dei palestinesi e sul popolo palestinese.

Il primo ministro Theresa May ha recentemente dichiarato: “Siamo orgogliosi del ruolo che abbiamo giocato nella creazione dello Stato di Israele, e sicuramente celebreremo con orgoglio il centenario.” Come Balfour prima di lei, May ha rifiutato persino di nominare i palestinesi. Se la dichiarazione Balfour si riferisce ai palestinesi come “le comunità non ebraiche della Palestina”, May ha solo ammesso che “noi dobbiamo anche essere coscienti delle sensibilità che certa gente ha riguardo alla dichiarazione Balfour e riconosciamo che c’è ulteriore lavoro da fare” (corsivo aggiunto).

L’Autorità Nazionale Palestinese collaborazionista ha minacciato di denunciare la Gran Bretagna per i suoi festeggiamenti del centenario, a meno che prima quest’ultima non offra semplici “scuse” al popolo palestinese per aver emanato la dichiarazione Balfour. C’era da aspettarsi un simile servilismo da parte di un’autorità il cui unico ruolo è stato di eliminare la resistenza palestinese contro il colonialismo israeliano e che ha costantemente lavorato negli ultimi trent’anni per reprimere i diritti politici e nazionali del popolo palestinese.

Ma dopo un secolo, il colonialismo sionista non è più sicuro di quanto lo sia mai stato e oggi come nel 1917 gli manca una sensazione di stabilità. Che le autorità britanniche, come l’”orgoglio” di May dimostra, siano state e rimangano un nemico implacabile del popolo palestinese non è in discussione. Quanto all’”ulteriore lavoro da fare”, è una necessità urgente che la Gran Bretagna venga giudicata, non solo per l’emanazione della famigerata dichiarazione, ma anche per tutti i suoi crimini passati e presenti contro il popolo palestinese.

Questo saggio è basato su una lezione, organizzata dal parlamentare Fabien Roussel [giornalista e politico comunista, ndt.], tenutasi il 2 novembre 2017 all’Assemblea Nazionale Francese a Parigi e al Dar al-Janub [centro interculturale, ndt.] di Vienna il 4 novembre.

Joseph Massad è professore di Politica araba moderna e Storia del Pensiero alla Columbia University. E’ autore del recente Islam in Liberalism [“Islam nel Liberalismo”] (University of Chicago Press, 2015).

(Traduzione di Amedeo Rossi)

 




Dopo la bomba atomica di Trump su Gerusalemme: valutazioni sulle opzioni per i palestinesi

Nadia Hijab,

8 dicembre 2017, Al-Shabaka

In tutto il mondo vengono organizzate proteste contro la decisione del presidente USA Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.

Facendo questo, Trump ha ignorato dettagli quali confini e frontiere – insieme allo stesso diritto internazionale – ed ha ribadito l’impegno USA, da sempre vuoto di significato, di favorire “un duraturo accordo di pace”.

Date le politiche assolutamente scandalose di Trump riguardo a Gerusalemme e ai diritti dei palestinesi in generale, come anche la velocità con cui la sua amministrazione agisce per fare a pezzi i diritti umani ed ambientali negli Stati Uniti e nel mondo intero, è facile cadere nella disperazione. Eppure in un momento simile è importante ricordare le tendenze di più lungo termine che lavorano a favore dei palestinesi e per porre il movimento nazionale palestinese – sia a livello politico che della società civile – nella migliore posizione.

Il lungo percorso di Israele verso lo smascheramento

Molti degli orientamenti a favore dei palestinesi sono dovuti al fatto che Israele sta superando i limiti. Ha vinto molte battaglie, ma non può vincere la guerra. Può sembrare illusorio, data la grande forza militare, politica ed economica che fa di Israele una superpotenza regionale. Ma consideriamo il percorso del Paese. La vittoria del 1967 avrebbe dovuto metterlo in grado di avere la pace con gli arabi nei termini da lui stabiliti del 78% della Palestina che aveva colonizzato nel 1948, e seppellire così la causa palestinese per sempre.

Invece ha proseguito sulla strada tracciata dagli estremisti sionisti del XX secolo, che erano decisi a colonizzare ed espropriare, per garantire il minimo numero di autoctoni palestinesi ed il massimo numero di ebrei. Come disse Moshe Dayan nel 1950 riguardo ai 170.000 palestinesi riusciti a rimanere in ciò che divenne Israele nel 1948, dopo che 750.000 di loro furono costretti a diventare rifugiati: “Spero che nei prossimi anni possa verificarsi un’altra possibilità di attuare il trasferimento di quegli arabi fuori dalla Terra di Israele.” Dayan divenne poi un eroe di guerra israeliano nel 1967, quando altri circa 450.000 palestinesi furono costretti a diventare rifugiati.

Iniziata lentamente nel 1967, ma con una drastica accelerazione dopo gli accordi di Oslo apparentemente finalizzati, al momento della loro firma nel 1993, a portare la pace, la corsa inarrestabile di Israele alla colonizzazione dei territori appena acquisiti ha prodotto circa 600.000 coloni in 200 insediamenti, che frammentano la Cisgiordania e dividono tra loro i palestinesi. Il piano israeliano per Gerusalemme è apertamente improntato ad un rapporto di 70% a 30% tra ebrei israeliani ed arabi palestinesi, previsto come risultato del diradamento degli abitanti di Gerusalemme est.

Sulla base del “successo” di questi sforzi, i leader israeliani ora pensano che non sia necessario occultare le loro ambizioni e proclamano esplicitamente i loro obiettivi, compresi i piani di ulteriori espulsioni di palestinesi e di discriminazione verso quelli che rimangono. Il numero di leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi cittadini di Israele è balzato da circa 50 a quasi 70 negli ultimi anni.

Sia le istituzioni ufficiali che le organizzazioni di destra stanno sempre più infliggendo simili trattamenti agli ebrei israeliani che cercano di difendere i diritti di tutti gli esseri umani, a prescindere dalla religione o dall’etnia. Gli attacchi contro “Breaking the Silence” (Rompere il Silenzio), una Ong che promuove il fatto che i soldati israeliani denuncino ciò che sono costretti a fare ai palestinesi durante il loro servizio militare, ne sono solo un esempio. La repressione del ministro dell’Educazione Naftali Bennett nei confronti di ACRI (l’Associazione per le Libertà Civili in Israele) è un altro. “Goliath: life and loathing in greater Israel” (Golia: vita e odio nel grande Israele) di Max Blumenthal registra il percorso israeliano sempre più draconiano attraverso il XX secolo fino ad oggi ed è una lettura imprescindibile per chi si occupa di questa questione.

Lo status di “luce per le nazioni” di cui Israele ha goduto in quanto “unica democrazia” nel Medio Oriente è svanito da tempo. Oggi il progetto di insediamento, con la sua flagrante violazione dei diritti dei palestinesi, ha messo a repentaglio la fondamentale pretesa israeliana di uno Stato ebraico. Molti hanno usato il termine apartheid per descrivere quanto sta accadendo ai palestinesi nei territori occupati (OPT), comprese strade separate, differenti sistemi giudiziari e gravi restrizioni all’accesso all’acqua, alla terra ed anche allo spettro elettromagnetico.

Sempre di più, la situazione nei territori occupati ha spinto gli Stati e i difensori della società civile a tenere conto di quanto accade – e di quanto è accaduto – ai cittadini palestinesi di Israele. Quando niente meno che l’ex direttrice dell’ufficio di Gerusalemme del New York Times Jodi Rudoren, che aveva mostrato prudenza nei suoi reportage durante il suo mandato, afferma che il termine apartheid ben si addice al trattamento dei cittadini palestinesi di Israele, allora è chiaro che la vera natura dell’impresa è venuta in superficie. La prova è evidente: non è possibile avere uno Stato che privilegia gli ebrei senza discriminare i “non ebrei”. Chi può ora sostenere seriamente che Israele è uno Stato democratico?

Questa situazione ha condotto a quella che forse è la più importante tendenza a lungo termine in questo conflitto: il cambiamento del punto di vista degli ebrei americani. Esiste oggi una piccola percentuale, ma in rapida crescita, di ebrei americani che si mobilitano per i diritti umani nel movimento di solidarietà con la Palestina. A capo di questo cambiamento c’è “Jewish Voice for Peace (JVP)” (Voce ebrea per la pace), che sostiene i diritti dei palestinesi secondo la definizione data dai palestinesi stessi nell’appello del 2005 per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele, fino a quando non rispetterà il diritto internazionale, e che ricopre un ruolo strategico fondamentale nel movimento USA per i diritti. (1)

Il secondo grande, e più recente, cambiamento nella comunità ebraica degli Stati Uniti è dovuto all’emergere di latenti tensioni tra Israele e gli ebrei riformati e conservatori [i primi sostengono un rapporto individuale e liberale con la fede, i secondi contestano la secolarizzazione della religione portata dalla società moderna e dall’illuminismo, ndt.], che rappresentano i due terzi degli ebrei americani. Vi è stata una quantità di articoli ed analisi sulla questione, che indicano che il primo ministro Benjamin Netanyahu ed i suoi alleati puntano sugli ebrei ortodossi americani e trascurano gli altri – trattandoli addirittura come ebrei di seconda classe. Questo è un grave errore strategico da parte di Israele: gli ebrei americani contribuiscono generosamente alle cause filantropiche, come anche alle politiche e alle posizioni ufficiali. Alienandosi questo importante bacino elettorale – anche se spende milioni per controllare il dibattito e confondere le critiche ad Israele e al progetto politico sionista con l’antisemitismo – Israele sta accelerando dei cambiamenti negli Stati Uniti che eroderanno l’automatico sostegno politico ed il massiccio aiuto militare che riceve, e favoriranno l’appoggio generale ai diritti dei palestinesi ed il riconoscimento della storia della Palestina.

La lotta rivitalizzata della Palestina

La lotta palestinese si è sviluppata ed evoluta parallelamente al percorso di Israele. Trent’anni dopo che il governo coloniale britannico sconfisse la rivolta per i diritti e la libertà del 1936-39, e vent’anni dopo la catastrofica perdita di quattro quinti della Palestina nel 1948 e la diaspora dei quattro quinti del suo popolo, entrò in scena l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e divenne in breve tempo una forza con cui fare i conti. Tuttavia i reiterati attacchi all’OLP da parte israeliana – ed araba – unitamente ai gravissimi errori della sua leadership, condussero ad colpo quasi mortale con l’invasione israeliana del Libano nel 1982 e l’esilio dell’OLP da Beirut, la sua ultima roccaforte ai confini di Israele.

Eppure dopo solo cinque anni la lotta palestinese assunse una nuova forma con la Prima Intifada, la rivolta nonviolenta guidata dai leader locali dei territori occupati. L’intifada portò i palestinesi sulla ribalta mondiale e vicino al raggiungimento dei loro obiettivi, dato l’impegno dell’amministrazione di George W. Bush a garantire un buon accordo in seguito alla prima guerra del Golfo nel 1990. Tragicamente, i negoziati segreti dell’OLP con Israele, che portarono agli accordi di Oslo, sperperarono le fonti di energia palestinese così attentamente costruite, che includevano un movimento globale di solidarietà ed il sostegno del Terzo Mondo.

Nonostante tali battute d’arresto, i palestinesi non stanno scomparendo. Dal 1948 la lotta nazionale è stata accompagnata da un fiorire di letteratura, arte, film e cultura che ha rafforzato e cementato l’identità palestinese. Come ha detto Steven Salaita [studioso e scrittore americano di origine araba, ndtr.] in un recente saggio, “Niente fa più paura ad Israele della sopravvivenza dell’identità palestinese attraverso successive generazioni.” Ed anche se la leadership nazionale palestinese è in confusione, per usare un eufemismo, la causa palestinese è spalleggiata da un movimento di solidarietà internazionale che include, e ne è rafforzato, il movimento BDS a guida palestinese. Negli ultimi cinque anni Israele ed i suoi alleati hanno gettato tutto il loro peso contro questo movimento nello sforzo di recuperare terreno e controllare il dibattito, ma esso è vivo e vegeto.

Quanto sarebbe stato più facile per Israele fare un accordo con Giordania, Egitto e Siria nel 1967, invece di azzardare per ottenere tutto e di doversela vedere con il movimento per i diritti dei palestinesi che continuamente si evolve e si rinnova!

Le opzioni palestinesi nella lotta per i diritti

Con queste premesse, quali opzioni hanno i palestinesi? È indubbio che il periodo attuale presenta gravi rischi per loro. Il movimento dei coloni ha avuto il semaforo verde per andare avanti da parte di Trump, che non si è nemmeno degnato di pronunciare “Stato palestinese” nel suo intervento su Gerusalemme, limitandosi a parlare di pace come “inclusiva di …una soluzione a due Stati” e condizionando anche questo all’approvazione di Israele, con l’aggiunta “se concordato dalle due parti.”

Il timore più grande è per la stessa Gerusalemme – sia per i suoi abitanti che per il complesso di Al Aqsa. Vi sono gravi preoccupazioni che Israele possa accelerare l’espropriazione e l’espulsione dei palestinesi, usando le varie tecniche burocratiche perfezionate nel corso degli anni, ed anche i bulldozer e le demolizioni. E, benché Trump abbia detto di continuare a “sostenere lo status quo” nei luoghi santi di Gerusalemme, questo è ampiamente ignorato dal movimento del Monte del Tempio, che intende edificare un terzo tempio ebraico al posto del complesso della moschea di Al Aqsa.

C’è molto da temere anche dal “Quartetto arabo” – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto – e dal suo capofila, il principe ereditario Mohammad Bin Salman, che sostiene il piano di annessione USA-Israele e che ha ripetutamente offerto ai palestinesi come capitale Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme separato dalla città dal muro illegale che Israele ha costruito ampiamente all’interno dei territori occupati e che separa i palestinesi tra di loro e dalle principali colonie. D’altro lato, è in dubbio fino a che punto il Quartetto arabo possa conseguire i risultati desiderati. Lo stesso Bin Salman si è spinto troppo oltre con la sua guerra allo Yemen, con la repressione nei confronti dei suoi principi ed infine con il fallito tentativo di costringere il primo ministro libanese Saad Hariri a dimettersi, nel tentativo di indebolire Hezbollah, partito e forza militare libanese alleato di Iran e Siria.

Anche il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas non potrebbe essere in una posizione meno invidiabile. Se respinge la pressione delle forze schierate contro di lui, perderà l’aiuto degli Stati Uniti e di molti Paesi arabi, senza il quale i dipendenti pubblici [dell’ANP] non potranno essere pagati, il che colpirà circa un milione e mezzo di persone. Se china il capo, sarà costretto a rinunciare ai diritti dei palestinesi. In tutti i casi, il suo arcinemico ed ex capo della sicurezza palestinese Mohammed Dahlan, il protetto degli emirati, è in attesa dietro le quinte ed assai verosimilmente è disposto a firmare.

Il pesante prezzo di sfidare la comunità internazionale è chiaro nella Striscia di Gaza, dove Hamas ha rifiutato di ammettere la sconfitta o deporre le armi. Il costo che i palestinesi di Gaza hanno sostenuto nell’ultimo decennio, e continuano a sostenere, è davvero alto. E tra le varie voci che si susseguono sul piano finale di colonizzazione che Israele e USA intendono imporre ai palestinesi vi è la deportazione dei palestinesi di Gaza nel deserto egiziano del Sinai, molto lontano dai confini della loro patria originaria (circa il 70% dei 1.900.000 palestinesi di Gaza sono rifugiati).

D’altra parte, l’OLP/ANP e la società civile palestinese, sostenuti dal movimento globale di solidarietà, non sono privi di opzioni, se c’è la volontà di unire le risorse ed usare tutte le strade disponibili, come occorre fare per contrastare questa grave minaccia alla richiesta di diritti per i palestinesi. A livello interno, la riconciliazione fra palestinesi di Fatah e Hamas deve essere attuata, non solo come di per sé positivo. È anche essenziale mettere in grado il sistema politico palestinese di attrarre il sostegno di diversi Stati arabi ed asiatici, alcuni dei quali sono più vicini ad un partito che all’altro. Ogni possibile relazione che Fatah e Hamas riescano ad ottenere, ciascuno per conto proprio o insieme, per rafforzare la posizione palestinese deve essere sfruttata. È un segnale positivo che Abbas intenda convocare il Consiglio Centrale dell’OLP ad una sessione straordinaria a cui saranno invitate “tutte le fazioni”.

Occorre anche trovare il modo di ridurre ed eliminare gradualmente il coordinamento per la sicurezza tra l’ANP e Israele. Sarà molto difficile, considerate le misure che Israele può intraprendere contro i palestinesi, la loro leadership e Abbas in persona. Come minimo, verrebbe limitata la sua possibilità di muoversi oltre i confini della Cisgiordania e di viaggiare. Eppure le conoscenze sul settore della sicurezza esistono e c’è molta letteratura in proposito, comprese serie analisi politiche della rete di Al-Shabaka. Queste competenze sarebbero immediatamente disponibili per l’ANP se decidesse di ridimensionare il coordinamento (con Israele). È anche decisamente tempo di andare oltre gli appelli per la protezione internazionale dei palestinesi e sviluppare una coerente strategia per garantirsi tale protezione.

L’OLP/ANP deve essere il più possibile attiva sulla scena europea. Finora quei Paesi europei che sostengono il diritto internazionale hanno consentito un facile cammino ad Israele. L’Unione Europea nel 2016 ha ribadito la sua posizione per cui i prodotti delle colonie che entrano nella UE devono essere etichettati per permettere ai consumatori una scelta informata – una misura timida e alla fine inefficace. Gli avvertimenti che 18 Stati dell’UE hanno emesso per mettere in guardia le imprese sui rischi (sul piano legale, di immagine e finanziario) di mettersi in affari con amministrazioni delle colonie hanno un maggiore impatto, ma non sono stati recepiti nella legislazione e nella normativa interna.

Nonostante questo atteggiamento pusillanime, l’UE e la maggioranza dei suoi membri non potranno mai approvare l’occupazione israeliana. Per gli europei il sistema di diritto internazionale stabilito dopo la seconda guerra mondiale è la loro garanzia contro altre guerre devastanti. Per riuscire nel suo tentativo di legalizzare l’occupazione, Israele dovrebbe scalzare – e ha cercato di farlo – tutto quel sistema legale. Finora gli europei hanno potuto chiudere un occhio e fare il minimo possibile sul fronte israelo-palestinese, felici di lasciare agli USA il ruolo del cosiddetto mediatore imparziale.

La dichiarazione di Trump di riconoscimento di Gerusalemme [come capitale di Israele], con il suo implicito attacco al diritto internazionale, costringerà gli europei a sedersi al posto di guida, a meno che intendano assistere al crollo della delicata struttura che hanno messo in piedi. Per di più, la questione dei territori occupati e dell’annessione riguarda direttamente gli europei dal momento dell’occupazione ed annessione russa della Crimea nel 2014. Avendo imposto sanzioni alla Russia, gli europei sono in difficoltà a continuare a trattare Israele con i guanti mentre cerca di legalizzare la sua illegale impresa di colonizzazione.

L’OLP in particolare dovrebbe trarre vantaggio dal rifiuto europeo del riconoscimento di Trump ed impegnarsi in una vasta campagna di pubbliche relazioni e sensibilizzazione nei confronti dei governi e dei diplomatici europei. Dovrebbe mostrare risolutezza e determinazione e promuovere la responsabilità dei Paesi europei nel difendere il diritto internazionale, nonché continuare a sostenere fattivamente la loro posizione e i loro passi contro le depredazioni israeliane. L’OLP dispone di alcuni diplomatici molto esperti che può mettere in campo per questo compito – dopotutto, alcuni di loro hanno condotto e vinto la causa contro il muro di Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

In altre regioni del pianeta Israele ha lavorato per rovesciare le partnership e le alleanze con la Palestina nel Terzo Mondo, che sono state importanti fonti di sostegno negli anni ’70 e ’80. Lo ha fatto con successo in Asia, specialmente in India, in Africa e in America Latina. Ma non è troppo tardi per i palestinesi per riconquistare terreno e stringere questi legami, offrendo servizi e collegamenti dove possono. Cosa della massima importanza, l’OLP/ANP deve lavorare sodo per impedire che altri Paesi seguano le orme di Trump verso il riconoscimento o, peggio, l’effettivo trasferimento delle loro ambasciate a Gerusalemme.

In questo impegno, soprattutto negli USA, in Europa e sempre più in America Latina, l’OLP sarebbe appoggiata dalla società civile palestinese e dal movimento mondiale di solidarietà, che può mobilitare decine di migliaia di attivisti per fare pressione sui propri rappresentanti politici. Soprattutto negli Stati Uniti, il movimento di solidarietà con la Palestina ha creato diverse forti istituzioni che portano avanti le voci palestinesi e in favore dei palestinesi nei media, forniscono supporto legale agli studenti ed insegnanti che vengono attaccati per i loro discorsi, difendono i diritti dei palestinesi con i rappresentanti al Congresso e coinvolgono un crescente numero di ebrei nella lotta per uguali diritti per tutti.

Il ruolo della società civile palestinese e mondiale, oltre a mantenere la pressione su Israele ed a respingere i suoi tentativi di controllare la narrazione, è di mantenere l’OLP sulla retta via. Ciò che Trump ha fatto potrebbe infliggere un colpo mortale alla causa palestinese se i palestinesi ed i loro alleati non danno una risposta coerente e coordinata. Riflettendo su queste ed altre questioni e sviluppando delle strategie, i palestinesi ed i loro alleati possono trasformare questa tragedia in un’opportunità.

Note:

  1. È importante sottolineare la seconda parte di questo documento, dati i fraintendimenti circa il BDS. Il linguaggio dell’appello del BDS chiarisce che il movimento è contro le politiche di Israele, non contro la sua esistenza e che una volta che gli obbiettivi del movimento – autodeterminazione, libertà dall’occupazione, giustizia per i rifugiati ed uguaglianza per i palestinesi cittadini di Israele – fossero raggiunti, il BDS terminerà.

Nadia Hijab

Nadia Hijab è cofondatrice e direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete di politica palestinese, e scrittrice, conduttrice e commentatrice sui media. Il suo primo libro, “Woman power: the arab debate on women at work “(Potere delle donne: il dibattito arabo sulle donne lavoratrici) è stato pubblicato dalla Cambridge University Press, ed è coautrice di “Citizens apart: a portrait of palestinians in Israel” (Cittadini a parte: un ritratto dei palestinesi in Israele) (I.B. Tauris). È stata capo redattrice della rivista sul Medio Oriente con sede a Londra, prima di lavorare per le Nazioni Unite a New York. È cofondatrice ed ex copresidentessa della Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi ed ora lavora nel suo comitato consultivo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La dichiarazione di Trump su Gerusalemme dà ad Abbas un’occasione per smuovere la situazione

Amira Hass

9 dicembre 2017,Haaretz

Sfortunatamente, però, la dirigenza palestinese ha dimenticato come si operano dei cambiamenti

Il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale di Israele è un’occasione per la leadership palestinese di disfarsi dei modi sclerotizzati di pensare e agire che hanno reso quegli stessi leader incapaci di cambiamento.

Sarà sfruttata questa opportunità di intraprendere un processo interno di democratizzazione? In primo luogo per ripristinare i rapporti tra un élite palestinese non eletta che è stata al potere per diversi decenni e la popolazione (non solo in Cisgiordania e a Gaza ma anche nella diaspora palestinese)? La speranza è che venga usata per operare un cambiamento. La preoccupazione è che ciò non accada.

Quando la leadership palestinese si riprenderà dallo shock provocato dal cambiamento simbolico nella politica americana – simbolico, ma potenzialmente esplosivo -, dirà che si tratta di un problema pan-islamico, pan-arabo, o forse europeo. La leadership avrebbe ragione a dirlo, ovviamente. I leader diranno che i palestinesi sono l’anello più debole della catena e che non possono essere lasciati soli a trattare con il piromane della Casa Bianca.

La si potrebbe considerare anche in altri termini. Il cambiamento nella posizione americana consente ai leader palestinesi, guidati dal presidente Mahmoud Abbas, di operare cambiamenti che dimostrino al loro popolo di non aver scelto la via diplomatica che dipende dal coordinamento con Israele su economia e sicurezza solo per favorire i propri immediati interessi personali e economici – e quelli dei gruppi vicini alla leadership dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e di Fatah.

Una delle spiegazioni prevalenti del fatto che Abbas abbia ostinatamente evitato lo svolgimento di elezioni e che, all’interno della sua fazione di Fatah, le elezioni siano state stabilite e dettate dall’alto e in modo tale da non essere discusse pubblicamente, è il “tornaconto personale”. Per lo stesso motivo si sostiene che Abbas abbia evitato di apportare modifiche al suo gabinetto che avrebbero permesso al suo governo di essere rappresentativo delle varie organizzazioni politiche e non solo della propria.

Ripresisi dallo shock, Abbas e il suo gruppo diranno, giustamente, che il cambiamento nella posizione americana non riflette necessariamente il fallimento del percorso diplomatico palestinese, ma piuttosto l’inettitudine delle fazioni moderate all’interno del Partito Repubblicano statunitense.

Dopo tutto, il presidente Trump ha insultato tutti i musulmani, compresi quelli di Paesi i cui governi sono considerati alleati degli Stati Uniti, oltre ad attaccare il Vaticano e l’Europa. I leader palestinesi potranno dire che l’audacia di Trump, nel rompere le convenzioni internazionali, non si limita ad un ambito specifico.

Recentemente lui e la destra economica ed evangelica che [Trump] serve e rappresenta hanno ottenuto due importanti vittorie: un aumento dei profitti per le grandi aziende attraverso i tagli delle imposte per le imprese e una sentenza della Corte Suprema che ha permesso l’immediata applicazione del divieto di ingresso ai cittadini di sei Paesi musulmani. Di conseguenza, Abbas e i suoi soci diranno che non esiste alcun nesso tra la situazione interna palestinese e i tentativi della comunità internazionale di fare i conti con le politiche di Trump.

La via diplomatica – che implica il riconoscimento simbolico internazionale di uno Stato palestinese – è stata preparata lentamente, inclusi diversi risultati incoraggianti, come l’accettazione [della Palestina] in istituzioni internazionali e la firma di convenzioni internazionali. Ma poi il percorso è stato bloccato dagli Stati Uniti. La strada diplomatica ha fatto arrabbiare Israele, ma ora si è esaurita senza aver cambiato la realtà dei fatti: autonomia limitata per l’Autorità Nazionale Palestinese, divisa tra enclave separate, assolvendo nel contempo Israele nonostante le sue responsabilità di potenza occupante. I Paesi occidentali appongono tuttora il loro timbro di approvazione su una leadership palestinese non eletta e non amata a causa del suo impegno a tenere a freno la popolazione e a mantenerla calma nei confronti di Israele, e per la sua volontà di far finta che ci sia ancora un “processo” in corso per edificare uno Stato. Il rischio è che la mossa di Trump non faccia altro che sostenere la richiesta dell’Europa che Abbas e le sue forze di sicurezza continuino a tenere a bada il popolo palestinese in cambio del loro immutato riconoscimento di questa come leadership legittima.

Gli Stati Uniti, finanziatori molto generosi dell’UN Relief and Works Agency [(UNRWA, l’agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ndt.] e delle forze di sicurezza palestinesi, hanno accettato la realtà delle enclave molto prima dell’arrivo di Trump. Questo era il messaggio dietro il finanziamento per lo sviluppo delle strade rurali, al posto di larghe e veloci autostrade, ma in questa operazione Israele ha bloccato l’accesso [alle campagne] dalle città e dai villaggi palestinesi a beneficio dei coloni ebrei della Cisgiordania.

I Paesi europei non sono esenti, tuttavia, da responsabilità nel favorire la realtà delle enclave, con le loro donazioni che in qualche modo mitigano la cronica crisi finanziaria causata dalle restrizioni israeliane. Ma quei Paesi hanno cercato e stanno cercando di aiutare i palestinesi a rimanere sulla loro terra, prendendo misure non ancora definitive per boicottare i prodotti delle colonie e dichiarando che l’Area C (che è sotto il pieno controllo israeliano) fa parte dello Stato palestinese. Sono almeno consapevoli del loro ruolo negativo nel sovvenzionare l’occupazione.

Non smetteranno certo di sovvenzionarla ora – attraverso l’assistenza umanitaria ai palestinesi – con il crescente senso di un’imminente catastrofe. Anche questo rafforzerà la logica di mantenere il governo di Abbas così come è adesso.

L’appello di Fatah, partito di Abbas, ai tre giorni di rabbia sulla questione di Gerusalemme senza apportare modifiche alla struttura interna [del potere] è una scommessa rischiosa. Mette in pericolo la vita e la salute di centinaia di giovani palestinesi, esponendoli ad arresti di massa, e tutto questo per niente. Per lo più, potrebbe invece dimostrare che il popolo palestinese non risponde agli appelli di Fatah e dell’Autorità Nazionale Palestinese poiché non si fida di loro. La popolazione agirà piuttosto quando e come vorrà.

Invece di perseguitare chiunque li critichi su Facebook e di mettere a tacere gli oppositori con una legge relativa a Internet, Abbas e le persone intorno a lui potrebbero iniziare a fare dei passi per rinnovare il sistema politico che hanno costruito con gli auspici degli accordi di Oslo. È difficile immaginare come potrebbe svolgersi tale processo, a causa della lunga sclerosi delle istituzioni dell’OLP e dell’Autorità Nazionale Palestinese. In ogni caso, richiederebbe l’inclusione e il coinvolgimento attivo di ampi settori della popolazione nelle fasi di ideazione e di azione, cosa che i leader di Fatah e dell’OLP hanno da tempo dimenticato di fare.

(traduzione di Luciana Galliano)




Come mai l’Unione Europea sta offrendo croissant al criminale di guerra Netanyahu ?

David Cronin, Diritti e Responsabilizzazione

8 dicembre 2017 Electronic Intifada

Ci sono almeno 3000 motivi perché Benjamin Netanyahu non venga accolto a Bruxelles la prossima settmana.

Tremila è la cifra approssimata dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane da quando Netanyahu è diventato primo ministro nel marzo del 2009.

Netanyahu ha ordinato due importanti offensive contro Gaza. Sia nell’una che nell’altra sono stati perpetrati crimini di guerra.

Insieme ai suoi colleghi di governo ha approvato l’espansione delle colonie nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme Est. Hanno promosso una serie di leggi per peggiorare la discriminazione e la repressione [a cui] i palestinesi sottostanno.

Netanyahu ha imposto alla popolazione di Gaza tagli all’energia elettrica. Egli è responsabile della morte dei pazienti cui è stata negata un’ adeguata cura medica e dei minori torturati durante la loro custodia in Israele.

Netanyahu è un palese razzista. Ha definito “infiltrati” i rifugiati africani e “bestie selvagge” gli arabi.

L’Accoglienza

Come mai Federica Mogherini, responsabile della politica estera dell’Unione Europea, ha invitato a “una colazione informale”Netanyahu ?

Perché l’Unione Europea offre dei croissant a un criminale di guerra?

Che nessuno venga ingannato dall’uso della parola “informale” usata per provare a sminuire il significato di come l’UE stia abbracciando Netanyahu.

L’UE ha rafforzato i suoi rapporti commerciali con Israele da quando Netanyahu è diventato primo ministro.

In questo periodo sono entrati in funzione due importanti accordi per facilitare agli esportatori israeliani l’accesso ai mercati dell’Unione Europea .

L’UE ha dato prova a Netanyahu di essere largamente compiacente.

Alcuni anni orsono Netanyahu si lamentava dei tentativi di escludere dai programmi europei di ricerca scientifica alcune imprese e istituzioni israeliane che lavoravano nella Cisgiordania occupata

Se i rappresentanti dell’Unione Europea avessero manifestato sul serio il loro attaccamento ai diritti umani e al diritto internazionale, avrebbero resistito alle pressioni del governo Netanyahu. Avrebbero rifiutato di intensificare la loro cooperazione con uno Stato che sta inghiottendo la terra palestinese.

Invece l’UE ha ceduto alle prepotenza di Netanyahu. Un decreto è stato tirato fuori per permettere a Israele di partecipare pienamente a Horizon 2020, come viene definito l’ultimo programma scientifico dell’Unione Europea.

L’accordo presentava delle grandi problematicità. Il ministero israeliano delle Scienze è una delle principali istituzioni di coordinamento della partecipazione dello Stato al [progetto] Horizon 2020.

Il ministero delle Scienze non si trova in quello che oggi è Israele. I suoi principali uffici, invece, sono nella Gerusalemme Est occupata

Superficiale

L’accordo di Horizon 2020 mostra come siano assai superficiali le preoccupazioni espresse questa settimana da Federica Mogherini circa il riconoscimento da parte di Donald Trump di Gerusalemme quale capitale di Israele.

Parlando alla CNN, Mogherini ha detto che la mossa di Trump ha “screditato un po’ gli Stati Uniti quale onesto mediatore”

Un buffone bellicoso come Trump non potrebbe mai essere credibile come onesto mediatore.

Per certi versi,tuttavia, Trump è stato veramente più onesto di Mogherini.

Trump sta dando carta bianca a Israele per continuare la pulizia etnica a Gerusalemme.

I rappresentanti dell’Unione Europea, collaborando con i ministeri israeliani a Gerusalemme Est, hanno fatto la stessa cosa- sebbene meno sfacciatamente.

Per celebrare la Giornata dei Diritti Umani all’inizio di questa settimana, l’ambasciatore dell’UE a Tel Aviv, Emanuele Giaufret, ha visitato l’Università Ebraica di Gerusalemme.

L’Università Ebraica ha il campus nell’occupata Gerusalemme Est. Alcuni dei suoi edifici sono situati su terra confiscata alla vicina cittadina palestinese Issawiyeh.

L’Università Ebraica è la maggiore beneficiaria dei finanziamenti europei [del programma] scientifico. In conclusione, l’Unione Europea sta fornendo un diretto aiuto a un’istituzione complice della colonizzazione di Gerusalemme.

Questo fatto [ci] fa capire come sia stata falsa Mogherini questa settimana quando ha provato a svolgere il [suo] compito riguardo all’annuncio di Trump su Gerusalemme.

Mantra

Mogherini non è riuscita a rendere Israele responsabile dei danni che ha prodotto a progetti finanziati dall’UE.

L’anno scorso ha affermato che i governi europei stavano discutendo [di chiedere] “possibili restituzioni o compensazioni” a Israele per avere distrutto progetti umanitari che avevano finanziato.

Otto tra i 28 Paesi dell’Unione hanno successivamente protestato per la confisca da parte di Israele dei pannelli solari che avevano pagato.

Nel venir meno a dare seguito a quell’azione, gli altri 20 Paesi europei e Mogherini,in qualità di responsabile della politica estera, stanno effettivamente scagionando Israele [dalle sue responsabilità]

Mogherini ripete come un mantra che l’UE si adopera per la soluzione a due Stati e desidera rilanciare il processo di pace.

Ad essere benevoli, forse crede che la soluzione a due Stati sia possibile o desiderabile. Ma Netanyahu ha sotto ogni aspetto escluso una tale soluzione ribadendo che Israele non abbandonerà mai nessuna delle sue colonie nella Cisgiordania

Una colazione con Netanyahu non cambierà le decisioni del suo governo. Al contrario Netanyahu potrà partire da Bruxelles con la consapevolezza che potrà continuare a calpestare impunemente

i diritti dei palestinesi

Per i suoi crimini è stato premiato con croissant.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Università belga interrompe partenariato con torturatori israeliani

Ali Abunimah

7 Dicembre 2017, Electronic Intifada

L’università KU Leuven in Belgio ha intenzione di interrompere il suo ruolo nel progetto di “ricerca” finanziato dall’Unione Europea che si svolge in partenariato/collaborazione con i torturatori israeliani.

Luc Sels, rettore dell’università, ha annunciato mercoledì che i ricercatori avrebbero potuto completare la fase attualmente in corso del progetto LAW-TRAIN, che avrà termine in Aprile del 2018, ma che non prenderanno parte a fasi future.

LAW-TRAIN non può essere considerato separatamente dalla composizione del consorzio”, ha dichiarato Sels. “La partecipazione del Ministero della Pubblica Sicurezza israeliano pone per forza un problema etico, considerato il ruolo che il forte braccio del governo israeliano gioca nell’imporre un’occupazione illegale dei Territori Palestinesi e la collegata repressione della popolazione palestinese.” Sels ha aggiunto: “Per tale motivo non ritengo opportuno presentare progetti di prosecuzione con un simile consorzio.”

Plate-forme Charleroi-Palestina, un gruppo di solidarietà belga, ha definito la decisione “una bellissima vittoria per le organizzazioni e gli individui che si sono mobilitati contro questa collaborazione con la polizia israeliana.”

    1. Lavorare con i torturatori

LAW-TRAIN è cominciato nel maggio del 2015 con l’apparente scopo di “armonizzare e condividere tecniche di interrogatorio tra paesi coinvolti in modo da far fronte alle nuove sfide della criminalità transnazionale.”

Oltre a KU Leuven, LAW-TRAIN coinvolge anche l’università israeliana Bar-Ilan, il Ministero della Pubblica Sicurezza israeliano, il Ministero di Giustizia belga, la polizia Guardia Civile paramilitare spagnola, e la polizia rumena.

L’UE sostiene che LAW-TRAIN risponde a linee guida etiche. Tuttavia, esperti legali internazionali hanno affermato a giugno che LAW-TRAIN viola i regolamenti UE e il diritto internazionale, in quanto il Ministero della Sicurezza Pubblica israeliano “è responsabile di, o complice in, torture, altri crimini contro l’umanità e crimini di guerra.”

Accademici e attivisti belgi e palestinesi hanno chiesto che i partecipanti europei, inclusi la KU Leuven e l’istituto di ricerca portoghese INESC-ID, si ritirassero da LAW-TRAIN.

LAW-TRAIN è finanziato da Horizon 2020, un programma UE che fornisce milioni di dollari ai produttori di armi e ai trasgressori dei diritti umani israeliani sotto l’apparenza del supporto alla “ricerca”.

    1. Carta dei Diritti Umani

Sels, del KU Leuven ha scritto che uno dei futuri progetti di LAW-TRAIN era “una della questioni con cui mi sono dovuto confrontare subito” appena entrato in carica in agosto. Ha fatto notare che “gli attivisti hanno chiesto che interrompessimo subito il progetto, inclusi tutti i contratti (ad esso) relativi.”

Un altro risultato positivo è che Sels ha preso l’impegno a che la KU Leuven sviluppi “una carta dei diritti umani come strumento per valutare la partecipazione in progetti di ricerca.”

Questo potrebbe avere ampi benefici e spronare altri istituti e accademici a riesaminare la loro stessa complicità nelle violazioni dei diritti umani di Israele e di altri trasgressori.

Il governo portoghese si è già ritirato da LAW-TRAIN l’anno scorso, dopo che gli attivisti hanno sollevato preoccupazioni riguardo ai diritti umani.

Cornelia Geldermans, pubblico ministero olandese, indicata precedentemente nel comitato consultivo di LAW-TRAIN, sembra non essere più coinvolta, ma ci sono ancora tre accademici inglesi indicati come consulenti.

    1. Abusi finanziati dall’UE

Sels ha sottolineato che l’università avrebbe adottato un approccio imparziale alle questioni sui diritti umani, facendo notare che “i diritti umani vengono calpestati anche da alcune organizzazioni palestinesi.”

Ha ragione, e tali abusi sono facilitati anche dall’UE.

Per esempio, L’UE finanzia EUPOL-COPPS, una programma che forma le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese che reprimono violentemente l’opposizione palestinese all’occupazione militare israeliana.

Alcuni dei dirigenti che hanno guidato il programma sono stati, in precedenza, membri del Royal Ulster Constabulary, una realtà settaria smantellata, nota per abusi dei diritti umani nel Nord dell’Irlanda sotto governo inglese.

LAW-TRAIN non è l’unico progetto problematico finanziato dal progetto di ricerca Horizon 2020. L’iniziativa elargisce anche milioni di dollari a Elbit Systems, una compagnia israeliana che sta aiutando l’esercito israeliano ad eludere il divieto internazionale sulle bombe a frammentazione.

L’anno scorso Carlos Moedas, il commissario scientifico dell’UE a guida di Horizon 2020, ha fatto visita in Israele. Nonostante l’UE sostenga spesso che mantiene un “dialogo” con Israele sui diritti umani, a Moedas è stato suggerito da dirigenti UE che organizzavano il suo viaggio, di evitare commenti riguardo alle attività di sviluppo delle colonie da parte di Israele quando avesse incontrato il Ministro israeliano della Scienza.

Emanuele Giaufret, l’ambasciatore UE a Tel Aviv, ha recentemente vantato che Israele ha ricevuto la sbalorditiva somma di 534 milioni di dollari da Horizon 2020 fino ad ora.

Questa settimana Giaufret è stato visto “mentre celebrava la Giornata dei Diritti Umani” con il Ministero della Giustizia israeliano, il cui capo, Ayelet Shaked, ha notoriamente pubblicato un appello al genocidio dei palestinesi.

Giaufret ha anche stretto la mano a Uri Ariel, un ministro israeliano dell’ala di estrema destra che ha appoggiato un piano per espellere i palestinesi fuori dalla loro terra.

Uno studioso ben noto sull’Olocausto ha definito il piano sostenuto da Ariel come potenzialmente genocida e ha equiparato i valori del suo principale proponente, un altro legislatore israeliano, a quelli delle SS naziste.

In contrasto, gli attivisti accolgono certamente la decisione di KU Leuven di mettere fine al suo ruolo in LAW-TRAIN come una genuina vittoria per i diritti umani, contro la crescente complicità dei politici UE e il loro supporto per le politiche più estreme di Israele.

    1. Centinaia di politici spagnoli sostengono il BDS

Questa vittoria arriva tra altre grandi indicazioni della crescente consapevolezza europea del bisogno di mettere fine alla complicità, istituzionale e governativa, con i crimini di Israele contro i diritti umani.

La settimana scorsa, il Comitato Nazionale palestinese del BDS (BNC) ha accolto una dichiarazione firmata da centinaia di politici eletti in Spagna che esprimono supporto al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) come unico approccio per realizzare la giustizia e una pace duratura per il popolo palestinese.

Subito dopo la decisione del presidente USA Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, i palestinesi fanno appello ad una crescita di tali campagne.

I palestinesi, supportati dall’assoluta maggioranza nel mondo arabo e da milioni di persone di coscienza in giro per il mondo, non accetteranno l’ultima delle concessioni USA all’agenda estremista israeliana” ha detto il BNC.

Continueremo ad insistere per ottenere i nostri diritti sanciti dall’ONU e per mettere fine al regime di occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid di Israele attraverso la resistenza popolare e il movimento globale di boicottaggio, sanzioni e disinvestimento.”

Ari Nieuwhof ha contribuito alla traduzione [in inglese ndt].

(Traduzione.di Tamara Taher)




Trump, Gerusalemme e l’indifferenza araba verso la Palestina

Mariam Barghouti,

7 dicembre 2017, Al Jazeera

I palestinesi hanno provato un senso collettivo di ansia e rabbia quando il presidente Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti riconoscono formalmente Gerusalemme come capitale di Israele e inizieranno il processo di trasferimento della loro ambasciata da Tel Aviv alla città.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele è un altro doloroso colpo al morale palestinese poiché dimostra ancora una volta come le potenze internazionali agiscano senza accettare o riconoscere l’esistenza dei palestinesi, nonostante sia la popolazione che subisce il peso delle conseguenze.

Il problema della dichiarazione USA, tuttavia, non si basa sul riconoscimento e sull’affermazione in se’, ma sulla serie di eventi che hanno portato alla sua concretizzazione. È il culmine del fallimento internazionale nell’affrontare le violazioni di Israele dei diritti umani, il continuo sostegno degli Stati Uniti a Israele, l’incompetenza della leadership palestinese nel raggiungere soluzioni attraverso gli sforzi diplomatici e, più recentemente, la nuova amicizia che l’amministrazione statunitense sta costruendo con alcuni Stati arabi.

La storia si ripete.

Quest’anno – anno in cui Gerusalemme è riconosciuta dagli Stati Uniti come la capitale di Israele – segna anche 100 anni da quando Lord Balfour concesse al movimento politico sionista il diritto a una patria ebraica in Palestina. L’ultima decisione americana, quindi, riecheggia la stessa posizione secondo cui le potenze internazionali possono ignorare la popolazione indigena palestinese e il loro diritto all’autodeterminazione.

La dichiarazione di Balfour non solo dimostrò i pericoli di tali affermazioni unilaterali, ma provò anche che Israele le impiegherà per far avanzare il proprio programma coloniale. La dichiarazione del 1917 spianò la strada alla milizia sionista per radere al suolo i villaggi palestinesi e conquistare la terra palestinese, e oggi la dichiarazione di Trump legittima questa storia di violenza fornendo a Israele un costante sostegno.

Trump aveva ragione affermando che “Gerusalemme è la sede del moderno governo israeliano. È la sede del Parlamento israeliano, della Knesset e della Corte suprema israeliana. È la sede della residenza ufficiale del primo ministro e del presidente. È il quartier generale di molti ministri del governo”.

Gerusalemme è stata infatti considerata la capitale di Israele per decenni, anche se non ufficialmente. È per questo che il riconoscimento di Trump è stato reso possibile. Il lavoro preliminare era già in atto e così tutto ciò che ha portato fino a questo momento è la prova della bancarotta morale della comunità internazionale quando si tratta della situazione palestinese.

Il governo israeliano ha imposto un controllo assoluto e completo sulla popolazione palestinese a Gerusalemme, proprio come ha fatto in altre città e paesi palestinesi. I palestinesi gerosolimitani possiedono solo documenti di residenza, che possono essere revocati in qualsiasi momento; Israele demolisce continuamente case nei quartieri palestinesi con il pretesto che mancano di permessi, e i giovani palestinesi sono bersagliati in modo discriminatorio dalle forze israeliane.

Sono queste politiche israeliane, le stesse politiche contro cui i palestinesi hanno protestato per anni, che hanno messo a tacere le voci palestinesi così che Gerusalemme possa essere presentata di fatto come israeliana.

I leader arabi ignorano le grida dei palestinesi.

Ciò che è ancora più angosciante è che ciò non sarebbe stato possibile senza i compromessi raggiunti dalla leadership palestinese. La politica palestinese è stata segnata da rivalità tra fazioni, collaborazione sulla sicurezza con l’intelligence israeliana a spese dei palestinesi e una serie di concessioni sotto forma di accordi e trattati che non hanno mai incapsulato i fondamenti delle richieste palestinesi; giustizia, liberazione e dignità.

E mentre i palestinesi hanno ripetuto per decenni le loro richieste di autodeterminazione e diritti umani fondamentali, la comunità internazionale e la leadership palestinese li hanno ignorati intenzionalmente per perseguire un’altra agenda che ruota attorno ai negoziati. Ciò ha generato solo maggiore repressione e un netto aumento del numero di insediamenti colonici.

Oggi vediamo sia la comunità internazionale sia i leader arabi ignorare ancora una volta le grida palestinesi per la giustizia. Ciò è evidente nel discorso dominante dei leader globali e arabi. Esso ruota attorno alla paura di un’altra insurrezione, instabilità e protesta. Nella maggior parte dei discorsi e dei proclami non c’è una vera presa di posizione sulle radici dell’aberrazione imposta al popolo palestinese sotto forma di un’occupazione violenta.

La fissazione sulla possibile reazione dei palestinesi e della comunità araba come la ragione principale per opporsi a questa decisione oscura il fatto che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana si basa su violazioni e abusi dei diritti umani.

È l’amplificazione della “paura della reazione dei palestinesi / degli arabi” che può tragicamente rappresentare la cornice entro cui spingere verso ulteriori negoziati mentre gli stati arabi si affrettano a controllare il tumulto della protesta e gli Stati Uniti spingono la loro visione di una pace che è solo una facciata per dare a Israele ciò che vuole; uno stato senza il fastidio dell’esistenza palestinese.

Così mentre i leader di tutto il mondo proclamano che questa mossa porterà alla fine dei colloqui di pace, della soluzione dei due Stati e di qualsiasi stabilità nella regione, la verità è che non c’è mai stata né pace né stabilità nei territori dall’inizio dell’occupazione israeliana.

Il discorso degli Stati arabi indica anche l’insincerità nel volere raggiungere una vera soluzione nella regione, soluzione che dovrebbe ritenere Israele responsabile dei suoi crimini e fornire ai palestinesi i loro pieni diritti. Ciò è particolarmente vero mentre si diffonde l’ondata di condanne contro la decisione.

I palestinesi hanno memorizzato questo scenario e la realtà che nessuna azione farà seguito. La verità è che gli Stati Uniti hanno un programma che è allineato con gli interessi israeliani e gli Stati arabi hanno fatto amicizia con l’amministrazione Trump, limitando ogni azione.

Proprio questa estate, abbiamo assistito ai palestinesi che protestavano contro le misure israeliane nella moschea al-Aqsa. Anche allora ci furono condanne e proteste da parte degli Stati arabi e dei paesi internazionali. Tuttavia, questo approccio sintomatico e simbolico continuerà solo a rafforzare l’occupazione e l’espropriazione di Israele della terra palestinese.

Tra le righe del discorso di Trump di mercoledì si intravvede il messaggio di Israele alla comunità globale. Esso predice che se commetti abbastanza crimini mentre reciti una storia al mondo, otterrai ciò che vuoi e te la caverai.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione di Angelo Stefanini)




Per alcuni abitanti di Gaza che necessitano di cure mediche, l’attesa per un permesso di uscita porta alla morte

Amira Hass

4 dicembre 2017 Haaretz

Yara Bakheet, di 4 anni e Aya Abu Mutalq, di 5, sono tra i 20 pazienti morti quest’anno poiché i loro permessi di uscita non sono arrivati in tempo

A gennaio la bimba di 4 anni Yara Bakheet si ammalò. Vomitò spesso nel corso di un’intera settimana e si disidratò, e dopo una serie di esami all’ospedale europeo di Khan Yunis a Gaza, i medici dissero alla madre, la ventottenne Aisha Hassouna, che sua figlia soffriva di insufficienza cardiaca.

Le venne fissato un appuntamento all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme est dove, così dissero alla madre, vi erano i mezzi adeguati per curare sua figlia.

Gli esami medici, il foglio di appuntamento e l’impegno al pagamento, unitamente alla richiesta di un permesso per Yara e suo padre di uscire da Gaza, furono inoltrati all’Amministrazione israeliana di Coordinamento e Collegamento , che concede i permessi di uscita in base al parere del servizio di sicurezza Shin Bet.

La madre ha raccontato ad un ricercatore dell’associazione per i diritti umani B’Tselem che la prima richiesta venne respinta. Yara mancò l’appuntamento. Ne fu fissato uno nuovo per il 16 febbraio. La famiglia ripercorse l’intera trafila burocratica: documenti, copie, appuntamento, impegno di pagamento, modulo di richiesta ed un viaggio all’ufficio palestinese di collegamento, che inviò i documenti ai dirigenti e funzionari israeliani.

Questa volta, per assicurarsi che la domanda di permesso non fosse respinta a causa dell’identità dell’adulto accompagnatore, fu deciso che l’accompagnatore sarebbe stata la nonna della mamma, di 72 anni. La domanda venne accettata e le due persone partirono per Gerusalemme.

La bisnonna a sua volta soffriva di pressione alta e diabete. Peggio ancora, la piccola Yara non la conosceva bene e rifiutò il suo aiuto all’ospedale. La bambina pensò di essere stata abbandonata dai genitori e per tutto il tempo in cui rimase all’ospedale Al-Makassed, dove le era stato applicato un catetere, rifiutò di parlare con i genitori al telefono. “Mi sembrava che mi si chiudesse il cuore per il desiderio di sentire la sua voce”, disse Hassouna, la mamma.

Yara tornò a casa sciupata e rimase arrabbiata con sua madre che non le era stata accanto. La sua condizione diventava sempre più evidente quando Lara, la sua gemella, era nelle vicinanze. Dopo cure e degenze in ospedale nella Striscia di Gaza, si decise di mandare Yara di nuovo a Al-Makassed. Fu preso un appuntamento per il 2 giugno ed i documenti e certificati furono nuovamente inoltrati all’ufficio israeliano di collegamento.

Una settimana prima dell’appuntamento, la famiglia ricevette sul cellulare un messaggio che diceva che la richiesta era ancora sotto esame. L’appuntamento fu perso. Passarono i giorni, la condizione di Yara peggiorò e quando incominciò a sentire mancanza di fiato e soffocamento, fu portata un’altra volta all’ospedale europeo. Fu preso un altro appuntamento a Al-Makassed per il 20 luglio, per inserire un pacemaker, che a Gaza non era disponibile. Ma Yara morì all’ospedale europeo il 13 luglio.

Yara è una dei 20 pazienti gravemente ammalati che sono morti quest’anno a Gaza poiché la loro richiesta per un permesso israeliano di uscita per ricevere cure non è stato concesso in tempo. Un nuovo rapporto di B’Tselem, che sarà pubblicato questa settimana, si occupa di questo crescente fenomeno di ritardi ingiustificati nell’emissione di permessi di uscita per cure mediche.

I pazienti non hanno ricevuto dinieghi ufficiali, ma solo il messaggio “Stiamo valutando la vostra domanda.” I funzionari israeliani di collegamento inviano questo messaggio agli impiegati dell’ufficio palestinese di collegamento, che invia un messaggio alla famiglia, a volte la sera prima dell’appuntamento.

E’ difficile stabilire se e quando una morte sia causata direttamente da un ritardo nell’emissione di un permesso di uscita per cure mediche. Però è chiaro che l’indecisione, le aspettative e la delusione, la costante incertezza, la tensione e la necessità di affrontare l’intera logorante procedura burocratica nuovamente ogni volta, non sono cose salutari.

Peggioramento negli ultimi quattro anni.

A giugno, quando Yara avrebbe dovuto andare a Gerusalemme per farsi inserire un pacemaker, 1920 pazienti avevano inoltrato richieste per permessi di uscita da Gaza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce che furono approvate 951 richieste, 20 furono respinte (meno dell’1%) e 949 (49,4%) rimasero senza risposta fino alla data prevista del ricovero in ospedale o della terapia. Di queste ultime, 222 erano richieste per minori di 18 anni e 113 per persone ultrasessantenni.

A settembre, il 42% delle 1858 richieste di permessi per cure mediche rimasero nel limbo. Di esse, 140 erano per minori di 18 anni e 99 per persone di oltre 60 anni.

E’ stata una chiara tendenza nel corso dello scorso anno, sulla quale il 9 novembre Haaretz ha riferito: le domande di permessi di uscita per qualunque scopo vengono rinviate senza risposta per settimane e mesi. Nel settembre di quest’anno il loro numero è arrivato a 16.000.

La percentuale di richieste inevase per permessi di uscita per cure mediche è quasi triplicata negli ultimi quattro anni. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, citata nel rapporto di B’Tselem, nel 2014 il 15,4% delle richieste rimasero inevase; nel 2015 la percentuale era del 17,6%. A settembre 2017, vi erano 8555 richieste rimaste inevase, che rappresentano il 43,7% di un totale di quasi 20.000 richieste.

“Ragioni di sicurezza” fu la spiegazione per il rigetto del 2,9% delle richieste, mentre circa il 53% fu approvato. Circa tre quarti delle richieste era per cure mediche in ospedali palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme est.

Lo Shin Bet ha affermato in risposta: “L’anno scorso abbiamo visto un aumento della pratica attraverso cui le organizzazioni terroriste, capeggiate da Hamas, sfruttano l’uscita degli abitanti di Gaza (anche per motivi medici) per promuovere attività terroristiche, incluso il trasferimento di esplosivi e di denaro per i terroristi e altri mezzi di favoreggiamento.

“Lo scorso aprile, due palestinesi a cui era stato consentito di entrare in Israele perché uno di loro potesse ricevere cure per il cancro, sono stati fermati al valico di Erez. Nel loro bagaglio sono state trovate provette per uso medico, all’interno delle quali era stato nascosto esplosivo che era evidentemente destinato ad un attacco di Hamas in Israele.

“Dato il grave pericolo costituito da queste attività, vengono effettuati rigidi controlli di sicurezza su chiunque faccia richiesta di uscire da Gaza. Ovviamente questi controlli prendono del tempo e si fanno costanti sforzi per ridurre questi tempi e dare priorità alle procedure per tutte le richieste, con particolare attenzione a quelle di carattere umanitario inoltrate da chi intende entrare in Israele per ricevere cure mediche salva-vita.”

Circa il 20% delle richieste rimaste inevase nel 2017 si riferivano a bambini e adolescenti minori di 18 anni e circa l’8% (725) a persone di oltre 60 anni.

Una di queste ultime è Fatma Biyoumi, di 67 anni, che soffre di una grave patologia al sangue. Dopo esami e terapie a Gaza, le hanno fissato appuntamenti per il 24 ottobre e il 4 novembre all’ospedale An-Najah di Nablus. Non avendo ricevuto risposte, ha mancato gli appuntamenti. E’ stato fissato un altro appuntamento, questa volta per un giorno di agosto all’ospedale Augusta Victoria di Gerusalemme, e la risposta è rimasta “in fase di valutazione”, benché l’associazione non profit israeliana “Medici per i diritti umani” l’avesse assistita nelle sue richieste per un permesso di uscita.

Un altro appuntamento è stato fissato per il 17 dicembre, e Biyoumi e la sua famiglia vivono in una situazione di continua attesa: la richiesta verrà accettata, oppure verrà approvata all’ultimo istante, in modo da aumentare l’incertezza, e ci sarà abbastanza tempo per organizzarsi?

Nella sua dichiarazione ad Haaretz di giovedì, lo Shin Bet ha detto che Biyoumi “è stata convocata per essere interrogata, dopodiché sarà possibile concludere la procedura per la sua valutazione di sicurezza.” Ci risulta che Biyouni sia stata interrogata dallo Shin Bet al valico di Erez mercoledì.

Huwaida, di 48 anni, malata di tumore al sangue, ha un appuntamento per il 6 dicembre, dopo aver ricevuto la risposta “in corso di valutazione” a tutte le sue precedenti richieste: per terapie il 13 agosto, l’11 settembre, il 24 settembre, il 9 ottobre, il 29 ottobre, l’8 novembre e il 22 novembre. Anche lei è stata aiutata da “Medici per i diritti umani” e anche lei sta vivendo in ansia per il timore di un’altra delusione.

Lo Shin Bet ha detto ad Haaretz che “dopo che è stata interrogata ed il suo caso esaminato, è stata inviata una risposta all’ufficio di collegamento che dice che non vi sono ostacoli legati alla sicurezza per l’approvazione della sua richiesta.”

Delusione il giorno prima

Aya Abu Mutlaq aveva 5 anni quando è morta. Soffriva dalla nascita di paralisi cerebrale ed era curata a Gaza. Nell’ottobre 2016 si decise di mandarla a farsi curare all’ospedale Al-Makassed. Fu inoltrata richiesta per un permesso per lei e suo padre, perché sua madre aveva partorito solo due mesi prima. L’appuntamento era per il 4 febbraio e il 3 febbraio la famiglia ricevette un messaggio che diceva che la richiesta era ancora in fase di valutazione. L’appuntamento fu rinviato al 16 marzo. Di nuovo, un giorno prima dell’appuntamento, arrivò un messaggio che diceva che gli israeliani stavano ancora valutando la richiesta.

La condizione della bambina peggiorò. Venne fissato un nuovo appuntamento per il 27 aprile, ma lei morì il 17 aprile. Suo padre era uscito tre volte da Gaza in passato, per Ramallah e Gerusalemme – per essere curato ad un problema al ginocchio. Non riusciva a capire perché all’improvviso, quando sua figlia aveva avuto bisogno che lui la accompagnasse, la richiesta sia stata rinviata finché lei morì.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa la metà delle persone che fanno richiesta di accompagnare pazienti non ottengono i permessi di uscita – cosa che spesso rimanda le cure al paziente. In base a nuove procedure presso il Coordinatore delle Attività Governative nei Territori [occupati], il tempo richiesto dall’ufficio di collegamento per occuparsi delle domande di permessi di uscita è aumentato significativamente – fino a 70 giorni, esclusi i weekend e le festività ebraiche. Per le situazioni sanitarie (ma non quelle di vita o morte) il tempo massimo previsto è di 23 giorni.

Un attento monitoraggio di “Medici per i diritti umani” dei casi di nove pazienti donne affette da tumore dimostra che l’ufficio di collegamento non rispetta i limiti di tempo stabiliti. Negli ultimi mesi, otto delle nove donne non si sono presentate agli appuntamenti per le terapie mediche perché le loro richieste di permesso erano “in fase di valutazione”.

Ma, secondo lo Shin Bet, “un esame dei casi citati nell’inchiesta di Haaretz” – che si è occupata di 11 pazienti morti e di parecchi altri che hanno atteso l’approvazione della richiesta per diversi mesi – “ ha rivelato che la maggior parte delle loro richieste di ingresso in Israele è stata approvata, ed alcuni hanno già usufruito dei loro permessi per entrare in Israele e ricevere cure mediche.”

Il 29 novembre Ghada Majadala e Mor Efrat, dell’organizzazione israeliana di medici, hanno inviato una lettera urgente al Generalmaggiore Yoav Mordechai, capo del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (occupati), ed a Moshe Bar Siman Tov, direttore generale del ministero della Sanità (israeliano). Nel documento, che si incentra sulle nove donne affette da tumore, Majadala ed Efrat hanno sottolineato che le cure oncologiche disponibili a Gaza non sono adeguate.

Negli ultimi mesi si è verificato un calo nello stock di farmaci utilizzati insieme alla chemioterapia, hanno scritto, ed è difficile operare per asportare i tumori per la carenza di carburante e di elettricità. Inoltre a Gaza non esistono trattamenti di radioterapia o con iodio radioattivo, né esiste l’attrezzatura per seguire l’andamento della malattia. In più, sia la lettera di Majadala ed Efrat, sia il rapporto di B’Tselem affermano che l’Autorità Nazionale Palestinese sta attualmente conducendo una politica di riduzione del numero di pazienti mandati a curarsi fuori Gaza.

Nella loro lettera, di cui è stata mandata copia all’Associazione Medici Israeliani e al Comitato etico degli infermieri, Majadala ed Efrat hanno scritto che le attese provocano non solo sofferenza, ma anche esaurimento per le battaglie burocratiche. “ Una mancata risposta impedisce ai pazienti di far valere il proprio diritto ad appellarsi contro il rifiuto, se esso venisse comunicato”, hanno scritto. “Non dare risposte per mesi dimostra una politica di disprezzo per la sofferenza dei pazienti.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Nella Striscia di Gaza vi sono timide speranze

  • 29 novembre 2017, The Independent

    Robert Piper

    La popolazione civile di Gaza sarà in ultima analisi quella che garantirà qualunque transizione reale e che la proteggerà da chi la vuole boicottare, ma ha bisogno di qualcosa che valga la pena di essere protetta e si dispera per qualche [piccolo] sostegno.

Nelle settimane passate i primi segnali che l’isolamento di Gaza finalmente sarebbe giunto al termine ha prodotto una debole speranza in una popolazione civile diffidente ed esausta. Il primo dicembre sarà una data storica per i negoziati iniziati a metà ottobre tra i due maggiori partiti politici palestinesi, Fatah e Hamas, con lo scopo del ritorno a Gaza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), guidato da Mahmoud Abbas, dopo 10 anni di assenza.

L’accordo del 12 ottobre con la mediazione egiziana ha colto di sorpresa molti osservatori. Non tratta la questione di come Hamas verrà disarmata né molte altri difficili problemi. Ma il primo passo deve riguardare le pessime condizioni di vita di due milioni di civili gazawi che vivono con poca energia elettrica, acqua o scarse prospettive per il futuro.

È ora che gli interessi dei cittadini sfiniti di Gaza abbiano finalmente la priorità rispetto a molti altri programmi in gioco.

Solamente a poche centinaia di chilometri dai confini dell’Europa e a 50 km da Tel Aviv, nella Striscia di Gaza due milioni di palestinesi vivono una precaria esistenza. Dieci anni fa Gaza è stata condannata all’isolamento, dopo la violenta presa del potere della Striscia da parte di Hamas, l’espulsione dell’Autorità Nazionale Palestinese e l’imposizione da parte di Israele di severe restrizioni intorno a Gaza. Nel decennio successivo gli abitanti di Gaza sono stati più volte coinvolti in vari conflitti – tra i due maggiori partiti palestinesi, Hamas e Fatah, per il controllo della Striscia e tra Hamas e Israele, sfociati periodicamente in ostilità aperta. Sono anche stati coinvolti [dal conflitto] tra Hamas e l’Egitto, con le sue preoccupazioni per la sicurezza del Sinai e dalla grande cautela in merito ai 12 km di confine in comune, e tra Hamas e i donatori internazionali, la cui legislazione anti terrorismo pone dei limiti al genere di aiuti che possono essere inviati a Gaza.

Ciascuno di questi conflitti ha, in un modo o in un altro, prodotto un’ulteriore sofferenza ai civili e una graduale “decrescita” dell’economia gazawi. In questo periodo la disoccupazione è salita dal 30 al 42% .IL delicato bacino acquifero di acqua sorgiva è stato eccessivamente sfruttato ed è divenuto non potabile al 96%. L’offerta di energia elettrica si è aggirata intorno alle 8-12 ore al giorno ed è crollata alle 2-3 ore all’inizio di quest’anno dopo che le tensioni tra Hamas e Fatah sono arrivate al loro apice. I giovani hanno perso ogni speranza dal momento che la disoccupazione giovanile è arrivata al 65%. Un’ infrastruttura sanitaria precaria ha visto in meno di 10 anni il tasso di sopravvivenza del cancro al seno cadere dal 59 al 46%.

Ma queste cifre non colgono l’impatto meno tangibile di dieci anni di isolamento. Israele permette ogni giorno solo a pochi, principalmente malati, imprenditori e volontari l’ingresso e l’uscita da Gaza attraverso i suoi valichi. Il valico egiziano di Rafah raramente viene aperto, fino a ora solo per 30 giorni quest’anno. La marina israeliana pattuglia rigidamente le acque al di fuori della costa di Gaza. Il governo palestinese non si vede da nessuna parte.

Il sentimento prevalente tra i gazawi è quello di essere completamente in trappola. Con la continua presenza visibile di un ricco Paese dell’OCSE [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ndt.] pochi chilometri lungo la spiaggia, sotto forma di un impianto di desalinizzazione e di fornitura di energia nella città israeliana di Ashkelon che può produrre energia e acqua sufficienti da soddisfare ogni gazawi 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana e anche di più. I gazawi sognano di poter uscire per cure sanitarie, studio, funerali e per prendere una boccata di libertà.

In base agli accordi di ottobre i ministri dell’ANP con sede a Ramallah hanno cominciato a visitare regolarmente Gaza. Ai primi di novembre l’amministrazione dei valichi, dove si raccolgono le tasse, è stata trasferita da Hamas all’ANP. Da allora nelle [successive] settimane gli impiegati pubblici assunti prima del 2007 hanno cominciato a riprendere le loro precedenti mansioni. Azioni potenzialmente destabilizzanti da parte di sabotatori, quali il tentativo di assassinare il capo della sicurezza di Hamas oppure la scoperta di un altro tunnel costruito da militanti da Gaza per entrare in Israele, non sono stati in grado di ostacolare il processo [di riconciliazione].

Ma per l’uomo della strada gazawi da questo storico accordo non non è scaturito nessun cambiamento concreto. L’offerta di energia elettrica oggi si aggira tra le quattro e le sei ore al giorno. Gli ascensori ancora non funzionano in questa paesaggio urbano di grattacieli, eccetto quando qualcuno mette in funzione i generatori. Il valico di Rafah rimane praticamente chiuso, anche se è rimasto aperto l’altra settimana per pochi giorni. Centinaia di pazienti che hanno urgente bisogno di cure mediche fuori da Gaza, molti per una cura anti cancro, aspettano sia l’approvazione della sicurezza israeliana sia quella per il pagamento delle spese di Ramallah [cioè del governo dell’ANP, ndt.]. Una spedizione di medicinali mandata dall’ANP nella prima metà di novembre è stato il primo segnale concreto che l’aiuto potrebbe essere in arrivo.

Nelle prossime settimane verranno alcune fondamentali verifiche. Il prossimo problema urgente sarà chi pagherà i circa 40.000 impiegati di Gaza assunti fin dalla presa del potere del 2007 – migliaia di dottori, insegnanti, infermieri, ma anche tra loro poliziotti. Presumibilmente questioni sempre più complesse, quali l’integrazione nel lungo periodo degli impiegati pubblici pre e post 2007, le armi, le risorse militari di Hamas, i controlli della sicurezza, le elezioni, qualche forma di governo unitario, procederanno con difficoltà nei loro programmi. Nel frattempo le aspettative e le frustrazioni aumenteranno, con un maggior rischio [di fallimento] per il precario processo.

La popolazione civile di Gaza sarà in ultima analisi quella che garantirà qualunque cambiamento reale e che lo proteggerà da chi vi si oppone, ma ha bisogno di qualcosa che valga la pena di proteggere e si dispera per qualche [piccolo] sostegno. Primo, hanno bisogno della libertà di movimento per potere lasciare Gaza e ritornarci quando vogliono. Secondo, hanno bisogno di energia elettrica almeno 12 ore al giorno. Terzo, occorre ristabilire le indennità dei dipendenti della pubblica amministrazione e rendere stabili i salari, almeno per quegli impiegati che prestano davvero servizi e da cui la gente dipende.

Tutti questi provvedimenti richiedono una dirigenza palestinese, ma non può essere gestita solo dall’ ANP -Israele, Egitto e la comunità internazionale devono fare la loro parte. Infatti un alleggerimento delle restrizioni israeliane sulla movimentazione delle merci dentro e fuori Gaza è il prerequisito per rivitalizzare un’economia morta e darebbero un importante segnale alla gente di Gaza. In parole povere i colloqui al Cairo devono urgentemente tradursi in un miglioramento delle condizioni di Gaza.

Robert Piper is the UN Coordinator for Humanitarian Aid and Development Activities in the Occupied Palestinian Territory

Robert Piper è il Coordinatore degli Aiuti Umanitari e delle Attività di Sviluppo nei Territori Occupati Palestinesi delle Nazioni Unite. (UN Coordinator for Humanitarian Aid and Development Activities in the Occupied Palestinian Territory)

(traduzione di Carlo Tagliacozzo)

 

 

 

 




INTERVISTA. Ilan Pappe: come Israele ha trasformato la Palestina nella più grande prigione al mondo

Mustafa Abu Sneineh

Venerdì 24 novembre 2017, Middle East Eye

Una storia dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza analizza quali meccanismi militari vengono usati per controllare le vite dei palestinesi.

La guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e gli eserciti arabi ha portato all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Israele ha spacciato la storia di questa guerra come se fosse stata accidentale. Ma nuovi documenti storici e verbali d’archivio dimostrano che Israele l’aspettava da tempo.

Nel 1963 elementi dell’amministrazione militare, legale e civile israeliana frequentarono un corso presso l’università ebraica di Gerusalemme per stendere un piano complessivo per gestire i territori che Israele avrebbe occupato quattro anni dopo e per controllare un milione e mezzo di palestinesi che ci vivevano.

La ragione stava nella fallimentare gestione israeliana dei palestinesi a Gaza durante la breve occupazione nel periodo della crisi di Suez del 1956 [in cui l’esercito israeliano, affiancando inglesi e francesi, combatté contro l’Egitto di Nasser, che aveva nazionalizzato il canale, ndt.].

Nel maggio 1967, settimane prima della guerra, i governatori militari israeliani ricevettero istruzioni legali e militari su come controllare le città ed i villaggi palestinesi. Israele avrebbe proceduto a trasformare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in mega prigioni sotto governo e controllo militare.

Insediamenti, posti di blocco e punizioni collettive fecero parte di questo piano, come dimostra lo storico israeliano Ilan Pappe in “The biggest prison on earth: a history of the occupied territories(“La più grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati”), una descrizione in profondità dell’occupazione israeliana.

Pubblicato nel cinquantesimo anniversario della guerra del 1967, il libro è stato selezionato per il “Palestine Book Award 2017”, organizzato da Middle East Monitor, in attesa di essere proclamato a Londra il 24 novembre. Pappe ha parlato con Middle East Eye del libro e di ciò che esso rivela.

Middle East Eye: Quanto questo libro si basa sul suo saggio precedente, “The ethnic cleansing of Palestine” (“La pulizia etnica in Palestina”) sulla guerra del 1948?

Ilan Pappe: È decisamente un proseguimento del mio precedente libro “The ethnic cleansing”, che descrive gli eventi del 1948. Io vedo l’intero progetto sionista come uno schema, non solo come un singolo evento. Una struttura di colonialismo di insediamento attraverso cui un movimento di coloni si insedia in una nazione. Fin quando la colonizzazione non è completa e la popolazione indigena resiste con un movimento di liberazione nazionale, ognuno dei periodi di cui mi occupo non è che una fase all’interno della stessa struttura.

Benché “La più grande prigione” sia un libro di storia, siamo tuttora all’interno dello stesso capitolo storico. Quindi a questo riguardo probabilmente ci sarà in seguito un terzo libro che tratterà degli eventi del XXI secolo, di come la stessa ideologia di pulizia etnica e di espropriazione viene attuata nella nuova era e di come i palestinesi vi resistono.

MEE: Lei parla della pulizia etnica che ebbe luogo nel giugno 1967. Che cosa accadde allora ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza? In che modo essa si differenziò dalla pulizia etnica della guerra del 1948?

I.P. Nel 1948 c’era un piano molto chiaro per cercare di espellere quanti più palestinesi possibile dalla maggior parte possibile della Palestina. Il progetto colonialista di insediamento credeva di avere la forza di creare uno spazio ebraico in Palestina che fosse totalmente privo di palestinesi. Non ha funzionato così bene, ma è stato quasi vincente, come tutti sapete. L’80% dei palestinesi che vivevano all’interno di quello che diventò lo Stato di Israele divennero rifugiati.

Come dimostro nel libro, vi erano alcuni politici israeliani che pensavano che fosse possibile fare nel 1967 ciò che era stato fatto nel 1948. Ma la grande maggioranza di loro comprese che la guerra del 1967 fu molto breve, durò sei giorni, e c’era già la televisione e parecchi di coloro che volevano espellere erano già dei rifugiati del 1948.

Quindi io penso che la strategia non fu di compiere una pulizia etnica nello stesso modo in cui fu condotta nel 1948. Fu ciò che chiamerei una pulizia etnica progressiva. In alcuni casi espulsero masse di persone da certe zone quali Gerico, la Città Vecchia di Gerusalemme e i dintorni di Qalqilya. Ma nella maggior parte dei casi decisero che un governo militare ed un blocco che rinchiudesse i palestinesi all’interno delle proprie aree sarebbe stato tanto vantaggioso quanto espellerli.

Dal 1967 fino ad oggi c’è stata una pulizia etnica molto lenta, che probabilmente copre un periodo di 50 anni ed è così lenta che a volte può colpire una sola persona in un giorno. Ma se si guarda l’intero panorama dal 1967 ad oggi, stiamo parlando di centinaia di migliaia di palestinesi che non hanno il permesso di tornare in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza.

MEE: Lei distingue tra due modelli militari utilizzati da Israele: il modello di prigione aperta in Cisgiordania e il modello di prigione di massima sicurezza nella Striscia di Gaza. Come definisce questi due modelli? E si tratta di termini militari?

IP: Uso questi termini come metafora per spiegare i due modelli che Israele offre ai palestinesi nei territori occupati. Insisto ad usarli perché ritengo che la soluzione dei due Stati sia in realtà il modello di prigione aperta.

Gli israeliani controllano i territori occupati direttamente o indirettamente e cercano di non penetrare all’interno delle città e dei villaggi palestinesi con alta densità di popolazione. Hanno separato la Striscia di Gaza [dalla Cisgiordania, ndt.] nel 2005 e stanno ancora suddividendo la Cisgiordania in parti. Esistono una Cisgiordania ebrea ed una Cisgiordania palestinese, che non è più una zona dotata di contiguità territoriale.

A Gaza gli israeliani sono i guardiani che tengono chiusi i palestinesi dal mondo esterno, ma non interferiscono con ciò che essi fanno all’interno.

La Cisgiordania è come una prigione a cielo aperto in cui si mandano piccoli criminali a cui si consente più tempo per uscire e lavorare all’esterno. E non c’è un regime duro all’interno, ma è sempre una prigione. Persino il presidente Mahmoud Abbas, se si sposta dall’area B [sotto controllo amministrativo dell’ANP e controllo militare israeliano, ndt.] all’area C [sotto totale controllo israeliano, ndt.], ha bisogno che gli israeliani gli aprano il cancello. E secondo me è veramente emblematico il fatto che il presidente non possa spostarsi senza che il carceriere israeliano apra la gabbia.

Ovviamente c’è una continua reazione palestinese a tutto questo. I palestinesi non rimangono passivi e non lo accettano. Abbiamo assistito alla Prima e alla Seconda Intifada, e forse ne vedremo una terza. Gli israeliani dicono ai palestinesi, secondo una mentalità da gestione carceraria, ‘se voi resistete noi vi toglieremo tutti i vostri privilegi, come facciamo in carcere. Non potrete lavorare all’esterno. Non potrete muovervi liberamente e subirete punizioni collettive.’ E’ questo il genere di versione repressiva, la punizione collettiva come rappresaglia.

MEE: La comunità internazionale condanna timidamente la costruzione o l’espansione delle colonie israeliane nei territori occupati. Non considera questo come elemento centrale del sistema coloniale israeliano, come lei descrive nel suo libro. Come hanno avuto inizio le colonie israeliane e questo è avvenuto su basi razionali o religiose?

IP: Dopo il 1967 c’erano due mappe di insediamenti o colonizzazione. C’era una mappa strategica ideata dalla sinistra israeliana. Il padre di questa mappa fu il defunto Yigal Allon, il grande stratega, che lavorò con Moshe Dayan nel 1967 al piano per controllare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Si basavano su un principio strategico, non troppo ideologico, benché ritenessero che la Cisgiordania appartenesse ad Israele.

Erano più interessati ad assicurare che gli ebrei non si insediassero in zone arabe densamente popolate. Dicevano che dovunque i palestinesi non vivessero in forti concentrazioni, là noi potevamo insediarci. Quindi iniziarono con la Valle del Giordano, poiché là vi erano piccoli villaggi, ma non c’era una densità di popolazione come in altre aree.

Il problema per loro fu che, nello stesso momento in cui elaboravano la loro mappa strategica, emerse un nuovo movimento religioso messianico, Gush Emunim, un movimento religioso nazionalista di ebrei che rifiutavano di insediarsi in base alla mappa strategica. Volevano insediarsi secondo la mappa biblica. La loro idea era che la Bibbia è un testo che dice esattamente dove si trovano le antiche città ebraiche. E si dà il caso che la mappa prevedesse che gli ebrei dovessero insediarsi nel centro di Nablus, Hebron e Betlemme, nel bel mezzo delle aree palestinesi.

Inizialmente il governo israeliano cercò di controllare questo movimento biblico in modo che gli insediamenti si facessero in modo più strategico. Ma parecchi giornalisti israeliani hanno rivelato che Shimon Peres, ministro della Difesa nei primi anni ’70, decise di consentire gli insediamenti biblici. I palestinesi della Cisgiordania furono sottoposti a due piani di colonizzazione, quello strategico e quello biblico.

La comunità internazionale sa che secondo il diritto internazionale non conta che le colonie siano strategiche o bibliche, sono tutte illegali.

Ma purtroppo dal 1967 la comunità internazionale ha accettato la formula israeliana, che recita: “Le colonie sono illegali, ma sono provvisorie, una volta che vi sia la pace noi garantiremo che tutto sia legale. Ma finché non vi è pace noi abbiamo bisogno delle colonie poiché siamo ancora in guerra con i palestinesi.”

MEE: Lei sostiene che ‘occupazione’ non è il termine adeguato per descrivere la realtà in Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza. E in un dialogo con Noam Chomsky, ‘On Palestine’, lei critica il termine ‘processo di pace’. Questo è discutibile. Perché questi termini non sono adeguati?

IP: Penso che il linguaggio sia molto importante. Il modo in cui si definisce una situazione incide sulla possibilità di cambiarla.

Abbiamo descritto la situazione in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e all’interno di Israele con un vocabolario e dei termini errati. Occupazione significa sempre una situazione temporanea.

La soluzione per l’occupazione è la fine dell’occupazione, il ritiro dell’esercito invasore a casa sua, ma non è questa la situazione né in Cisgiordania né nella Striscia di Gaza. Questa è colonizzazione, ritengo, benché suoni come un termine anacronistico nel XXI secolo, penso che dovremmo comprendere che Israele sta colonizzando la Palestina. Ha iniziato a colonizzarla alla fine del XIX secolo e continua ancora oggi.

C’è un regime di insediamento coloniale che controlla l’intera Palestina in modi differenti. Nella Striscia di Gaza il controllo è dall’esterno. In Cisgiordania il controllo è differenziato nelle aree A, B e C. Esistono politiche differenti verso i palestinesi nei campi profughi, dove ai rifugiati non è permesso di ritornare a casa. Non permettere alle persone espulse di ritornare è un altro modo di mantenere la colonizzazione. È sempre parte della stessa ideologia.

Perciò penso che i termini ‘processo di pace’ e ‘occupazione’, quando vengono usati insieme, creino la falsa impressione che tutto ciò che serve è che l’esercito israeliano esca dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza e che vi sia una pace tra Israele e la futura Palestina.

Ora, l’esercito israeliano non è presente nella Striscia di Gaza né nell’area A. Lo è anche poco nell’area B, dove non ha bisogno di esserci. Ma non c’è pace. C’è una situazione che è molto peggiore di quella precedente agli accordi di Oslo del 1993.

Il cosiddetto processo di pace ha consentito ad Israele di aumentare le colonie, ma questa volta con il sostegno internazionale. Quindi suggerisco di parlare di decolonizzazione, non di pace. Suggerisco di parlare di cambiare il regime giuridico che governa la vita degli israeliani e dei palestinesi.

Penso che dovremmo parlare di uno Stato di apartheid. Dovremmo parlare di pulizia etnica. Dovremmo scoprire che cosa sostituisce l’apartheid. Ed abbiamo un buon esempio in Sudafrica. L’unico modo per sostituire l’apartheid è un sistema democratico. Una persona, un voto, o almeno uno Stato bi-nazionale. Penso che sia questo il tipo di terminologia che dovremmo incominciare ad usare, perché se continuiamo ad usare le vecchie parole continueremo a sprecare tempo e sforzi e non cambieremo la realtà sul terreno.

MEE: Cosa riserva il futuro al governo militare israeliano sui palestinesi? Assisteremo ad un movimento di disobbedienza civile come quello di luglio a Gerusalemme?

IP: Penso che vedremo disobbedienza civile non solo a Gerusalemme, ma in tutta la Palestina, compresi i palestinesi all’interno di Israele. La società non accetterà per sempre questa realtà. Non so quali mezzi utilizzerà. Possiamo vedere che cosa succede quando non c’è una chiara strategia dall’alto e gli individui decidono di fare la propria guerra di liberazione.

C’è stato qualcosa di veramente impressionante nel caso di Gerusalemme, quando nessuno credeva che una resistenza popolare potesse costringere gli israeliani a ritirare le misure di sicurezza imposte ad Haram al-Sharif [si riferisce all’imposizione di metal detector sulla Spianata delle Moschee, terzo luogo sacro dell’Islam, che comprende la moschea di Al Aqsa e la Cupola della Roccia, ndt.]. Penso che possa essere questo il modello. Una resistenza popolare per il futuro che non si limiti ad un solo luogo, ma avvenga in luoghi differenti.

La resistenza popolare continua senza sosta in Palestina. I media non ne danno notizia. Ma ogni giorno il popolo protesta contro il muro dell’apartheid, contro l’esproprio delle terre, le persone fanno lo sciopero della fame perché sono prigionieri politici. La resistenza palestinese dal basso continua. La resistenza palestinese dall’alto resta in sospeso.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi a Gaza soffrono già abbastanza senza dover essere anche diffamati come devianti sessuali e malati di mente.

Brian K. Barber e Yasser Abu Jamei

21 novembre, 2017,Haaretz,Palestine Square

L’intervista di Haaretz dell’11 novembre a uno psicologo che saltuariamente visita la Striscia di Gaza (I bambini di Gaza vivono all’inferno: Uno psicologo racconta di dilaganti abusi sessuali, droghe e disperazione.) ritrae la società di Gaza come una comunità che ha completamente perso le sue fondamenta morali – fino al punto che, afferma l’intervistato Mohammed Mansour, dilagano le violenze sessuali e l’abuso di droghe e, a tutti gli effetti, sono tutti malati di mente.

La nostra vasta e pluriennale esperienza come professionisti della salute mentale e ricercatori a Gaza è molto diversa.

In sostanza, tutte le asserzioni fatte nell’articolo sulla popolazione di Gaza nel suo complesso sono speculative, essendo basate o su nessuna prova o semplicemente su impressioni, aneddoti o esempi di casi dell’intervistato.

Questo è vero non solo per le asserzioni enormemente esagerate di abuso sessuale e di malattia mentale, ma anche per le seguenti affermazioni fatte da Mansour che, in base alla nostra esperienza, crediamo, fermamente, essere false:

– Che la comunità che si occupa di salute mentale a Gaza sia essa stessa complice dell’abuso sessuale;

– Che quell’abuso sia aumentato in modo misurabile dall’agosto di quest’anno;

– Che gli uomini sposati cerchino costantemente rapporti sessuali extraconiugali;

– Che i giovani uomini abusino sessualmente dei loro coetanei o dei bambini più piccoli per ottenerne il controllo;

– Che il noto abuso di tramadol aumenti la proporzione delle aggressioni sessuali;

– Che tutte le convenzioni sociali a Gaza siano andate in pezzi, che non ci si diverta, che Hamas sia l’unica barriera al collasso totale della società (senza cui non ci sarebbe altro che crimine), e che a Gaza ciascuno/a pensi soltanto a se stesso/a.

Nell’articolo viene ammesso che non esiste una ricerca sistematica sull’abuso sessuale a Gaza – il che rende ancora più curiosa la volontà di descrivere e pubblicare tale disinformazione.

Tuttavia, ignorata dall’articolo è l’attenta ricerca condotta da decenni su campioni ampi e rappresentativi dei quotidiani abitanti di Gaza – alcuni dei quali abbiamo noi stessi documentato – che ha dimostrato come, malgrado condizioni sempre più terribili per la salute e la vita, la stragrande maggioranza degli abitanti di Gaza non segnali alti livelli di malattia mentale e come le relazioni coniugali e genitore-figlio siano particolarmente solide.

Ignorati anche nell’articolo sono gli effetti perniciosi della continua occupazione, dell’assedio e delle limitazioni del movimento [da parte di Israele] come fonti fondamentali della sofferenza che gli abitanti di Gaza subiscono.

Sì, gli abitanti di Gaza parlano della stretta striscia di terra in cui vivono come di un “inferno”; sì, le condizioni economiche e di salute sono terribili; sì, c’è frustrazione e disperazione rapidamente crescente; e, sì, un numero crescente di giovani desidera ardentemente uscire da Gaza per cercare migliori opportunità altrove.

Ma descrivere Gaza come una società nel caos, disancorata dalla propria cultura storicamente forte di resilienza collettiva e fermezza, e in cui tutti cercano solo interessi personali, è semplicemente scorretto.

Almeno tre valori fondamentali hanno guidato e continuano a guidare gli abitanti di Gaza (e in generale i palestinesi): raggiungere il massimo livello di istruzione possibile, formare delle famiglie, e creare mezzi di sostentamento per sostenere quelle famiglie.

Non ci sono prove del fatto che l’impegno dei palestinesi nei confronti di questi valori sia diminuito, anche se le drastiche condizioni economiche rendono sempre più difficile la realizzazione di questi valori, cosa che causa profonda sofferenza soprattutto per i giovani di Gaza.

Tuttavia, essi continuano a lottare per soddisfare il maggior numero possibile, con i loro atteggiamenti caratteristici di “non c’è altra scelta che continuare” e “un giorno raggiungeremo la piena felicità”.

In effetti, gli abitanti di Gaza sono sopravvissuti a tutte le previsioni che sarebbero crollati dopo ogni successiva battuta d’arresto nel corso della loro vita. Così, dopo la guerra del 2008-9, si prevedeva che la società di Gaza si sarebbe sgretolata, e ancora di più dopo la guerra del 2014. Questo non è successo.

I bambini ridono, giocano e sciamano verso la scuola. Le scuole – dalle elementari alle università con laurea specialistica – traboccano di studenti. Giovani donne e uomini cercano ogni opportunità per promuovere la loro istruzione a Gaza e all’estero.

I giovani di Gaza hanno caro il matrimonio come un obiettivo e aspirano al giorno in cui potranno permettersi di costruire le loro famiglie. E si arrabattano in tutti i modi per guadagnare denaro – comprese innovative iniziative online – per sostenere le loro famiglie di origine e quelle a venire.

Agricoltori e pescatori lavorano ogni giorno sotto pesanti e minacciose restrizioni. Innumerevoli organizzazioni della società civile, ONG, strutture per la salute mentale e ospedali vanno avanti con il minimo di risorse.

Le famiglie si incontrano costantemente, osservano le feste, celebrano i successi dei bambini, accolgono nuovi figli e lamentano le perdite. Quando è possibile in un breve tempo libero, le famiglie vanno in spiaggia a rilassarsi.

Queste dinamiche sono evidenti a chiunque trascorra del tempo tra la popolazione in generale, come fa uno degli autori di questo pezzo, Yasser Abu Jamei, nel corso della sua vita quotidiana.

In una visita di un mese a Gaza nel maggio di quest’anno, un coautore di questo articolo, Brian Barber, per esempio, si è ripetutamente imbattuto in celebrazioni di ogni tipo: cerimonie di laurea, consegne di onorificenze accademiche a studenti meritevoli, riconoscimenti per vite spese nel servizio pubblico a Gaza, e così via. La visita ha compreso anche conversazioni interminabili nei salotti e nelle sale da pranzo delle famiglie, dentro e fuori i campi profughi, con genitori e loro figli delle scuole superiori, impazienti e ansiosi per i rigorosi imminenti esami tawjihi [di maturità] di ammissione al college. Ha compreso la convivenza con le famiglie e l’esperienza, sì, della frustrazione, ma anche dei modi creativi con cui le famiglie affrontano blackout di energia di più di 20 ore: con una gamma di dispositivi pronti per le poche ore di energia, quando arrivano, (torce elettriche, telefoni cellulari, carica-batterie di tutti i tipi), svegliandosi a qualsiasi ora per fare il bucato, stirare e fare il bagno, e tirare le corde di prolunga lungo i vicoli dei campi profughi per condividere l’elettricità con i vicini che non hanno quei dispositivi di backup. Ha compreso anche accompagnare per giorni il mukhtar (sindaco tribale) di uno dei più grandi clan di Gaza appena trovava il tempo, nel suo fitto programma di preside e studente di dottorato, per affrontare i bisogni della sua gente, a risolvere conflitti di ogni tipo facendo incontrare le parti e lavorando senza problemi con la polizia su questioni più serie. Questa è la Gaza che conosciamo come padre e psichiatra di Gaza e come psicologo sociale americano che ha trascorso molto tempo ogni anno a Gaza per 23 anni. Non stiamo cercando di nascondere le reali difficoltà incontrate dalla popolazione de facto incatenata di Gaza, ma non vogliamo neanche una rappresentazione della vita a Gaza priva di fondamento, del genere Hobbes-incontra-Il Signore della Mosche, per guadagnarsi una fama che non merita.

Questo articolo è stato pubblicato contemporaneamente su Haaretz e Palestine Square.

Informazioni su Yasser Abu Jamei, MD, MSc è il direttore generale del programma di salute mentale della comunità di Gaza, una ONG fondata nel 1993 dal compianto Eyad El-Sarraj. Con i suoi tre centri comunitari, è considerato uno dei principali fornitori di servizi sanitari nella Striscia di Gaza.

Brian K. Barber, PhD è Fellow di International Security Program presso New America e Senior Fellow presso l’Institute for Palestine Studies, entrambi a Washington, D.C., e Professore Emerito, Università del Tennessee. Twitter: @briankbarber

(Traduzione di Angelo Stefanini )