Israele ha distrutto l’ospedale al-Shifa per accelerare la distruzione delle strutture sociali di Gaza

Faris Giacaman 

2 Aprile 2024 – Mondoweiss

Israele vuole provocare un crollo dellordine sociale a Gaza, e non può riuscirci senza cancellare i suoi ospedali.

La caduta dell’ospedale al-Shifa sarà ricordata come uno dei momenti più cruciali della campagna genocida di Israele a Gaza, non per la scatenata volontà di distruzione mostrata, ma perché ha offerto una straordinaria immagine del vero motivo per cui Israele ha deciso di demolire sistematicamente gli ospedali di Gaza.

Nei tempi di guerra gli ospedali di Gaza non sono serviti solo come luoghi per la cura dei feriti e dei malati, ma sono diventati istituzioni sociali fondamentali, ospitando un microcosmo dellintero ordine sociale di Gaza. Sono diventati centri nevralgici per giornalisti e difensori dei diritti umani, hanno offerto spazio alle squadre della protezione civile di Gaza per organizzare e coordinare le attività di salvataggio, sono diventati una base operativa per le forze di polizia di Gaza e hanno ospitato decine di migliaia di rifugiati sfollati in cerca di riparo dai bombardamenti. Gli ospedali sono diventati tutto questo perché costituivano le ultime istituzioni civili rimaste che avrebbero dovuto godere di un minimo di protezione dalla guerra.

In altre parole, essi ospitavano tutti i meccanismi che fanno funzionare una società. Al posto della demolizione delle infrastrutture di resistenza di Gaza, un traguardo che rimane irraggiungibile per lesercito israeliano, uno degli obiettivi della guerra di Israele a Gaza è stato quello di provocare il collasso delle strutture sociali.

La normalizzazione degli attacchi contro gli ospedali

Tutto è iniziato con il primo assalto israeliano contro al-Shifa il 15 novembre. Nei giorni precedenti lincursione lospedale era stato messo sotto assedio mentre il personale sanitario e i medici venivano colpiti attraverso le finestre e nel cortile principale dellospedale. Quando altri si precipitavano fuori nel tentativo di salvarli, anche loro venivano abbattuti, finché nessuno ha più osato lasciare gli edifici. I feriti venivano lasciati morire dissanguati, per poi marcire ed essere mangiati dagli animali randagi. Quando lesercito israeliano è entrato, ha ripulito lospedale dal personale, dai pazienti e dai rifugiati sfollati. La propaganda israeliana ha cominciato a inondare i media con immagini di armi nascoste dietro una macchina per la risonanza magnetica, una delle poche fragili prove” a sostegno delluso dellospedale come centro di comando e controllo” militare.

Ma nonostante il fatto che le affermazioni di Israele su al-Shifa si siano rivelate infondate linvasione ha costituito un importante precedente per quella che è stata considerata una condotta ammissibile durante la guerra. Ciò che prima era impensabile ora è diventato una cosa normale, ponendo le basi per ciò che sarebbe successo.

Favorire la distruzione delle strutture portanti della società

Verso la fine dellanno, dopo il ritiro dellesercito da alcune aree del nord di Gaza, compresa la zona circostante al-Shifa, il personale medico e i pazienti sono tornati allinterno dell’ospedale. Al-Shifa ha rapidamente ripreso il suo status di centro nevralgico per gli sfollati e gli attori della società civile. Ma con linizio del nuovo anno la carestia e la fame hanno cominciato a manifestarsi. La privazione sistematica degli aiuti alimentari e la presa di mira dei richiedenti aiuto nelle rotatorie Kuwait e Nabulsi nel nord di Gaza hanno portato a diversi massacri che hanno messo in crisi la popolazione locale.

Poi, in quello che è stato universalmente considerato un risultato straordinario, il 17 marzo un convoglio di 13 camion di aiuti è finalmente arrivato nel nord senza incidenti. La differenza è che questa volta la consegna degli aiuti è stata coordinata direttamente dalle forze di polizia di Gaza. La figura chiave che ha organizzato la consegna è stato il direttore delle operazioni di polizia, Faiq Mabhouh, che come la maggior parte dei dipendenti civili di Gaza ha naturalmente coordinato le operazioni da al-Shifa. Il giorno successivo, il 18 marzo, Israele ha lanciato la sua seconda incursione nellospedale.

Non sorprende che Israele abbia riciclato le solite affermazioni infondate, affermando che loperazione era basata su informazioni di intelligence preciseche indicavano che lospedale ospitava centinaia di militari dai quali venivano condotti attacchi terroristici. Il primo giorno dell’attacco le forze israeliane hanno assassinato Mabhouh, uccidendo altre decine di persone all’interno del complesso medico. Fin dallinizio Mondoweiss ha dimostrato la vera ragione dietro lattacco: sferrare un colpo alle infrastrutture civili di Gaza con lobiettivo di provocare il caos e minarne la capacità operativa.

Mabhouh aveva supervisionato diversi comitati popolari in coordinamento con le comunità locali per organizzare la consegna degli aiuti alla popolazione affamata. Stava diventando chiaro che il governo di Hamas stesse tentando di ristabilire un punto d’appoggio nel nord di Gaza e di riportare l’ordine, cosa di cui si erano già intravisti dei segnali a febbraio. Naturalmente per Israele qualsiasi impiegato governativo a Gaza, anche se in settori civili come la polizia, era, a tutti gli effetti, agente di Hamas, non diverso dai combattenti della resistenza delle Brigate Qassam. Inclusi anche i membri dei comitati e delle organizzazioni civiche responsabili della distribuzione degli aiuti, che Israele ha continuato a prendere di mira nel nord di Gaza mentre iniziava lassedio di al-Shifa.

Quasi due settimane dopo, il 31 marzo, dopo l’uccisione da parte dellesercito israeliano di oltre 70 dei loro membri, i comitati popolari e le comunità hanno annunciato che avrebbero interrotto il coordinamento e la distribuzione degli aiuti nel nord di Gaza. I comitati hanno rilasciato una dichiarazione affermando che lesercito li aveva sistematicamente presi di mira e che stava deliberatamente seminando caos e fameimpedendo a organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, lUNRWA e il Programma Alimentare Mondiale di fornire aiuti. Quando lesercito israeliano si è ritirato da al-Shifa, il Gaza Media Office ha dichiarato che durante il raid durato due settimane almeno 400 palestinesi erano stati uccisi e 900 feriti. Gli edifici non distrutti sono stati incendiati e danneggiati irreparabilmente. L’esercito ha promesso che al-Shifa non avrebbe ripreso la sua operatività.

La realizzazione della zona di uccisione

Nel corso delle due settimane in cui è proseguito l’assedio di al-Shifa hanno iniziato ad emergere notizie di atrocità e massacri su larga scala avvenuti nell’ospedale. Al termine dellincursione innumerevoli testimonianze hanno riportato dettagliatamente esecuzioni sul posto, mentre le squadre della Protezione Civile hanno riferito di aver trovato cadaveri con le gambe legate sepolti sotto la sabbia.

Un giorno prima del ritiro dellesercito Haaretz ha pubblicato uninchiesta che fornisce nuove informazioni su come lesercito ha operato durante la guerra, realizzando zone di uccisionein cui i soldati hanno ricevuto istruzioni di sparare a vista a chiunque. L’articolo definisce tali zone come un’area in cui si insedia una pattuglia, di solito una casa abbandonata, con la zona circostante che diventa unarea militare chiusa, ma non delimitata da segnali ben visibili. Naturalmente, queste zone di uccisionesi trovano anche nel mezzo di quartieri residenziali, molti dei quali non evacuati.

L’articolo fornisce un quadro utile per comprendere come si è probabilmente svolta linvasione di al-Shifa.

Inizia con un riferimento al famigerato attacco dell’inizio di gennaio contro quattro uomini disarmati a Khan Younis da parte di un drone israeliano, affermando che lincidente è stato uno dei tanti in cui sono stati uccisi civili palestinesi in quanto dichiarati senza prove terroristi” dallesercito.

L’inchiesta raccoglie le testimonianze di numerosi soldati israeliani, “alti” ufficiali dellesercito e numerosi comandanti di ruolo e di riserva dellesercito da cui risulta che tutti mettono in dubbio laffermazione che fossero tutti terroristi, implicando che la definizione di terrorista è aperta a unampia gamma di interpretazioni. È del tutto possibile che dei palestinesi che non hanno mai impugnato unarma in vita loro una volta morti siano stati elevati al rango di terroristi”, almeno dalle IDF[esercito israeliano, ndt.]”.

Non è che facciamo l’inventario dei cadaveri, ma nessuno può determinare con certezza chi è un terrorista e chi è stato colpito una volta entrato nella zona di combattimento, ha detto ad Haaretz un ufficiale della riserva. Un altro ufficiale riservista ha affermato che in pratica, terrorista è chiunque sia stato ucciso dai militari nelle aree in cui operano. L’ufficiale ha detto che i rapporti dell’esercito israeliano sul numero di combattenti della resistenza presumibilmente uccisi erano sorprendentie che non c’è bisogno di essere un genio per rendersi conto che non ci sono centinaia o decine di uomini armati che corrono per le strade.”

Al contrario, le testimonianze dei soldati affermano che molte di queste persone erano probabilmente non combattenti disperati in cerca di cibo che si erano imbattuti in aree che pensavano fossero state evacuate dallesercito. “Quando si recavano in luoghi del genere venivano uccisi in quanto percepiti come potenzialmente pericolosi per l’incolumità delle nostre forze”, ha detto ad Haaretz un comandante.

Eppure la definizione dellesercito di minacciapercepita è altrettanto ampia. “Non appena le persone entrano [in una zona di uccisione], soprattutto maschi adulti, l’ordine è di sparare e uccidere, anche se quella persona è disarmata”, ha detto ad Haaretz un ufficiale riservista. Un altro soldato che era stato nel nord di Gaza ha detto che la sensazione che avevamo era che lì non esistessero realmente regole di ingaggio, mentre un alto funzionario dellestablishment della difesa ha detto ad Haaretz che sembra che molti reparti combattenti stiano scrivendo le proprie regole di ingaggio.”

Queste testimonianze di soldati sono coerenti con i resoconti dei testimoni oculari e delle organizzazioni per i diritti umani nel nord di Gaza, che descrivono anche in dettaglio la prassi di sparare intenzionalmente ai bambini con proiettili veri e luso dei palestinesi come scudi umani durante il raid ad al-Shifa. Anche se nulla di tutto ciò porti di fatto nuove rivelazioni per la comprensione delle atrocità di Israele, le testimonianze dei soldati sono preziose nel rivelare luso delle zone di uccisionecome quadro operativo per la conduzione di attività sul campo.

Questo ci riporta allassalto ad al-Shifa. Secondo Ynet [quotidiano israeliano, ndt.] lesercito israeliano ha affermato di aver condotto unoperazione precisache ha distinto tra terroristi e civili, ma che la priorità della sicurezza dei soldati israeliani è sempre rimasta fondamentale. Ecco perché, secondo lesercito, di fronte al rischio per la sicurezza delle nostre forze quando viene rilevata una minaccia apriamo il fuoco per eliminare i terroristi”.

In altre parole, lintero ospedale di al-Shifa e larea circostante sono stati trasformati in una gigantesca zona di uccisione.

(traduzione dallinglese di Aldo Lotta)




Sette operatori umanitari a Gaza, compresi cittadini del Regno Unito, degli Stati Uniti e dell’Australia, uccisi in un attacco israeliano, afferma l’organizzazione benefica

Bethan McKernan, a Gerusalemme, e Ben Doherty

2 aprile 2024 – The Guardian

L’esercito israeliano indaga in seguito al fatto che in un convoglio colpito nel centro di Gaza si trovavano degli operatori di World Central Kitchen 

Sette persone che lavoravano per World Central Kitchen [ONG americana, ndt.], un’organizzazione benefica che promuove sforzi per alleviare l’incombente carestia a Gaza, sono rimaste uccise in un attacco aereo israeliano, dice l’organizzazione, gettando nel caos gli sforzi di soccorso umanitario nel territorio palestinese, in quanto l’organizzazione ha detto che avrebbe sospeso le operazioni.

Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì mattina gli operatori facevano parte di un gruppo che viaggiava su tre veicoli corazzati che riportavano il logo dell’organizzazione umanitaria. World Central Kitchen (WCK) ha detto che gli uccisi erano originari di Regno Unito, Australia, Polonia e Palestina e uno aveva doppia cittadinanza USA e canadese.

Secondo un giornalista dell’Associated Press che si trovava nella struttura, i corpi degli operatori umanitari sono stati portati in un ospedale della città di Rafah nel sud di Gaza, sul confine egiziano. Le registrazioni dell’ospedale hanno riportato che tre cittadini del Regno Unito erano morti.

L’organizzazione ha affermato: “Nonostante i movimenti fossero stati concordati con l’esercito israeliano il convoglio è stato colpito alla partenza dal deposito di Deir al-Balah, dove la squadra aveva scaricato più di 100 tonnellate di aiuti umanitari in cibo portati a Gaza via mare.”

Erin Gore, presidente di WCK, ha detto: “Questo non è solo un attacco contro WCK, è un attacco alle organizzazioni umanitarie che avviene nella più tremenda delle situazioni in cui il cibo viene usato come arma di guerra. Questo è imperdonabile.”

L’organizzazione interromperà le operazioni nella regione e dice che prenderà una decisione sul futuro della sua attività, sollevando timori che il recente corridoio marittimo da Cipro per la consegna di aiuti disperatamente necessari a Gaza possa fallire a fronte dei ripetuti ostacoli da parte israeliana.

Giovedì pomeriggio Cipro ha detto che le navi recentemente giunte a Gaza stanno tornando indietro con 240 tonnellate di aiuti non consegnati.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deplorato le uccisioni, che ha detto essere state provocate da un attacco aereo israeliano. Ha decritto l’incidente come tragico e non intenzionale.

Succede in tempi di guerra. Stiamo indagando accuratamente sui fatti, siamo in contatto con i governi (delle vittime straniere) e faremo di tutto per garantire che non avvenga di nuovo”, ha detto in una videodichiarazione.

L’esercito israeliano ha espresso “sincero dispiacere” per le morti mentre non ha ammesso del tutto di accettarne la responsabilità, aggiungendo che è in corso un’indagine.

Una dichiarazione dell’esercito afferma: “Le IDF (esercito) compiono molti sforzi per rendere possibile la consegna sicura di aiuti umanitari e hanno lavorato a stretto contatto con WCK nei suoi sforzi vitali per fornire cibo e aiuto umanitario alla popolazione di Gaza.”

I tentativi delle agenzie umanitarie di fornire assistenza dove c’è più necessità a Gaza sono stati gravemente ostacolati da un insieme di impedimenti logistici, da un collasso dell’ordine pubblico e dalla farraginosa burocrazia imposta da Israele. Il numero di camion di aiuti entrati nel territorio via terra negli ultimi cinque mesi è stato molto al di sotto dei 500 al giorno che entravano prima della guerra.

A febbraio più di 100 persone sono state uccise quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco in un punto di distribuzione degli aiuti a Gaza City. L’esercito israeliano ha detto che per la maggior parte sono morti nella calca, ma funzionari palestinesi e testimoni lo hanno smentito dicendo che la maggioranza di quelli portati in ospedale presentava ferite da proiettili.

L’ONU ha detto che nel territorio costiero almeno 576.000 persone– un quarto della popolazione – sono sulla soglia della carestia ed è aumentata la pressione su Israele perché accresca il flusso di aiuti.

Le navi con gli aiuti arrivate lunedì trasportavano 400 tonnellate di cibo e prodotti – sufficienti per un mese di pasti – in una spedizione finanziata dagli Emirati Arabi Uniti e organizzata da WCK, ma gli operatori avevano scaricato solo 100 tonnellate prima che l’attacco costringesse l’organizzazione ad ordinare che le imbarcazioni tornassero a Cipro.

Il mese scorso un’altra nave di WCK ha consegnato 200 tonnellate di aiuti in un’esperienza pilota resa possibile da volontari di WCK e da altri a Gaza che hanno costruito un molo con le macerie di edifici distrutti dai bombardamenti israeliani negli scorsi cinque mesi. L’esercito israeliano è stato coinvolto nel coordinamento di entrambe le consegne.

Washington, il principale alleato di Israele, ha caldeggiato la via marittima come nuovo modo per fornire aiuti disperatamente necessari al nord di Gaza, che è ampiamente separato dal resto del territorio dalle forze israeliane.

Israele ha impedito all’UNRWA, la principale agenzia dell’ONU a Gaza, di effettuare consegne nel nord dopo aver sostenuto che molti dei suoi dipendenti erano coinvolti nell’attacco di Hamas che ha scatenato la guerra, ora nel suo sesto mese. Altre organizzazioni umanitarie dicono che spedire convogli di camion al nord è troppo pericoloso a causa delle mancate garanzie da parte dell’esercito di un passaggio sicuro.

In base ai dati israeliani il 7 ottobre circa 1.200 israeliani sono stati uccisi e altri 250 presi in ostaggio, mentre più di 32.000 palestinesi sono stati uccisi nella successiva offensiva israeliana, secondo il locale Ministero della Salute nel territorio governato da Hamas.

José Andrés, il fondatore di WCK, ha dichiarato a X che l’organizzazione umanitaria “ha perso parecchie nostre sorelle e fratelli in un attacco aereo delle IDF a Gaza.”

Ha scritto: “Ho il cuore spezzato e sono addolorato per le loro famiglie ed amici e per l’intera nostra famiglia di WCK. Queste sono persone…sono angeli…Ho lavorato al loro fianco in Ucraina, a Gaza, in Turchia, in Marocco, alle Bahamas, in Indonesia. Hanno un volto…hanno un nome.”

Ha detto che il governo israeliano avrebbe dovuto “fermare queste uccisioni indiscriminate.”

Il Primo Ministro australiano, Anthony Albanese, ha identificato la persona uccisa di nazionalità australiana come Zomi Frankcom e ha definito il suo lavoro “straordinariamente importante.”

Albanese ha detto che il suo governo avrebbe convocato l’ambasciatore israeliano riguardo ad un incidente che ha detto essere “al di là di ogni ragionevole circostanza”, aggiungendo: “l’Australia si attende una piena assunzione di responsabilità per la morte di operatori umanitari, che è assolutamente inaccettabile.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il parlamento israeliano approva una legge che spiana la strada alla chiusura di Al Jazeera

Redazione di Al Jazeera

1 aprile 2024 – Al Jazeera

Il primo ministro Benjamin Netanyahu promette di usare la nuova legge per chiudere gli uffici locali di Al Jazeera.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha promesso di “agire immediatamente per interrompere” nel Paese le attività di Al Jazeera dopo l’approvazione del parlamento israeliano di una legge che concede ai ministri poteri di chiudere le reti di informazione straniere ritenute un rischio per la sicurezza.

Al Jazeera ha danneggiato la sicurezza di Israele partecipando attivamente al massacro del 7 ottobre e ha incitato contro i soldati israeliani,” ha scritto Netanyahu su X lunedì.

Intendo agire immediatamente in conformità con la nuova legge per fermare le attività del canale,” ha detto.

La rete qatarina ha respinto quelle che ha descritto come “accuse diffamanti” e ha accusato Netanyahu di “incitamento [all’odio]”.

In seguito al suo incitamento e a queste false accuse ignobili Al Jazeera ritiene il primo ministro israeliano responsabile della sicurezza del proprio personale e delle sedi della rete nel mondo,” ha detto in una dichiarazione.

Al Jazeera ribadisce che tali accuse infamanti non ci dissuaderanno dal continuare la nostra copertura coraggiosa e professionale e ci riserviamo il diritto di intraprendere ogni azione legale.”

Netanyahu cercava da tempo di chiudere l’emittente qatarina adducendo un pregiudizio contro Israele.

La legge approvata dalla Knesset con una votazione di 71 a 10 dà al primo ministro e al ministro delle Comunicazioni l’autorità di ordinare la chiusura di reti televisive straniere che operano in Israele e confiscare le loro apparecchiature se si ritiene che pongano “un pericolo alla sicurezza dello Stato”.

Lunedì Karine Jean-Pierre, la portavoce della Casa Bianca, ha detto che la decisione israeliana di chiudere Al Jazeera sarebbe “preoccupante”.

Gli Stati Uniti sostengono il lavoro estremamente importante dei giornalisti in tutto il mondo e ciò include coloro che ci stanno informando sul conflitto a Gaza,” ha detto Jean-Pierre ai reporter.

Quindi noi crediamo che il lavoro sia importante. La libertà di stampa è importante. E se quei reportage sono veritieri ciò ci riguarda.”

Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), che controlla che i media siano liberi, ha detto che la nuova legge israeliana “pone una significativa minaccia per i media internazionali”.

Ciò contribuisce a un clima di autocensura e ostilità verso la stampa, una tendenza in crescita dall’inizio della guerra tra Israele e Gaza,” ha detto il CPJ.

Una lunga campagna

Dall’inizio della guerra di Israele a Gaza in ottobre il governo israeliano ha approvato con il consenso dei tribunali norme di guerra che consentono di chiudere temporaneamente media stranieri giudicati una minaccia per gli interessi nazionali.

L’approvazione della legge arriva circa cinque mesi dopo che Israele ha affermato che avrebbe bloccato il canale libanese Al Mayadeen. Si era astenuto dal chiudere contemporaneamente Al Jazeera.

Lunedì, dopo il voto, il ministro delle Comunicazioni di Israele, Shlomo Karhi [del principale partito di governo, il Likud, ndt.], ha detto che intende procedere con la chiusura e che Al Jazeera agisce come “un braccio della propaganda di Hamas incoraggiando la lotta armata contro Israele”.

È impossibile tollerare un organo di stampa con credenziali dell’Ufficio Stampa governativo e con uffici in Israele che agisca dall’interno contro di noi, e certamente non in tempo di guerra,” ha proseguito.

Il suo ufficio ha detto che l’ordine avrebbe cercato di bloccare le trasmissioni del canale in Israele e di impedirne le attività nel Paese. L’ordine non si applicherebbe alla Cisgiordania occupata o a Gaza.

Israele si è spesso scagliato contro Al Jazeera che ha uffici nella Cisgiordania occupata e a Gaza. Nel maggio 2022 l’esercito israeliano ha ucciso la giornalista di Al Jazeera Shirin Abu Akleh mentre stava coprendo un attacco dell’esercito israeliano nella città cisgiordana di Jenin.

Una relazione commissionata dalle Nazioni Unite ha concluso che per ammazzarla le forze israeliane hanno usato “una forza letale senza giustificazioni”, violando il suo “diritto alla vita”.

Durante la guerra a Gaza sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani parecchi giornalisti e loro familiari.

Il 25 ottobre un raid aereo ha ucciso la famiglia di Wael Dahdouh, capo dell’ufficio [di Al Jazeera] a Gaza: moglie, figlio, figlia, nipote e almeno altri otto parenti.

La legge è stata approvata mentre Netanyahu fronteggia enormi proteste contro la sua gestione della guerra a Gaza e il fallimento della sicurezza che non ha scoperto in anticipo l’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas nel sud di Israele.

Secondo le autorità israeliane almeno 1.139 persone sono state uccise in quegli attacchi e circa 250 ostaggi sono stati portati a Gaza.

Secondo le autorità palestinesi la guerra israeliana contro Gaza ha ucciso almeno 32.782 persone, in maggioranza donne e bambini.

Domenica decine di migliaia di persone si sono riunite davanti all’edificio del parlamento israeliano a Gerusalemme Est nella più grande manifestazione antigovernativa dall’inizio della guerra.

I manifestanti hanno chiesto al governo di garantire un cessate il fuoco che liberi gli ostaggi detenuti da Hamas e ha invocato elezioni anticipate.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Germania: banca pubblica blocca il conto di un gruppo ebraico di attivisti per la pace

 Pauline Ertel

28 marzo 2024 – Middle East Eye

La Berliner Sparkasse Bank ha chiesto a Jewish Voice for Just Peace in the Middle East di rivelare la lista e gli indirizzi dei suoi membri.

In Germania una banca pubblica ha congelato il conto di un’organizzazione ebraica antisionista e chiesto al gruppo di rivelare la lista di tutti i suoi membri.

Martedì Jewish Voice for Just Peace in the Middle East [Voce Ebraica per una Giusta Pace in Medio Oriente] ha annunciato che il suo conto presso la Berliner Sparkasse era stato bloccato il 26 marzo con effetto immediato. 

“Nel 2024 ancora una volta soldi ebrei sono confiscati da una banca tedesca: la Berliner Sparkasse blocca il conto di Jewish Voice,” ha dichiarato in un comunicato Jewish Voice sulle sue piattaforme social.

Il gruppo ha ricevuto una lettera dalla banca che lo informava che entro il 5 aprile doveva presentare alla Berliner Sparkasse una lista di tutti i membri, completa di indirizzi, documentazione fiscale, dichiarazione dei redditi e altri documenti interni per “aggiornare i dati dei clienti “.

La lettera, visionata da Middle East Eye, specifica anche che queste misure fanno parte di “disposizioni normative ” che obbligano la Berliner Sparkasse a “controllare a intervalli regolari i dati archiviati relativi ai nostri clienti “.

“È una lettera molto inquietante. Sembra che collaborino con l’ufficio statale di polizia giudiziaria,” ha detto a MEE Wieland Hoban, presidente di Jewish Voice.

Jewish Voice ha detto di non sapere se dietro la decisione ci siano state pressioni governative o se sia stata adottata dalla banca stessa. 

La banca ha anche minacciato di rescindere il contratto e chiudere il conto se i documenti richiesti non verranno presentati entro la scadenza. Il blocco del conto è una “misura precauzionale”, si dichiara nella lettera.

“In quanto azienda pubblica la banca è vincolata dal diritto pubblico e non può perciò congelare arbitrariamente i conti senza fornire una spiegazione, cosa che non ha fatto,” ha specificato Jewish Voice nella sua dichiarazione.

L’organizzazione ha assunto un avvocato che ha confermato che il blocco del conto è illegale e costituisce una violazione del contratto, ha detto Hoban.

‘Non nel nostro nome’

Jewish Voice è stata fondata a Berlino nel 2003 e inizialmente era la sezione tedesca dell’organizzazione European Jews for a Just Peace, fondata ad Amsterdam nel 2002. 

“Ci uniamo agli ebrei in Europa e nel mondo per asserire che la colonizzazione e l’occupazione della Palestina da parte di Israele e l’oppressione del popolo palestinese non sono compiute nel nome e nell’interesse degli ebrei di tutto il mondo. ‘Non nel nostro nome!’”, si legge nel sito web.

Jewish Voice è una delle più importanti associazioni filopalestinesi in Germania e negli ultimi mesi ha aiutato a organizzare manifestazioni, cortei, eventi e conferenze in varie città tedesche. 

L’organizzazione ha detto che la decisione è arrivata in concomitanza con le ripercussioni suscitate dalla programmazione del Palestine Congress, una conferenza di tre giorni che dovrebbe svolgersi ad aprile a Berlino. L’evento è finanziato dalla vendita dei biglietti e dalle donazioni, per le quali Jewish Voice ha offerto l’uso del proprio conto. 

“Bloccandoci il conto lo Stato vuole privare il congresso di finanziamenti,” ha detto a MEE Hoban, il relatore principale dell’evento.

“Ciò che è successo mostra a quali estremi lo Stato voglia bloccare e vessare il movimento palestinese tedesco. Persecuzioni e minacce politiche sono ovunque. Contro di noi abbiamo lo Stato, ma non ci faremo intimidire.”

MEE ha contattato la Berliner Sparkasse per un commento, ma al momento di andare in stampa non ha ricevuto risposta.

In risposta al blocco del conto attivisti e giornalisti hanno rivelato che anche il partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland ha un conto presso la stessa banca berlinese. 

Congresso Palestinese di Berlino

Il Congresso Palestinese di Berlino presenta una vasta gamma di oratori, organizza tavole rotonde e seminari, fornisce una rete e organizza spazi per il movimento filopalestinese in Germania. 

“Insieme discuteremo le prospettive del nostro movimento sulla base di una risoluzione comune. Si discuteranno e si decideranno iniziative concrete da intraprendere nei posti di lavoro, nelle università, nelle scuole, nel mondo dell’arte e della cultura,” recita il sito web di Palestine Congress.

Fra gli oratori di spicco Yanis Varoufakis, ex ministro greco delle Finanze, Ali Abunimah, giornalista palestinese e fondatore del portale di informazione Electronic Intifada e il medico palestinese Ghassan Abu Sitteh, che ha passato 43 giorni operando negli ospedali di Gaza.

Fin dal suo annuncio l’evento è finito sotto un pesante attacco. La polizia ha perquisito le case degli organizzatori e i media tedeschi hanno definito la conferenza un “summit dell’odio” antisemita, un “congresso di odiatori degli ebrei” e una “vergogna” per Berlino. 

Politici e membri di alto calibro del governo berlinese, fra cui il Senato di Berlino, hanno minacciato di vietare l’evento.

Christian Hochgrebe, assessore agli Affari Interni berlinese, ha annunciato che al momento il Senato di Berlino sta raccogliendo e valutando dati. 

Lea Rosh, direttrice del gruppo di supporto del memoriale dell’Olocausto ha detto: “Abbiamo appreso con indignazione che si è pianificato un congresso che ovviamente non contribuisce al discorso critico, ma al contrario alla rete di gruppi anti-israeliani e antisemiti. Chiediamo che l’evento sia messo al bando.” 

Tuttavia gli organizzatori del congresso hanno detto che non ci sono basi legali per un potenziale bando.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Guerra a Gaza: secondo un’esperta dell’ONU ci sono“fondati motivi” per ritenere che Israele abbia commesso un genocidio

Redazione MEE

26 marzo 2024 – Middle East Eye

Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU, ha chiesto un embargo sulle armi a Israele

Lunedì Francesca Albanese, l’esperta di diritti umani delle Nazioni Unite, ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’ONU [ in realtà al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU a Ginevra. ndt] un rapporto in cui sostiene che nella sua guerra contro Gaza Israele ha commesso diversi atti di genocidio e che dovrebbe essere sottoposto a un embargo sulle armi.

Albanese, relatrice speciale dell’ONU sui diritti umani nei territori palestinesi, nel suo rapporto ritiene che vi siano “fondati motivi” per stabilire che Israele ha violato tre dei cinque punti elencati nella Convenzione dell’ONU sul genocidio.

Queste violazioni sono: luccisione di palestinesi, il causare loro gravi danni fisici o mentali, e linfliggere deliberatamente condizioni di vita tali da provocare, in tutto o in parte, la distruzione fisica della popolazione, azioni approvate da dichiarazioni di intenti genocidi da parte di funzionari militari e governativi.

La schiacciante natura e portata dellassalto israeliano a Gaza e le condizioni di vita devastanti inflitte rivelano lintento di distruggere fisicamente i palestinesi come popolo, afferma il rapporto.

Inoltre il rapporto accusa Israele di tentare di legittimare le sue azioni genocide etichettando i palestinesi come terroristi”, trasformando così tutto e tutti in un bersaglio o in un danno collaterale, quindi uccidibile o distruttibile”.

“È ovvio che in questo modo a Gaza nessun palestinese è al sicuro”, afferma.

Il rapporto aggiunge che lattuale guerra a Gaza non è iniziata il 7 ottobre ma che si tratta dellultima fase di un lungo processo di cancellazione coloniale da parte dei coloni, che costituisce una Nakba continua”, o catastrofe, riferendosi alla pulizia etnica della Palestina da parte delle milizie sioniste per far posto alla creazione di Israele nel 1948.

Inadempienza

Albanese esorta gli Stati membri a imporre un embargo sulle armi a Israele “poiché è chiaro che non ha rispettato le misure vincolanti imposte dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG)”, riferendosi alle misure provvisorie emesse dalla Corte a gennaio, dopo che il Sud Africa aveva portato Israele davanti al tribunale dellAja con laccusa di genocidio contro i palestinesi.

La Corte ha ordinato a Israele, in attesa di una sua sentenza, di adottare, misure atte a prevenire azioni che rientrino nell’articolo II della Convenzione sul genocidio.

Il rapporto chiede inoltre unindagine approfondita, indipendente e trasparentesu tutte le violazioni del diritto internazionale e un piano per porre fine allo status quo illegale e insostenibile che costituisce la causa principale dellultima escalation”.

Albanese ha aggiunto che lUnrwa, lagenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, dovrebbe essere adeguatamente finanziata per affrontare la galoppante crisi umanitaria a Gaza. L’agenzia ha affermato di essere al “vicina al collasso” in seguito alla sospensione dei finanziamenti dopo che Israele ha affermato che 12 dei suoi dipendenti sarebbero coinvolti negli attacchi guidati da Hamas il 7 ottobre.

Israele ha imposto un divieto di visto ad Albanese dopo la sua affermazione su X che gli attacchi guidati da Hamas al sud di Israele sono stati una “risposta all’aggressione di Israele”.

La missione diplomatica israeliana a Ginevra ha respinto il rapporto, condannando le “accuse oltraggiose” di Albanese come “semplice continuazione di una campagna che cerca di minare la stessa istituzione dello Stato ebraico”.

La guerra di Israele è contro Hamas, non contro i civili palestinesi, ha affermato la missione in una nota.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Guerra a Gaza: mentre gli occhi sono puntati su Rafah, Israele sta consolidando il controllo del nord di Gaza

Ameer Makhoul

25 marzo 2024-Middle East Eye

Israele sta costruendo infrastrutture per dividere Gaza, impedire il ritorno dei palestinesi sfollati e cambiare la situazione geografica e demografica sul terreno.

Dopo la recente approvazione di un piano per invadere Rafah – dove sono rifugiati 1,4 milioni di palestinesi – il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la scorsa settimana che l’esercito si sta preparando ad avanzare.

Il cosiddetto gabinetto di guerra “triumvirato”, composto da Netanyahu, dal ministro della Difesa Yoav Gallant e dall’ex leader dell’opposizione Benny Gantz, aveva già raggiunto un consenso su un’incursione a Rafah per prendere il controllo del corridoio di Filadelfia (chiamato anche via di Filadelfia o asse di Saladino).

In un discorso rivolto alla lobby filo-israeliana statunitense Aipac Netanyahu ha insistito sul fatto che “la strada verso la vittoria passa attraverso Rafah”: una strategia che, secondo lui, gode di “un sostegno schiacciante” all’interno della società israeliana.

Eppure, mentre le minacce dei politici israeliani di un’imminente invasione di Rafah stanno dirigendo l’attenzione del mondo verso il sud, il governo ha accelerato i passi sul territorio nel nord di Gaza per consolidare la sua occupazione e garantirne la longevità.

Una caratteristica fondamentale della sua strategia è prevenire il ritorno dei palestinesi sfollati dal sud mentre cerca di cambiare le caratteristiche geografiche e demografiche della Striscia di Gaza.

“Occupazione permanente”

Le immagini satellitari analizzate dalla CNN mostrano che una strada costruita dall’esercito israeliano per dividere Gaza in due ha raggiunto la costa mediterranea.

Secondo il rapporto della CNN un’immagine satellitare del 6 marzo “rivela che la strada est-ovest, in costruzione da settimane, si estende ora dalla zona di confine tra Gaza e Israele per tutta la larghezza di circa 6,5 km della striscia che divide il nord di Gaza, inclusa Gaza City, dal sud dell’enclave.”

Il rapporto rileva che i militari hanno utilizzato “una grande quantità di mine ed esplosivi” per ripulire l’area. Le bombe di fabbricazione americana sono state usate per distruggere le restanti case e infrastrutture nel nord di Gaza, in particolare nell’area di Beit Hanoun, che confina con il valico di Erez.

Altre aree vicino a Gaza City, soprattutto nella periferia orientale, sono diventate parte della zona cuscinetto che Israele sta costruendo a Gaza e lungo il confine.

Nel quartiere di Zaytoun, nel mezzo di negoziati senza fine per il cessate il fuoco, l’esercito israeliano sta portando avanti un “progetto pilota” di gestione civile destinato a controllare completamente la distribuzione di cibo e altre provviste. Si basa sulla convinzione che chi controlla il cibo controlla le persone.

Questo progetto è accompagnato dal severo divieto di Israele di fornire aiuti a Gaza e dall’espulsione delle organizzazioni umanitarie dall’area, una politica che Israele cerca di estendere ad altre aree di Gaza. Israele ha specificamente preso di mira e intende a distruggere l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Unrwa, come parte dei suoi sforzi per eliminare la questione dei rifugiati e il diritto al ritorno dei palestinesi.

Le forze israeliane cercano inoltre di reclutare agenti palestinesi con i quali cooperare con il pretesto della distribuzione di cibo e aiuti. Tuttavia, in realtà puntano ad addestrare quegli agenti al mantenimento della sicurezza e trasformarli in milizie che opprimeranno i palestinesi. Queste milizie diventeranno un’estensione dell’occupazione e trarranno beneficio dal suo sistema corrotto.

In particolare la strada di nuova costruzione nella regione settentrionale frammenta la città, trasformandola in enclave residenziali isolate. La posizione della strada, che si estende fino al mare, sembra corrispondere a quella del “molo galleggiante” progettato dagli Stati Uniti, che l’amministrazione Biden ha proposto di costruire.

In realtà Israele sta sviluppando le infrastrutture per un’occupazione permanente della Striscia di Gaza in condizioni fondamentalmente diverse da quelle esistenti fino al disimpegno del 2005. Nello specifico, Gaza non sarà più considerata un’estensione della popolazione palestinese o parte della regione geografica palestinese.

L’obiettivo è piuttosto impedire il ritorno degli abitanti sfollati, mentre chi riuscirà a rientrare non troverà più nulla a cui tornare, poiché non ci sono più case, né quartieri, né città.

Questa è una dottrina in vigore sin dalla Nakba palestinese del 1948 e dalla creazione della questione dei rifugiati palestinesi, che è ancora definita come sfollamento “temporaneo”.

Reinsediamento israeliano

Israele è in procinto di ripristinare la sua occupazione di Gaza prendendo il controllo delle strade principali, dei corridoi e delle altre vie di comunicazione. Fino al suo ritiro unilaterale nel 2005 ai palestinesi era negato l’accesso a queste aree.

L’idea di dividere la Striscia di Gaza in aree accessibili agli israeliani e altre riservate ai palestinesi risale all’occupazione del 1967.

Nel 1971 Ariel Sharon, il comandante dell’esercito israeliano della regione meridionale che in seguito divenne primo ministro, preparò un piano per dividere Gaza e il Nord Sinai in cinque aree di insediamento che impedissero la contiguità geografica tra i palestinesi del nord, del centro e del sud.

Israele avrebbe circondato quest’area da nord con insediamenti e posti di blocco e da sud con un blocco di insediamenti nel deserto settentrionale del Sinai.

Sharon lo chiamò “Piano delle cinque dita” e il governo guidato da Golda Meir lo adottò integralmente nel 1972.

Il primo è il “Dito Nord”, che comprendeva un blocco di insediamenti nell’estremo nord della Striscia di Gaza – Beit Hanoun e il valico di Erez. Mirava ad espandere le propaggini di Ashkelon (Asqalan al-Burj) alle aree all’interno di Gaza.

Il secondo è il “dito di Netzarim”, che si estende tra il valico di al-Montar, o Karni, e il mare. È lungo 8 km e separa Gaza City dalla Gaza Valley e dal centro della Striscia. Prima del 2005 l’insediamento di Netzarim era situato nella parte occidentale di Gaza, lungo la costa. Attraversava al-Rashid e Salah al-Din Road, l’autostrada principale di Gaza, e si estendeva da nord a sud della striscia costituendo un punto di controllo per il porto di Gaza.

Il terzo dito è l’asse Kissufim, un insediamento vicino a Shuhada Street, che separa Deir al-Balah dalle aree centrali di Gaza fino a Khan Younis, dove è stato istituito il blocco di insediamenti Gush Katif.

Il quarto è il kibbutz Sufa tra Khan Younis e Rafah. È stato fondato nel 1974 come postazione militare nella penisola del Sinai e trasformato in una fattoria civile nel 1977. È stato progettato per estendersi fino al mare.

Il quinto dito è il blocco degli insediamenti Yamit nel nord del Sinai, alla periferia sud di Rafah, che impedisce qualsiasi contiguità geografica tra Rafah e il Sinai.

Dodici dei suoi centri abitati e un aeroporto israeliano furono annessi nel 1982 dopo l’accordo di Camp David con l’Egitto. Successivamente fu istituito il corridoio di Filadelfia (Saladin). Invadendo Rafah Israele cerca di controllare il passaggio con l’Egitto.

Vale la pena notare che la maggior parte delle “dita” vanno da est a ovest, raggiungendo il mare, per impedire la contiguità geografica nella Striscia di Gaza. L’obiettivo di Israele era isolare Gaza dal nord e dal sud in diverse aree strategiche.

Tuttavia la maggior parte dei piani “finger” non sono durati nel tempo e si sono conclusi nel 2005 quando il governo guidato da Sharon ha deciso di ritirarsi del tutto da Gaza.

In una recente escalation il consiglio di insediamento in Cisgiordania ha tenuto una conferenza popolare per reinsediare Gaza, alla quale hanno partecipato 12 ministri del Sionismo religioso e del partito Likud.

Il consiglio ha riesaminato i piani per ricostruire blocchi di insediamenti negli stessi luoghi da cui erano stati ritirati e demoliti nel 2005, in concomitanza con l’attuazione del piano di disimpegno da Gaza e dalla Cisgiordania settentrionale.

Concentrazione sugli aiuti

Le minacce di Netanyahu di prendere d’assalto Rafah e il corridoio Filadelfia sono probabilmente una tattica negoziale per fare pressione e ricattare i leader di Hamas e l’Egitto. Ciononostante gli analisti israeliani insistono sul fatto che i veri interessi strategici di Israele risiedono nel nord di Gaza e che un confronto con l’Egitto potrebbe innescare un dilemma strategico.

Ciò significa che non esiste alcuna opzione per prendere in considerazione una soluzione globale alla guerra, ma solo accordi parziali e temporanei dopo i quali la guerra continuerà – per cui Israele non si ritirerà e le famiglie sfollate non ritorneranno.

Nella migliore delle ipotesi qualsiasi discussione sul ritorno degli sfollati a Gaza sarà insignificante e non porterà al loro effettivo ritorno. Infatti prima di qualsiasi cessate il fuoco Israele avrà completato il suo sistema di controllo e consolidato la sua presenza coloniale a Gaza. In altre parole Israele non sta portando avanti una campagna militare che si concluderà con la fine di questa guerra.

Palestinesi e arabi sono troppo concentrati sui negoziati, sui colloqui di cessate il fuoco e sulle tattiche di ostruzionismo di Israele. Ciò si traduce in una corsa continua alla ricerca di dettagli che costituiscono una serie di distrazioni, mentre le azioni di Israele sul terreno rivelano chiaramente un ritorno all’occupazione totale di Gaza e alla sua distruzione come una coesa unità geografica per il suo popolo.

L’ossessione della comunità internazionale per gli aiuti umanitari, ignorando i piani a lungo termine di Israele, porterà ulteriormente allo sfollamento indefinito dei palestinesi.

Un’altra questione riguarda la proposta del “molo galleggiante”, che secondo la Casa Bianca verrà utilizzato per consegnare a Gaza due milioni di pasti al giorno. Secondo questo piano, Israele assumerà il controllo della sicurezza del porto improvvisato, in collaborazione con l’esercito americano, che non dovrà entrare a Gaza. Eppure Netanyahu ha recentemente affermato che questo bacino potrebbe aiutare a “deportare” i palestinesi da Gaza e attraverso il quale Israele potrebbe effettuare la loro espulsione di massa.

Vale anche la pena ricordare che l’ampia strada che l’esercito israeliano sta costruendo dal sud-est di Gaza City al mare è geograficamente coerente con la proposta avanzata dal ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ai leader dell’UE riguardo allo spostamento forzato dei palestinesi su un’isola artificiale.

Inoltre, la costante attenzione al nord di Gaza come regione a sé stante suggerisce la ricerca di un riconoscimento internazionale del fatto che il nord di Gaza sia separato dal sud. Stabilendo strutture separate di distribuzione degli aiuti per il nord e il sud – che saranno gestite da Israele – la comunità internazionale garantisce la continua presenza e occupazione di Gaza da parte di Israele.

Significa anche che gli aiuti umanitari americani potrebbero diventare un’estensione dell’occupazione israeliana e dei suoi meccanismi di controllo su Gaza. Questo progetto è stato elaborato anche sulla base del fatto che i sostenitori del governo Netanyahu impediscono l’ingresso di aiuti a Gaza attraverso il valico di frontiera Karem Abu Salem, o Kerem Shalom.

Discorso irrealistico

Inoltre, il discorso politico all’interno delle fazioni palestinesi è irrealistico e tratta la situazione come se le condizioni fossero le stesse precedenti il 7 ottobre e non fossero cambiate drasticamente. Affermano che i palestinesi devono semplicemente superare le loro divisioni anche se la Valle di Gaza è diventata un confine che limita il movimento dei palestinesi a Gaza, simile al muro dell’apartheid in Cisgiordania.

Il muro dell’apartheid ha cambiato drasticamente le caratteristiche politiche e geografiche della popolazione in Cisgiordania. È stato costruito sulle rovine della presenza urbana palestinese e di una popolazione che è stata sfollata con la forza e a cui è stato impedito per sempre il ritorno.

Portando avanti i suoi piani a Gaza, in particolare nel nord, Israele sta assicurando la sua occupazione duratura di Gaza. Palestinesi e arabi – così come la comunità internazionale – dovrebbero concentrare la loro attenzione sui drastici cambiamenti avvenuti nella situazione geografica e demografica sul terreno.

È necessaria una pressione araba diretta sugli Stati Uniti per costringere Israele a consentire l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza attraverso i suoi confini terrestri e a non sottostare alle condizioni del governo israeliano, poiché Gaza rimane un’area palestinese, non israeliana.

Devono inoltre assumere una posizione ferma e lanciare una massiccia campagna per fare pressione sull’amministrazione Biden affinché smetta di fornire a Israele aiuti militari e armi utilizzate per sradicare tutti gli elementi fondamentali della vita a Gaza, fornendo al contempo un’assistenza umanitaria inadeguata, che, di fatto, è priva di qualsiasi umanità.

Tale pressione esterna è necessaria poiché sia il governo Netanyahu che l’opposizione stanno bloccando tutti i passi verso una soluzione politica.

Nel frattempo, mentre consolidano la loro occupazione a Gaza, stanno sistematicamente affamando la popolazione palestinese e commettendo atti gravi che equivalgono a crimini di guerra e atti mortali di genocidio – le cui conseguenze potrebbero essere più terribili dei bombardamenti quotidiani della città e della sua gente.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Guerra a Gaza: in seguito all’astensione degli USA, l’ONU approva una risoluzione che richiede il cessate il fuoco.

Redazione di MEE

25 marzo 2024 – Middle East Eye

Per la prima volta in cinque mesi di guerra il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha votato per un cessate il fuoco a Gaza dopo che gli USA si sono astenuti anziché porre il veto

Lunedì il Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato una risoluzione che chiede un “cessate il fuoco immediato” a Gaza per il restante mese sacro musulmano del Ramadan, dopo che gli Stati Uniti si sono astenuti dal voto rinunciando a porre il veto.

La risoluzione, appoggiata da 14 nazioni tranne gli USA, chiede anche il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani detenuti a Gaza e “l’urgente necessità di aumentare il flusso” degli aiuti nell’enclave assediata.

Amar Bendjama, ambasciatore dell’Algeria all’ONU e uno dei promotori della risoluzione, si è felicitato per la svolta ed ha affermato che il Consiglio di Sicurezza “si è finalmente assunto le sue responsabilità in quanto organo principale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali”.

Questo bagno di sangue è continuato per troppo tempo”, ha detto.

Il voto di lunedì è avvenuto mentre i leader israeliani continuavano a ribadire l’intenzione di proseguire con l’offensiva sul terreno su vasta scala a Rafah, la città al confine meridionale dove attualmente sono rifugiati un milione e mezzo di palestinesi.

Dall’attacco del 7 ottobre più del 90% dei 2.300.000 abitanti di Gaza è stato sfollato e almeno 32.000 palestinesi sono stati uccisi, in maggioranza donne e bambini.

Nonostante i crescenti allarmi da parte delle agenzie umanitarie e della comunità internazionale secondo cui un assalto a Rafah sarebbe una catastrofe, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sostenuto che Israele non può raggiungere il suo obbiettivo di una “vittoria totale” contro Hamas senza aggredire la città di confine.

In seguito al voto Netanyahu ha annullato per protesta la prevista visita di una delegazione di alto livello a Washington ed ha accusato gli USA di ritrattare quella che ha detto essere stata una “posizione di principio”.

Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale israeliano Tzachi Hanegbi e il Ministro per gli Affari Strategici Ron Dermer, un importante uomo di fiducia di Netanyahu, avrebbero dovuto recarsi a Washington per ascoltare le contro-proposte americane riguardo all’offensiva su Rafah.

Subito dopo il voto il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca John Kirby ha detto ai giornalisti che l’astensione non rappresenta un “cambio nella politica” dell’amministrazione.

Non c’è ragione perché questo sia considerato una forma di escalation”, ha detto. “Nulla è cambiato nella nostra politica. Vogliamo ancora vedere un cessate il fuoco. Vogliamo ancora liberare tutti gli ostaggi. E vogliamo ancora vedere più assistenza umanitaria verso la popolazione di Gaza.”

La decisione di Washington di astenersi attesta settimane di critiche reciproche tra Israele e l’amministrazione Biden.

Da dicembre Biden e altri alti dirigenti USA hanno contestato Israele rispetto alla sua condotta nella guerra, ma il voto di lunedì segna il punto di critica più formale degli USA.

Gli USA hanno posto tre volte il veto rispetto alle richieste di cessate il fuoco. Inoltre Washington aveva bloccato anche un emendamento che chiedeva un cessate il fuoco che la Russia aveva cercato di includere in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza a dicembre.

La settimana scorsa gli USA avevano annunciato ufficialmente di essere pronti a limitare il proprio supporto a Israele, presentando una risoluzione per riconoscere “la necessità” di un “immediato e prolungato cessate il fuoco”.

Tuttavia quel testo era stato bloccato da Russia e Cina, che insieme agli Stati arabi lo hanno criticato per non aver chiesto esplicitamente che Israele fermasse la campagna contro Gaza.

Discussioni sulla risoluzione

Gli Stati Uniti hanno ipotizzato una risoluzione di cessate il fuoco fin da febbraio come strumento di pressione su Israele, essendo Washington sempre più frustrata da ciò che Biden ha definito “bombardamento indiscriminato” di Israele su Gaza e dalla mancata predisposizione di un piano post-guerra per l’enclave assediata, che l’ONU ha avvertito essere sull’orlo della carestia.

Frank Lowenstein, ex inviato speciale per i negoziati israelo-palestinesi nell’amministrazione Obama, aveva in precedenza detto a MEE che le crescenti critiche degli USA alle Nazioni Unite hanno rappresentato “un avvertimento a Bibi (il primo ministro Benjamin Netanyahu)”, aggiungendo che “gli israeliani sono molto sensibili riguardo all’ONU. Lo considerano un organismo ostile e confidano sugli USA perché li proteggano in quella sede.”

La risoluzione è dovuta al lavoro dei membri non permanenti del Consiglio, che hanno negoziato con gli Stati Uniti durante il weekend per evitare un ulteriore veto, secondo fonti diplomatiche che hanno espresso un certo ottimismo sulla sua approvazione.

Diversamente dal testo di venerdì, la richiesta di cessate il fuoco nella nuova risoluzione non è collegata ai colloqui in corso, condotti dal Qatar con il sostegno di Stati Uniti ed Egitto, per fermare il conflitto in cambio del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas.

Il nuovo testo inoltre deplora “tutti gli attacchi contro civili e obbiettivi civili come anche ogni violenza e ostilità contro civili e tutti gli atti di terrorismo”.

Israele ha criticato il Consiglio di Sicurezza per le precedenti risoluzioni che non hanno specificamente condannato Hamas.

Gli attacchi compiuti da Hamas nel sud di Israele hanno ucciso 1.200 persone ed hanno portato alla cattura di 250 ostaggi condotti a Gaza.

In risposta Israele ha lanciato una sanguinosa offensiva sull’enclave assediata che ha ridotto in macerie la maggior parte della striscia costiera mediterranea.

Un recente rapporto dell’ONU ha avvertito che la carestia è imminente nel nord di Gaza, una crisi di cui molti hanno accusato Israele per aver usato la fame come arma di guerra.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Il carattere performativo della violenza israeliana

Patrizia Cecconi

24 Marzo 2024, Comune info

I cinque mesi di violenza militare più distruttiva che Gaza abbia mai conosciuto hanno oggi il loro apice nella guerra agli ospedali. Colpire con intensità il settore sanitario per provocare un orrendo sterminio è definibile violenza performativa, cioè una violenza che non descrive né prescrive un’azione ma ne realizza di fatto il compimento. La pulizia etnica attuata oggi da Israele ma cominciata molti anni fa, le gigantesche responsabilità dei grandi media, l’ipocrisia della comunità internazionale: intervista ad Angelo Stefanini, già direttore dell’OMS per i Territori Palestinesi Occupati

Angelo Stefaninii medico, accademico, fondatore del Centro di Salute Internazionale e già direttore dell’OMS per i Territori Palestinesi Occupati, il 20 febbraio ha partecipato a un convegno a Palazzo d’Accursio a Bologna che aveva per tema il cessate il fuoco a Gaza. La Comunità ebraica e altre associazioni di italiani di religione ebraica hanno protestato vivamente perché hanno ritenuto lesiva della libertà di uccidere di Israele la richiesta di cessare il fuoco.

Il convegno si è comunque svolto e l’intervento del professor Stefanini, inerente l’ambito sanitario, è risultato pari a un pugno nello stomaco per chiunque abbia una coscienza e, con essa, una sensibilità umana e il necessario senso critico per interpretare la realtà nonostante la vergognosa manipolazione mediatica. La relazione di Stefanini aveva per titolo “Gaza: la guerra agli ospedali” e, a distanza di un mese, abbiamo deciso di intervistarlo proprio sul contenuto di quella relazione che, per quanto scioccante, risulta meno grave di quanto successo in seguito come se, avendo testato la possibilità di agire impunito, Israele avesse scientemente deciso di non avere più limiti nel procedere allo sterminio indisturbato di decine di migliaia di civili, utilizzando anche armi fornite dai paesi che, con disgustosa ipocrisia, mentre lo riforniscono di strumenti micidiali, lo invitano ad ammazzare “un po’ di meno”.

Col professor Stefanini ci siamo conosciuti alcuni anni fa proprio nella Striscia di Gaza dove, con funzioni diverse, seguivamo l’équipe cardio-chirurgica del dr. Luisi del PCRF che operava i bimbi con seri problemi cardiaci che non potevano uscire dalla Striscia di Gaza sotto l’assedio israeliano, ora sotto le bombe o sotto le macerie.

Nel tuo intervento, tra l’altro, scrivi: “Il bombardamento dell’ospedale arabo di Al-Ahli il 18 ottobre… è stato da alcuni visto come un test per sondare la risposta internazionale agli inaccettabili attacchi alla sanità di Gaza”. Il 18 ottobre erano passati appena dieci giorni dall’inizio della guerra contro la resistenza e i civili palestinesi. Credi davvero che quello sia stato un test?

Considerato che questo caso è stato seguito, il 31 ottobre, dal bombardamento dell’unico ospedale oncologico, il Turkish-Palestinian Friendship Hospital e il 10 novembre dall’ospedale specialistico pediatrico Al Rantisi, appare chiaro che questi importanti centri di cura non sono stati colpiti a caso, bensì intenzionalmente come bersaglio simbolico allo scopo di distruggere i gangli più sensibili di sopravvivenza, i più vulnerabili del sistema. La violenza nei conflitti armati contro l’assistenza sanitaria è ormai un fenomeno molto diffuso in tutto il mondo. L’anno 2022 registra il triste record di 1.989 attacchi contro strutture sanitarie, il 45 per cento in più rispetto al 2021, e il numero totale peggiore da quando la Coalizione per la tutela della salute nei conflitti ha iniziato il suo macabro conteggio. Nella Striscia di Gaza non è una novità. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nei conflitti del 2008-2009, 2012 e 2014, sono state gravemente danneggiate o distrutte più di 200 strutture sanitarie e più di 150 ambulanze, oltre 30 operatori sanitari uccisi, più di 175 feriti. Il sistema sanitario di Gaza non si è mai completamente ripreso.

Già, nella Striscia di Gaza non è una novità. Da un sondaggio approssimativo è venuto fuori che molte persone – non interessate alla Palestina, ma semplici telespettatori – hanno notato il doppio standard con cui i media trattano le due guerre al momento più considerate, con un’attenzione empatica molto forte per l’Ucraina, sia verso il popolo che verso l’esercito; mentre nei confronti di Gaza, se i cronisti mostrano empatia la mostrano solo verso gli israeliani e addirittura, mettono in dubbio lo spaventoso ammontare dei morti e dei feriti palestinesi nonostante le immagini delle distruzioni parlino da sé.

In termini comparativi, confrontando le due guerre citate, nei due mesi che vanno dal 7 ottobre al 9 dicembre 2023, gli operatori sanitari palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza sono stati 286, cioè oltre tre volte di più di quelli ucraini (78) uccisi nell’intero anno 2022. E mi sono fermato al 9 dicembre, ma sappiamo che la mattanza è continuata, e con maggiore intensità, con sanguinosi attacchi a tutti gli ospedali.

In questi giorni, quel che sta succedendo allo Shifa Hospital dovrebbe sollevare lo sdegno e l’ira di tutte le istituzioni internazionali ma queste, al contrario, o tacciono o tutt’al più pigolano. Peggio ancora fanno vari governi, tra cui quello italiano, che senza un residuo di pudore, ripetono l’inaccettabile narrazione israeliana e dichiarano il loro immutabile sostegno a Israele.

Vedi, io sono un medico e non è mio compito entrare in questioni politiche, però posso dire che a febbraio l’ultimo ospedale ancora funzionante pienamente come tale, l’ospedale Nasser, il secondo più grande nella Striscia di Gaza, è stato messo completamente fuori servizio. Un numero imprecisato di pazienti è morto per mancanza di elettricità e interruzione dei respiratori e delle incubatrici. Il portavoce del Ministero della Sanità di Gaza, ha affermato che l’ospedale è stato trasformato dall’IDF in “una caserma militare”. Nel periodo compreso tra il 7 ottobre 2023 e l’11 febbraio 2024, sono stati 30 gli ospedali messi totalmente fuori servizio; quelli minimamente funzionanti ridotti a “ambulatori di pronto soccorso”; 53 centri sanitari demoliti e 150 danneggiati; 123 ambulanze completamente distrutte; 340 operatori sanitari uccisi e 99 arrestati. Questo solo fino all’11 febbraio e oggi siamo al 22 marzo e la situazione è ancora peggiore.

Perché questo accanimento contro i servizi sanitari?

Perché gli attacchi ai servizi sanitari non solo colpiscono direttamente il personale, ma anche l’intera popolazione che dipende da loro per l’assistenza sanitaria. Sotto una pioggia di bombe, attualmente la Striscia di Gaza ospita una popolazione di ammalati e o bisognosi di cure composta da: 10.000 malati di cancro senza accesso ai farmaci, 350.000 con malattie cardiovascolari e diabete privi di farmaci; oltre 218.000, metà dei quali bambini sotto i cinque anni, con varie forme di diarrea dovuta prevalentemente alla situazione igienica e nutrizionale attuale; circa 50.000 donne incinte senza accesso all’assistenza sanitaria, circa 183 bambini che nascono ogni giorno e oltre 5.000 nati il mese scorso, tutti bisognosi di cure e nutrizione adeguate; 388.000 casi di malattie respiratorie acute, 8.000 casi di infezione da epatite virale, 55.000 con pidocchi e scabbia, 42.000 forme varie di infezioni cutanee. La violenza, inoltre, distrugge i servizi sanitari proprio nel momento in cui sono più necessari. Basti pensare alle ferite non medicate che si infettano, ai tagli cesarei e alle amputazioni senza anestetici o antidolorifici.

Un’informazione onesta dovrebbe fornire questi dati, invece le nostre TV, e parlo di TV perché è la comunicazione televisiva quella che maggiormente “crea” la pubblica opinione, evita accuratamente di farlo e qui si torna al doppio standard di cui anche i meno attenti si sono resi conto. Come si può far intendere all’opinione pubblica l’entità non solo numerica ma anche volutamente disumana di questo sterminio?

Il chirurgo della Croce Rossa Internazionale Tom Potokar così messaggiava il mese scorso dall’European Gaza Hospital di Khan Younis: “Se potessi portare qui una persona che ha dubbi, e metterla qui, e farle sentire l’odore della carne in decomposizione, vedere i vermi che strisciano dalle ferite di una persona che ha la carne necrotica e sentire le urla dei bambini perché non c’è abbastanza antidolorifici, e vogliono la loro mamma, che non c’è perché è morta – credo che le persone potrebbero pensarla un po’ diversamente”.

Il Diritto internazionale non dovrebbe impedire questo accanimento contro i servizi sanitari?

Naturalmente i servizi sanitari sono protetti dal Diritto Internazionale. Secondo la IV Convenzione di Ginevra e i Protocolli aggiuntivi, la Risoluzione 2286 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2016, l’articolo 8 dello Statuto di Roma (che ha istituito la Corte penale internazionale), le strutture e il personale sanitario non possono essere attaccati a meno che vengano utilizzate per commettere un “atto dannoso per il nemico”. In caso di dubbio, si presume che NON vengano utilizzate a tale scopo. Se pure un ospedale perdesse il suo status protetto, dice il Diritto internazionale, qualsiasi operazione militare deve adottare misure per proteggere i pazienti, il personale e gli altri civili.

Sembra che per Israele viga un diritto di eccezione anche in questo. Lo aveva già mostrato nelle aggressioni precedenti, in particolare in “margine protettivo” e in “piombo fuso” ma ora sembra aver raggiunto l’inimmaginabile, soprattutto per uno Stato che viene considerato democratico.

Secondo il chirurgo britannico-palestinese Dr Ghassan Abu Sitteh, rientrato dopo 43 giorni di sala operatoria a Gaza, e con l’esperienza professionale delle guerre precedenti, in termini quantitativi la differenza che esiste tra i precedenti attacchi israeliani a Gaza e quello in corso è quella esistente tra semplici inondazioni e uno tsunami. Nel caso attuale, inoltre, è importante notare che il bersaglio dei bombardamenti non è rappresentato da singoli, specifici edifici, ma da interi quartieri. La novità decisamente più rilevante è comunque che il riemergere della accusa israeliana ai tunnel e agli ospedali che nasconderebbero armi e centri di comando di Hamas ha reso evidente la decisione di Israele di prendere di mira il settore sanitario, comprese le ambulanze. Infatti il 3 novembre 2023 viene colpito un convoglio di ambulanze in partenza dall’ospedale al-Shifa, il più grande ospedale pubblico dell’intera Palestina occupata, con 15 persone uccise e decine ferite. L’ospedale viene in seguito circondato e bloccato e al suo interno le forze di occupazione israeliane prendono di mira le parti più critiche e vulnerabili, come l’ossigeno delle incubatrici e il sistema di riscaldamento elettrico. Il Dr. Abu Sitteh chiama questo comportamento “violenza performativa”, una violenza che “non descrive né prescrive un’azione ma ne realizza effettivamente il compimento”, e che lancia un messaggio scioccante su quanto Israele intende fare. I corpi dei bambini prematuri tenuti in mostra di proposito, privati della protezione salvavita delle incubatrici, hanno lo stesso significato: fanno parte del carattere performativo della violenza israeliana.

Questa “violenza performativa” quindi rappresenta una disumanità non casuale o mezzo militare necessario, ma una crudeltà preordinata e già fine in sé stessa?

Chi sta sul campo, come il dr. Abu Sitteh, ritiene che sia così. Esaminiamo ad esempio il tipo di ferite, è un aspetto che merita approfondimento e non soltanto dal punto di vista medico perché le ferite che gli operatori sanitari incontrano quotidianamente aiutano a far luce sul genere di violenza che colpisce la popolazione di Gaza.

Ustioni estese oltre il 50% della superficie corporea con assenza significativa di altre ferite, che indicano l’uso di bombe incendiarie senza frammenti o schegge, un tipo di arma ideata per incendiare o distruggere con il fuoco.

Ustioni da fosforo bianco molto distintive perché caratterizzate da ferite che sprigionano del fumo bianco. Il fosforo bianco è un combustibile solido che in presenza di ossigeno prende fuoco spontaneamente; si spegne solo quando è privato totalmente di ossigeno o se è consumato del tutto. A contatto con pelle esposta, produce ustioni chimiche dolenti necrotiche, a tutto spessore, dovute alle due componenti, la chimica e la termica. Poiché il fosforo bianco ha un’elevata solubilità nei grassi, le ferite si estendono spesso in profondità nei tessuti sottostanti, con il risultato, quando non di lenta morte, di un ritardo nella guarigione della ferita. Il fosforo bianco può essere anche assorbito da tutto il corpo, con effetti sistemici su sangue, reni, fegato e cuore.

Orribili amputazioni, come da ghigliottina, dovute alle bombe sperimentate e utilizzate per la prima volta sull’Al-Ahli Hospital, una nuova generazione di missili R9X Hellfire di produzione statunitense noti anche come “Ninja missile” munito di lame rotanti che vengono scagliate tutto intorno al momento dell’esplosione.

Quindi se all’ospedale Al Ahli, sono state usate queste armi, la controversia sulla responsabilità del bombardamento di quel primo ospedale dovrebbe essere chiarita e l’ipotesi che sia stato un test prende ancora più forma.

Il fatto incontestabile è che colpire il settore sanitario con tale intensità e risonanza emotiva fa supporre l’esistenza di una strategia volta a smantellare tutte le necessità della vita e, per alcuni, è la dimostrazione dell’intenzione genocidaria di chi la persegue. Dalla distruzione dei sistemi fognari, degli impianti di desalinizzazione dell’acqua, degli impianti di energia solare e dei panifici, al prendere di mira ambulanze ed équipe mediche, l’uccisione intenzionale di centinaia di medici, paramedici e infermieri, questi attacchi contribuiscono agli sforzi israeliani volti a infliggere un disastro di un tale impatto da portare avanti il progetto di pulizia etnica anche dopo la fine della guerra. Si tratta di una vera e propria guerra psicologica attraverso le sofferenze dei corpi, è la psy war o, più comunemente, propaganda, ossia “un’azione praticata con metodi psicologici per evocare in altre persone una predeterminata reazione psicologica”. La distruzione di strutture essenziali può avere un impatto devastante sul morale e lo stato d’animo della popolazione.

Quindi anche il diffondersi di malattie può rappresentare una strategia voluta?

Per secoli le malattie hanno avuto un importante ruolo nella guerra; le organizzazioni internazionali stanno cercando di lanciare l’allarme su questa situazione. L’Unicef ha avvertito: “La mancanza di acqua, cibo, medicine e protezione è una minaccia più grande delle bombe per la vita di migliaia di persone a Gaza”. La portavoce dell’OMS ha avvertito che i tassi di diarrea tra i bambini, già all’inizio di novembre, erano più di cento volte i livelli normali. Il 16 febbraio, l’UNFPA ha evidenziato che in tutta Gaza sono stati segnalati 500.000 casi di malattie trasmissibili, tra cui meningite e diarrea acuta. Sottolineando gli immensi rischi che corrono le donne incinte a Gaza, l’UNFPA ha avvertito: “Se le bombe non uccidono le donne incinte, se le malattie, la fame e la disidratazione non le raggiungono, il semplice parto potrebbe farlo”.

Ci si aspetta una forte crescita del tasso di mortalità?

Si stima che i tassi grezzi di mortalità (cioè il numero di morti ogni 1.000 persone per anno) sono in media più di 60 volte più alti rispetto a quando è iniziato ogni conflitto. Estrapolando questo dato alla situazione attuale a Gaza, dove il tasso di mortalità prima del conflitto era di 3,82 per mille nel 2021 (relativamente basso a causa della sua giovane popolazione), i tassi di mortalità potrebbero raggiungere 230 per mille nel 2024 se gli abitanti di Gaza continuano a non avere accesso a servizi igienico-sanitari, strutture mediche e alloggi permanenti. Insomma, ci troviamo di fronte alla prospettiva che quasi un quarto dei circa 2 milioni di abitanti di Gaza – quasi mezzo milione di esseri umani con un proprio nome, un proprio volto, una propria storia – muoia entro un anno. Si tratterebbe di un “eccesso in mortalità” in gran parte dovuto a cause sanitarie prevenibili e al collasso del sistema sanitario. Secondo la Prof Devi Sridhar dell’Università di Edimburgo, “Si tratta di una stima approssimativa, ma basata sui dati, che utilizza il numero spaventosamente reale di morti in conflitti precedenti e comparabili”. Il deliberato attacco alle infrastrutture sanitarie, la scarsità di forniture mediche e di carburante e il mancato accesso ai beni di prima necessità (tra cui acqua, cibo e aiuti vitali) sono tutti mezzi attraverso i quali l’annientamento dell’intero sistema sanitario di Gaza viene utilizzato come arma di guerra per amplificare la portata delle perdite umane inflitte ai civili nella Striscia. Non solo, ma questa guerra dimostra il sostegnodella società israeliana a una “soluzione finale” per la questione palestinese, prima provocando morte edistruzione, poi sfollando i sopravvissuti, quello che secondo la Corte Internazionale di Giustizia potrebbeconfigurarsi come genocidio.

Un genocidio, o un orrendo sterminio di civili attuato con un comportamento definibile violenza performativa esercitata su un popolo che chiede il suo diritto all’autoderminazione?

Sì, sono i fatti a dimostrarlo.

i Medico, ha lavorato per anni con ONG in Africa. Ha insegnato alle università di Leeds (UK), Makerere (Uganda) e Bologna, dove ha fondato il Centro di Salute Internazionale (CSI). Nella Palestina occupata è stato direttore dell’OMS (2002) e del programma sanitario italiano (2008-2011). Dal 2015, come volontario di PCRF (Palestinian Children’s Relief Fund), fino all’agosto 2023 ha compiuto missioni periodiche nella Striscia di Gaza collaborando al rafforzamento del sistema sanitario locale.




A 5 mesi dall’inizio della guerra gli abitanti sia della Cisgiordania che di Gaza giustificano l’attacco di Hamas

Amira Hass

24 marzo 2024 – Haaretz

Un sondaggio palestinese mostra un forte aumento del sostegno agli attacchi tra i gazawi, al 71% rispetto al 57% di tre mesi fa.

Secondo un nuovo sondaggio, più di cinque mesi dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, accompagnata da pesanti restrizioni negli spostamenti e da arresti di massa in Cisgiordania, il sostegno dei palestinesi agli attacchi del 7 ottobre rimane alto e tra gli abitanti di Gaza è persino aumentato.

Il sondaggio, realizzato all’inizio di questo mese dal Centro Palestinese per la Ricerca di Politica e Sondaggi, ha anche rilevato che la maggioranza dei palestinesi non crede ancora che Hamas abbia perpetrato atrocità durante l’attacco.

Molti affermano anche di non aver visto immagini dell’attacco. A quanto pare, contrariamente alle aspettative israeliane, non vedono in Hamas il responsabile delle loro sofferenze e non lo puniscono riducendo il loro appoggio.

Ben il 71% degli intervistati gazawi sostiene che la decisione di Hamas di attuare l’attacco del 7 ottobre è stata corretta. Ciò rispetto al 57% del sondaggio precedente, condotto a dicembre. Solo il 23% ritiene sbagliata la decisione.

Un identico 71% degli abitanti della Cisgiordania la definisce corretta, anche se in calo rispetto all’82% di dicembre. Solo il 16% di chi ha risposto in Cisgiordania la ritiene sbagliata.

I ricercatori hanno intervistato 1.580 abitanti della Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) e di Gaza tra il 5 e il 10 marzo. Per garantire la sicurezza dei ricercatori il sondaggio a Gaza è stato realizzato solo nelle aree in cui non erano in corso combattimenti, ossia Rafah, la parte centrale di Gaza e alcune zone di Khan Younis. Nessuna intervista è stata realizzata nel nord di Gaza doppiamente assediato.

Il dottor Khalil Shikaki, direttore del centro di ricerca e che ha supervisionato il sondaggio, ha affermato che il continuo appoggio all’attacco di Hamas in parte deriva dall’opinione che la guerra abbia rinnovato l’interesse internazionale per la causa palestinese. Tre quarti di chi ha risposto al sondaggio ha detto che ciò “potrebbe portare a un maggior riconoscimento del diritto a uno Stato palestinese.”

Ben il 62% dei gazawi che hanno risposto ha manifestato appoggio per la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, quasi il doppio del 35% che ha detto lo stesso in dicembre. Invece in Cisgiordania l’appoggio a questa soluzione del conflitto è rimasto praticamente lo stesso, al 34%. L’approvazione per l’idea di uno Stato unico per entrambi i popoli è stata del 24%, in lieve calo rispetto al 29% di dicembre.

Una netta maggioranza di chi ha risposto ha manifestato gradimento dall’inizio della guerra nei confronti sia di Hamas che del suo leader a Gaza, Yahya Sinwar. Ma la percentuale è più alta in Cisgiordania, rispettivamente al 75% e al 68%, che a Gaza, dove sono del 62% e del 52%.

Al contrario pochi palestinesi sono soddisfatti del comportamento del presidente palestinese Mahmoud Abbas e del suo partito, Fatah. In Cisgiordania solo il 24% è contento di Fatah e solo l’8% di Abbas. A Gaza le percentuali sono rispettivamente del 32% e del 22%.

La stragrande maggioranza, il 93% in Cisgiordania e il 71 % a Gaza, vuole le dimissioni di Abbas. Inoltre circa i due terzi degli intervistati in Cisgiordania e metà di quelli di Gaza hanno affermato che dopo la fine della guerra vorrebbero vedere il ritorno del controllo di Hamas su Gaza. Questi superano di gran lunga lo scarso 10% che vorrebbe che l’Autorità Nazionale Palestinese (con o senza Abbas) controlli Gaza.

Ma quando gli viene chiesto del loro sostegno ai partiti politici e come voterebbero nelle prossime elezioni, il quadro è più complesso. Sia a Gaza che in Cisgiordania poco più di un terzo (il 35%) afferma di appoggiare Hamas, con un calo di circa 10 punti percentuali rispetto a dicembre. Più o meno un quarto dei gazawi e il 12% in Cisgiordania ha affermato di appoggiare Fatah.

Inoltre la percentuale di intervistati che voterebbero effettivamente per Hamas è scesa. In Cisgiordania è al 26%, in calo rispetto al 31% di dicembre, mentre a Gaza è al 35%, contro il precedente 41%. Un altro 20% di abitanti di Gaza e 9% della Cisgiordania ha affermato che voterebbe per Fatah.

Tuttavia la scelta più popolare per rimpiazzare Abbas come presidente rimane Marwan Barghouti, l’importante dirigente di Fatah che attualmente sta scontando molteplici condanne all’ergastolo in Israele per omicidio. (Nel 2003 Barghouti ha ricusato l’autorità giuridica del tribunale israeliano su di lui e non ha collaborato durante il processo).

Un totale del 40% di intervistati ha affermato che preferirebbe vederlo come presidente rispetto al 19% che preferirebbe il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e il 10% che preferirebbe Sinwar.

L’appoggio al ritorno al potere di Hamas a Gaza può essere interpretato come una risposta politica e persino emotiva alle dichiarazioni israeliane riguardo all’eliminazione del suo dominio lì, soprattutto mentre la guerra prosegue. Eppure, come mostrano i risultati del sondaggio, se le elezioni si tenessero oggi e Hamas e i suoi principali dirigenti si presentassero non è chiaro se vincerebbero.

Le opinioni sui loro vicini

Circa metà degli intervistati in Cisgiordania prevede che se l’esercito israeliano lancerà un’operazione di terra a Rafah gli abitanti della città e gli sfollati che vi si ammassano cercheranno di fuggire in Egitto. Per contro la pensa così solo il 24% degli intervistati di Gaza. Questa differenza riflette la percezione dei gazawi di essere assediati senza vie di fuga, il che è difficile da capire per persone che vivono fuori dal territorio.

Questa disperazione è stata espressa anche in risposte alla domanda riguardo alle possibilità di un cessate il fuoco. Circa metà degli intervistati in Cisgiordania ha affermato di essere ottimista che un accordo di cessate il fuoco verrà firmato presto, rispetto a poco più di un quarto di gazawi, meno del 38% degli abitanti di Gaza, che si aspetta che la guerra continuerà.

In totale il 60% degli intervistati gazawi ha affermato che un membro della propria famiglia è stato ucciso durante la guerra, mentre il 68% ha detto che un familiare è rimasto ferito. Questa domanda non riflette il fatto che la grande maggioranza di queste famiglie ha avuto più di un parente ucciso o ferito.

Agli intervistati di Gaza è stato chiesto se cercherebbero rifugio sul lato egiziano della frontiera nel vedere gente che cercasse di attraversarla e la barriera divisoria crollata. Circa il 69% ha risposto negativamente e un quarto positivamente.

Il dottor Shikaki presume che questa bassa percentuale sia relativa al fatto che il 68% degli intervistati a Gaza si aspetta che l’esercito e la polizia egiziani aprirebbero il fuoco contro i palestinesi che tentassero di sfondare la linea di confine. Anche molte persone in Cisgiordania, il 55% degli intervistati, pensa che le forze di sicurezza egiziane lo farebbero. Il fatto che il 61% di chi ha risposto ritenga in entrambe le aree che le forze di sicurezza di un Paese arabo aprirebbero il fuoco contro altri civili arabi che fuggono da un’invasione di terra israeliana corrisponde all’atteggiamento amaro nei confronti dell’Egitto.

Questa amarezza si nota anche in altre risposte. Quando viene chiesto di quantificare il gradimento nei confronti di altri Paesi della regione, l’Egitto ottiene il punteggio più basso: solo il 12% degli intervistati ha affermato si essere contento delle iniziative del Paese, in netto calo rispetto al 23% del precedente sondaggio, a dicembre.

Anche qui spicca la differenza tra le due zone. Comunque il 23% degli abitanti di Gaza ha affermato di essere soddisfatto delle azioni dell’Egitto rispetto al 5% di quelli della Cisgiordania. L’Egitto è visto come un complice di Israele e un alleato nell’assedio imposto a Gaza, non come una parte che sta contribuendo a impedire a Israele di realizzare la sua ambizione di destra di espellere i palestinesi da Gaza.

La consapevolezza del fatto che l’Egitto consente la partenza di migliaia di persone in cambio di cospicue bustarelle pagate a persone legate all’apparato di sicurezza egiziano non cessa di scioccare l’opinione pubblica palestinese.

Lo Yemen ottiene il gradimento maggiore, l’88% tra gli intervistati della Cisgiordania e il 75% tra quelli di Gaza. Non è difficile immaginare che ciò sia legato al fatto che gli houthi si sono uniti agli “sforzi bellici” lanciando missili contro navi nel sud del Mar Rosso.

Al secondo posto, anche se molto dietro lo Yemen, c’è il Qatar: il 49% degli intervistati della Cisgiordania e il 67% a Gaza sono soddisfatti. È seguito da Hezbollah, Iran e Giordania. Cosa interessante, anche qui sono gli intervistati di Gaza ad essere più soddisfatti di questi due Paesi.

La Russia guida la lista degli Stati non arabi che conquistano il gradimento dei palestinesi, ma di meno di un quarto: il 17% in Cisgiordania e il 28% a Gaza. L’11% dei gazawi e il 7% degli abitanti della Cisgiordania hanno espresso il proprio gradimento nei confronti dell’ONU. Come c’era da aspettarsi, solo l’1% esprime un’opinione simile riguardo agli USA.

Benché il testo della domanda sul gradimento non ne citi le ragioni, sembra che l’appoggio o meno degli attori regionali e internazionali ad Hamas possa spiegare l’atteggiamento palestinese nei loro confronti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Facoltà dell’Università Ebraica in Scienze della Repressione

Orly Noy

23 marzo 2024 – +972 magazine

La sospensione della docente palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian svuota di ogni significato i valori di pluralismo e uguaglianza proclamati dall’università.

Un’università che promuove diversità e inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza.” Queste sono alcune delle parole usate dall’Università Ebraica di Gerusalemme, una delle migliori istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione. Ma l’università non sembra aver avuto alcun problema a gettare dalla finestra tali valori quando la scorsa settimana ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’eminente studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.

La scandalosa decisione, presa senza la corretta procedura, è arrivata subito dopo il podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street in cui aveva esposto le sue opinioni critiche contro il sionismo, l’attacco israeliano contro Gaza e gli opinabili precedenti dello Stato riguardo ad affermazioni su avvenimenti relative alla guerra. Ma la studiosa è sotto osservazione da parte dell’università da mesi (anzi da anni), specialmente dopo che ha firmato una petizione alla fine di ottobre in cui chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio.” Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, deve “trovare un’altra casa accademica allineata con le sue posizioni.”

Indubbiamente la sospensione svuota di ogni significato alcuni corsi “illuminati” che offre. Anzi cosa può insegnare ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato Democratico” un’università che sospende un decano della facoltà senza una discussione? Cosa può insegnare su “libertà, cittadinanza e genere” un’istituzione accademica che si allinea con i sentimenti più estremi e aggressivi? Cosa può insegnare su “Diritti umani, femminismo e cambiamenti sociali” un’istituzione che zittisce e bullizza brutalmente la voce critica di una donna, una docente e un’appartenente a una minoranza perseguitata?

In una dichiarazione in cui parecchi anni fa presentava la sua visione dell’istituzione accademica il preside dell’università, il professor Asher Cohen, che con il rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian, sostiene che l’università ha “guidato un processo di inclusione di popolazioni che compongono la società israeliana. Noi crediamo in un campus diversificato, pluralistico e ugualitario, dove utenti di diverse formazioni possono familiarizzarsi con i valori della coesistenza.” Queste sono parolone da parte di chi sembra incapace di prendere in considerazione voci politiche critiche che differiscono dalle sue.

Nella stessa dichiarazione Cohen si gloria della profonda responsabilità dell’università “per la società israeliana e specialmente per Gerusalemme.” Questa è la stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove ogni giorno oltre 350.000 palestinesi sono oppressi, le loro case sono demolite e i loro bambini strappati dal letto nel cuore della notte e arrestati arbitrariamente senza che nessuno dei capoccioni nella torre d’avorio di Cohen pronunci una sola parola su di loro.

C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus del Monte Scopus, che affrontano un’occupazione delle loro terre e proprietà da parte dei coloni appoggiati dallo Stato. Ma è particolarmente incredibile che l’Università Ebraica non abbia mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione contro il villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza. È possibile che nelle sere che Cohen passa nel suo ufficio non riesca a sentire proprio sotto la sua finestra i rumori degli spari della polizia israeliana che da tempo sono la colonna sonora del villaggio?

Se solo il grande peccato (e lo è davvero) dell’Università Ebraica fosse l’inconsapevolezza! La sospensione di Shalhoub-Kevorkian va ad aggiungersi a una lunga lista di persecuzioni politiche e indottrinamento militaristico promossi dall’istituzione nel corso degli anni.

Dopo tutto questa è la stessa università che nel gennaio 2019 ha assecondato una violenta campagna di incitamento condotta da un gruppo di studenti di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che lei aveva redarguito uno studente per essere arrivato al campus in uniforme militare. Invece di difenderla dalle false accuse l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l’“incidente.” Questa è la stessa università che, nonostante le proteste di studenti e docenti, solo pochi mesi dopo ha scelto di trasformare il campus praticamente in un piccolo campo militare ospitando corsi dell’unità di intelligence dell’esercito israeliano, una delle molte redditizie collaborazioni con l’esercito.

Questa è la stessa università che ha ripetutamente perseguitato e zittito organi studenteschi palestinesi, mentre conferisce crediti accademici a studenti che fanno i volontari per il gruppo di estrema destra Im Tirtzu. E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla di come Israele abbia sistematicamente distrutto le scuole e le istituzioni di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i colleghi di Gaza assediati, bombardati e affamati, ma i principi dell’accademia stessa.

Spiegando la loro decisione in una lettera alla parlamentare Sharren Haskel, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato Shalhoub-Kevorkian di esprimersi in un modo “vergognoso, antisionista e provocatorio” dall’inizio della guerra, deridendola per aver definito genocidio le politiche di Israele a Gaza. Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano un genocidio la catastrofe a Gaza, ma anche la Corte Internazionale di Giustizia, il massimo tribunale al mondo, ha preso seriamente questa pesante accusa e deliberato che non la si può semplicemente ignorare.

È come se Cohen e Sheafer fossero sorpresi non solo di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche antisionista, non sia mai! Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università i suoi dirigenti sarebbero obbligati a informare ogni docente e studente prima che ne varchino i cancelli. Non sbaglieremmo nel dire che, a parte limiti legali, la ragione è che l’Università Ebraica beneficia della presenza dei palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, progressismo e inclusione. Intanto può continuare a perseguitare quei palestinesi a casa, lontano dagli occhi del mondo.

Questa vergognosa iniziativa sta già echeggiando clamorosamente nel mondo accademico e nei media a livello globale, bollando l’Università Ebraica con la vergogna che si merita. Nel frattempo il solo corso appropriato che riesco a trovare nel modulo dell’università è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche: Macchiavelli, il filosofo della tirannide.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)