Il ministro della Giustizia critica l’Alta Corte israeliana, dice che ignora il sionismo e la difesa della maggioranza ebraica

Revital Hovel

29 agosto 2017, Haaretz

Ayelet Shaked sostiene che il sistema giuridico israeliano assegna un’importanza eccessiva ai diritti individuali, definendo la legge sullo Stato-Nazione una “rivoluzione morale e politica”.

Martedì il ministro della Giustizia Ayelet Shaked ha criticato la Corte Suprema, affermando che il sistema giudiziario non prende sufficientemente in considerazione il sionismo e la maggioranza ebraica del Paese.

Parlando durante una conferenza dell’ordine degli avvocati israeliani a Tel Aviv, Shaked ha detto che il sionismo e “le sfide nazionali sono diventati una zona d’ombra legale” che non hanno un peso determinante rispetto alle questioni dei diritti individuali. Ha aggiunto che le decisioni della corte non prendono in considerazione la questione demografica e che la maggioranza ebraica “ha un valore che dovrebbe essere tenuto in conto.”

Le osservazioni di Shaked sono arrivate il giorno dopo che la Corte Suprema, nelle vesti di Alta Corte di Giustizia, ha deciso che i richiedenti asilo possono essere deportati in Rwanda e in Uganda, ma non possono essere incarcerati per più di due mesi se rifiutano di andarsene.

Il sionismo non può continuare, e lo affermo in questa sede, non continuerà ad inchinarsi al sistema dei diritti individuali interpretati in un modo universalistico che li separa dalla storia della Knesset [il parlamento israeliano. Ndt.] e dalla storia della legislazione che tutti noi conosciamo,“ ha detto Shaked al suo pubblico, che includeva il procuratore generale Avichai Mendelblit, la presidentessa della Corte Suprema Miriam Maor, il procuratore di Stato Shai Nitzan e l’avvocato generale militare, generale Sharon Afek.

Il discorso di Shaked è stato momentaneamente interrotto quando alcuni avvocati tra il pubblico hanno urlato che quello israeliano è uno Stato dell’apartheid.

Il ministro ha detto anche che la legge sullo Stato-Nazione presentata ora dal governo sarà una “rivoluzione morale e politica”. La controversa legge sostiene che Israele è “la patria del popolo ebraico” e che il diritto a realizzare l’autodeterminazione nello Stato è solo suo [del popolo ebraico].

Shaked ha detto che le sentenze della corte riflettono un atteggiamento secondo il quale “la questione della maggioranza ebraica non è comunque rilevante.” Riguardo alla decisione dell’Alta Corte ha aggiunto: “Non è importante quando stiamo parlando di infiltrati dall’Africa che si sono stabiliti nel sud di Tel Aviv ed hanno formato una città nella città, espellendo gli abitanti dai quartieri e la risposta del sistema giudiziario in Israele è di bocciare in continuazione la legge che intende affrontare la questione.”

Riguardo alla maggioranza ebraica, Shaked ha anche citato l’aumento della popolazione ebraica in Galilea.

Shaked ha detto di considerare importante il sistema dei diritti individuali ma “non quando è slegato dal contesto, dai nostri compiti nazionali, dalla nostra identità, dalla nostra storia, dalle nostre sfide sioniste.”

Ha aggiunto che “a partire dalla rivoluzione dei diritti abbiamo smesso di vedere noi stessi come una comunità.”

Riguardo alla legge sullo Stato-Nazione, Shaked ha detto che quelli che vi si oppongono “credono che una Legge fondamentale che dia la preminenza ai nostri valori nazionali e sionisti ci renderà meno democratici. Io, al contrario, vedo i diritti individuali che la Knesset ha riconosciuto come una verità assoluta, così come anche i nostri valori nazionali e sionisti.”

Ha aggiunto: “Solo una rivoluzione morale e politica, sulla linea di quella che abbiamo sperimentato negli anni ’90, che riconfermerà i principali risultati del sionismo fin dalla sua concezione, cambierà questa tendenza problematica.” Il ministro ha affermato che questa tendenza ha portato ad una “interpretazione giuridica che ha trasformato la nostra unicità nazionale in un simbolo e un vascello vuoti.”

Rispondendo alle affermazioni di Shaked, il leader dell’opposizione nella Knesset, il parlamentare dell’ “Unione sionista” Isaac Herzog ha detto: “Di fronte ad un governo che sta ignorando gli orfani, i disabili, gli stranieri e le vedove, abbiamo bisogno di un forte sistema giudiziario che non si mostri di parte. I partiti della coalizione [di governo] dovrebbero togliersi dalla testa la rivoluzione di Shaked, per il bene del popolo nel suo complesso.”

La dirigente della corrente “Hatnuah” dell’ “Unione sionista”, Tzipi Livni, ha detto: “Il sionismo non si sta inchinando ai diritti umani. Sta tenendo orgogliosamente la testa alta, perché la protezione (dei diritti umani) è anche l’essenza dell’ebraismo e parte dei valori di Israele in quanto Stato ebraico e democratico.”

In risposta alla decisione di lunedì sui richiedenti asilo, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro dell’Interno Arye Dery, insieme a Shaked, hanno chiesto norme che consentano la deportazione dei richiedenti asilo contro la loro volontà. Il ministro della Sicurezza Pubblica Gilad Erdan ha criticato la sentenza della Corte Suprema, affermando che rende nulla la sua decisione, quando era ministro dell’Interno, “di mettere in pratica la politica di espulsione verso un Paese terzo e priva lo Stato di un efficace strumento per espellere infiltrati.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Ripensare la nostra definizione di apartheid: non solo un regime politico

27 agosto 2017, Al-Shabaka

Haidar Eid, Andy Clarno

Sintesi

Poiché Israele intensifica il suo progetto di insediamenti coloniali, l’apartheid è diventato un quadro di riferimento sempre più importante per comprendere e contrastare il ruolo di Israele nella Palestina storica. Sicuramente, Nadia Hijab e Ingrid Jaradat Gassner sono convincenti nella loro affermazione che l’apartheid è la cornice analitica più strategica. Nel marzo 2017 la Commissione Economica e Sociale per l’Asia occidentale dell’ONU (ESCWA) ha pubblicato un possente rapporto che documenta le violazioni israeliane del diritto internazionale e conclude che Israele ha instaurato un “regime di apartheid” che opprime e domina l’intero popolo palestinese.

In base al diritto internazionale, l’apartheid è un crimine contro l’umanità e gli Stati possono essere resi responsabili delle proprie azioni. Tuttavia il diritto internazionale ha i suoi limiti. Un problema specifico riguarda ciò che manca nella definizione giuridica internazionale di apartheid. Poiché la definizione si incentra solamente sul regime politico, non fornisce una solida base per criticare gli aspetti economici dell’apartheid. Per affrontare questo problema, proponiamo una definizione alternativa di apartheid, che si è affermata durante la lotta in Sudafrica negli anni ’80 ed ha ottenuto consenso tra i militanti, a causa dei limiti della decolonizzazione in Sudafrica dopo il 1994 – una definizione che riconosce l’apartheid come strettamente connesso al capitalismo.

Questo documento politico esplicita in dettaglio ciò che il movimento di liberazione della Palestina può apprendere dalla situazione del Sudafrica, riconoscendo in particolare l’apartheid sia come sistema di discriminazione razziale legalizzata che come sistema di capitalismo basato sulla razza. Esso si conclude con dei suggerimenti su come i palestinesi possono contrastare questo doppio sistema per ottenere una pace giusta e duratura fondata sull’uguaglianza sociale ed economica.

La forza ed i limiti del diritto internazionale

La Convenzione Internazionale dell’ONU sull’eliminazione e la punizione del crimine di apartheid definisce l’apartheid come un crimine che implica “atti inumani compiuti al fine di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su ogni altro gruppo razziale di persone ed opprimerle sistematicamente.” Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale definisce l’apartheid come un crimine che implica “un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica da parte di un gruppo razziale su un altro o altri gruppi razziali.”

Sulla base di un’accurata lettura di questi statuti, il rapporto ESCWA analizza la politica israeliana in quattro ambiti. Documenta la discriminazione legale formale contro i palestinesi cittadini di Israele; il doppio sistema giuridico nei Territori Palestinesi Occupati (TPO); i fragili diritti di residenza dei palestinesi di Gerusalemme; il rifiuto israeliano di permettere ai rifugiati palestinesi di esercitare il diritto al ritorno. Il rapporto conclude che il regime di apartheid israeliano agisce attuando una frammentazione del popolo palestinese e il suo assoggettamento a differenti forme di dominio razziale.

La forza dell’analisi dell’apartheid è risultata evidente dal modo in cui gli USA ed Israele hanno reagito al rapporto. L’ambasciatore degli Stati Uniti all’ONU ha denunciato il rapporto e ha sollecitato il Segretario Generale ONU a respingerlo. Il Segretario generale ha fatto pressione su Rima Khalaf, capo dell’ESCWA, perché cancellasse il rapporto. Rifiutando di farlo, lei si è dimessa dal suo incarico.

L’importanza del rapporto ESCWA non può essere sopravvalutata. Per la prima volta un organismo dell’ONU ha affrontato formalmente la questione dell’apartheid in Palestina/Israele. Ed il rapporto ha preso in considerazione le politiche israeliane verso i palestinesi nel loro insieme, anziché incentrarsi su una parte della popolazione. Sollecitando gli Stati membri e le organizzazioni della società civile a far pressione su Israele, il rapporto ONU dimostra anche l’utilità del diritto internazionale come strumento per rendere responsabili regimi come Israele.

Tuttavia, pur riconoscendo l’importanza del diritto internazionale, formula delle critiche evidenziando i suoi limiti. Anzitutto, le leggi internazionali sono valide solo quando recepite ed applicate dagli Stati e la struttura gerarchica del sistema prevede un gruppo di Stati con potere di veto. La rapida cancellazione del rapporto ESCWA ha reso evidenti questi limiti. Inoltre c’è un problema più specifico relativamente alla definizione internazionale dell’apartheid come sopra riportata. Incentrandosi soltanto sul regime politico, la definizione giuridica non fornisce una solida base di critica agli aspetti economici dell’apartheid e sicuramente spiana la strada ad un futuro post-apartheid in cui prevale la discriminazione economica.

Il capitalismo su base razziale e i limiti della liberazione del Sudafrica

Negli anni ’70 e ’80 i neri sudafricani si impegnarono in vivaci dibattiti sul come interpretare il sistema di apartheid contro cui combattevano. Il gruppo più potente all’interno del movimento di liberazione – l’African National Congress (ANC) ed i suoi alleati – sosteneva che l’apartheid fosse un sistema di dominazione razziale e che la lotta dovesse concentrarsi sull’eliminazione delle politiche razziali e sulla richiesta di uguaglianza in base alla legge. I neri radicali rifiutavano questa analisi. Il dialogo tra il Movimento della Coscienza Nera ed i marxisti indipendenti portò ad una definizione alternativa di apartheid come sistema di “capitalismo sulla base della razza”. I neri radicali insistevano che la lotta dovesse affrontare contemporaneamente lo Stato ed il sistema capitalistico su base razziale. Prevedevano che, se non fossero stati combattuti sia il razzismo che il capitalismo, il Sudafrica del dopo apartheid sarebbe rimasto diviso e iniquo.

La transizione degli ultimi 20 anni ha dato ragione a questa tesi. Nel 1994 l’apartheid legale fu abolito e i neri sudafricani hanno conquistato l’uguaglianza per legge – compreso il diritto al voto, a vivere in qualunque luogo ed a spostarsi senza permessi. La democratizzazione dello Stato è stata una notevole conquista. Certo, la transizione sudafricana dimostra la possibilità di coesistenza pacifica sulla base dell’uguaglianza giuridica e del reciproco riconoscimento. Questo è ciò che rende il Sudafrica così convincente per molti palestinesi e alcuni israeliani che cercano un’alternativa alla frammentazione ed al fallimento di Oslo.

Nonostante la democratizzazione dello Stato, la transizione sudafricana non ha preso in considerazione le strutture del capitalismo sulla base della razza. Nel corso dei negoziati, l’ANC fece importanti concessioni per ottenere l’appoggio dei bianchi sudafricani e dell’elite capitalista. Soprattutto, l’ANC accettò di non nazionalizzare la terra, le banche e le miniere ed invece accettò garanzie costituzionali per la distribuzione della proprietà privata vigente – nonostante la storia di spoliazione coloniale. Inoltre il governo dell’ANC adottò una strategia economica neoliberista, promuovendo il libero commercio, l’industria per l’esportazione e la privatizzazione delle imprese statali e dei servizi municipali. Il risultato è che il Sudafrica post-apartheid è uno dei Paesi più ineguali al mondo.

La ristrutturazione neoliberista ha fatto emergere una piccola élite nera ed una crescente classe media nera in alcune parti del Paese. Ma la vecchia élite bianca controlla ancora la gran maggioranza della terra e della ricchezza in Sudafrica. La deindustrializzazione e la quota crescente di popolazione costretta a contare su lavori precari ha indebolito il movimento dei lavoratori, intensificato lo sfruttamento della classe lavoratrice nera e prodotto una crescente sovrappopolazione su base razziale che soffre di una permanente disoccupazione strutturale. Il tasso di disoccupazione raggiunge il 35%, se si includono coloro che hanno rinunciato a cercare lavoro. In certe zone il tasso di disoccupazione supera il 60% ed i lavori disponibili sono precari, a breve termine e a bassi salari. (1)

I neri poveri si confrontano anche con una grave carenza di terre e di abitazioni. Invece di ridistribuire le terre, il governo dell’ANC ha adottato un programma basato sul mercato attraverso cui lo Stato aiuta i clienti neri ad acquistare terre di proprietà di bianchi. Questo ha dato avvio al sorgere di una piccola classe di ricchi proprietari terrieri neri, ma solo il 7,5% della terra sudafricana è stata ridistribuita. Di conseguenza, la maggior parte dei neri sudafricani resta senza terra e le élite bianche continuano ad avere la proprietà della maggior parte della terra. Analogamente, il crescente costo delle case ha moltiplicato il numero di persone che vivono in baracche, edifici occupati e sistemazioni informali, nonostante i sussidi statali e le garanzie costituzionali riguardo al diritto ad una casa decente.

Nel Sudafrica del post-apartheid la razza continua a determinare un accesso ineguale alla casa, all’educazione e al posto di lavoro. Modella anche la rapida crescita della sicurezza privata. Approfittando dei timori razziali riguardo alla criminalità, la sicurezza privata ha costituito l’industria cresciuta più rapidamente in Sudafrica dagli anni ’90. Le compagnie di sicurezza private e le associazioni di abitanti facoltosi hanno trasformato le periferie storicamente bianche in comunità fortificate, caratterizzate da muri intorno alle proprietà private, cancellate che circondano i quartieri, sistemi d’allarme, pulsanti antipanico, servizi di sorveglianza, pattuglie di quartiere, video sorveglianza e squadre armate di intervento rapido. Questi sistemi privatizzati di sicurezza residenziale si basano sulla violenza e sulla categorizzazione su base razziale che prende di mira i neri e i poveri.

Secondo il diritto internazionale, l’apartheid si estingue con la trasformazione dello Stato razzista e l’eliminazione della discriminazione razziale legalizzata. Eppure anche un esame superficiale del Sudafrica dopo il 1994 rivela i tranelli di tale approccio e segnala l’importanza di ripensare le nostre definizioni di apartheid. L’uguaglianza giuridica formale non ha prodotto una reale trasformazione sociale ed economica. Al contrario, il neoliberismo del capitalismo su base razziale ha consolidato l’ineguaglianza creata da secoli di colonizzazione e apartheid. La razza resta una forza motrice dello sfruttamento e dell’abbandono, nonostante la vernice liberale dell’uguaglianza giuridica. Le lodi del governo guidato dall’ANC cercano di nascondere l’impatto del capitalismo neoliberista su base razziale nel Sudafrica dopo il 1994.

Le critiche all’apartheid israeliana hanno ampiamente ignorato i limiti della trasformazione in Sudafrica. Invece di considerare l’apartheid un sistema di capitalismo basato sulla razza, la maggior parte delle critiche all’apartheid israeliano si basa sulla definizione giuridica internazionale di apartheid come sistema di dominazione razziale. Certamente queste critiche sono state molto produttive. Hanno affinato l’analisi del governo israeliano, contribuito allo sviluppo delle campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e fornito una base giuridica agli sforzi per rendere Israele responsabile [delle sue azioni]. L’importanza del diritto internazionale in quanto risorsa per le comunità in lotta non deve essere sminuita.

Ma l’analisi e l’organizzazione possono andare anche oltre, considerando l’apartheid un sistema di capitalismo sulla base della razza, piuttosto che basandosi così rigidamente sulle definizioni giuridiche internazionali. Attribuendo un valore differente alle vite ed al lavoro delle persone, i regimi di capitalismo su base razziale intensificano lo sfruttamento, esponendo i gruppi marginalizzati alla morte precoce, all’abbandono o all’eliminazione. Quindi il concetto di capitalismo su base razziale evidenzia la contemporanea costituzione dell’accumulazione di capitale e della cultura razziale e afferma che non è possibile eliminare sia la dominazione razziale che la disuguaglianza di classe senza combattere il sistema nel suo complesso.

Considerare l’apartheid come un sistema di capitalismo sulla base della razza ci permette di prendere seriamente in considerazione i limiti della liberazione in Sudafrica. Lo studio del successo della lotta sudafricana è stato molto produttivo per il movimento di liberazione palestinese; anche comprendere i suoi limiti può rivelarsi produttivo. Anche se i neri sudafricani hanno conquistato l’uguaglianza giuridica formale, la mancata attenzione agli aspetti economici dell’apartheid ha posto seri limiti alla decolonizzazione. In una parola, l’apartheid non è finito – è stato ristrutturato. Basarsi troppo strettamente sulla definizione giuridica internazionale di apartheid potrebbe condurre a problemi simili nel percorso in Palestina. Solleviamo questa questione come monito preventivo, nella speranza che possa contribuire allo sviluppo di strategie per contrastare contemporaneamente il razzismo ed il capitalismo neoliberista di Israele.

Il capitalismo sulla base della razza in Palestina/Israele

Vedere l’apartheid da questo punto di vista ci permette anche di comprendere che il colonialismo da insediamento israeliano ora agisce attraverso il capitalismo neoliberista su base razziale. Negli ultimi 25 anni Israele ha intensificato il suo progetto coloniale sotto l’apparenza della pace. Tutta la Palestina storica continua ad essere soggetta alla dominazione israeliana, che lavora ad una frammentazione della popolazione palestinese. (Gli accordi di) Oslo hanno messo Israele in grado di frammentare ulteriormente i Territori Palestinesi Occupati e di integrare il dominio militare diretto con elementi di dominazione indiretta. La Striscia di Gaza è stata trasformata in un “campo di concentramento” e in una specie di “riserva indiana” attraverso un assedio mortale e medievale, descritto da Richard Falk come una “preludio al genocidio” e da Ilan Pappe come un “ genocidio progressivo”. In Cisgiordania la nuova strategia coloniale israeliana consiste nel concentrare la popolazione palestinese nelle aree A e B e colonizzare l’area C. Invece di garantire ai palestinesi libertà ed uguaglianza, Oslo ha ristrutturato i rapporti di dominio. In breve, Oslo ha intensificato, invece di invertirlo, il progetto coloniale israeliano.

La riorganizzazione della dominazione israeliana è proceduta di pari passo alla ristrutturazione neoliberista dell’economia. A partire dagli anni ’80 Israele ha messo in atto una profonda trasformazione da un’economia statale incentrata sul consumo interno ad un’economia imprenditoriale integrata nei circuiti del capitale globale. La ristrutturazione neoliberista ha prodotto grandi profitti d’impresa smantellando al contempo il welfare, indebolendo il movimento dei lavoratori ed aumentando le disuguaglianze. I negoziati di Oslo sono stati un perno di questo progetto. Shimon Peres e l’élite imprenditoriale israeliana hanno sostenuto che il “processo di pace” avrebbe aperto i mercati del mondo arabo al capitale statunitense ed israeliano e favorito l’integrazione di Israele nell’economia globale. (2) Dopo Oslo, Israele ha subito sottoscritto accordi di libero commercio con Egitto e Giordania.

La ristrutturazione neoliberista ha permesso ad Israele di condurre la sua nuova strategia coloniale riducendo in modo significativo la sua dipendenza dalla forza lavoro palestinese. La transizione israeliana verso un’economia ad alta tecnologia ha ridotto la domanda di lavoratori industriali ed agricoli. Gli accordi di libero scambio hanno permesso alle aziende israeliane di trasferire la produzione dai terzisti palestinesi alle aree di produzione per l’esportazione nei Paesi vicini. Il crollo dell’Unione Sovietica seguito dalla “dottrina shock” neoliberista ha spinto oltre un milione di ebrei russi a cercare nuove opportunità in Israele. E la ristrutturazione neoliberista su scala globale ha portato all’immigrazione di 300.000 lavoratori dall’Asia e dall’Europa dell’est. Questi gruppi ora si contendono con i palestinesi i posti di lavoro con bassi salari che sono rimasti. Quindi lo Stato colonialista ha usato la ristrutturazione neoliberista per programmare la flessibilità [come manodopera] della popolazione palestinese.

La vita per i palestinesi della classe lavoratrice è diventata sempre più precaria. Con l’accesso limitato al lavoro in Israele, la povertà e la disoccupazione sono aumentate vertiginosamente nelle enclave palestinesi. Benché l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) abbia sempre appoggiato l’impostazione neoliberista di un’economia a conduzione privata, orientata all’esportazione e al libero mercato, inizialmente ha reagito alla crisi occupazionale creando migliaia di posti di lavoro nel settore pubblico.

Tuttavia a partire dal 2007 l’ANP ha seguito un programma economico rigidamente neoliberista che implica tagli al pubblico impiego ed un’espansione degli investimenti del settore privato. A dispetto di questi piani, il settore privato rimane debole e frammentato. I progetti di aree industriali lungo il muro illegale di Israele, che si snoda attraverso i Territori Palestinesi Occupati, sono ampiamente falliti a causa delle restrizioni israeliane all’importazione e all’esportazione e del costo relativamente alto della forza lavoro palestinese in confronto a quella di Egitto e Giordania.

Benché le politiche neoliberiste abbiano reso la vita sempre più difficile per la classe lavoratrice palestinese, hanno però contribuito allo sviluppo di una piccola élite palestinese nei TPO, composta da dirigenti dell’ANP, capitalisti palestinesi e funzionari di ONG. Chi visita Ramallah è spesso sorpreso di vedere palazzi sontuosi, ristoranti di lusso, alberghi a cinque stelle e automobili di lusso. Non sono indicatori di un’economia prospera, ma piuttosto di una crescente divisione di classe. Analogamente è emersa a Gaza dal 2006 una nuova borghesia legata ad Hamas. La sua ricchezza deriva dalla declinante “industria dei tunnel”, un monopolio sui materiali edili contrabbandati dall’Egitto e sui limitati prodotti importati da Israele. Le élite sia di Fatah che di Hamas accumulano le proprie ricchezze da attività non produttive e sono caratterizzate dalla totale assenza di strategia politica . Haidar Eid definisce tutto questo ‘Oslizzazione’ in Cisgiordania e ‘Islamizzazione’ nella Striscia di Gaza.

Inoltre, arruolarsi delle forze di repressione è diventata una delle rare opportunità di lavoro disponibili per la maggioranza dei palestinesi, soprattutto dei giovani. Anche se alcuni degli impieghi presso l’ANP sono nel campo dell’educazione e della sanità, la maggior parte sono nelle forze di sicurezza. Come ha dimostrato Alaa Tartir (direttore del programma di Al-Shabaka, ndtr.), queste forze hanno il compito di proteggere la sicurezza di Israele. Dal 2007 sono state riorganizzate sotto la supervisione degli Stati Uniti. Con oltre 80.000 effettivi, le nuove forze di sicurezza dell’ANP sono addestrate dagli USA in Giordania e dispiegate in tutte le enclave della Cisgiordania in stretto coordinamento con le forze militari israeliane. Israele e l’ANP condividono i servizi di intelligence, coordinano gli arresti e collaborano nel sequestro di armi. Prendono di mira congiuntamente non solo islamisti e militanti di sinistra, ma tutti i palestinesi che criticano Oslo. Ultimamente, il coordinamento per la sicurezza tra Israele e l’ANP ha preceduto l’assassinio dell’attivista Basil Al-Araj [militante, scrittore e farmacista ucciso dalle forze israeliane nel marzo 2017, ndt].

L’unico settore dell’economia israeliana dove si è mantenuta una domanda relativamente stabile di lavoratori palestinesi è quello dell’edilizia, soprattutto in seguito all’espansione delle colonie israeliane ed alla costruzione del muro in Cisgiordania. Secondo una ricerca del 2011 di “Democracy and Workers’Rights” [organizzazione non governativa indipendente palestinese, ndtr.], l’82% dei palestinesi impiegati nelle colonie lascerebbero il loro lavoro se trovassero un’ alternativa conveniente.

Ciò significa che due degli unici lavori disponibili per i palestinesi della Cisgiordania oggi sono costruire insediamenti sulle terre palestinesi confiscate o lavorare nelle forze di sicurezza dell’ANP per aiutare Israele a sopprimere la resistenza palestinese all’apartheid.

I palestinesi della Striscia di Gaza non hanno nemmeno queste “opportunità”. Infatti Gaza è una delle forme più estreme di disponibilità pianificata. L’espulsione colonialista ha trasformato Gaza in un campo profughi nel 1948, quando le milizie sioniste e poi l’esercito israeliano espulsero oltre 750.000 palestinesi dalle loro città e villaggi. Il 70% dei due milioni di residenti di Gaza sono rifugiati, un ricordo vivente della Nakba ed incarnazione vivente del diritto al ritorno. La ristrutturazione politica ed economica attraverso Oslo ha permesso ad Israele di trasformare Gaza in una prigione costruita per concentrare e contenere questo indesiderato surplus di popolazione. E l’assedio sempre più stretto dimostra la completa disumanizzazione di Gaza. Per il progetto coloniale neoliberista di Israele le vite dei palestinesi non valgono niente e le loro morti non hanno importanza.

Nel complesso quindi, il neoliberismo abbinato al progetto coloniale israeliano ha trasformato i palestinesi in una popolazione da eliminare. Ciò ha consentito ad Israele di attuare il suo progetto di concentrazione e colonizzazione. Comprendere le dinamiche neoliberiste del regime coloniale israeliano può contribuire allo sviluppo di strategie per combattere l’apartheid israeliano non solo come sistema di dominazione razzista, ma come regime di capitalismo basato sulla razza.

Affrontare la natura economica dell’apartheid israeliano.

Una questione importante per il movimento di liberazione palestinese è come evitare le trappole del post apartheid sudafricano, sviluppando una strategia per il post apartheid palestinese-israeliano. Come avevano predetto i neri radicali, un’attenzione esclusiva verso lo Stato razzista ha condotto a gravi problemi socioeconomici in Sudafrica a partire dal 1994. La liberazione palestinese non deve cadere nella stessa “soluzione” offerta dall’ANC. Ciò richiederà di porre attenzione non solo ai diritti politici, ma anche alle spinose questioni relative alla ridistribuzione delle terre ed alla struttura economica, per garantire un risultato più equo. Un cruciale punto di partenza è continuare le discussioni sulle dinamiche concrete del ritorno dei palestinesi.

E’ importante anche riconoscere che la situazione attuale in Palestina è strettamente legata ai processi che stanno rimodellando i rapporti sociali a livello mondiale. Il Sudafrica e la Palestina, per esempio, stanno affrontando cambiamenti sociali ed economici simili, a prescindere dai loro percorsi politici radicalmente differenti. In entrambi i contesti il capitalismo neoliberista su base razziale ha prodotto disuguaglianze estreme, emarginazione razziale e strategie all’avanguardia per proteggere i potenti e sorvegliare i poveri in base alla razza. Andy Clarno definisce questa combinazione ‘apartheid neoliberista’.

In tutto il mondo, la ricchezza ed il reddito sono sempre più sotto il controllo di un pugno di capitalisti miliardari. Mentre cede il terreno sotto i piedi della classe media, la forbice tra ricchi e poveri si allarga sempre più e le vite dei più poveri diventano sempre più precarie. La ristrutturazione neoliberista ha permesso ad alcuni strati della popolazione storicamente oppressa di entrare nei ranghi delle élite. Questo spiega l’emergere della nuova élite palestinese nei Territori Occupati e della nuova élite nera in Sudafrica.

Al tempo stesso, la ristrutturazione neoliberista ha approfondito l’emarginazione dei poveri su base razziale, intensificando sia lo sfruttamento che l’abbandono. I lavori sono diventati sempre più precari ed intere regioni hanno visto una caduta della domanda di forza lavoro. Mentre alcune popolazioni connotate dalla razza sono afflitte da un supersfruttamento nelle fabbriche e nel settore dei servizi, altre – come i palestinesi – sono destinate ad una vita di disoccupazione e di precarietà.

I regimi di apartheid neoliberista come Israele dipendono da avanzate strategie sicuritarie per mantenere il potere. Israele esercita la sovranità sui TPO mediante operazioni militari, sorveglianza elettronica, incarcerazioni, interrogatori e tortura. Lo Stato ha anche creato una geografia frammentata di zone palestinesi isolate, circondate da muri e checkpoints e gestite con chiusure e permessi. E le imprese israeliane sono all’avanguardia nel mercato globale degli impianti avanzati di sicurezza, sviluppando e testando nei TPO i dispositivi di alta tecnologia. Tuttavia il maggior apporto al regime sicuritario israeliano è una rete di forze di sicurezza agevolata da USA e UE, sostenuta da Giordania ed Egitto e messa in atto da operazioni coordinate di forze militari israeliane e della sicurezza dell’ANP.

Al pari di Israele, altri regimi di apartheid neoliberista si basano su muri di recinzione, forze di sicurezza private e statali e strategie di controllo basate su criteri razziali. In Sudafrica il sistema della sicurezza ha implicato la costruzione di mura attorno ai quartieri abbienti, la rapida espansione dell’industria della sicurezza e la dura repressione statale di sindacati indipendenti e movimenti sociali. Negli Stati Uniti gli sforzi per garantire sicurezza ai potenti includono comunità blindate, muri di confine, incarcerazioni e deportazioni di massa, sorveglianza elettronica, guerre con i droni e il rapido incremento di polizia, carceri, pattuglie di confine, forze militari e di intelligence.

A differenza del Sudafrica, Israele continua ad essere un aggressivo Stato coloniale. In tale contesto, il neoliberismo è parte della strategia coloniale israeliana per eliminare la popolazione palestinese. Ma la combinazione di dominazione razziale e capitalismo neoliberista ha prodotto crescente disuguaglianza, emarginazione razziale e sistemi avanzati di sicurezza in molte parti del mondo. Poiché i movimenti e i militanti creano connessioni tra le lotte contro la povertà e la militarizzazione in Palestina, Sudafrica, USA ed altrove, la considerazione dell’apartheid israeliano come una forma di capitalismo su base razziale potrebbe contribuire all’espansione dei movimenti contro l’apartheid neoliberista globale. Potrebbe anche favorire lo spostamento del discorso politico in Palestina dall’indipendenza alla decolonizzazione. Nella sua fondamentale opera ‘The wretched of the earth’ [ed. italiana: “I dannati della terra”, Einaudi, ndtr.], Frantz Fanon sostiene che una delle trappole della coscienza nazionale è un movimento di liberazione che porti ad uno Stato indipendente governato da un’élite nazionalista che riproduca il potere coloniale. Per evitare che ciò accada, Fanon auspica un passaggio dalla coscienza nazionale alla coscienza politica e sociale. Passare dall’indipendenza politica alla trasformazione sociale e alla decolonizzazione è la sfida che sta di fronte al Sudafrica post apartheid. Evitare questa trappola è una sfida che oggi devono affrontare le forze politiche palestinesi nella lotta per la liberazione.

Note:

1. Intervista al direttore dell’ Alexandra Renewal Project, Johannesburg, Sudafrica, agosto 2012.

  1. Shimon Peres, The new Middle East [Il nuovo Medio Oriente, ndt.] (New York: Henry Holt, 1993)

Haidar Eid

Il consulente politico di Al-Shabaka Haidar Eid è professore associato di Letteratura postcoloniale e postmoderna all’università al-Aqsa di Gaza. Ha scritto molto sul conflitto arabo-israeliano, compresi articoli pubblicati su Znet, Electronic Intifada, Palestine Chronicle e Open Democracy. Ha pubblicato scritti sugli studi culturali e la letteratura in parecchie riviste, comprese Nebula, Journal of American Studies in Turkey, Cultural Logic e Journal of Comparative Literature. E’ autore di “Worlding Postmodernism: Interpretive Possibilities of critical theory” [Postomodernismo mondiale: possibilità interpretative di una teoria critica, ndt.] e di “Countering the palestinian Nakba: one state for all” [Contrastare la Nakba palestinese: uno Stato per tutti, ndt.] .

Andy Clarno

Andy Clarno è professore assistente di Sociologia e Studi afroamericani e direttore ad interim dell’Istituto di giustizia sociale all’università dell’Illinois di Chicago. Il suo ambito di ricerca riguarda il razzismo, il capitalismo, il colonialismo e l’imperialismo agli inizi del XXI secolo. Il suo nuovo libro, “Neoliberal Apartheid” [Apartheid neoliberista, ndt.] (University of Chicago Press, 2017), analizza i cambiamenti politici, economici e sociali in Sudafrica e Palestina/Israele dal 1994. Si occupa dei limiti della liberazione in Sudafrica, evidenzia l’impatto della ristrutturazione neoliberista in Palestina/Israele e sostiene che in entrambe le regioni è emersa una nuova forma di apartheid neoliberista.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La dichiarazione Balfour: uno studio sulla doppiezza britannica

Avi Shlaim

Venerdì 25 agosto 2017, Middle East Eye

Sono passati quasi 100 anni da quando questo documento ha cambiato il corso della storia, eppure la Gran Bretagna non ha ancora riconosciuto il rifiuto da parte di Israele del diritto all’autodeterminazione nazionale dei palestinesi– e la sua stessa complicità.

La Dichiarazione Balfour, emanata il 2 novembre 1917, è stato un breve documento che ha cambiato il corso della storia. Ha impegnato il governo britannico ad appoggiare la fondazione di un focolare per il popolo ebraico in Palestina, disponendo che non fosse fatto niente “per pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina.”

A quel tempo gli ebrei rappresentavano il 10% della popolazione della Palestina: 60.000 ebrei e poco più di 600.000 arabi. Eppure la Gran Bretagna scelse di riconoscere il diritto all’autodeterminazione nazionale della ridotta minoranza e di negarla recisamente all’incontestabile maggioranza. Nelle parole dello scrittore ebreo Arthur Koestler: c’era una Nazione che promise a un’altra Nazione la terra di una terza Nazione.

Alcuni resoconti contemporanei presentarono la Dichiarazione Balfour come un gesto disinteressato e come un nobile progetto cristiano per aiutare un antico popolo a ricostituire la propria vita nazionale nella sua patria ancestrale. Questi resoconti sgorgavano dal romanticismo biblico di alcuni funzionari britannici e dalla loro simpatia per la condizione degli ebrei nell’Europa orientale.

Studi successivi suggeriscono che il principale motivo dell’emanazione della dichiarazione era il freddo calcolo degli interessi imperiali britannici. Si credeva erroneamente, come è risultato in seguito, che gli interessi britannici sarebbero stati meglio tutelati da un’alleanza con il movimento sionista in Palestina.

La Palestina controllava le vie di comunicazione dell’impero britannico con l’Estremo Oriente. La Francia, il principale alleato della Gran Bretagna nella guerra contro la Germania, era al contempo una rivale nell’influenza sulla Palestina.

In base all’accordo segreto Sykes-Picot del 1916, i due Paesi si divisero il Medio Oriente in zone di influenza, ma vennero a un compromesso su un’amministrazione internazionale per la Palestina. Aiutando i sionisti ad occupare la Palestina, i britannici speravano di garantirsi una presenza preponderante nella zona e di escludere i francesi. I francesi definirono i britannici “perfida Albione”. La Dichiarazione Balfour era un esempio lampante di questa perenne perfidia.

Le principali vittime di Balfour

Le principali vittime della Dichiarazione Balfour, tuttavia, non furono i francesi ma gli arabi della Palestina. La dichiarazione era un classico documento coloniale europeo messo assieme da un piccolo gruppo di uomini con una mentalità totalmente colonialista. Venne formulato con assoluto spregio per i diritti politici della maggioranza della popolazione indigena.

Il ministro degli Esteri Arthur Balfour non fece nessuno sforzo per mascherare il proprio disprezzo per gli arabi.

Il sionismo, che sia giusto o sbagliato, buono o cattivo,” scrisse nel 1922, era “radicato in una tradizione di lungo periodo, nelle necessità presenti e nelle speranze future di importanza molto maggiore dei desideri e dei pregiudizi dei 700.000 arabi che ora abitano quella terra antica.” Difficilmente ci potrebbe essere una illustrazione più evidente di quello che Edward Said ha definito “l’epistemologia morale dell’imperialismo.”

Balfour era solo un languido aristocratico inglese. La vera forza motrice dietro la dichiarazione non era Balfour ma David Lloyd George, un impetuoso radicale gallese che guidava il governo. In politica estera Lloyd George era un imperialista britannico alla vecchia maniera e un usurpatore di terre. Il suo appoggio al sionismo, tuttavia, era basato non sulla corretta valutazione degli interessi britannici, ma sull’ignoranza: egli ammirava gli ebrei ma al contempo li temeva e non comprese che i sionisti erano la minoranza di una minoranza.

Schierando la Gran Bretagna con il movimento sionista, agì con l’opinione sbagliata – e antisemita – secondo cui gli ebrei erano straordinariamente influenti e che avrebbero accelerato un cambiamento storico. In effetti, il popolo ebraico era indifeso, senza nessun’altra influenza se non attraverso il mito di un potere occulto.

In breve, l’appoggio britannico al sionismo durante la guerra era radicato in un arrogante atteggiamento colonialista nei confronti degli arabi e nell’opinione sbagliata sul potere globale degli ebrei.

Un duplice obbligo

La Gran Bretagna aggravò il proprio errore originario inserendo i termini della Dichiarazione Balfour nel mandato della Società delle Nazioni per la Palestina. Quella che era stata una semplice promessa da parte di un grande potere a un alleato minore divenne a quel punto uno strumento internazionale legalmente vincolante.

Per essere più precisi, la Gran Bretagna in quanto potere mandatario assunse un duplice obbligo: di aiutare gli ebrei a costituire un focolare in tutta la Palestina mandataria e, allo stesso tempo, di proteggere i diritti civili e religiosi degli arabi. La Gran Bretagna rispettò il primo obbligo, ma mancò di onorare persino questo secondo, pur misero, impegno.

Che la Gran Bretagna fosse colpevole di doppiezza e facesse il doppio gioco è fuori discussione. Perciò la vera domanda da porsi è: questa politica immorale ha portato alla Gran Bretagna qualche vantaggio concreto? La mia risposta a questa domanda è che non ne ha portato nessuno.

La Dichiarazione Balfour è stata una palla al piede della Gran Bretagna dall’inizio del mandato [sulla Palestina] fino alla sua ingloriosa fine nel maggio 1948.

I sionisti sostennero che ogni cosa che la Gran Bretagna faceva per loro nel periodo tra le due guerre era molto lontano da quanto originariamente aveva promesso. Sostenevano che la dichiarazione implicava un appoggio ad uno Stato ebraico indipendente; i funzionari britannici ribattevano che avevano promesso solo un territorio nazionale, che non è lo stesso di uno Stato. Al contempo la Gran Bretagna subì l’ostilità non solo dei palestinesi, ma di milioni di arabi e musulmani in tutto il mondo.

Elizabeth Monroe, nel suo classico saggio Britain’s Moment in the Middle East [“Il periodo della Gran Bretagna in Medio Oriente”], fornisce un giudizio equilibrato su questa vicenda. “Valutato in base ai soli interessi britannici,” scrive Monroe, “ciò è uno dei più grandi errori della storia del nostro impero.”

Con il senno di poi, la Dichiarazione Balfour appare come un colossale abbaglio strategico.

Il risultato finale fu di permettere ai sionisti di occupare la Palestina, un’occupazione che continua fino ai nostri giorni nella forma di una espansione delle colonie, illegale ma senza sosta, in Cisgiordania a spese dei palestinesi.

Mentalità radicata

Data questa documentazione storica, ci si potrebbe aspettare che i dirigenti britannici abbassino il capo per la vergogna e rinneghino questa velenosa eredità del loro passato coloniale. Ma gli ultimi tre primi ministri britannici dei due principali partiti politici – Tony Blair, Gordon Brown e David Cameron – hanno dimostrato uno strenuo appoggio ad Israele e un’assoluta indifferenza per i diritti dei palestinesi.

L’attuale primo ministro Theresa May è uno dei leader più filo-israeliani d’Europa. In un discorso del dicembre 2016 agli “Amici conservatori di Israele”, che includono oltre l’80% dei parlamentari conservatori e tutto il governo, ha osannato Israele come “un Paese eccezionale” e “un faro di tolleranza”.

Spargendo sale sulle ferite palestinesi, ha definito la Dichiarazione Balfour “una delle più importanti lettere della storia,” ed ha promesso di festeggiarne l’anniversario.

Una petizione che chiede al governo di scusarsi per la Dichiarazione Balfour è stata firmata da 13.637 persone, compreso chi scrive. Il governo ha risposto come segue:

La Dichiarazione Balfour è una affermazione storica per la quale il governo di Sua Maestà non intende chiedere scusa. Siamo orgogliosi del nostro ruolo nella creazione dello Stato di Israele.

La dichiarazione è stata scritta in un mondo di poteri imperialisti in competizione tra loro, nel mezzo della Prima guerra mondiale e del tramonto dell’impero ottomano. In quel contesto, fondare una patria per il popolo ebraico sulla terra con cui ha legami storici e religiosi così forti era la cosa giusta e morale da fare, soprattutto di fronte a una storia di plurisecolari persecuzioni.

Molte cose sono successe dal 1917. Riconosciamo che la dichiarazione avrebbe dovuto chiedere la protezione dei diritti politici delle comunità non ebraiche in Palestina, in particolare il loro diritto all’autodeterminazione. Tuttavia la cosa importante ora è guardare avanti e garantire la sicurezza e la giustizia sia agli israeliani che ai palestinesi attraverso una pace duratura.”

Sembrerebbe che, nonostante sia passato un secolo, la mentalità colonialista dell’élite politica britannica sia ancora profondamente radicata. I dirigenti britannici dei nostri giorni, come i loro predecessori della Prima guerra mondiale, fanno ancora riferimento agli arabi come alle “comunità non ebraiche in Palestina.”

E’ vero, il governo riconosce che la dichiarazione avrebbe dovuto proteggere i diritti politici degli arabi di Palestina. Ma non riconosce l’ostinata negazione da parte di Israele del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione nazionale e la complicità della Gran Bretagna in questa costante negazione. I dirigenti britannici, come i Borboni, re di Francia, a quanto pare non hanno imparato niente e niente hanno dimenticato nei 100 anni trascorsi [dalla Dichiarazione Balfour].

Avi Shlaim è professore emerito in Relazioni internazionali all’università di Oxford e autore di The Iron Wall: Israel and the Arab World (2014) [ed. italiana:“Il muro di ferro: Israele e il mondo arabo”, Il Ponte editrice] e di Israel and Palestine: Reappraisals, Revisions, Refutations (2009) [“Israele e Palestina: riesami, revisioni, confutazioni”].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Demolite: le scuole palestinesi distrutte da Israele all’inizio del nuovo anno scolastico

Chloé Benoist

Giovedì 24 agosto 2017,Middle East Eye

Il ritorno a scuola per molti significa un nuovo inizio, ma per alcuni bambini palestinesi ciò ha significato un ritorno alla distruzione ed alla violenza

Decine di bambini di Jubbet al-Dhib e dei villaggi circostanti nel distretto meridionale di Betlemme nella Cisgiordania occupata si aspettavano che mercoledì fosse il primo giorno di scuola in un nuovissimo istituto elementare, finanziato dall’Unione Europea (UE).

Tuttavia martedì sera le forze israeliane hanno demolito sei aule prefabbricate e confiscato tutto il materiale da costruzione, lasciando dietro di sé sul nudo cemento solo pile di sedie per i bambini.

Gli abitanti di Jubbet al-Dhib erano scioccati: “Quelli che demoliscono una scuola non sono persone, non sono esseri umani,” ha detto mercoledì ai giornalisti Manal Zawahra, un’abitante di Jubbet al-Dhib.

Non abbiamo fatto niente di male ai loro bambini, perché hanno fatto questo ai nostri? Vogliamo vivere in pace, ma non ce lo consentono,” ha aggiunto questa madre di sei figli.

Quella di Jubbet al-Dhib è la terza scuola palestinese ad essere demolita o a vedersi confiscare le infrastrutture dalle forze israeliane dall’inizio del mese. Ciò include l’unico asilo infantile della comunità beduina di al-Baba e lo smantellamento di pannelli solari – l’unica fonte di energia – di una scuola ad Abu Nuwar.

Giovedì le missioni UE a Gerusalemme e Ramallah in un comunicato hanno espresso “forte preoccupazione” in seguito alla confisca di strutture delle scuole palestinesi nelle comunità beduine.

Ogni bambino ha il diritto ad un accesso sicuro all’educazione e gli Stati hanno l’obbligo di proteggere, rispettare e soddisfare questo diritto garantendo che le scuole siano luoghi inviolabili e sicuri per i bambini,” dice la dichiarazione, chiedendo ad Israele “di porre fine alle demolizioni ed alle confische delle case e proprietà palestinesi in conformità con i suoi obblighi in quanto potere occupante in base alle leggi umanitarie internazionali.”

Atto di sfida

Nonostante la demolizione, mercoledì mattina presto i bambini delle elementari si sono presentati dove si trova il basamento della scuola ed hanno aiutato a sistemare le sedie gettate via, mentre attivisti hanno sistemato una tenda rifugio sulle fondamenta distrutte delle aule prefabbricate.

Circa 60 bambini si sono stipati all’interno della tenda ed hanno cantato l’inno nazionale palestinese, mentre gli insegnanti hanno tenuto le lezioni sul posto come dimostrazione simbolica di sfida contro le politiche discriminatorie di Israele contro i palestinesi.

Questo luogo non rappresenta un pericolo per nessuno. Non è un pericolo per i carri armati o gli aerei (israeliani),” ha detto a MEE Sami Mroueh, il direttore educativo del distretto di Betlemme dell’Autorità Nazionale Palestinese. “L’aggressione contro questo luogo è un attacco ai diritti umani in generale ed ai diritti dei bambini in particolare.”

Mentre Mroueh ha insistito sul fatto che “rimarremo qui e continueremo ad insegnare (agli studenti) qui,” gli operatori dell’Ong che si sono occupati della scuola hanno detto che l’incombente minaccia di un’ulteriore azione israeliana, insieme alla difficoltà di insegnare in una tenda troppo affollata con un clima inclemente, rende questa possibilità improbabile nell’immediato futuro.

Violenza psicologica

L’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem in un comunicato rilasciato mercoledì ha affermato che 80 bambini hanno subito le conseguenze della demolizione della scuola. Sostiene che l’iniziativa israeliana “incarna la crudeltà burocratica e la sistematica vessazione da parte di autorità la cui funzione è espellere i palestinesi dalla loro terra.”

Un coordinatore dell’Ong francese coinvolta nella costruzione della scuola, che chiede di rimanere anonimo, ha detto a Middle East Eye che la demolizione ha rappresentato una “violenza psicologica” contro i giovani studenti.

Per bambini di quest’età, una cosa del genere gli fa capire improvvisamente qual è il loro posto nel mondo,” ha detto.

Il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (COGAT), l’ente militare incaricato di mettere in atto le politiche israeliane nei territori palestinesi occupati, ha giustificato la demolizione affermando che mancavano le licenze edilizie rilasciate da Israele.

L’edificio a Jib al-Dib (sic) è stato costruito illegalmente la scorsa settimana, in palese violazione degli ordini di interruzione dei lavori e senza aver ottenuto i permessi richiesti,” ha detto a Middle East Eye un portavoce del COGAT.

Mentre gli abitanti hanno detto che i servizi igienici, che mercoledì sono rimasti la sola struttura ancora in piedi, sono stati l’unica parte della scuola ad aver ricevuto un ordine di sospensione dei lavori, il COGAT afferma che anche le aule nelle case mobili l’avevano ricevuto.

In luglio l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie (OCHA) ha affermato che le limitazioni israeliane nell’Area C – i due terzi della Cisgiordania sotto totale controllo militare israeliano [in base agli accordi di Oslo e per un periodo massimo di 5 anni dal 1993, ndt.]– hanno reso “praticamente impossibile” per i palestinesi ottenere licenze edilizie, a differenza dei coloni israeliani, a cui spesso vengono concesse.

Secondo l’OCHA, in conseguenza di simili politiche israeliane, più di un terzo delle comunità palestinesi nell’Area C non ha scuole elementari, obbligando i bambini a viaggiare per lunghe distanze per ottenere un’istruzione.

In giugno le autorità israeliane hanno anche confiscato circa 60 pannelli solari – donati dal governo olandese – che fornivano a Jebbet al-Dhib l’elettricità indispensabile.

B’Tselem ha registrato nel 2016 un numero “record” di demolizioni di case palestinesi in Cisgiordania.

Dall’inizio del 2017 le autorità israeliane hanno portato avanti progetti per migliaia di unità abitative nelle colonie della Cisgiordania e nella Gerusalemme est annessa, in palese violazione delle leggi internazionali.

Accesso all’educazione

I bambini di Jubbet al-Dhib, che vivono sulle polverose colline a sudest della città di Betlemme, devono camminare per almeno cinque chilometri per andare a lezione, attraverso terreni ripidi e difficili da percorrere, a rischio di incontrare cani inselvatichiti, soldati israeliani o abitanti della vicina colonia israeliana illegale di Nokdim – dove vive il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman.

Il difficile percorso di andata e ritorno, insieme alle aule sovraffollate ed allo stigma sociale contro gli impoveriti bambini di Jubbet al-Dhib nelle scuole della zona, per anni hanno influito negativamente sul loro accesso all’educazione.

L’istituto più vicino a Jubbet al-Dhib, la scuola elementare di Hatin, situato nel villaggio di Beit Ta’mir, consiste in una casa parzialmente affittata dall’Autorità Nazionale Palestinese, che è stata ristrutturata in modo approssimativo per ospitare decine di studenti in ex-garage, così come nel piano interrato senza finestre.

Benché gli abitanti abbiano a lungo chiesto la creazione di una scuola a Jebbet al-Dhib, è stato solo durante l’estate del 2016 che le organizzazioni internazionali hanno iniziato a lavorare per edificare sulle terre del villaggio una scuola, la cui costruzione è terminata solo di recente, con finanziamenti dell’UE.

Hanno sottovalutato le distanze che i miei figli devono percorrere a piedi ogni giorno? Sono chilometri sotto il sole o la pioggia e non ci sono mezzi di trasporto,” ha detto Zawahra.

Quali sono i principi etici, umani o persino giuridici che possono giustificare il fatto di prendere costantemente di mira una comunità negandole l’accesso all’elettricità, all’acqua corrente ed ora alla scuola?” si chiede il coordinatore dell’Ong francese. “Quali giustificazioni possibili, se non per razionalizzare l’espansione della vicina colonia, che, essa sì, è veramente illegale?”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




Puoi anche lasciare Gaza, ma Gaza non ti lascia mai

Abeer Ayyoub

Martedì 29 agosto 2017, Middle East Eye

Quando Abeer Ayyoub se n’è andata da Gaza per studiare in Europa, aveva deciso di smettere di leggere le notizie da casa e pensava di essere pronta a tutto. Ma ha scoperto qualcos’altro.

Stavo cercando una stanza a Londra per trascorrere la pausa primaverile dei corsi mentre facevo ricerche all’università di Oxford. Ho chiamato un amico per chiedergli se conoscesse una stanza nel centro di Londra che potessi affittare. Fortunatamente mi ha detto che ne aveva una libera per gli ospiti che io potevo usare.

Mentre mi stava parlando al telefono la sua compagna gli ha detto che la stanza di cui stava parlando non aveva l’acqua calda.

Oh, non preoccuparti,” le ha spiegato. “Abeer è di Gaza.”

Sono scoppiata a ridere per un po’, e allora gli ho chiesto se la stanza avesse invece l’elettricità.

Sì, ce l’ha, mi ha risposto. “Nella stanza non è esattamente come la vita a Gaza.”

Poco dopo che ho riagganciato ho iniziato a pensare a come le persone ricche si aspettano che quelli di noi che vengono da Gaza possano sopportare i disagi. Perché? Perché siamo sopravvissuti a tre guerre, ad una battaglia di strada, a 10 anni di assedio e di negazione della libertà di movimento dentro e fuori Gaza.

Ma la verità è che le loro aspettative devono essere estremamente basse perché una persona come me, che ha deciso di lasciare dietro di sé tutti questi particolari dolorosi, non è più disposta a sopportare nessuno di questi dolorosi particolari. Mi aspettavo molti di più da me stessa, ma un anno in Europa mi ha mostrato solo quanto sono fragile.

Mai al sicuro

Tornando a Gaza, ricordo un’amica palestinese che è arrivata nell’enclave per la prima volta per fare un qualche lavoro. Abbiamo passato un bel po’ di tempo insieme e urlava ogni volta che sentiva il rumore di una “piccola” esplosione. Io continuavo a scrivere sul mio portatile.

Abeer, stai aspettando che l’esplosione sia proprio nella porta accanto in modo che tu la possa sentire?” mi ha chiesto.

Sì, esattamente, altrimenti non starei facendo nient’altro che stare attenta alle esplosioni,” le ho detto.

E’ stato così quando ero a Gaza; la realtà era dura, e il rumore delle esplosioni è diventato una parte quotidiana della mia vita di tutti i giorni.

Ma quando sono andata per la prima volta in Europa, un semplice tuono mi faceva gelare il sangue, un aereo di linea mi terrorizzava così tanto che mi andavo a nascondere, e una porta sbattuta violentemente mi faceva gettare a terra per cercare di proteggermi.

Una volta qualcuno mi ha chiesto: “Come ci si sente a vivere in un Paese sicuro come la Germania dopo essere stata a Gaza?” Gli ho risposto che non mi sento realmente sicura in nessuna parte del mondo; i ricordi sanguinosi e violenti non mi lasciano mai, né quando sono sveglia né quando sto dormendo.

Il luogo che ha ucciso i sogni”

Prima di andarmene da Gaza, avevo preso la decisione di disattivare i miei account sulle reti sociali una volta attraversato il posto di controllo israeliano di Erez, perché non volevo più saperne niente di Gaza. Ho sempre pensato a Gaza come al posto che ha ucciso i sogni prima ancora che nascessero. Sentivo come se fosse [un posto] troppo piccolo per avermi.

Ma quando sono partita è successo l’esatto contrario. Ho seguito più agenzie di notizie locali. Sono entrata a far parte di più gruppi di WhatsApp, in modo da essere aggiornata su ogni cosa succedesse a Gaza.

Ho lasciato Gaza e al contempo un gran numero di miei amici. Sono andata nel mondo aperto per cercare la mia vita al di fuori, ma Gaza non mi lascia mai. Mi sento colpevole per il privilegio di vivere fuori mentre leggo le notizie di bambini che muoiono perché non gli viene consentito di lasciare Gaza per cure mediche.

Non sono riuscita ad essere una persona felice a Gaza e non sto riuscendo oggi a sentirmi come una persona completa fuori da Gaza, sapendo di non avere il privilegio di vedere la mia famiglia. Che gioia puoi provare quando non puoi vedere la tua famiglia nelle sue occasioni felici perché hai un permesso di sola andata verso e da Gaza?

Anche quando lasci Gaza non puoi fartene una ragione. Non puoi farti una ragione delle decine di volte in cui hai contato i secondi, sapendo che puoi essere uccisa ora. E ora. E ora.

L’inimmaginabile

Me ne sono andata da Gaza un anno fa per una borsa di studio professionale in Germania e una tesina all’università di Oxford. Mi ci sono voluti due mesi alla ricerca di visti e permessi israeliani. Non è stato per niente facile, ma ero decisa a lasciare la più grande prigione a cielo aperto del mondo.

Ora ho concluso entrambe – la borsa di studio e la ricerca – e sono partita per la Giordania alla ricerca di qualcos’altro. Sono a sole tre ore di macchina da casa mia a Gaza, eppure sono privata del diritto di visitarla perché sarei bloccata là per sempre. I membri della mia famiglia lo capiscono, eppure sono dispiaciuti che io debba affrontare queste difficoltà.

Ogni volta sono contenta di poter contattare la mia famiglia attraverso Skype durante il breve periodo al giorno in cui hanno l’elettricità, mi raccontano solo quanto sia più dura ora, con le ore di elettricità drasticamente ridotte. Mi dicono come vengano pompate acque reflue sulla spiaggia, che è l’unico luogo che la gente può visitare liberamente.

L’aria puzza terribilmente – ti rendi conto che persino l’aria è infettata da questa terribile situazione?” mi ha detto mia sorella.

Non lo posso neppure immaginare – non posso immaginare che due milioni di persone stiano pagando con le loro vite a causa degli interessi delle parti in conflitto.

Abeer Ayyoub è una giornalista palestinese di Gaza. Vi ha lavorato per cinque anni come freelance prima di spostarsi in GB per una borsa di studio all’università di Oxford. Attualmente si trova ad Amman, dove sta frequentando un master sui nuovi media.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




L’Europa non deve comprare ciò che Israele vende per combattere il terrorismo

Jeff Halper, 20 agosto 2017 , Haaretz

Israele è riuscito a trasformare 50 anni di resistenza palestinese all’occupazione in lavoro a domicilio ed ora vende al mondo intero il concetto di stato di polizia.

Ogni volta che avviene un attacco terroristico, come quello della scorsa settimana a Barcellona, i politici e gli “esperti” di sicurezza israeliani appaiono in televisione per criticare l’ingenuità degli europei. Se solo comprendessero il terrorismo come facciamo noi e prendessero le misure preventive che prendiamo noi, dicono, subirebbero molti meno attacchi. I più spregevoli in proposito sono stati i commenti del ministro israeliano dell’Intelligence Yisrael Katz dopo le bombe di Bruxelles nel marzo 2016, in cui morirono 34 persone.

Invece di porgere le condoglianze a nome del governo israeliano, ha inveito contro i belgi nel più arrogante dei modi. “Se in Belgio continuano a mangiare cioccolato, a godersi la vita e ad atteggiarsi a grandi liberali e democratici, senza tener conto del fatto che alcuni dei musulmani che vivono là organizzano azioni terroristiche,” ha sentenziato, “non saranno in grado di combatterli.”

I belgi hanno reagito con rabbia e ribadito la posizione della maggior parte dei governi europei: mentre continueremo ad essere vigili ed a prendere le necessarie precauzioni, non intendiamo sacrificare le nostre libertà e la nostra apertura politica per diventare delle copie di Israele. Poiché essi comprendono che il governo Netanyahu sta spacciando qualcosa di molto più insidioso delle mere precauzioni – ancor più delle armi, dei sistemi di sorveglianza e sicurezza e dei modelli di controllo della popolazione, che sono il pane delle esportazioni israeliane. Ciò che Israele raccomanda agli europei – e agli americani, canadesi, indiani, messicani, australiani ed a chiunque altro li ascolterà – è nulla di meno che un concetto del tutto nuovo di Stato, lo Stato sicuritario.

Che cos’è uno Stato sicuritario? Essenzialmente, è uno Stato che pone la sicurezza al di sopra di ogni altra cosa, sicuramente al di sopra della democrazia, del dovuto rispetto della legge e dei diritti umani, tutte cose che considera “lussi liberali” in un mondo sopraffatto dal terrorismo. Israele si presenta niente di meno che come il modello per i Paesi del futuro. Voi europei ed altri non dovreste criticarci, dicono Katz e Netanyahu, dovreste imitarci. Guardate che cosa abbiamo fatto. Abbiamo creato una democrazia vivace dal Mediterraneo al fiume Giordano, che dispensa ai suoi cittadini una florida economia e la sicurezza personale – anche se la metà della popolazione di quel Paese sono dei terroristi (cioè palestinesi senza cittadinanza che vivono in enclave isolate del Paese). Se noi possiamo ottenere questo, potete immaginare che cosa possiamo offrire a chi di voi è minacciato dagli attacchi terroristici?

Con un brillante ribaltamento dell’immagine, Israele è riuscito a trasformare 50 anni di resistenza palestinese all’occupazione in un’industria a domicilio. Etichettandola come “terrorismo”, non solo ha delegittimato la lotta palestinese, ma ha trasformato i territori occupati in un laboratorio di contro insorgenza e controllo della popolazione, gli elementi di avanguardia sia delle guerre estere che della repressione interna. Ha trasformato le tattiche di controllo e gli strumenti bellici dei sistemi di sorveglianza ad esse corrispondenti in prodotti commercializzabili. Non c’è da stupirsi, come ci ricorda costantemente Netanyahu, che “il mondo” ami Israele. Dalla Cina all’Arabia Saudita, dall’India al Messico, dall’Eritrea al Kazakhstan, Israele fornisce gli strumenti con cui i regimi repressivi controllano i loro popoli in agitazione.

La vasta portata militare di Israele è ben documentata. Si dispiega in oltre 130 Paesi ed ha apportato sei miliardi e mezzo di esportazioni nel 2016. Meno note ma più dannose per i diritti civili sono le esportazioni di Israele nel settore della sicurezza. Tre esempi:

1. Israele spinge le agenzie di sicurezza e le forze di polizia straniere a fare pressione per [l’adozione di] prassi da Stato sicuritario nei loro stessi Paesi. Irride alla mancanza di volontà delle democrazie occidentali di impiegare i profili etnici e razziali, come fanno la sicurezza e la polizia israeliane all’aeroporto internazionale Ben Gurion ed in tutto il Paese. In contesti specifici come gli aeroporti, i profili possono certamente essere efficaci – il Ben Gurion è senza dubbio uno degli aeroporti più sicuri al mondo – ma questo avviene al prezzo di umiliare e far perdere tempo alle persone prese di mira. Comunque, quando vengono estesi al resto della società, perdono quell’efficacia e quasi invariabilmente si trasformano in un metodo legalizzato di intimidazione nei confronti di chiunque un governo voglia controllare.

2. La polizia nazionale israeliana svolge decine di programmi e conferenze di formazione delle forze di polizia di tutto il mondo, in cui pone l’accento non sulle tattiche di polizia interne, ma piuttosto sulla “contro insorgenza interna” e la pacificazione delle popolazioni che creano problemi. Il Centro ‘International Law Enforcement Exchange’ della Georgia negli Stati Uniti sostiene che 24.000 poliziotti americani sono stati formati dalla controparte israeliana. A differenza di altri Paesi occidentali, che pongono un netto discrimine tra i loro militari che conducono operazioni all’estero e le proprie agenzie di polizia e di sicurezza interna incaricate di garantire la sicurezza, ma anche i diritti civili dei loro cittadini, Israele non ha simili limiti interni. L’esercito e la polizia costituiscono un’unità interconnessa, con forze paramilitari – lo Shin Bet (servizi di sicurezza interna, ndtr.), la polizia di frontiera, il comando patriottico, Yasam (unità speciale antisommossa della polizia israeliana, ndtr.) ed altre – che li mettono ulteriormente in comunicazione tra loro. Quindi in Israele la distinzione tra cittadini con diritti civili e non cittadini “sospetti” e presi di mira si perde, e si tratta di una distinzione che la politica israeliana tenta di cancellare anche nella sua attività di formazione della polizia straniera.

3. Israele è un leader mondiale nella messa in sicurezza delle città, dei grandi eventi e delle aree “non governabili”. C’è un legame diretto tra la chiusura dei quartieri, villaggi e campi profughi palestinesi e la vendita di queste tattiche alla polizia locale per creare “zone di sicurezza” sterilizzate e “difese perimetrali” intorno a centri finanziari, distretti governativi, ambasciate, sedi in cui il G-8 e la NATO tengono i loro incontri al vertice, piattaforme petrolifere e depositi di carburante, centri di conferenze in ambienti “insicuri” del Terzo Mondo, località turistiche, centri commerciali, porti ed aeroporti, siti di grandi eventi e le case e gli itinerari di viaggio dei ricchi. Israele è altrettanto coinvolto nella questione del muro di confine di Trump, che è soprannominato il “confine Palestina-Messico.”

Ci sono l’impresa israeliana Magna BSP, fornitrice dei sistemi di sorveglianza che circondano Gaza, che è entrata in partenariato con imprese statunitensi per inserirsi nel lucroso mercato della “sicurezza di confine” ; la NICE Systems, i cui tecnici sono laureati dell’unità di sorveglianza 8200 dell’esercito israeliano. La ‘Privacy International’ ha indagato su come i governi autocratici di Tajikistan, Kyrgyzstan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakhstan siano riusciti a monitorare attivisti per i diritti umani, giornalisti ed altri cittadini all’interno e fuori dai loro Paesi, rivelando i più intimi dettagli delle loro vite private. “I principali operatori”, ha concluso Human Rights Watch, “sono multinazionali con uffici in Israele – NICE Systems e Verint.”

Nella sua versione definitiva lo Stato sicuritario auspicato da Netanyahu e Katz è essenzialmente un modello di Stato di polizia in cui la popolazione è facilmente manipolata dall’ossessione della sicurezza. Il modello israeliano è particolarmente odioso perché funziona: ne è testimone la pacificazione dei palestinesi. Sembra senza dubbio un buon argomento pubblicitario. Il problema è che trasforma la gente stessa del Paese in palestinesi senza diritti. Sembrerebbe che lo Stato sicuritario possa conciliarsi con la democrazia – dopo tutto, Israele si spaccia come “l’unica democrazia nel Medio Oriente.” Ma solo i pochi privilegiati nel mondo potranno godere delle tutele democratiche dello Stato sicuritario, come fanno gli ebrei israeliani. Le masse, coloro che resistono alla repressione e all’esclusione da parte del sistema capitalistico, coloro che lottano per una vera democrazia, sono condannati ad essere palestinesi globali. L’ ‘israelizzazione’ di governi, eserciti e forze di sicurezza significa la ‘palestinizzazione’ della maggioranza di noi.

Jeff Halper è un antropologo israeliano, direttore del Comitato Israeliano contro la Demolizione delle Case (ICAHD) ed autore del libro “Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale” (Londra, Pluto Books, 2015).[di prossima edizione italiana, ndt]

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La sorveglianza di Gerusalemme rivela una “nuova generazione” di coloni ebrei radicali

Yotam Berger – 27 agosto 2017, Haaretz

Una fonte dello Shin Bet dice che il punto di svolta è stata l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona, e il comportamento prudente dello Shin Bet in quell’occasione. Da allora, attacchi contro palestinesi, attivisti di sinistra e soldati si sono moltiplicati.

Fino a poco tempo fa l’avamposto di Baladim, nei pressi della colonia di Kochav Hashahar in Cisgiordania, preoccupava molto il servizio di sicurezza Shin Bet. Considerava Baladim il centro del terrorismo ebraico in Cisgiordania e attribuiva attacchi contro molti palestinesi, attivisti di sinistra e soldati alle poche decine di giovani che vi si stabilivano in modo saltuariamente.

Da quando è stato evacuato due mesi fa, Baladim è rimasto praticamente vuoto; la cosiddetta “gioventù della collina” [“Hilltop Youth”, gruppi di giovani estremisti ebrei molto violenti, ndt.] non era tornata. Ma lo Shin Bet afferma che questa quiete è ingannevole: negli ultimi mesi la frangia di estremisti si è in realtà rafforzata. Lo Shin Bet la definisce “la seconda generazione dell’infrastruttura della rivolta.”

La prima generazione è stata responsabile, tra le altre azioni, dell’uccisione della famiglia Dawabsheh nel villaggio palestinese di Duma nel 2015 [in cui morirono bruciati vivi un bambino di 18 mesi e i suoi genitori, ndt.] e di aver incendiato la chiesa dei Pani e dei Pesci lo stesso anno. Ora lo Shin Bet teme una nuova ondata di terrorismo ebraico.

Ma persone al corrente sia del lavoro dello Shin Bet che dei “giovani delle colline” considera esagerati i termini “infrastruttura” e “organizzazione terroristica”. Questa “seconda generazione” è solo un gruppo amorfo, sostengono, ed i suoi membri – poche decine di persone dai 16 ai 25 anni – non funzionano come un’organizzazione coordinata e gerarchica.

Sia lo Shin Bet che molti dei giovani delle colline descrivono Meir Ettinger, un nipote del rabbino Meir Kahane [estremista ebreo americano razzista e fondatore del partito “Kach, ndt.] come il leader della prima generazione. Lo stesso nome “la rivolta” viene da un documento che egli scrisse delineando piani per rovesciare il governo. Ma persone in contatto con i giovani delle colline dicono che la decisione dello Shin Bet di fare di Ettinger il bersaglio ebreo più ricercato era essenzialmente una profezia che si autoavverava.

Se avesse potuto avrebbe mandato fiori allo Shin Bet,” dice uno. “Sono loro che hanno fatto di lui una rockstar.”

Lo Shin Bet è orgoglioso di aver smantellato la “prima generazione”, cosa che ha fatto in parte ponendone alcuni membri in detenzione amministrativa, o prigione senza imputazione, e colpendo altri con divieti di ingresso in Cisgiordania. Pur ammettendo che alcune di queste persone non avevano rapporti con gravi crimini come gli assassinii di Duma, lo Shin Bet afferma che queste misure discutibili erano necessarie per smantellare la rete terroristica.

Ma la nascita di una seconda generazione mette in questione l’efficacia di queste tattiche. Il punto di svolta, afferma una fonte dello Shin Bet, è stata l’evacuazione dell’avamposto illegale di Amona in febbraio, e specialmente il comportamento cauto dello Shin Bet in quell’occasione. Da allora attacchi contro palestinesi, attivisti di sinistra e soldati si sono moltiplicati. Lo Shin Bet sostiene che i coloni estremisti veterani hanno iniziato a tornare in Cisgiordania ed altri nuovi si sono uniti alle loro fila.

Il servizio di sicurezza afferma che questo in realtà dimostra l’efficacia delle sue misure amministrative: l’incremento [degli attacchi] è iniziato quando i divieti di ingresso in Cisgiordania sono scaduti. Riguardo alla nuova generazione, non ha subito queste misure, per cui i suoi membri “non provano il timore e l’effetto dissuasivo di molti attivisti veterani,” sostiene il servizio di sicurezza.

Secondo lo Shin Bet la “seconda generazione” consiste in qualche decina di persone. Dall’inizio dell’anno l’esercito israeliano ha emanato 47 ordini amministrativi contro di loro, di cui 28 sono ancora effettivi. Cinque sospetti sono attualmente in arresto, soprattutto per aver violato tali ordini – per esempio, per aver preso contatto con qualcuno che gli ordini vietavano di contattare – e poi hanno rifiutato la libertà condizionata. L’unico detenuto amministrativo, Elia Nativ, è stato rilasciato lo scorso fine settimana.

Il diciannovenne Nativ, della colonia di Yitzahr, è stato arrestato a giugno perché sospettato di coinvolgimento nell’incendio di due villaggi palestinesi e nel tentativo di danneggiare automobili diplomatiche a Gerusalemme nei pressi del consolato spagnolo e una struttura dell’ONU. Ma quando un giudice ha ordinato di liberarlo subito dopo per insufficienza di prove, lo Shin Bet lo ha posto in detenzione amministrativa per due mesi.

In un’intervista con Haaretz, il padre di Nativ, Yitzhak, ha smentito voci di una “seconda generazione della rivolta,” affermando di non pensare che suo figlio “abbia mai parlato con Ettinger.”

Persino il giudice li ha liberati,” nota. “Un’organizzazione terroristica è un’organizzazione che commette attacchi, che intende uccidere persone. Non è qualche ragazzino che lancia qualcosa. Che lo Shin Bet sia addirittura coinvolto in questa faccenda mi sembra allucinante.”

Una retata notturna a Gerusalemme pesca nove sospetti

Nativ è stato arrestato con altri otto durante una retata notturna in un appartamento di Gerusalemme di proprietà di un attivista dell’estrema destra che era all’estero. L’appartamento era abitato saltuariamente da circa 10 persone considerate membri della seconda generazione. Ma di questi arrestati solo Nativ e Hanoch Rabin – che lo Shin Bet considera in realtà parte della prima generazione – erano sospettati di reati contro la proprietà. E Rabin, che in precedenza aveva abitato in vari avamposti illegali in Cisgiordania, è stato rilasciato pochi giorni dopo.

Gli altri sono stati sospettati solo di aver violato ordini amministrativi, e molti sono stati rapidamente rilasciati. Ma uno, Yisrael Meir Samany di Gerusalemme, è stato di nuovo arrestato pochi giorni dopo insieme ad altre due persone, mentre portavano attrezzi che secondo lo Shin Bet pensavano di usare per danneggiare proprietà palestinesi. Un ragazzo di 16 anni che è stato arrestato con Samany è stato rilasciato, ma di nuovo arrestato qualche giorno dopo per aver violato un ordine amministrativo.

Lo Shin Bet afferma che la seconda generazione ha legami con la prima. In base alla sorveglianza dell’appartamento di Gerusalemme prima della incursione notturna, Rabin non era l’unico attivista della prima generazione che vi passava del tempo.

Un altro arrestato quella notte è stato Moshe Shahor, diciannovenne di Ramle, un altro attivista coinvolto in avamposti illegali. Suo nonno, Dov Lior, è rabbino nella colonia di Kiryat Arba [nei pressi di Hebron, una delle colonie più estremiste dei Territori Occupati, ndt.]. Shahor è stato arrestato per la violazione di un ordine amministrativo ma ha rifiutato la libertà condizionata, per cui è rimasto in carcere.

In seguito Shahor ha scritto una lettera al capo del fronte interno dell’esercito israeliano che ha firmato l’ordine amministrativo contro di lui, che è circolata tra gli attivisti dell’estrema destra.

Neanche lei pensa che il caso di un adolescente che incontra un amico per mangiare una pizza per qualche minuto sia davvero un fatto in grado di mettere in pericolo la sicurezza della regione,” ha scritto. “Al contrario, ciò dimostra chiaramente che quest’ordine intendeva liquidare i giovani delle colline…Il giudice ha proposto che io sia liberato dopo essermi impegnato a rispettare l’ordine amministrativo e a non parlare con quelli con cui mi aveva proibito di parlare. Ma ho deciso che ne avevo abbastanza. Questa volta non voglio firmare.”

Un altro attivista veterano degli avamposti che ha rifiutato la libertà condizionata è David Chai Hasdai, 22 anni. “Per tre anni mi hanno dato ordini che mi hanno allontanato dai miei amici,” ha detto in tribunale, secondo amici che erano presenti. “Non voglio obbedire a questo ordine.”

Altre persone arrestate in quella retata erano di una generazione più giovane, compresi alcuni minorenni. Sono tutti religiosi. Molti, se non tutti, sono di colonie della Cisgiordania. La maggior parte, anche se non tutti, provengono da famiglie stabili.

L’avvocato Chaim Blaycher dell’organizzazione Honenu, che difende molti giovani delle colline, afferma che per la maggior parte sono “davvero bravi ragazzi”, che hanno più bisogno di assistenti sociali che del carcere – un’affermazione ripetuta da altri adulti che li conoscono. Un parente di uno degli adolescenti arrestati afferma che molti ad un certo punto hanno lasciato la scuola per impegnarsi in lavori agricoli o nell’allevamento in avamposti della Cisgiordania.

L’avvocato Itamar Ben-Gvir, un attivista veterano del partito di Kahane che difende anche lui molti giovani delle colline, smentisce allo stesso modo voci di una “rivolta” organizzata con la prima e la seconda generazione, affermando che ciò “nasce o dalla mancanza di comprensione della situazione nella zona o dal fatto che lo Shin Bet vuole finire in prima pagina.”

Blaycher sostiene inoltre che nessuno si sognerebbe di coinvolgere lo Shin Bet per un adolescente laico accusato di danneggiare automobili. Ben-Gvir condivide. Benché gli atti vandalici non siano stati chiariti, dice, “lo stesso Shin Bet ammette che questo gruppo, che chiama la ‘seconda generazione’, non ha attaccato esseri umani,” e gli atti vandalici non riguardano il lavoro dello Shin Bet. “Se la loro visione del mondo fosse diversa, lo Shin Bet non sarebbe coinvolto in questa faccenda,” aggiunge.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele revoca la cittadinanza a centinaia di beduini del Negev facendoli diventare apolidi

Jack Khoury – 25 agosto 2017,Haaretz

Alcuni erano cittadini da 40 anni, hanno fatto il servizio militare e pagato le tasse, ma si sono trovati con lo status di cittadini cancellato schiacciando un tasto e senza ulteriori spiegazioni.

Decine di persone – uomini e donne, giovani e anziani – si ammassano sotto una grande tenda nel villaggio non riconosciuto [villaggi, soprattutto di beduini, che esistono da decenni ma che lo Stato israeliano non riconosce come tali, ndt.] di Bir Hadaj. Alcuni tengono i documenti in una borsa di plastica mentre altri stringono logore buste. Quello che li ha portati in questo villaggio a sud di Be’er Sheva, nel deserto del Negev israeliano, è stato che l’Autorità per la Popolazione, l’Immigrazione e le Frontiere ha revocato la loro cittadinanza, sostenendo che gli è stata concessa per errore.

A giudicare dal crescente aumento di denunce che si sono accumulate negli ultimi mesi, questo sembra un vasto fenomeno tra i beduini che abitano nel Negev. Centinaia se non migliaia di loro stanno perdendo la cittadinanza a causa di “registrazioni sbagliate”. Questa è la giustificazione che hanno ricevuto dal ministero dell’Interno, senza ulteriori dettagli o spiegazioni.

Il cinquantenne Salim al-Dantiri, di Bir Hadaj , per anni ha cercato inutilmente di ottenere la cittadinanza israeliana. Non capisce perché Israele non gliela voglia concedere; suo padre è stato soldato dell’esercito israeliano. “A volte dicono che c’è stato un errore con la registrazione dei miei genitori decine di anni fa. E’colpa nostra?” chiede al-Dantiri. Non è l’unico, ma molti di quelli che sono venuti all’incontro sono restii a dire il proprio nome per timore che ciò possa danneggiarli nei rapporti con l’Autorità per la Popolazione. Altri hanno già perso la speranza.

Mahmoud al-Gharibi, della tribù Al-Azazme della zona di Be’er Sheva è un falegname che è rimasto disoccupato per un anno in seguito a un incidente stradale. Ha 12 figli da due mogli. Una è cittadina israeliana e l’altra è della Cisgiordania. Sette dei suoi figli sono cittadini israeliani ma lui è apolide dal 2000. “Sono andato al ministero dell’Interno per rinnovare la mia carta d’identità,“ racconta. “Lì, senza nessun preavviso, mi hanno detto che hanno annullato la mia cittadinanza in quanto c’era stato un errore. Non mi hanno detto di cosa si trattasse o cosa ciò significasse. Da allora ho presentato 10 ricorsi, ricevendo 10 rifiuti, ogni volta con pretesti diversi. Ho due figli che hanno più di 18 anni ed anche loro sono apolidi. E’ inaccettabile. Ho vissuto in questa zona per decine di anni e mio padre era qui prima di me. Se c’è stato un errore, dovrebbero correggerlo.”

Nella tenda un’altra persona, che desidera rimanere anonima, dice che “molte di queste persone, soprattutto quelle che non parlano molto bene l’ebraico, non capiscono cosa gli stia succedendo. Nessuno spiega niente e improvvisamente il tuo status cambia. Entri come cittadino ed esci privato della cittadinanza, e allora inizia un processo infinito di lungaggini [burocratiche].

Per anni Yael Agmon, dei dintorni di Yeruham, ha accompagnato beduini al ministero dell’Interno per aiutarli a fare le pratiche per il passaporto o il rinnovo della carta d’identità. In molte occasioni ha assistito alla revoca della loro cittadinanza. “Puoi chiaramente vedere come un impiegato inserisce i loro dati nel computer ed essi perdono istantaneamente la loro cittadinanza. Allora devono fare i conti con un processo burocratico infinito. A volte gli costa decine di migliaia di shekel [10.000 shekel = 2.355 €] per l’onorario degli avvocati e alla fine non sempre riottengono la cittadinanza,” dice.

Salman al-Amrat arriva all’incontro nella tenda a causa dello status di sua moglie e del suo figlio maggiore. Il cinquantaseienne membro della tribù Al-Azazme è cittadino israeliano. Sua moglie di 62 anni è apolide benché sia nata qui, dice. “Ogni volta che cerchiamo di avere la sua cittadinanza ci scontriamo con un rifiuto.” Anche il figlio maggiore di Al-Amrat, che ora ha 34 anni, è apolide benché i suoi fratelli minori abbiano finalmente ottenuto la cittadinanza. “Per anni abbiamo tentato di ottenere la cittadinanza per lui, ma inutilmente. Ogni volta dicono di aver perso qualche documento. Ora stiamo tentando con un avvocato. E’ illogico che sei dei miei figli ed io abbiamo la cittadinanza e il mio figlio maggiore no,” dice.

Atalla Saghaira, un abitante del villaggio non riconosciuto di Rahma, ha lottato durante 13 anni per ottenere la cittadinanza, nonostante il suo defunto padre abbia fatto il militare nell’esercito israeliano. Ha iniziato nel 2002, quando ha fatto richiesta di un passaporto e il ministero dell’Interno gliel’ha rifiutato. “Hanno detto che i miei genitori erano diventati cittadini, ma non ne avevano il diritto,” afferma. Alla fine ha ottenuto la cittadinanza israeliana nel 2015. “Ho insistito per avere i miei diritti ed ho iniziato da solo una campagna contro la burocrazia finché ho ottenuto la cittadinanza, ma so che c’è gente che ha rinunciato,” dice. Il padre di Saghaira è stato camionista nell’esercito per molti anni, e se n’è andato dopo essere rimasto ferito. All’epoca aveva sette figli (compreso Atalla), ma tre di loro sono ancora apolidi.

Un altro residente di Bir Hadaj, Abu Garud Salame, lavora nella zona industriale di Ramat Hovav. Sostiene che tutti i suoi cinque figli e tre dei suoi fratelli hanno ricevuto la cittadinanza israeliana ma a lui è stata negata ogni volta che ha chiesto che gli venisse restituita. “Abbiamo vissuto qui per decine di anni. I miei genitori sono stati registrati negli anni ’50 ed ora sono stato privato della cittadinanza. Anche se ci fosse stato qualche errore nella registrazione non so perché devo pagarne io le conseguenze,“ dice. “Perché dobbiamo essere responsabili di quello che è successo decenni fa?”

Cambiamento automatico di status

La parlamentare Aida Touma-Suliman della Lista Unitaria [coalizione di partiti arabo-israeliani arrivata terza alle ultime elezioni israeliane, ndt.] negli ultimi mesi ha ricevuto molti appelli da persone che sono state private della loro cittadinanza israeliana. L’avvocatessa Sausan Zahar del “Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele – Adalah” recentemente ha presentato ricorso al ministro degli Interni Arye Dery e al procuratore generale Avichai Mendelblit chiedendo loro di porre fine a questa politica.

Secondo la sua petizione, queste cancellazioni generalizzate della cittadinanza vanno avanti almeno dal 2010. Quando cittadini beduini vanno agli uffici del ministero degli Interni a Be’er Sheva per occuparsi di questioni di routine come cambiare il loro indirizzo, ottenere un certificato di nascita o per registrare un nome, l’anagrafe esamina il loro status e quello dei loro genitori e nonni, risalendo fino ai primi giorni dello Stato [di Israele].

In molti casi l’impiegato dice loro che la cittadinanza israeliana gli è stata concessa per sbaglio. Immediatamente cambia la loro condizione da cittadini a residenti e si consegna loro un nuovo documento. Alle persone che hanno perso la cittadinanza non viene data nessuna spiegazione né la possibilità di presentare ricorso. Invece l’impiegato gli suggerisce di presentare domanda ed iniziare il procedimento per ottenere la cittadinanza da zero, come se fossero appena arrivati in Israele.

Molti, presi di sorpresa e senza una consulenza legale, non sanno cosa fare. Alcuni presentano una richiesta di cittadinanza, mentre altri semplicemente si disperano. Zahar dice che molte richieste vengono rigettate per la perdita di documenti, per la fedina penale (che non è una ragione valida per negare la cittadinanza) o persino per la difficoltà del postulante a parlare ebraico. Molte donne beduine che hanno perso la cittadinanza ricadono in quest’ultima categoria. Una di queste donne ha presentato appello contro la cancellazione della sua cittadinanza in base ad un presunto errore. Quando si è scoperto che il suo ebraico era lacunoso, il suo appello è stato rigettato. E’ rimasta apolide.

L’appello di “Adalah” al ministro degli Interni evidenzia che persone che sono state cittadine per 20, 30 o persino 40 anni, alcune delle quali hanno fatto il militare, che hanno votato e pagato le tasse, si sono trovate con impiegati che hanno cancellato il loro status schiacciando un tasto. Come residenti permanenti, possono votare per le elezioni amministrative ma non possono candidarsi, votare per le elezioni politiche o candidarsi alla Knesset [il parlamento israeliano, ndt.]. Ricevono servizi come quello sanitario e la sicurezza sociale, ma non possono avere un passaporto israeliano. Se stanno fuori dal Paese per un lungo periodo possono anche perdere la residenza permanente e, a differenza dei cittadini, non possono trasmettere automaticamente il loro status ai propri figli.

Tra quelli che restano senza cittadinanza israeliana ci sono persone nate in Israele da genitori che hanno la cittadinanza israeliana. Ci sono famiglie in cui un figlio è cittadino mentre un altro è residente permanente. Alcune delle persone colpite sono state private della loro cittadinanza quando hanno tentato di rinnovare il passaporto per andare in pellegrinaggio alla Mecca, un precetto obbligatorio dell’Islam e una cosa che ora non possono fare.

Registrazione durante il Mandato Britannico

Lo scorso anno la commissione della Knesset per gli Interni e l’Ambiente ha tenuto una discussione sul problema, in seguito alla serie di ricorsi per la restituzione della cittadinanza. Durante questa discussione i funzionari del ministero dell’Interno hanno confermato che questa politica esiste: quando cittadini beduini arrivano agli uffici del ministero, gli impiegati controllano l’anagrafe per [verificare] la registrazione dei loro genitori e nonni tra il 1948 e il 1952.

Forse quegli anni non sono stati scelti a caso. Tra la fondazione dello Stato [di Israele] nel 1948 e l’approvazione della legge sulla cittadinanza nel 1952, molti arabi non poterono registrarsi all’anagrafe in quanto le loro comunità erano governate da un’amministrazione militare. Ciò includeva zone del Negev che avevano un’alta concentrazione di abitanti beduini dopo il 1948. In molti casi controllare la registrazione dei nonni di una persona richiede la verifica della cittadinanza durante il Mandato Britannico – un periodo in cui la cittadinanza israeliana non esisteva neppure.

Dopo la discussione alla Knesset dello scorso anno, è stato chiesto al ministero dell’Interno di verificare le dimensioni del fenomeno, la sua legalità e tener aggiornata da allora la commissione per gli Affari Interni. Il capo del dipartimento per la cittadinanza del ministero, Ronen Yerushalmi, ha presentato i risultati al presidente della commissione, David Amsalem (del Likud), nel settembre 2016. Intitolato “Registrazioni errate dei residenti del Negev”, il rapporto afferma che “le dimensioni del problema possono riguardare 2.600 persone con cittadinanza israeliana, che potrebbero perderla a causa di errata registrazione da parte del ministero dell’Interno.” Aggiunge che, poiché non sono stati esaminati casi singoli, i dati non sono esatti e il numero potrebbe anche essere maggiore.

Durante un incontro della commissione nel dicembre 2015, il consulente legale della commissione, Gilad Keren, ha manifestato dubbi riguardo alla legalità della procedura: “La legge sulla cittadinanza si riferisce a casi in cui la cittadinanza è stata ottenuta in base a dati falsi, vale a dire in circostanze più gravi, non quando lo Stato ha commesso un errore. Riguarda persone che hanno fornito informazioni false prima di ottenere la cittadinanza. La legge consente al ministero dell’Interno di revocare la cittadinanza solo se sono passati meno di tre anni da quando è stata concessa. Dopo quel periodo per revocarla c’è bisogno dell’intervento di un tribunale. Quindi non capisco come, quando una persona è stata un cittadino per 20 anni e lo Stato fa un errore, lo status di questa persona venga modificato.”

Il ricorso di “Adalah” al ministro dell’Interno e al procuratore generale chiede una sospensione immediata della prassi di cancellazione della cittadinanza. Zahar sostiene che la persona colpita da questa cancellazione non ha neppure il diritto ad un processo prima che la sua cittadinanza israeliana gli venga ritirata. Oltre ad infrangere il diritto alla cittadinanza, scrive, questa politica viola in modo palese il diritto all’uguaglianza. Si fonda in modo discriminatorio sulla nazionalità, in quanto i cittadini non ebrei si sono trovati con la revoca della cittadinanza in seguito ad un errore nella registrazione dei loro genitori o nonni in base alla “Legge del Ritorno” [che consente a chiunque sia ebreo di ottenere la cittadinanza israeliana, ndt.].

Temo che quello che si vede sia solo la punta dell’iceberg e che quello che non si è ancora visto sia ancora più grave,” afferma Touma-Suliman. Dice che se Dery e Mendelblit non risolvono presto la questione, questa arriverà all’Alta Corte di Giustizia. “Non ci sono giustificazioni per questa politica,“ dice. “Il ministero viola in modo evidente la legge. E’ inaccettabile che in una famiglia che vive sotto lo stesso tetto metà dei bambini siano cittadini mentre l’altra metà siano residenti o persone con uno status indeterminato.”

Haaretz ha contattato una serie di importanti ex funzionari del ministero dell’Interno e dell’Autorità per la Popolazione, compreso il capo dell’agenzia fino al 2010, Yaakov Ganot, e Amnon Ben-Ami, il suo direttore fino a poco tempo fa. L’ex ministro dell’Interno Eli Ben-Yishai, che ha recentemente ricoperto l’incarico nel 2013, ha affermato che se è stata presa una decisione per revocare la cittadinanza dei beduini del Negev, “non ne so niente e non ricordo di aver avuto una discussione riguardo a questo problema durante il mio mandato.”

L’Autorità per la Popolazione ha risposto che i casi succitati non erano esempi di revoca della cittadinanza ma di errori di registrazione nel passato, in cui persone sono state registrate come cittadini ma non lo erano. Ha detto che ora è il momento di risolvere il problema, aggiungendo che il ministero sta discutendo della questione, il ministro ha preso una decisione e la commissione per gli Affari Interni della Knesset è stata informata. Afferma che “sono stati fatti dei tentativi per affrontare questo problema dal punto di vista legale in un modo che non colpisca lo status in Israele di queste persone.” L’Autorità per la Popolazione sostiene anche che il procuratore generale si occuperà del ricorso presentato da “Adalah”.

L’ufficio di Dery ha insistito sul fatto che i casi non erano assolutamente esempi di revoca della cittadinanza ma piuttosto situazioni di risistemazione dello status legale. “Il ministero ha destinato funzionari presso l’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione per occuparsi del processo che riguarda questo gruppo di persone nel modo più facile e semplice possibile. Il ministro Dery ha chiesto loro di trovare ogni modo possibile per accelerare la procedure nel tentativo di evitare di imporre loro qualunque tipo di disagio,” afferma l’ufficio.

L’ufficio del procuratore generale ha detto ad “Adalah” che l’anagrafe generale sta procedendo ad un esame di migliaia di persone che sono state erroneamente registrate come cittadini invece che come residenti permanenti. La risposta afferma che a coloro i quali vengano trovati registrati come tali per errore sarà concesso di ottenere la cittadinanza con un processo accelerato, nel caso in cui rispondano ai criteri legali.

In base alla risposta, finora a nessuno è stata negata la cittadinanza ed i diritti dei residenti sono stati rispettati. Di conseguenza la risposta afferma che la Procura Generale non vede ragioni per intervenire sulla decisione dell’Autorità per la Popolazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Solo i palestinesi possono cambiare la loro realtà

Amira Hass, 23 agosto 2017, Haaretz

I palestinesi sono dei prigionieri convinti di non potercela fare senza le donazioni dei loro carcerieri.

Cominciamo dalla fine: anche se i palestinesi avessero un’unica, unita, rispettata leadership che avesse una reputazione di integrità, ed anche se i suoi membri avessero eccellenti doti intellettuali, si dedicassero al loro popolo ed avessero capacità strategiche, sarebbe stato difficile per loro sfidare l’ attività di esproprio/acquisizione che Israele continua a rafforzare e intensificare. Difficile, ma possibile.

Ma non c’è un’unica leadership, ce ne sono parecchie, e litigano tra di loro anche quando appartengono allo stesso partito (Fatah), organizzazione (OLP) o contesto istituzionale (due governi). Non è colpa del Presidente palestinese Mahmoud Abbas, ma di un sistema e di un modus operandi di cui lui è al tempo stesso uno dei creatori ed uno dei risultati.

L’atteggiamento della popolazione verso la leadership è caratterizzato da sospetto, sdegno e disprezzo, insieme a paura. Le accuse più blande rivolte alla leadership di Ramallah parlano di mancanza di organizzazione, inefficienza e indolenza. Quelle più gravi riguardano la corruzione e l’attaccamento al potere per motivi personali e settari. Accuse simili sono lanciate in modo leggermente meno esplicito al governo ed alle Ong di Gaza.

A molti è chiaro che il quadro di riferimento di Oslo, che è scaduto nel 1999, era una trappola. I Paesi donatori a favore dei palestinesi continuano a sostenerlo per timore di un disastro umanitario ancor più grave, della perdita di controllo e perché sono incondizionatamente fedeli ad Israele. Le donazioni sono diminuite, ma restano una trappola. Implicano obbedienza e mantenimento della “calma”, o consentono solo una collera di bassa intensità. Ma i palestinesi sono dei prigionieri convinti di non potercela fare senza le donazioni dei loro carcerieri.

La testa gira ed il cuore duole, perché di fronte a loro c’è un nemico sofisticato, malvagio ed efficiente, che non ha confini.

Visivamente, l’immagine di una piovra potrebbe essere appropriata, ma vi sono due problemi nell’utilizzarla per raffigurare il regime israeliano. Uno è che ricorda le caricature antisemite, ma quello è il problema di un regime che imita le caricature. Il secondo è che Israele sfodera molto più di otto tentacoli, in quanto mette insieme diverse tradizioni di dominazione – occupazione militare, colonialismo (l’espulsione di un popolo dalla sua patria per insediare altri al suo posto) e apartheid (poiché l’espulsione non è del tutto riuscita, ne è seguita la separazione basata sull’ineguaglianza). Dovrebbe essere chiaro che questo si riferisce alla situazione su entrambi i lati della Linea Verde (linea di demarcazione tra Israele ed i Paesi arabi confinanti fino alla guerra del 1967, ndtr.). Israele ha avuto un’opportunità per cambiare nel 1993. Ha scelto di non coglierla.

Un’immagine più adeguata potrebbe essere quella di un computer che emette comandi in tutte le direzioni. Una volta programmato, non si ferma più. Spedisce squadre armate a irrompere nelle case della gente mentre dorme ed a confiscare denaro e proprietà; squadroni di distruzione a demolire asili, case e pozzi: squadre armate non ufficiali a scacciare pastori e contadini. Impiega anche ladri di terra – funzionari, progettisti, architetti e imprese di costruzione – che fanno in modo che i palestinesi soffochino nei loro centri abitati. Lo spazio è tutto per gli ebrei, dice il comando supremo. Il computer emette anche comandi mentali: ignora qualunque cosa dedicandoti in modo esclusivo all’eredità ebraica. Attraverso l’orgoglio per la nostra Nazione, che produce premi Nobel, elimina qualunque altra cosa come non importante. Declama la nostra sofferenza ed eroismo ad Auschwitz.

Contro gli efficienti e complessi apparati israeliani stanno i palestinesi, con una pletora di dirigenti in competizione, strategie in conflitto, ministri del governo che non si coordinano tra loro, un’informazione che non è di dominio pubblico e non è accurata, la faticosa duplicazione di istituzioni il cui lavoro si sovrappone, i vuoti slogan e la disperazione. Una manifestazione di questa disperazione è l’enunciato che Israele è la parte forte, per cui il cambiamento può e deve venire solo da Israele. Ma no, gli israeliani non hanno interesse a cambiare la situazione. Noi ne traiamo beneficio. La spinta al cambiamento può e deve venire dagli stessi palestinesi, a casa loro.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Acquirente fai attenzione: l’impresa israeliana che aiuta i governi a spiare i loro stessi cittadini

Richard Silverstein ,martedì 22 agosto 2017, Middle East Eye

Consentendo ai governi di violare i telefoni dei loro cittadini, un’azienda israeliana di sicurezza informatica ha presumibilmente reso il mondo più pericoloso per gli attivisti a favore dei diritti umani che lottano contro l’impunità delle imprese e degli Stati.

Dato che negli ultimi anni gli smartphone si sono moltiplicati e sono diventati un mezzo di comunicazione indispensabile per tutti noi, si sono moltiplicate anche le nuove aziende che si dedicano a violare questi telefoni a favore di governi – compresi i servizi militari, dello spionaggio e della polizia.

I clienti di queste imprese innovative utilizzano la nuova tecnologia per sorvegliare criminali e terroristi, per individuare e far fallire i loro piani. Questo è un uso legittimo. Ma ce ne sono altri che sono molto più redditizi per le imprese – e molto meno accettabili per le società democratiche.

Prendiamo per esempio l’attivista per i diritti umani degli Emirati [Arabi Uniti] Ahmed Mansoor. Nell’agosto 2016 ha ricevuto un messaggio ingannevole [ phishing message] che sembrava provenire da una fonte fidata. Ma si è insospettito ed ha immediatamente inviato il suo telefono a “Citizen’s Lab” [Laboratorio del Cittadino, centro studi interdisciplinare che si occupa del controllo sulle informazioni, ndt.] dell’università di Toronto per un’analisi forense.

Da questa verifica è risultato che le autorità degli Emirati si erano procurate “Pegasus”, il più potente programma di malware [sistemi usati per apportare modifiche indesiderate ad un apparecchio informatico, ndt.] mai creato che si possa trovare sul mercato e venduto dall’azienda israeliana “NSO Group”.

Se Mansoor avesse aperto il link, esso avrebbe preso il controllo del suo telefono e consentito alla polizia di accedere non solo a tutto quanto vi si trovava (email, contatti e messaggi di testo, per esempio), ma anche alla macchina fotografica, al video e all’audio. La polizia avrebbe sentito e visto tutto quello che faceva e sarebbe stata in grado di prevenire ogni sua azione.

      1. Attacchi di “Pegasus”

In un caso collegato del 2016, le autorità degli EAU hanno anche utilizzato “Pegasus” in un tentativo di intrusione che ha preso di mira il giornalista di MEE Rory Donaghy, che informava in modo critico sui soprusi del regime autocratico del Paese. Nel pieno di un’inchiesta su questo attacco, il “Citizen’s Lab” ha scoperto che 1.100 attivisti e giornalisti del regno erano stati presi di mira allo stesso modo e che il governo aveva pagato a “NSO Group” 600.000 dollari per questi tentativi [di intercettazione].

Anche se è un prodotto commerciale, “Pegasus” – come molti altri strumenti simili per lo spionaggio ora sul mercato – è chiaramente anche un mezzo politico che consente a regimi autoritari di spiare i propri cittadini.

Infatti potrei andare anche oltre e dire che “Pegasus” è spesso utilizzato come arma informatica offensiva usata dall’élite mondiale per proteggere i propri interessi e contrastare il legittimo controllo da parte delle Ong e di altre associazioni di attivisti.

Il governo compra (la tecnologia) e può usarla come vuole,” ha detto a “HuffPost” Bill Marczak, un ricercatore di “Citizen’s Lab” che ha analizzato molte campagne di controllo che secondo lui sono state condotte con “Pegasus”.

Sono praticamente dei mercanti di armi digitali.”

Nelle ultime settimane il gruppo finanziario privato che possiede “NSO Group”, valutato oggi 1 miliardo di dollari, ha cercato di vendere la compagnia, sollevando grandi questioni tra gli attivisti dei diritti digitali in merito a se un nuovo investitore ridurrà il sospetto uso del sistema di spionaggio dell’azienda contro dissidenti politici ed attivisti da parte di alcuni governi.

      1. Dall’esercito alla tecnologia

Ci sono parecchie imprese che creano questo tipo di software maligni in vari Paesi, ma alcune di quelle di maggior successo sono israeliane.

Ciò è principalmente un risultato della “SIGINT-Unità 8200”, la più numerosa dell’esercito israeliano, che spia i segnali elettromagnetici, monitora, intercetta e sorveglia i nemici di Israele in Medio Oriente e in tutto il mondo.

I suoi ufficiali ricevono l’addestramento più sofisticato nello spionaggio ed uso dei segnali e creano la tecnologia più avanzata per farlo. Quando lasciano il servizio attivo trovano le porte aperte nel mondo tecnologico. Possono avere un lavoro molto ben remunerato nelle grandi imprese o utilizzare le competenze che hanno acquisito nell’esercito per fondare un’azienda innovativa propria.

Alcune delle aziende di maggiore successo includono Waze, Wix, Taboola, NICE Systems, Amdocs, Onavo (acquistata da Facebook per 150 milioni di dollari), Checkpoint, Mirabilis e Verint. 

Molti dei progetti riguardano la sicurezza informatica, che è quello che l’ “Unità 8200” è stata costituita per debellare nei suoi tentativi di intercettare le comunicazioni delle forze nemiche di Israele. Alcune iniziative sono concentrate sulla protezione della sicurezza informatica. Questi sono i bravi, o i “cappelli bianchi” nella terminologia degli hacker.

Ma altri continuano lungo la direzione che gli hacker dell’”Unità 8200” perseguono durante il servizio militare: sono destinati ad aggirare le funzioni di sicurezza di vari sistemi.

Forse quella che ha avuto più successo tra queste imprese è “NSO Group” che si trova a Herziliya [importante università privata israeliana in stretti rapporti con i servizi di sicurezza, ndt.], il cui motto è “rendi il mondo un posto più sicuro.” Ma l’azienda ha reso sicuramente il mondo molto più pericoloso per un gran numero di attivisti politici e per i diritti umani che lottano contro l’impunità di imprese e governi.

      1. Vulnerabilità da miliardi di dollari

NSO” è stata fondata nel 2010 da due veterani dell’esercito israeliano, Shalev Hulio and Omri Lavie, che non erano stati nell’“Unità 8200” (nonostante informazioni in contrario). Secondo la rivista israeliana “Globes” [quotidiano di informazioni finanziarie, ndt], Lavie ha fatto il militare nei corpi di artiglieria e Hulio nel servizio di ricerca e soccorso.

Alle scuole superiori né Hulio né Lavie erano studenti particolarmente brillanti e, secondo le informazioni del “Globes”, hanno passato un sacco di tempo insieme sulla spiaggia. Dopo aver lasciato l’IDF, hanno deciso di diventare imprenditori di servizi in rete.

NSO” è la loro terza e di gran lunga più importante iniziativa imprenditoriale di successo. Secondo i fondatori, la sua nascita è avvenuta per puro caso. Vari clienti avevano chiesto loro se ci fosse un modo per prendere il controllo di un cellulare senza avere accesso fisico all’apparecchio reale.

Benché avessero sentito dire che c’era [questa possibilità], non riuscivano a trovare nessun ingegnere informatico che avesse idea di come farlo, finché un giorno, seduti in un caffè, i due udirono per caso parlarne veterani dell’“Unità 8200”. Così nel 2010, proprio quando gli smartphone stavano per essere trasformati da oggetti per un solo uso in apparecchi quotidiani potenti, multiuso e indispensabili, fondarono “NSO”.

Iniziarono a farsi una clientela tra le forze di polizia di vari Paesi, offrendo la possibilità di spiare criminali sospetti in modi che nessuno aveva mai previsto. Fondarono una succursale per le vendite negli USA, “WestBridge Technologies”, per incentivare la penetrazione commerciale in uno dei loro maggiori mercati potenziali.

Attraverso la “Francisco Partners”, la società di capitale di rischio che nel 2015 ha comprato “NSO”, questa è finita sotto l’egida di un’impresa che possiede una serie di altre compagnie di telecomunicazioni che hanno fornito informazioni sensibili per fare passi avanti nelle possibilità di hackeraggio. Per esempio, “Intelligence Online” [rivista informativa nel campo dell’informatica, ndt.] riporta che Boaz Goldman è presidente del consiglio di amministrazione di “Inno Networks”, che installa reti di comunicazione mobile (3G e 4G). E’ appena entrato nel consiglio di amministrazione di una holding con sede in Lussemburgo che include “NSO Group” in un complicato rapporto finanziario. Questo accordo d’affari fornisce all’azienda di armi informatiche un accesso diretto a grandi reti (SS7 – Signal System 7) utilizzate per trasmettere testi, email, chiamate telefoniche, dati di geo-localizzazione e chiavi di cifratura.

NSO” ha anche iniziato a crearsi fonti che gli forniscono accesso a prototipi di modelli di cellulari prima che vengano immessi sul mercato, il che gli permette di fare analisi scientifiche in modo che gli ingegneri di “NSO” possano cercare falle di vulnerabilità che consentano un accesso totale ai telefoni che i loro clienti desiderano prendere di mira.

      1. Zona grigia

Si potrebbe pensare che i produttori di telefonini intendano proteggere i propri prodotti come Fort Knox [area militare in cui sono conservate le riserve auree e monetarie degli USA, ndt.] e vietarli agli sguardi loschi di hacker come “NSO”. Ma l’impresa opera in una zona grigia e cerca di garantirsi quello di cui ha bisogno da varie fonti sia all’interno che all’esterno delle industrie produttrici.

Prima dei portatili, i criminali comunicavano nel modo in cui lo facevano tutti: con telefoni fissi, mail o di persona. La tecnologia per intercettare o controllare queste comunicazioni era semplice e primitiva: per i telefoni si usava una “cimice” [microspie per l’ascolto di conversazioni private, ndt.] su una linea telefonica.

La cimice avrebbe dovuto presumibilmente essere approvata da un giudice ed essere messa in funzione con l’aiuto di una compagnia telefonica. C’era un processo di controllo e questo veniva in genere rispettato, almeno nelle società democratiche.

La comunicazione elettronica ha cambiato tutte le regole, aprendo nuove modalità per spiare le singole persone. Si possono intercettare dall’esterno i segnali di comunicazione tra chi parla. “NSO” ne ha approfittato, sviluppando un programma che, una volta scaricato, prenderà il controllo del telefonino di chi lo utilizza.

Così non c’è più bisogno di intercettare telefonate, perché il cliente di “NSO” è effettivamente all’interno dello stesso telefono. Le forze di polizia ed i governi possono distruggere i piani per commettere reati o attacchi terroristici prima che avvengano e preservare l’ordine pubblico.

      1. Una breccia delle dimensioni di un camion

Ma c’è un aspetto problematico in questa tecnologia per altri versi benefica: “NSO Group” controlla solo quelli che l’hanno comprata, non l’utilizzatore finale. Il primo cliente può offrirla ad altri individui o enti nel suo governo, o creare un’identità commerciale fittizia per celare l’uso finale che farà di “Pegasus”.

NSO” sostiene di seguire tutte le regole israeliane che governano l’esportazione dei suoi prodotti e vende solo agli alleati di Israele e mai ai suoi nemici. Sostiene anche di vendere solo a governi e mai a singoli individui o ad utilizzatori non autorizzati. Afferma che “Pegasus” è previsto solo per lottare contro criminali e terroristi e mai per essere usato a fini politici.

Tuttavia sottolinea che, una volta che ha venduto il prodotto, non ha il controllo (o per lo meno questo sostiene) su chi usa la tecnologia o sul come. Questa è una breccia abbastanza grande da farci passare un camion Mack [marca che produce negli USA camion enormi, ndt.], e consente ad “NSO” – e a decine di altre imprese di spionaggio informatico che offrono programmi simili – di evitare la responsabilità sui modi ripugnanti in cui la loro tecnologia viene usata.

Nel caso di Mansoor l’hackeraggio è stato diretto contro un cittadino considerato un criminale dallo Stato. Ma egli non lo è da nessun punto di vista riconosciuto da una società democratica. Non è stato imputato di nessun reato, di aver rapinato qualcuno o di aver messo una bomba. Nel 2011 è stato condannato a tre anni con l’accusa di oltraggio allo Stato (in seguito è stato amnistiato e liberato) – e ciò a quanto pare è stato sufficiente in un regime autocratico come quello degli EAU per considerarlo sospetto.

La tecnologia dell’”NSO” è caduta in cattive mani anche in Messico. Come ha informato il “New York Times”, i telefoni di attivisti politici, per i diritti umani e contro la corruzione messicani che stavano facendo un’inchiesta su possibili delitti commessi dal governo e dai suoi agenti sono stati infettati da “Pegasus”. Il “Times” afferma che le vittime se ne sono accorte per la prima volta nell’estate 2016.

Una di queste era l’avvocato che rappresenta i genitori di 43 studenti medi uccisi dalla polizia messicana in un caso per cui non è mai stata perseguita. Altri stavano facendo un’inchiesta sulla corruzione di dirigenti d’azienda collusi con rappresentanti eletti.

Secondo mail interne della “NSO” datate a partire dal 2013 e lette dal “New York Times”, il governo messicano ha pagato alla “NSO” più di 15 milioni di dollari per tre progetti. Funzionari messicani hanno negato di essere coinvolti nello spionaggio ed hanno aperto un’inchiesta.

Questi usi violano le disposizioni della licenza di esportazione israeliana in base alla quale “NSO” vende i propri prodotti. Ma ci sono scarse possibilità che i funzionari israeliani intervengano in questo caso. Sono interessati a promuovere le esportazioni israeliane, non a limitarle. Né vedono il proprio ruolo come un servizio di censori nei confronti del comportamento delle imprese israeliane.

Middle East Eye” ha contattato l’agenzia di controllo dell’esportazione per la difesa del Ministero della Difesa israeliano per chiedere di commentare i suoi rapporti con “NSO”. Non ha risposto prima che questo articolo venisse pubblicato. Abbiamo anche posto delle domande all’ufficio stampa del Ministero della Difesa, e neppure questo ha risposto a tempo per la pubblicazione.

Per esempio, molti esportatori di armi israeliani sono sospettati di essere impegnati in truffe e altre pratiche corruttive per ottenere contratti per la vendita di armamenti con eserciti stranieri. Poche tra queste imprese sono state messe sotto inchiesta dalle autorità israeliane, benché a parecchie sia stato vietato di fare affari in vari Paesi.

Citizen Lab” ha detto a “Forbes” che “NSO” ha registrato domini in Israele, Kenya, Mozambico, Yemen, Qatar, Turchia, Arabia Saudita, Uzbekistan, Thailandia, Marocco, Ungheria, Nigeria e Bahrain, suggerendo che “Pegasus” potrebbe essere stato usato in questi Paesi, anche se non ci sono prove evidenti.

Secondo email interne, contratti e proposte di “NSO” visionate dal “New York Times”, “NSO” fa pagare ai clienti 650.000 dollari per spiare i proprietari di 10 iPhone, più 500.000 dollari di commissione per la configurazione.

E’ evidente quanto questo affare possa essere una miniera d’oro – ed anche perché “NSO” potrebbe essere tentata di allentare le considerazioni etiche per massimizzare il suo profitto potenziale. “Middle East Eye” ha cercato un cofondatore di “NSO” e l’addetto stampa dell’impresa per un commento. Nessuno ha risposto.

Da imprenditori astuti quali sono, Lavie e Hulio hanno deciso di poter giocare da entrambi i lati. E’ così che nel 2013 hanno fondato “Kaymera”, un’altra azienda tecnologica con sede nell’università di Herzilya destinata a proteggere i clienti contro intrusioni informatiche indesiderate.

Nella maggior parte delle iniziative imprenditoriali, questo passaggio del confine avrebbe fatto scattare l’allarme. Ci potrebbero essere dei vantaggi nel condividere informazioni: non appena un ingegnere dell’ “NSO” ha individuato il punto debole di un’impresa, potrebbe condividerlo con “Kaymera” per risolverlo.

Ma con la stessa facilità potrebbe succedere il contrario: “Kaymera” potrebbe informare “NSO” dei punti deboli che ha scoperto nei sistemi informatici o di comunicazione di un cliente. Questa informazione potrebbe effettivamente essere monetizzata a favore di entrambe le aziende. Middle East Eye ha contattato “Kaymera” per avere un commento e l’impresa non ha risposto.

Il problema è che, in uno Stato di sicurezza nazionale come Israele, considerazioni etiche come queste passano in secondo piano rispetto ai benefici per la sicurezza e finanziari.

      1. Unicorni e galline dalle uova d’oro

La crescente clientela di “NSO” e i profitti che genera hanno attirato l’attenzione di società di capitale di rischio alla ricerca di opportunità di investimenti lucrosi. Una di queste è stata la società privata di investimenti “Francisco Partners” con sede negli USA.

Nel 2014 la società ha comprato una quota di maggioranza in “NSO” per 120 milioni di dollari. Le migliori società finanziarie investono in un’impresa per un lungo periodo, offrendo non solo un investimento di capitale, ma anche consulenza strategica e gestionale. Ma altre investono a breve termine. “Francisco” è una di queste.

Cosa interessante, “Francisco Partners” e un ramo di “NSO” hanno un passato di rapporti con l’ex consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump Michael Flynn, che ha dato le dimissioni in febbraio dopo indiscrezioni sui suoi rapporti con la Russia.

Secondo moduli informativi finanziari, una controllata di “NSO” con sede in Lussemburgo, “OSY Group”, ha pagato a Flynn 40.280 dollari per il suo ruolo come membro del consiglio di amministrazione dal maggio 2016 al gennaio scorso. Flynn – che avrebbe lavorato per molte imprese di sicurezza informatica – è stato anche consulente del socio proprietario di “NSO”, “Francisco Partners”, ma non ha mai rivelato quanto lo hanno pagato.

Un mese prima che Flynn entrasse nel consiglio di amministrazione di “OSY”, “NSO Group” ha aperto una nuova branca nella zona di Washington chiamata “WestBridge Technologies” che, secondo l’ “Huffington Post”, è “in lizza per contratti con il governo federale per prodotti del gruppo “NSO”. Assumere Flynn avrebbe messo a disposizione di “NSO Group” una figura con ottimi contatti a Washington, per aiutarla a inserirsi nel mondo notoriamente esclusivo della destinazione dei fondi dei servizi segreti.”

Francisco Partners” ha tenuto “NSO” solo per un anno prima di iniziare a venderla con una valutazione di un miliardo di dollari. Nelle scorse settimane “Blackstone Group”, una delle più grandi società finanziarie di Wall Street, avrebbe accettato di acquistare una quota del 40% in “NSO”.

Un investimento di 400 milioni di dollari da parte di “Blackstone” avrebbe fatto diventare “NSO” un “unicorno” (una startup che ha raggiunto il valore di un miliardo di dollari o più) ed offerto ai suoi fondatori – e a “Francisco Partners” – un enorme guadagno.

Data la maggiore penetrazione nel mercato mondiale che l’investitore “Blackstone” avrebbe fornito a “NSO”, le notizie hanno preoccupato gli attivisti per la libertà nella rete.

Access Now”, una Ong statunitense che sostiene un internet libero e democratico, ha dato vita ad una petizione on line ed a una campagna con l’intenzione di informare l’opinione pubblica sul modello di attività di “NSO”. “Citizen Lab” si è unito al progetto scrivendo una lettera aperta al consiglio di amministrazione di “Blackstone”, invitandolo a “considerare con attenzione le implicazioni etiche e per i diritti umani” del loro potenziale investimento.

      1. Blackstone” si ritira

Questa settimana sono comparse notizie secondo cui “Blackstone” è uscita dalle trattative con “NSO” senza arrivare ad un accordo. Rispondendo ad una richiesta di commento da parte di “Middle East Eye” nel giorno in cui è stata annunciata la fine dei colloqui, un rappresentante di “Blackstone” ha rifiutato di commentare l’affare. Un’altra società di investimenti, “ClearSky Technologies”, avrebbe accettato di acquistare una quota del 10% in “NSO”. Ma anch’essa ha confermato a “Middle East Eye” che non investirà nell’azienda.

Un portavoce di “NSO” ha rifiutato di discutere con la Reuters [agenzia di stampa inglese, ndt.] dei colloqui o del perché sono saltati.

Ma pare probabile che la polemica generata da “Access Now” e le questioni sollevate dai giornalisti abbiano reso prudente la società sulla responsabilità che si sarebbe accollata.

Finché ‘Blackstone’ non parla,” ha detto Peter Micek, consulente legale di ‘Access Now’, “non sapremo se hanno ascoltato le voci di difensori dei diritti umani, giornalisti e vittime di reati le cui vite sono state sconvolte dagli strumenti di ‘NSO Group’”.

Ma questo accordo defunto dimostrerà ad altri investitori, compreso l’attuale proprietario di ‘NSO’, ‘Francisco Partners’, che non c’è niente da guadagnare – e tutto da perdere – nell’investire nelle violazioni dei diritti umani.”

Tutto ciò mette in luce nuove domande su come “NSO” fa affari e sull’inconsistenza del suo modello etico. Perché, per esempio, “Pegasus” perde il simbolo e il controllo di “NSO” una volta che viene concessa la licenza ad un cliente? Perché l’azienda non può fissare condizioni esplicite nei suoi contratti stabilendo da chi e come sarà utilizzato?

      1. Condizioni di utilizzo

Sembra ridicolo che un’impresa, la cui tecnologia è destinata a infiltrarsi e controllare le attività di singole persone prese di mira, non sia in grado di monitorare gli usi a cui vengono destinati i suoi prodotti.

Ovviamente, se “NSO” potesse controllare come i clienti utilizzano i suoi prodotti, potrebbe essere ritenuta responsabile se violano le condizioni di utilizzo. Gli attivisti per i diritti umani presi di mira o imprigionati a causa di “Pegasus” potrebbero forse fare causa per le proprie sofferenze a “NSO” in qualche sede giurisdizionale. Questa sarebbe un’ulteriore ragione per cui “NSO” preferisce non sapere quello che succede una volta che il suo malware lascia i suoi server.

E’ indispensabile che il futuro acquirente ne sia consapevole e risponda a queste preoccupazioni in modo costruttivo. Inoltre gli Stati che sono già clienti di “NSO” devono fare un lavoro molto migliore per monitorare come la tecnologia per la sorveglianza viene utilizzata nelle zone di loro competenza.

Gli Stati che stanno pensando di diventare clienti di “NSO” devono anche fornire tutele per garantire che “Pegasus” venga usato unicamente contro i veri cattivi, ma non contro civili, fautori del benessere pubblico, avvocati, giornalisti o attivisti politici.

Richard Silverstein scrive sul blog “Tikun Olam”, dedicato a smascherare gli eccessi dello Stato della sicurezza nazionale israeliano. Il suo lavoro è comparso su “Haaretz”, “Forward”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra in Libano del 2006, “A Time to Speak Out” [Il momento di far sentire la propria voce] (Verso), e a un altro saggio nella raccolta di prossima pubblicazione “Israel and Palestine: Alternative Perspectives on Statehood” [Israele e Palestina: prospettive alternative di sovranità nazionale] (Rowman & Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)