Fonti palestinesi dicono che Abbas sta cercando di ingraziarsi Trump punendo Hamas

Zvi Bar’el, 29 aprile 2017, Haaretz

Mantenere al buio gli abitanti di Gaza potrebbe essere un espediente politico da parte del presidente palestinese per convincere Trump di essere un partner per la pace.

I due milioni di abitanti della Striscia di Gaza sono al buio – non come metafora della mancanza di un orizzonte diplomatico, ma realmente. Il blackout è il vertice dell’assedio economico cui è sottoposto il territorio.

Decine di migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese a Gaza hanno subito un taglio di almeno il 30% ai loro salari e molti lavoratori stanno per essere costretti ad andare in pensione anticipata. L’assistenza fornita dall’ANP ai sistemi sanitario e di welfare a Gaza diminuirà probabilmente in modo drastico. E se non sarà trovata a breve termine una soluzione alla frattura tra Hamas e Fatah, il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas potrebbe dichiarare Gaza sotto la guida di Hamas “Stato ribelle” e forse addirittura definire Hamas un’organizzazione terroristica.

Tutto questo avviene mentre Khaled Meshal, tuttora a capo dell’ufficio politico di Hamas, si accinge a rendere pubblico il nuovo statuto dell’organizzazione, lunedì prossimo in Qatar. Due giorni dopo Abbas incontrerà il presidente USA Donald Trump.

La pressione su Gaza non è casuale, né è slegata dagli sviluppi regionali ed internazionali. Durante un incontro degli ambasciatori palestinesi di tutto il mondo, l’11 aprile in Bahrein, Abbas ha affermato che intende intraprendere un’azione risoluta nei confronti della “pericolosa situazione” creata da Hamas a Gaza. Due giorni dopo ha ordinato i tagli ai salari, in seguito all’annuncio di inizio anno dell’Unione Europea che non avrebbe più finanziato i salari dei dipendenti dell’ANP a Gaza.

Inoltre, a gennaio, il Qatar ha reso noto che l’intervento di emergenza concesso per finanziare l’acquisto di elettricità da Israele per Gaza si sarebbe concluso entro tre mesi. Tale decisione non era inattesa, anche se la dirigenza di Hamas a Gaza era ancora convinta che il Qatar avrebbe continuato a finanziare i pagamenti per l’elettricità.

Allora Abbas ha annunciato che avrebbe finanziato l’acquisto di elettricità se Hamas avesse pagato le relative tasse – una condizione che Hamas non poteva accettare, perché avrebbe triplicato il prezzo dell’elettricità. Giovedì l’ANP ha detto ad Israele che non avrebbe più pagato per l’elettricità e ha chiesto che Israele smettesse di detrarre i pagamenti [per l’energia elettrica destinata a Gaza, ndt.] dalle tasse che raccoglie a nome dell’ANP.

L’ANP ha giustificato tutti questi passi con la cronica carenza di liquidità, ma gli analisti ritengono che Abbas stia cercando di ottenere uno dei due scopi, o forse entrambi: abbattere il governo di Hamas aggiungendo il proprio blocco a quelli imposti da Israele ed Egitto, oppure costringere Hamas ad accettare le richieste dell’ANP guidata da Fatah.

Il pretesto politico ufficiale per la punizione è stata la decisione di Hamas di creare un consiglio amministrativo per gestire i servizi pubblici a Gaza – in sostanza, una sorta di governo. Questo eluderebbe la decisione presa a giugno 2014 di stabilire un governo di unità palestinese finché non fosse possibile svolgere nuove elezioni parlamentari e presidenziali.

Salah Al Bardawil, un alto dirigente di Hamas a Gaza, ha replicato che Hamas avrebbe di buon grado sciolto il consiglio e consentito che il governo di unità governasse Gaza, compresi i valichi di frontiera, se l’ANP avesse trattato Gaza al pari della Cisgiordania. Benché Fatah sostenga che Hamas non le consente di governare correttamente Gaza, Hamas a0fferma che l’ANP compie sistematiche discriminazioni nei confronti di Gaza, il che rende necessario il consiglio am0ministrativo.

Ma questo dissidio non spiega l’improvviso cambio di politica dell’ANP, tre anni dopo la formazione del governo di unità.

Una spiegazione fornita da fonti palestinesi fa riferimento al “clima generale” contrario ad Hamas, sia a livello regionale che internazionale, soprattutto a Washington. Abbas, dicono, vuole portare una “dote” all’incontro con Trump la prossima settimana, dato che il presidente USA ha fatto della guerra al terrore un principio cardine della sua politica estera. Inoltre Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Stati del Golfo condividono questo principio e tutti vedono in Abbas l’unico partner per qualunque eventuale processo diplomatico.

Se davvero Abbas sta punendo Hamas come parte di un‘iniziativa diplomatica, e non solo per ragioni interne, questo potrebbe aiutarlo a convincere Trump che lui sta veramente combattendo il terrorismo come chiede il primo ministro Benjamin Netanyahu e che Netanyahu sbaglia a sostenere di non avere un interlocutore palestinese per la pace. Dimostrare che Abbas sta sinceramente cercando di costringere Hamas ad accettare il governo di unità ed a riconoscerlo come il rappresentante di tutti i palestinesi, scardinerebbe l’ulteriore argomentazione di Netanyahu che Abbas non può essere un interlocutore perché non rappresenta Gaza.

Se Hamas rifiuta di cedere nonostante queste pesanti pressioni, Abbas potrebbe rafforzarle, forse arrivando a dichiarare Hamas una organizzazione terroristica. Ma questo sembra improbabile, dato che significherebbe un totale boicottaggio internazionale di Gaza, a cui ci si aspetta si uniscano anche Paesi come la Turchia e il Qatar.

A quanto pare Meshal ha deciso di rendere pubblico il nuovo statuto di Hamas lunedì, nella speranza che provocare una risonanza mediatica sul “cambiamento” nelle posizioni dell’organizzazione impedirebbe un accordo tra America, Palestina ed Israele per distruggere l’organizzazione. Il nuovo documento rifletterà in apparenza due cambiamenti principali: una rottura con la Fratellanza Musulmana e la disponibilità ad un compromesso diplomatico.

A differenza del vecchio statuto del 1988, il nuovo non fa menzione della Fratellanza Musulmana. Questa omissione è intesa a presentare Hamas come un’organizzazione esclusivamente palestinese piuttosto che basata su un’ideologia esterna panislamica. Ma soprattutto la mossa ha lo scopo di rabbonire l’Egitto, che sta ingaggiando una guerra a tutto campo contro la Fratellanza.

Il secondo fondamentale cambiamento è una clausola che recita: “Non vi sarà alcuna concessione di nessuna porzione della terra palestinese, indipendentemente dalla durata o dalle pressioni, nemmeno se l’occupazione continua. Hamas rifiuta ogni alternativa alla liberazione della Palestina nella sua interezza, dal fiume fino al mare”, intendendo il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Così prosegue: “La creazione di uno Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme, sulla base dei confini del 4 giugno 1967, ed il ritorno dei rifugiati palestinesi alle case da cui sono stati cacciati è il programma nazionale condiviso e consensuale, che non significa assolutamente riconoscere l’entità sionista, come non significa rinunciare ad alcun diritto dei palestinesi.”

Né Israele né gli Stati Uniti possono vedere in queste parole una concessione politica significativa, anche se riconosce i confini del 1967. Al massimo, la clausola indica che viene adottata la strategia che Fatah ha propugnato prima degli Accordi di Oslo del 1993: liberare tutta la Palestina, ma in diverse fasi.

Perciò neanche la creazione di uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967 metterebbe fine al conflitto con Hamas o al suo desiderio di liberare la Palestina “da Rosh Hanikra a nord a Umm al- Rashrash a sud, dal Fiume Giordano ad est al Mar Mediterraneo ad ovest”, come recita l’articolo 2 del nuovo statuto. Lo statuto inoltre sottolinea che la lotta e la resistenza armate sono la via per conseguire questo obbiettivo.

Tuttavia, Hamas può sperare che il riferimento ai confini del 1967 innescherà un dibattito pubblico sia nei territori palestinesi che in Israele. Potrebbe anche scalfire i tentativi di presentare l’organizzazione come contraria ad ogni iniziativa diplomatica, portare l’America a cancellarla dall’elenco delle organizzazioni terroriste e indebolire gli sforzi di Abbas di presentarsi come l’unico possibile partner per i negoziati. In questo contesto, vale la pena ricordare che nel 2008 Meshal espresse l’intenzione di accettare uno Stato palestinese entro i confini del 1967 senza riconoscere Israele.

La grande domanda è come reagirà a tutto questo il presidente americano. Abbas riuscirà a cancellare la sua immagine di “non partner” e quindi indurre Trump ad addossare a Netanyahu parte delle colpe per lo stallo diplomatico? Trump riuscirà a formulare una nuova politica degli Stati Uniti per raggiungere una soluzione diplomatica dopo l’incontro con Abbas, avendo già ascoltato i punti di vista del presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi, del re di Giordania Abdullah e del re dell’Arabia Saudita Salman? E metterà Hamas nella stessa lista di Hezbollah, dello Stato Islamico e dell’Iran, oppure lo considererà parte imprescindibile di ogni soluzione?

Finché Trump non deciderà, la politica punitiva di Abbas verso Gaza lascerà Israele sull’orlo di un’esplosione. Nessuna delle opzioni israeliane per disinnescare la bomba di Gaza è gradevole.

Potrebbe pagare lui stesso per l’elettricità di Gaza, chiedere alla Turchia di aumentare i suoi aiuti o convincere il Qatar a rinviare il taglio dei suoi finanziamenti. Ma ciascuna di queste opzioni apparirebbe come un aiuto di Israele ad Hamas, non come un tentativo di salvare i residenti di Gaza dalla crisi economica ed umanitaria. D’altro lato, non fare niente potrebbe accelerare l’esplosione di Gaza, da cui alti ufficiali dell’esercito hanno di recente messo in guardia, e porre Israele di fronte ad un altro ciclo di violenze.

In entrambi i casi, ancora una volta risulta chiaro che l’indifferenza di Israele per le crisi politiche ed economiche della Palestina è una minaccia strategica alla sua stessa sicurezza e al suo prestigio internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Dietro allo sciopero della fame dei palestinesi ci sono inenarrabili vicende di sofferenza

Drssa Inas Abbad

Giovedì 27 aprile 2017 Middle East Eye

L’ inedita iniziativa non è solo un tentativo di migliorare le condizioni di detenzione, ma anche un appello a favore dei più elementari diritti umani e delle condizioni di detenzione nelle prigioni israeliane.

La reazione israeliana allo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi iniziato il 17 aprile è stata senza precedenti.

Lo sciopero della fame, che coinvolge più di 1.500 prigionieri palestinesi, intende evidenziare l’iniquità delle pratiche penitenziarie di Israele e chiedere un miglior trattamento dei detenuti, ma è stato accolto con richieste di condanne a morte dei prigionieri che vi partecipano.

Le reazioni hanno oltrepassato la pericolosità e il razzismo, compresi i commenti fatti dal membro della Knesset [il parlamento israeliano, net.] Oren Hazan, che ha affermato: “Non c’è nessuno problema, neppure se tutti i prigionieri dovessero morire in seguito allo sciopero. Dopotutto le prigioni sono sovrappopolate mentre sulla terra c’è posto per tutti i loro cadaveri.”

Ci sono anche state le dichiarazioni fatte dal ministro della Difesa Avigdor Lieberman che, oltre a chiedere la loro condanna a morte, ha detto che i prigionieri che vi partecipano dovrebbero essere lasciati morire di fame.

In altri commenti i detenuti sono stati descritti come insetti velenosi che dovrebbero essere sterminati con il gas e per i quali dovrebbero essere istituiti campi di sterminio.

Quattro giorni dopo l’inizio dello sciopero, coloni israeliani hanno organizzato grigliate nei pressi della prigione di Ofer per provocare i detenuti, che a quel punto erano arrivati senza cibo o bevande per il tempo corrispondente a 12 pasti.

Solidarietà araba

Lo sciopero della fame è iniziato con la speranza di conquistare col tempo la solidarietà di tutte le fazioni palestinesi e delle forze nazionali e popolari.

Speravamo anche che, poco dopo, si sarebbe trasformato in un movimento di solidarietà araba, forse anche internazionale, con la causa dei prigionieri e con le loro richieste, esercitando pressione su Israele e obbligandolo ad accogliere le richieste legittime e relative ai diritti umani dei detenuti.

Scioperi della fame di massa possono avere un impatto molto maggiore di quelli di singoli individui. Inoltre non sono meno pericolosi e difficili se proseguono per troppo tempo, proprio come gli scioperi individuali.

Dopo circa una settimana di sciopero della fame, il corpo di un detenuto inizia a debilitarsi dopo che il suo peso si è ridotto di almeno cinque chili. Non bisogna dimenticarlo: nell’attuale sciopero tra i partecipanti vi sono minorenni, donne, anziani e malati.

I prigionieri in sciopero della fame soffrono più per i dolori che per la fame: mal di testa, dolori alle articolazioni, tremito e immobilità sono solo alcuni dei sintomi. La maggior parte degli scioperanti soffre di molti altri disturbi, come osteomalacia [fragilità ossea che provoca dolori muscolari, ndt.], cancro, reumatismi, difficoltà respiratorie, asma e altri disturbi che sono la conseguenza delle dure condizioni detentive, comprese torture e malnutrizione. In questi casi questi prigionieri necessitano di speciali trattamenti medici che vengono loro regolarmente negati.

In base ai rapporti pubblicati dal “Club dei Prigionieri Politici”, dal Dipartimento per gli Affari e la Libertà dei Prigionieri Politici e dall’Ufficio Statistico Centrale palestinese, ci sono 5.600 prigionieri politici nelle carceri israeliane, comprese 57 donne di cui 13 minorenni. Dopo 15 anni di prigione, il 16 aprile 2017 la detenuta con la più lunga carcerazione, Lina al-Jarbouni, è stata rilasciata dalle autorità israeliane.

E’ importante sapere che ci sono ancora 200 palestinesi che sono in prigione da prima della firma dell’accordo di pace israelo-palestinese (gli accordi di Oslo) nel 1993.

Alcuni dei detenuti sono stati in carcere più a lungo di qualunque altro prigioniero al mondo. Sono: Karim Younis e Maher Younis, detenuti dal gennaio 1984, così come Nael al-Barghouthi, che ha scontato 36 anni di carcere, 34 dei quali ininterrotti. E’ stato riarrestato nel 2014 poco dopo il suo rilascio. E’ stato uno dei prigionieri liberati come parte dell’accordo di scambio di prigionieri per il soldato israeliano GIlad Shalit.

Trattamento inumano

Lo sciopero della fame dei prigionieri politici non dovrebbe essere visto come un tentativo di migliorare le condizioni carcerarie. Non è affatto vero che i prigionieri vogliono solo avere migliori condizioni, come se accettassero di rimanere incarcerati così a lungo se queste condizioni rispettassero gli standard del XXI° secolo.

Di fatto, i prigionieri politici ricevono i trattamenti più inumani. Nelle prigioni delloccupazione sono ora presenti circa 500 detenuti politici che non sono mai stati imputati di niente. Sono attualmente trattenuti per un tempo che va dai tre ai sei mesi che sono sempre rinnovabili, ma alcuni sono detenuti da anni senza nessuna imputazione.

Ai prigionieri politici vengono in genere negate cure e regolari esami medici. In conseguenza di una tale negligenza, 13 persone – che sono considerate “martiri”- sono state vinte dalla malattia e sono morte in carcere. Ce ne sono altre oggi con urgente necessità di cure che sono state loro negate per anni.

Ai parenti sono state negate anche seconde visite della Croce Rossa. Le visite dei familiari attraverso la Croce Rossa sono state ridotte a una ogni quattro settimane. Tuttavia da quando è iniziato lo sciopero della fame, persino agli avvocati è stato vietato visitare i detenuti politici, a cui erano già state negate tutte le visite dei familiari come misura arbitraria presa contro di loro per lo sciopero della fame.

Molti detenuti politici sono stati posti in isolamento nelle prigioni di Al-Jalamah e Ilan nella regione di Beer Sheba e in altri luoghi. I loro beni personali sono stati requisiti, sono stati privati dei loro vestiti e hanno subito continui maltrattamenti nella forma di trasferimenti arbitrari tra una prigione e l’altra e di costanti perquisizioni nelle loro celle durante le quali sono stati percossi.

Alcuni di loro hanno perso uno o entrambi i genitori senza avere la possibilità di dare loro l’estremo saluto, come Mahmoud Abu Surur. Altri sono diventati padri mentre erano in carcere e non hanno potuto godere delle gioie della paternità, che è un diritto umano fondamentale, come Andan Muraghah e molti altri. Altri ancora non conoscono i loro nipoti, se non attraverso qualche fotografia che è consentito introdurre in prigione circa ogni mese.

Alcuni prigionieri sono confinati nelle celle del carcere e gli sono negate visite per molte settimane, forse anche mesi, come nel caso di Walid Maragah. Alcuni di quelli che provengono dalla Cisgiordania, come Nasir Abu Surur e Hasam Shahin e decine di altri, non possono ricevere visite perché alle famiglie viene negato il permesso di entrare in Israele, e quindi non possono andare a trovarli.

E a molti parenti le visite sono vietate perché si da il caso che essi stessi siano ex-detenuti politici. Agli ex-prigionieri politici spesso viene vietato visitare i loro figli o fratelli che sono incarcerati come detenuti politici.

Diritti umani fondamentali

I detenuti possono essere puniti negando loro l’accesso all’educazione e alla lettura. Solo di rado ad alcuni prigionieri è consentito continuare il loro percorso formativo durante la detenzione. Molti continuano queste attività di nascosto, il che implica molto tempo e molte sofferenze. Fanno uso di qualunque aiuto siano in grado di offrire le loro famiglie ed i loro compagni di detenzione, come nel caso di Marwan Barghouthi, Karm Younis, Walid Maraqah e Muhammad Abbad, che hanno titoli accademici che consentono loro di rendere questo servizio agli altri prigionieri.

E’ molto difficile far entrare libri, che i funzionari del carcere controllano attentamente e ne vietano molti. L’educazione dovrebbe essere un diritto umano garantito da ogni convenzione internazionale e dai diritti umani, ma non nelle prigioni di Israele.

I telefoni sono proibiti. Anche i messaggi scritti sono limitati e attentamente controllati. A volte prima di essere consegnati i messaggi tardano molte settimane, anche mesi. Alcuni non raggiungono mai i loro destinatari.

E alcuni dei detenuti politici in carcere da più tempo non sanno niente delle reti sociali, di internet e dei computer. Non hanno mai sentito parlare degli smartphone. Ad altri è stato rifiutato di telefonare ai propri genitori in punto di morte.

Questo è stato il caso di Muhammad, che ha perso suo padre, il professor Abd Al-Rahman Abbad. Il 25 maggio 2015 sua madre, al ritorno dalla visita in carcere, ha scoperto che il marito, da anni malato di cancro, era deceduto. La sua malattia gli ha impedito di fare visita a suo figlio per molti mesi prima della morte.

Richieste legittime

Di conseguenza, possiamo notare che le richieste dei prigionieri politici in sciopero della fame sono legittime e rispondenti ai diritti umani. Non sosterremo mai che le loro richieste legittimino la loro detenzione o che implichino che accettano la loro pluriennale incarcerazione.

Alcuni di loro sono già stati in carcere per più di metà della loro vita, come nel caso di Muhammad Abbad, Karim Younis, Maher Younis, Nael Barghouthi, Nasir Abu Surur e Muhammad Abu Surur, e la lista potrebbe continuare.

La domanda è: lo sciopero continuerà finché sarà ripristinata la dignità? O Israele farà ricorso all’alimentazione forzata come fece nel 1980 con i detenuti in sciopero della fame nel campo di detenzione di Nafha, nel deserto?

La dottoressa Inas Abad è una ricercatrice in scienze politiche, docente ed attivista politica di Gerusalemme est. Suo fratello, negli ultimi 16 anni detenuto in una prigione israeliana, è uno dei dirigenti dello sciopero della fame.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La più giustificata protesta sociale in Israele

Gideon Levy, 23 aprile 2017 Haaretz

Gli oltre 1000 prigionieri palestinesi in sciopero della fame sono parte di una lotta nazionale per la libertà, qualcosa che dovrebbe apparire ammirevole persino agli israeliani.

La loro più giustificata protesta sociale non preoccupa nessuno. Viene condotta una spregevole campagna di incitamento contro di essa, orchestrata dal governo con la genuflessa collaborazione dei media asserviti. La più giustificata protesta sociale in Israele viene presentata come un pericolo ed una minaccia alla sicurezza.

La più giustificata, coraggiosa e profonda protesta sociale oggi in Israele è lo sciopero della fame di centinaia di prigionieri palestinesi, che domenica compirà una settimana. Magari ci fosse gente di coscienza che si unisse allo sciopero, o almeno manifestasse in suo sostegno. Invece abbiamo un giovane dell’Unione Nazionale (alleanza di partiti di destra e nazionalisti, ndtr.) che prepara il barbecue di fronte alle finestre della prigione di Ofer per dare tormento agli affamati.

E’ lo spregevole comportamento dell’ala sadica della destra. Ma nessuno ha nemmeno contestato quel disgustoso spettacolo.

La più giustificata protesta sociale in Israele non è assolutamente presentata come tale. Al contrario, tutti i partecipanti vengono dipinti come abominevoli assassini. Anche tutti i detenuti ebrei sono “abominevoli assassini”? Ma l’opinione pubblica in Israele non ama avere dubbi morali quando si tratta di palestinesi. Quindi i prigionieri politici vengono descritti come assassini e nessuno parla degli obbiettivi della loro lotta, che subisce una totale delegittimazione nel tritatutto della cronaca militare, dettata dal servizio di sicurezza dello Shin Bet.

Prendete in considerazione le spiegazioni che ci vengono messe in bocca: si tratta di una lotta interna tra palestinesi per favorire Marwan Barghouthi; si tratta di Barghouthi contro il presidente palestinese Mahmoud Abbas – tutte chiacchiere della propaganda dell’apparato di sicurezza, che hanno lo scopo di oscurare gli obbiettivi dello sciopero. E nessuno si chiede se sia possibile che l’obbiettivo di uno sciopero della fame di più di mille persone, con tutte le relative sofferenze, sia di favorire la carriera di un prigioniero che sta scontando quattro ergastoli? Si può prendere questo sul serio? Qualcuno sa anche lontanamente che cosa significa uno sciopero della fame? Non è possibile che queste coraggiose persone, disposte a sacrificare il loro benessere ed anche la loro vita, lo stiano facendo per delle buone ragioni?

Le loro ragioni sono incommensurabilmente giuste. Non vi è neppure una richiesta che sia estremista. Vogliono un trattamento un po’ più umano. Vogliono telefoni pubblici, come può avere anche il più infimo criminale ebreo, e vogliono aumentare le ore di visita dei loro familiari. Vogliono potersi fotografare ogni tanto insieme ai loro cari e ricevere un’adeguata assistenza medica. Coloro che dovranno trascorrere la maggior parte della vita in carcere vogliono poter studiare. Ed ovviamente vogliono che si ponga fine alla detenzione amministrativa. In breve, vogliono un po’ più di giustizia. Sono obbiettivi sociali, non politici.

Leggete la storia degli scioperi della fame. Quasi tutti sono stati giusti ed ammirevoli. A cominciare dagli scioperi della fame degli schiavi neri sulle navi britanniche nel diciottesimo secolo, fino al grande sciopero della fame dei prigionieri dell’IRA in Irlanda ed allo sciopero degli studenti cinesi a Tiananmen. Il Mahatma Gandhi, Andrej Sakharov, Abie Nathan (pacifista israeliano, ndt.). Eroi. Ed ora Marwan Barghouthi, del quale Yedioth Ahronoth (uno dei più diffusi quotidiani israeliani, ndtr.) scrive che incita il popolo. A che cosa specificamente lo incita? A portare libri in prigione? Ad installare telefoni pubblici?

Vi sono tra loro degli assassini – la minoranza, tra l’altro – ed anche loro hanno dei diritti. Alcuni sono in prigione a causa dell’attività politica. Alcuni non hanno avuto un processo. Altri sono stati incarcerati recentemente sulla base di presunte intenzioni. Tutti fanno parte della lotta nazionale per la libertà. Questo dovrebbe meritare ammirazione persino dagli israeliani. Hanno ricevuto pesanti condanne, senza alcuna proporzionalità, ed ovviamente senza giusto processo. Le condizioni della loro detenzione inoltre denunciano un vergognoso apartheid, se paragonate a quelle dei prigionieri ebrei.

Adesso stanno lottando per i propri diritti fondamentali. La loro lotta merita sostegno. La campagna contro di loro dovrebbe trovare opposizione. Gli obbiettivi del loro sciopero sono molto più giustificati degli incitamenti del Ministro della Pubblica Sicurezza Gilad Erdan e più morali della demagogia del leader di Yesh Atid (partito israeliano di centro, ndtr.), Yair Lapid.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’asino del Messia indossa il fascismo

Nota redazionale: su Haaretz è comparso il seguente articolo che riteniamo interessante pubblicare in quanto, nell’imminenza delle celebrazioni del 25 aprile si sono rinfocolate, soprattutto a Roma, le polemiche sulla presenza della Brigata Ebraica, con tanto di bandiere israeliane, e su quella delle organizzazioni che solidarizzano con la causa palestinese. L’autore dell’articolo mette in guardia sui rischi di deriva fascista del sistema politico israeliano. Anche se riteniamo che queste tendenze siano implicitamente presenti nell’ideologia sionista e non solo nelle sue espressioni più estremiste, ci pare che questa denuncia sia significativa e sollevi ulteriori dubbi sulla democrazia israeliana.

Shaul Arieli – 22 aprile 2017,Haaretz

Nel 1995 Umberto Eco delineò 14 caratteristiche di quello che chiamò il “fascismo perenne”. Un esame delle affermazioni da parte di politici israeliani suggerisce che nello Stato ebraico la democrazia potrebbe essere in pericolo

Il tentativo di far arrivare il Messia “attraverso l’intervento dell’ uomo” – per esempio di membri del partito di destra Habayit Hayehudi [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni attualmente al governo, ndt.] e dei loro colleghi del Likud [partito di destra al governo con la maggioranza relativa in parlamento, ndt.] – sta forse permeando Israele con caratteristiche del fascismo come le ha definite Umberto Eco nel suo celebre articolo “Ur-fascismo” nella “New York Review of Books” nel giugno del 1995?

Il semiologo e scrittore italiano, deceduto l’anno scorso, scrisse che il fascismo perenne (“Ur-Fascismo”) è presente ovunque, costantemente. A volte indossa abiti civili e può tornare nelle fogge più innocenti. Nell’articolo, che scrisse in occasione del 50esimo anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale – che più di ogni altra cosa simbolizzò la vittoria dello spirito umano sui regimi delle tenebre -, Eco affermò che è nostro dovere denunciare il fascismo e mettere in rilievo ogni sua nuova manifestazione ogni giorno, in qualunque parte del mondo.

Egli scrisse che le caratteristiche del fascismo elencate nel suo articolo non possono essere organizzate in un sistema – alcune si contraddicono a vicenda, mentre altre caratterizzano altre forme di dispotismo e fanatismo. Tuttavia, la presenza di una sola di queste caratteristiche è sufficiente per consentire al fascismo di coagularsi attorno ad essa.

Certo, il Messia non sta per arrivare – ma forse il suo asino [“asino del Messia” è il termine con cui i sionisti religiosi seguaci del rabbino Kook indicano i sionisti laici, che hanno iniziato il lavoro che permetterà di accelerare il ritorno del Messia, ndt.] sta indossando gli abiti del fascismo. Il Messia non sembra condividere la convinzione dell’ “Inizio della Redenzione” enunciato dal seguaci del rabbino Kook, che vedono nella fondazione dello Stato [di Israele], le sue vittorie militari e l’impresa di colonizzazione come segni che Egli arriverà nei nostri tempi per costruire il Terzo Tempio e ristabilire il Regno di David.

Ho scelto di presentare una selezione di affermazioni fatte da politici israeliani – per lo più sulle reti sociali – insieme a sette delle caratteristiche che Eco propone, per verificare se Israele sta andando verso un regime fascista, o se non si tratta di nient’altro che della schiuma delle onde, che scomparirà quando le acque si infrangeranno sulle spiagge della forte democrazia israeliana.

Culto della tradizione

Un “culto della tradizione”, basato sull’assunto che la verità (divina) ci è già stata data e che tutto ciò che resta da fare è continuare ad interpretare il messaggio che abbiamo ricevuto, emerge nelle parole di tre membri della Knesset [il parlamento israeliano, ndt]. La ministra dello Sport e della Cultura Miri Regev ha concluso il suo discorso alla Knesset per celebrare il “Giorno della Bibbia” nel luglio 2015 affermando: “E’ già stato detto molte volte che la Bibbia non è solo una vicenda storica… ma anche un libro che ha sempre conservato una dimensione attuale.” La parlamentare del Likud ha aggiunto: “Le risposte che si trovano nelle sue pagine, come le domande formulate nei suoi versetti, la collocano come una costante, eterna guida spirituale e pratica che ci guida in ogni tempo.”

Il secondo deputato, Moti Yogev (di “Casa Ebraica”), ha espresso più di chiunque altro la filosofia del suo partito. Lo ha fatto esplicitamente e senza infingimenti, che è quello che fa il segretario del suo partito (e ministro dell’Educazione) Naftali Bennett. Nell’agosto 2015 Yogev ha scritto un post su Facebook, in cui condannava le azioni del capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Gadi Eisenkot, affermando: “Il rabbinato militare mette in rapporto i soldati con la tradizione ebraica come le radici dell’albero che gli dà la forza di crescere e fiorire.” E il collega di partito di Yogev Nissan Slomiansky sta dedicando le sue energie a promuovere una legge della Knesset che accentuerebbe l’influenza delle leggi religiose ebraiche (halakha) sulla giurisprudenza contemporanea.

Il rifiuto della modernità

Questa forma di tradizionalismo contiene una caratteristica che Eco ha definito “il rifiuto della modernità”. I tradizionalisti percepiscono l’età moderna come l’inizio di un pericoloso processo che porta all’apostasia. Nell’agosto del 2015 Yogev ha pubblicato un post su Facebook in cui protestava contro l’apertura il sabato della multisala “Yes Planet” a Gerusalemme. “L’osservanza dello Shabbath [il sabato festivo ebraico, ndt.] è una questione che definisce il carattere della Nazione israeliana,” ha scritto, rammaricandosi del fatto che “Tel Aviv è ‘una città che non si ferma mai’ [slogan per promuovere il turismo a Tel Aviv, ndt.] e forse non sa neppure cosa significa perdere lo Shabbath.”

Nel settembre 2016, durante un evento in onore della “Tali Foundation” (che finanzia studi sull’eredità ebraica nelle scuole laiche), Bennett ha dichiarato: “Studiare l’ebraismo ed eccellere in questo è più importante per me che studiare matematica e scienze,” ed ha respinto le successive accuse a questa sua posizione.

L’anti-intellettualismo è sempre stato un sintomo di fascismo. La persecuzione di intellettuali liberali per il loro tradimento dei valori tradizionali è stata una linea-guida delle elite fasciste. La poetessa Lea Goldberg lo ha spiegato quando ha scritto che intellettuali ed artisti minacciano le dittature e le visioni del mondo che negano le libertà degli esseri umani, insegnando “all’umanità a dire ‘no’ con amara derisione quando i tempi lo richiedono.”

In un’intervista con il giornale Israel Hayom nel settembre 2015 Regev ha presentato i nuovi criteri per definire la cultura: “Anche chi non è mai andato a teatro o al cinema e non ha mai letto Haim Nahman Bialik [considerato il poeta nazionale di Israele, ndt.] può essere considerato una persona di cultura, ” ha dichiarato. “Può esserlo molto più di persone che fanno prendere aria alla propria pelliccia una volta al mese in qualche teatro.” Ma persino queste definizioni impallidiscono in confronto alle parole del deputato David Bitan (del Likud), che in marzo ha dichiarato: “L’ultima volta che ho letto un libro è stato 10 anni fa.”

Nel gennaio 2015 Ayelet Shaked (di “Casa Ebraica”, ed ora ministra della Giustizia) ha postato su Facebook: “Natan Zach appoggia il terrorismo diplomatico contro Israele,” in riferimento allo stimato poeta israeliano, ma si è affrettata a rimuovere il suo post. E in un post del luglio 2016, in risposta a un attacco su Facebook da parte del critico cinematografico e presentatore radiofonico Gidi Orsher, Regev ha promesso: “Sono gli ultimi spasmi della vecchia elite, e io non smetterò finché questa elite razzista non sarà privata delle sue risorse e posizioni di potere.”

Paura della differenza

Definire ogni opposizione come tradimento è un’altra caratteristica che contraddistingue il fascismo. Nell’ottobre 2016 Bitan ha chiesto la revoca della cittadinanza al capo dell’associazione per i diritti umani B’Tselem. Nel febbraio scorso il suo collega del Likud, il deputato Miki Zohar, ha scritto su Facebook: “Ogni volta che spunta un’organizzazione di estrema sinistra, essa si adopera per proclamare i propri principi ipocriti, presumibilmente per fare bella figura con il resto del mondo, anche al prezzo di danneggiare lo Stato di Israele e la sua sicurezza. Per cui una volta è B’Tselem, un’altra è “Breaking the Silence” [associazione di ex-militari che denuncia quanto avviene nei territori palestinesi occupati, ndt.], e nel caso di Amona (colonia evacuata), c’era Yesh Din (Volontari per i Diritti Umani). E’ importante notare che queste organizzazioni sono finanziate con milioni di dollari da elementi di ogni parte del mondo che sono ostili ad Israele.”

La deputata Tzipi Hotovely (del Likud, ora anche vice-ministro degli Esteri) ha scritto su Facebook nel settembre 2014: “Il rifiuto da parte di ufficiali dell’ “Unità 8200″ (in riferimento a riservisti dell’intelligence che si sono rifiutati di prestare servizio nei territori) è una cintura esplosiva sociale, e riflette la bancarotta morale del sistema educativo in cui sono cresciuti. Non sono degni di fare il servizio militare nell’esercito più morale del mondo [autodefinizione dell’esercito israeliano, ndt.].”

Al contempo nel settembre 2014 Shaked si è rammaricata che “l’Alta Corte di Giustizia abbia calpestato il potere legislativo,” dopo che la Corte ha respinto un emendamento a una legge riguardante i richiedenti asilo. E nell’agosto 2015 Yogev ha scritto su Facebook: ” Il giudice della Corte Suprema Uzi Vogelman, nella sua decisione odierna che ritarda la demolizione delle case di terroristi omicidi, si è messo dalla parte del nemico. Egli sta difendendo i diritti di assassini e quindi impedisce misure punitive e mette in pericolo vite umane.”

In un post su Facebook del 2015 Bennett ha chiesto agli israeliani di votare per “Casa Ebraica” sulla base del fatto che “nessun altro lotterà contro la tirannia legale dell’Alta Corte di Giustizia, che sta danneggiando mortalmente il nostro Stato.” E non ha esitato a fare campagna elettorale nel’esercito israeliano, scrivendo “Per il bene del popolo ebraico: prendete i vostri telefonini, convincete i soldati della vostra brigata!” Quindi ha inserito i duri commenti dei membri del suo partito riguardo la Corte Suprema.

Tutti questi gravi interventi indicano ignoranza e mancanza della minima comprensione dei rispettivi ruoli del potere legislativo e di quello giudiziario. La loro intenzione è di “etichettare” come traditori – delegittimare – tutti quelli che si oppongono allo spirito dell’attuale governo.

Appello ad una classe media frustrata

Ancora una volta in questo campo “Casa Ebraica” è all’avanguardia. Nel marzo 2015 Bennett ha dichiarato che “Habayit Hayehudi (cioè “Casa Ebraica”) è la casa sociale di Israele.” Nel contempo in un post su Facebook del settembre 2013 il deputato Eli Ben-Dahan ha spiegato che quando ha visitato il sud di Tel Aviv, “ho visto gli effetti di lasciare gli infiltrati (i richiedenti asilo africani) in Israele. Gli abitanti di Tel Aviv sud hanno vissuto a lungo nella paura. Dobbiamo modificare ciò, e sto lavorando per ripristinare lo spirito ebraico in quel luogo.”

Ognuno è educato per diventare un eroe

Il culto dell’eroe è direttamente legato al culto della morte – l’eroismo è la regola nel fascismo. Dichiarazioni che esprimono militarismo e sacrificio nell’interesse dello Stato hanno molti progenitori. Nel febbraio 2015 Bennett ha scritto un post rivolto al leader dell’opposizione, il deputato Isaac Herzog: “Il Sionismo religioso non va più in giro a testa bassa,” ha scritto. “Stiamo dritti in piedi. Siamo grandi e forti, influenzando e portando il nostro contributo, orgogliosi di quello che siamo. I cimiteri sono pieni di eroi, diplomati nei programmi di formazione militare, delle scuole rabbiniche militari e di Ezra e Bnei Akiva” – movimenti giovanili religiosi sionisti.

E nell’ottobre 2015 il presidente di “Israele Casa Nostra” [partito di estrema destra che rappresenta soprattutto gli immigrati russofoni, ndt.] Avigdor Lieberman (attualmente ministro della Difesa) ha scritto su Facebook: “Mi aspetto che alla fine della riunione di governo di questo pomeriggio ci siano chiare decisioni e linee guida: nessun terrorista maschio o femmina uscirà vivo da ogni attacco terroristico; si applicheranno leggi d’emergenza e verrà instaurato un governo militare se necessario, per sradicare il terrorismo. La sicurezza si ottiene con il pugno di ferro!”

La vita è una guerra permanente.

“Il fascismo non combatte per la vita, vive per la lotta.” Sembra essere la convinzione del primo ministro Benjamin Netanyahu, che, alludendo all’assassinio dell’ex-primo ministro Yitzhak Rabin, ha affermato nell’ottobre 2015 al Comitato della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa: “In questi giorni si parla di cosa sarebbe successo se questa o quella persona fosse rimasta [in vita]. E’ irrilevante…Mi viene chiesto se vivremo sempre con la spada – sì.”

In un post del febbraio 2014 Bennett ha promesso ai soldati che fanno il turno di guardia sotto la pioggia che prima o poi finirà, ma “un giorno sarete a casa con vostra moglie, i vostri bambini, al caldo, con una spessa coperta, e allora i futuri soldati faranno la guardia per voi.”

L’ossessione di un complotto

Alla radice della psicologia fascista c’è la convinzione ossessiva che le istituzioni internazionali stanno cospirando contro lo Stato, che è quindi sotto assedio. Di conseguenza, molti regimi fascisti sono caratterizzati dall’apparizione della xenofobia. Questo gli risulta molto utile. Netanyahu primeggia tra simili commenti nel suo sito web ufficiale: “Un abisso profondo ed ampio ci separa dai nostri nemici. Essi santificano la morte mentre noi santifichiamo la vita. Santificano la crudeltà, mentre noi santifichiamo la compassione” (luglio 2014). “Circonderemo tutto lo Stato di Israele con una recinzione e una barriera? La risposta è ‘sì’. Nel contesto in cui viviamo, ci dobbiamo difendere da belve selvagge” (2016).

Nel fascismo “gli individui come tali non hanno diritti, e il Popolo è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la Volontà Comune. Poiché non molti esseri umani possono avere una volontà comune, il Capo rivendica di essere il loro interprete.” Queste sono le parole del deputato Bezalel Smotrich (De “la Casa Ebraica”), in un articolo del 2011 intitolato “Noi meritiamo di più”, nella rivista dei coloni “Sheva”: “E’ opportuno che lo Stato investa maggiori risorse nell’educazione sionista religiosa,” prosegue. “Perché? Perché ai suoi figli è stato assegnato il compito di guidare il popolo ebraico.”

Quando si tratta di machismo e di oppressione delle minoranze sessuali, Smotrich è senza dubbio il campione. Nel febbraio 2015, in un seminario in una scuola superiore di Givatayim, ha affermato che gay e lesbiche sono “anormali”. E il suo collega Yogev ha parlato contro la comunità LGBT nel luglio 2013, dicendo a Channel 10 [catena televisiva israeliana, ndt.]: “E’ un fenomeno degno di pietà, non da incoraggiare…Non si tratta solo di un punto di vista dell’ Halakhà [norme religiose ebraiche, ndt.], ma anche una posizione morale che è corretto articolare.”

Un’altra caratteristica del fascismo, l’impoverimento del linguaggio, può essere riscontrata in molti dei succitati parlamentari, ma nessuno raggiunge i livelli così bassi del ministro della Cultura Regev. Tutti i testi fascisti utilizzano un vocabolario ristretto e la sintassi più elementare, limitando gli strumenti necessari per un pensiero critico e complesso. In un breve discorso di cinque minuti a un pubblico di studenti delle superiori nel 2012, Regev ha affermato che il deputato Stav Shaffir (dell'”Unione Sionista” [coalizione di centro tra Laburisti e Khadima, ndt.]) era un comunista; che l’ex segretaria del partito Laburista Shelly Yacimovich aveva votato per Hadash [partito di sinistra non sionista, ndt.]; ha dichiarato: “Gerusalemme nei secoli dei secoli…applaudite!”

Nel suo articolo Eco citò le parole del presidente USA Franklin D. Roosevelt del 4 novembre 1938, che sono significative per la democrazia israeliana oggi: “Mi avventuro a fare l’impegnativa affermazione che se la democrazia americana cessa di avanzare come una forza viva, che cerca giorno e notte di migliorare con mezzi pacifici la condizione dei nostri cittadini, nella nostra terra il fascismo si rafforzerà.”

Eco iniziò il suo articolo raccontando la sua fanciullezza nell’Italia di Mussolini, preda dell’ideologia fascista per più di 20 anni. Siamo proprio certi che ora, 50 anni dopo la guerra dei Sei Giorni, tutte quelle affermazioni da parte di esponenti israeliani eletti non siano altro che schiuma nell’acqua? La democrazia israeliana è così forte e solida come siamo soliti pensare?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Come i palestinesi che fanno lo sciopero della fame contrastano il monopolio della violenza di Israele

Basil Farraj – 12 maggio 2016,Al-Shabaka

Nota redazionale: l’articolo che segue è stato pubblicato da Al-Shabaka nel maggio 2016. Tuttavia, trattandosi di un approfondimento sulla storia ed il contesto politico e penitenziario relativo allo sciopero della fame dei detenuti palestinesi si ritiene interessante proporlo ai lettori di Zeitun in occasione della protesta dei prigionieri politici palestinesi che hanno iniziato lo sciopero della fame in questi giorni.

Mentre sto scrivendo, tre prigionieri palestinesi stanno facendo lo sciopero della fame per protestare contro la loro incarcerazione senza imputazione, una pratica nascosta dal termine anodino “detenzione amministrativa”. Sami Janazra è al suo 69° giorno e la sua salute si è notevolmente deteriorata, Adeeb Mafarja è al suo 38° giorno e Fuad Assi al 36°. Questi detenuti sono tra gli almeno 700 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane che sono attualmente tenuti in detenzione amministrativa, una pratica che Israele utilizza usualmente in violazione dei rigidi parametri stabiliti dalle leggi internazionali.

I detenuti politici palestinesi hanno a lungo utilizzato gli scioperi della fame come forma di protesta in risposta alle violazioni dei loro diritti da parte delle autorità israeliane. L’associazione di solidarietà con i detenuti e per i diritti umani “Addameer” indica come inizio dell’uso dello sciopero della fame da parte di detenuti palestinesi il 1968. Da allora ci sono stati oltre 25 scioperi della fame di massa e collettivi con richieste che spaziano dalla fine del regime di isolamento e delle detenzioni amministrative fino al miglioramento delle condizioni di carcerazione e la concessione delle visite di familiari.

Poiché sempre più prigionieri palestinesi sono obbligati a ricorrere a lunghi scioperi della fame come forma estrema di protesta, infliggendo violenza ai propri corpi fino alla conquista dei propri diritti, vale la pena di ripercorrere l’uso di questo strumento politico in vari Paesi e nei secoli e di illustrare il modo in cui detenuti palestinesi lo stanno utilizzando per contrastare il monopolio israeliano della violenza all’interno delle mura delle prigioni.

Uso passato e presente degli scioperi della fame

Benché le origini esatte degli scioperi della fame – il rifiuto volontario di cibo e/o di liquidi – non siano ben note, ci sono esempi del loro utilizzo in vari periodi storici ed in vari luoghi. Il primo uso di scioperi della fame è indicato nell’Irlanda medievale, in cui una persona si sedeva sulla soglia di casa di un’altra che aveva commesso un’ingiustizia nei suoi confronti come un modo per stigmatizzarlo. Usi più recenti e meglio noti di scioperi della fame includono quelli delle suffragette britanniche nel 1909, del Mahatma Gandhi durante la rivolta contro il governo britannico in India, di Cesar Chavez durante la lotta per i diritti dei lavoratori agricoli negli Stati Uniti e dei prigionieri incarcerati dagli USA a Guantanamo.

C’è un gravissimo rischio di danni fisici irreversibili per il corpo durante uno sciopero della fame, compresa la perdita dell’udito, della vista e gravi emorragie. In effetti la morte è stata il risultato di molti scioperi della fame, come nel caso dello sciopero dei prigionieri repubblicani irlandesi nel 1981.

Le richieste di chi fa lo sciopero della fame variano, ma sono, in tutti i casi, un riflesso di più vasti problemi e di ingiustizie sociali, politiche ed economiche. Per esempio, la richiesta dello sciopero della fame dei prigionieri repubblicani irlandesi del 1981 del ripristino dello status di categoria speciale rifletteva il più complessivo contesto dei “disordini” nell’Irlanda del Nord.

Uno dei primi scioperi della fame dei palestinesi fu quello di sette giorni nella prigione di Askalan (Ashkelon) del 1970. Durante questo sciopero le richieste dei prigionieri erano scritte su un pacchetto di sigarette, in quanto era loro vietato di avere quaderni, e includevano il rifiuto di rivolgersi ai loro carcerieri chiamandoli “signore”. I prigionieri ottennero la loro richiesta e non dovettero più utilizzare il termine “signore”, ma solo dopo che morì Abdul-Qader Abu Al-Fahem in seguito all’alimentazione forzata, diventando li primo martire del movimento dei prigionieri palestinesi.

Scioperi della fame continuarono ad essere portati avanti nella prigione di Ashkelon durante gli anni ’70. Inoltre altri due prigionieri, Rasim Halawe e Ali Al-Ja’fari, morirono dopo essere stati alimentati forzatamente durante uno sciopero della fame nella prigione di Nafha nel 1980. In seguito a questi e ad altri scioperi della fame, i prigionieri palestinesi sono stati in grado di garantire alcuni miglioramenti delle loro condizioni di detenzione, compreso il permesso di avere fotografie della famiglia, carta per scrivere, libri e giornali.

Negli ultimi anni la fine delle detenzioni amministrative è stata una richiesta costante dei prigionieri palestinesi, dato l’incremento del loro uso da parte di Israele dallo scoppio della Seconda Intifada nel 2000. Per esempio, lo sciopero della fame di massa del 2000, che ha coinvolto 2.000 prigionieri, chiedeva di porre fine all’utilizzo delle detenzioni amministrative, all’isolamento e ad altre misure punitive, compreso il divieto di visite dei familiari per i prigionieri di Gaza. Lo sciopero terminò dopo che Israele accettò di limitare l’uso delle detenzioni amministrative.

Tuttavia presto Israele sconfessò l’accordo, portando ad un altro sciopero della fame di massa nel 2014 da parte di oltre 100 detenuti amministrativi che chiedevano la fine di quella pratica. Lo sciopero della fame terminò 63 giorni dopo senza aver posto fine alle detenzioni amministrative. La decisione dei prigionieri pare sia stata influenzata dalla scomparsa di tre coloni della Cisgiordania e dalle operazioni militari su grande scala di Israele in Cisgiordania (che fu seguita da un attacco massiccio contro Gaza).

In più ci sono stati una serie di scioperi della fame individuali, a volte in coincidenza o che hanno portato alla decisione di iniziare scioperi della fame più estesi. Infatti sia gli scioperi della fame del 2012 che del 2014 sono stati innescati da scioperi della fame individuali per chiedere la fine dell’uso delle detenzioni amministrative. Lo sciopero della fame individuale coinvolse Hana Shalabi, Khader Adnan, Thaer Halahleh e Bilal Diab, ognuno dei quali ottenne la fine della propria detenzione amministrativa. Tuttavia alcuni di loro furono nuovamente arrestati dopo il loro rilascio, come nel caso di Samer Issawi, Thaer Halahleh e Tareq Qa’adan, come anche di Khader Adnan, rilasciato dopo un prolungato sciopero della fame in protesta per il suo nuovo arresto nel 2015.

La violenza che Israele infligge ai prigionieri palestinesi

Israele continua ad assoggettare i detenuti palestinesi a molte forme di violenza, come è stato ben documentato da organizzazioni dei diritti umani e dei diritti dei prigionieri, così come nelle lettere dei detenuti e in molti documentari. In un rapporto del 2014 Addameer nota: “Ogni palestinese arrestato è stato sottoposto a qualche forma di tortura fisica o psicologica, a trattamento crudele comprese violente percosse, isolamento, aggressioni verbali e minacce di violenza sessuale.”

Inoltre, e in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e dello Statuto di Roma, Israele ha deportato detenuti palestinesi fuori dai territori occupati e in prigioni all’interno di Israele ed ha anche minacciato prigionieri della Cisgiordania di deportarli nella Striscia di Gaza se non avessero confessato. Nega o limita sistematicamente ed arbitrariamente le visite dei familiari. I detenuti sono soggetti deliberatamente a negligenza medica e ad abusi, così come a restrizioni nelle chiamate telefoniche, alla consultazione degli avvocati e alla disponibilità di libri e televisione.

Oltretutto le autorità israeliane classificano di prigionieri politici palestinesi come “detenuti per ragioni di sicurezza”, una definizione che rende legalmente possibile sottometterli automaticamente a molte restrizioni. Questa caratterizzazione nega ai prigionieri palestinesi alcuni dei diritti e dei privilegi di cui godono i detenuti ebrei – persino quei pochi che sono etichettati come prigionieri per ragioni di sicurezza – comprese visite a casa sotto sorveglianza, la possibilità di un rapido rilascio e la concessione di permessi.

La violenza a cui i prigionieri palestinesi sono sottoposti deve essere considerata all’interno del contesto del progetto coloniale di Israele e dell’assoggettamento dell’intera popolazione palestinese a differenti forme di violenza, compresi la perdita della terra, la distruzione delle case, l’espulsione e l’esilio. Vale la pena ricordare che da quando è iniziata l’occupazione israeliana nel 1967, Israele ha arrestato più di 800.000 palestinesi, circa il 20% della popolazione totale e il 40% della popolazione maschile. Questo solo fatto chiarisce quanto gli arresti e le detenzioni siano un meccanismo utilizzato da Israele per controllare la popolazione mentre la espropria, collocando ebrei israeliani al suo posto.

E’ all’interno di questa più ampia comprensione della violenza che gli scioperi della fame emergono come un modo in cui i prigionieri palestinesi sono in grado di opporsi alle varie forme di violenza dello Stato israeliano.

Usare il corpo dei detenuti per sovvertire il potere dello Stato

Attraverso gli scioperi della fame i prigionieri non rimangono più destinatari silenziosi della continua violenza delle autorità carcerarie: invece essi infliggono violenza ai loro stessi corpi per imporre le proprie richieste. In altre parole, gli scioperi della fame sono uno spazio fuori dalla portata del potere dello Stato israeliano. Il corpo dei prigionieri in sciopero sconvolge uno dei più fondamentali rapporti di violenza all’interno delle mura carcerarie, in cui lo Stato israeliano e le sue autorità carcerarie controllano ogni aspetto delle loro vite dietro le sbarre e sono gli unici ad infliggere la violenza. In effetti, i prigionieri ribaltano il rapporto tra oggetto e soggetto della violenza fondendoli entrambi in un solo corpo – il corpo del prigioniero in sciopero – e così facendo rivendicano un’azione. Affermano il proprio status di prigionieri politici, rifiutano di essere ridotti allo status di “prigionieri per ragioni di sicurezza” e reclamano i propri diritti e la propria esistenza.

Il fatto che lo Stato israeliano usi varie misure per porre fine agli scioperi della fame e per ristabilire il suo potere sui prigionieri e sull’uso della violenza dimostra la sfida che i corpi di chi fa lo sciopero della fame pone allo Stato israeliano. Tra le altre misure, le autorità carcerarie continuano a sottomettere i prigionieri in sciopero a violenze e torture. Infatti le violenze a cui sono soggetti i detenuti che fanno lo sciopero si intensificano e cambiano forma. Per esempio, durante lo sciopero della fame del 2014 ai prigionieri sono state negate cure mediche e visite dei familiari e sono stati incatenati mani e piedi ai letti d’ospedale per 24 ore al giorno. Sono rimasti ammanettati quando gli è stato permesso di andare in bagno, e le porte spalancate dei bagni hanno negato loro ogni diritto alla privacy. Le autorità israeliane hanno anche intenzionalmente lasciato del cibo vicino agli scioperanti per spezzare la loro volontà. L’ex scioperante Ayman Al-Sharawna ha affermato: “Hanno portato un tavolo con il cibo migliore e l’hanno messo vicino al mio letto..Lo Shin Bet [servizio segreto israeliano, ndt.] sapeva che mi piacciono i dolci. Portavano ogni genere di dolci.”

Israele ha recentemente dato una copertura giuridica all’alimentazione forzata dei prigionieri in sciopero attraverso la “Legge per evitare danni provocati dagli scioperi della fame”, che equivale a trattamenti crudeli, inumani e degradanti, secondo il relatore speciale dell’ONU sulla tortura. La legge è anche in contraddizione con la dichiarazione di Malta sugli scioperi della fame dell’Associazione Medica Mondiale.

Israele etichetta anche i prigionieri in sciopero come “terroristi” e “criminali” per compromettere la loro rivendicazione di azione politica e i loro tentativi di invertire l’oggetto ed il soggetto della violenza dello Stato. Durante lo sciopero della fame di massa del 2014 i funzionari israeliani hanno sostenuto che gli scioperanti erano “terroristi”. La ministra israeliana della Cultura e dello Sport Miri Regev, una dei sostenitori della recente legge, ha affermato: “I muri della prigione non significano che un’azione non sia terroristica (…) C’è terrorismo nelle strade e c’è terrorismo nelle prigioni.” Gilad Erdan, il Ministro israeliano della Sicurezza Pubblica, ha dichiarato che gli scioperi della fame sono un “nuovo tipo di attacco suicida”.

La fondamentale importanza dell’appoggio nazionale ed internazionale

Per il successo di ogni sciopero della fame è fondamentale la capacità degli scioperanti di mobilitare comunità, organizzazioni ed entità politiche in loro appoggio e di esercitare pressioni sulle autorità perché soddisfino le richieste degli scioperanti o negozino un accordo.

Attraverso gli scioperi della fame, i prigionieri palestinesi sono stati in grado di imporre le loro lotte a livello politico palestinese e spesso internazionale. Dato che in genere non ci sono alternative attraverso le quali i detenuti possono garantirsi la libertà o un cambiamento nelle politiche israeliane, l’importanza della mobilitazione di comunità ed organismi politici attorno ai diritti dei prigionieri non può essere sottovalutata.

Organizzazioni di base e dei diritti umani ed entità pubbliche sia all’interno che fuori dalla Palestina si sono mobilitate durante scioperi della fame dei prigionieri palestinesi. Le forme di sostegno hanno compreso raduni quotidiani, proteste fuori dagli uffici di organizzazioni internazionali, appelli al governo israeliano perché ascoltasse le richieste dei prigionieri e manifestazioni fuori da prigioni ed ospedali. Organizzazioni locali ed internazionali, comprese tra le altre “Addameer”, Jewish Voice for Peace, Amnesty International e Samidoun [rete di solidarietà con i detenuti palestinesi, ndt], hanno messo in luce le ingiustizie che devono affrontare i prigionieri palestinesi per unirsi alle pressioni sulle autorità israeliane affinché acconsentissero alle richieste dei prigionieri e negoziassero un accordo con loro.

Oltretutto, attraverso queste reti, la lotta degli scioperanti palestinesi e più in generale dei detenuti, si internazionalizza ponendosi in parallelo con le ingiustizie passate e presenti che devono affrontare popoli di tutto il mondo. In reportages e analisi sugli scioperi della fame dei palestinesi vengono continuamente fatti riferimenti, tra gli altri, alla difficile situazione dei prigionieri irlandesi durante i “disordini”, alle detenzioni di massa negli USA e alle condizioni a Guantanamo. In questo modo le lotte dei detenuti palestinesi diventano parte dei crescenti movimenti di solidarietà e delle campagne che chiedono giustizia per il popolo palestinese. Ciò contribuisce ad opporsi al fatto che Israele li etichetti come “criminali” e “terroristi” e al suo monopolio sull’argomento.

Come altre forme di resistenza dentro e fuori i muri delle prigioni, gli scioperi della fame sono azioni di resistenza attraverso cui i palestinesi affermano la propria esistenza politica e chiedono i propri diritti. E’ vitale sostenere e alimentare questa resistenza. Oltre a darle forza e appoggiare i prigionieri nella loro lotta per i diritti, questa forma di resistenza infonde continuamente e fortemente la speranza tra i palestinesi in generale e il movimento di solidarietà. E’ nostra responsabilità sia appoggiare i prigionieri palestinesi, sia lavorare perché venga il momento in cui i palestinesi non abbiano più bisogno di ricorrere a simili atti di resistenza attraverso cui la loro unica risorsa è mettere a rischio la propria vita.

Basil Farraj

Membro di Al-Shabaka, Basil Farraj ha ottenuto una laurea in Pace e Studi Globali presso l’ Earlham College, negli USA. E’ un ricercatore Thomas J. Watson che ha intrapreso un progetto indipendente sull’identità palestinese e le sue espressioni nella diaspora. Basil è membro di “Defence for Children International – assemblea generale della sezione palestinese” e consulente del progetto “Impollination”. Le sue aree di interesse includono la difesa dei diritti dei bambini, la teoria della pace e della giustizia e la costruzione di una efficace e critica solidarietà internazionale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Lo sciopero della fame palestinese è rivolto oltre le carceri

Amira Hass – 19 aprile 2017, Haaretz

Lo sciopero della fame da parte dei detenuti palestinesi è un mezzo di liberazione dagli effetti distruttivi delle tante celle che esistono all’esterno.

Lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi, iniziato e guidato da Marwan Barghouti, ha un potenziale sovversivo rigenerante e non necessariamente contro il servizio carcerario israeliano. Come dicono parecchi rappresentanti dei carcerati fuori dalle prigioni, non si tratta di uno sciopero conflittuale o ideologico. Si tratta di diritti umani fondamentali che spettano persino ai prigionieri, persino a quelli che sono membri dell’’altra nazione.

Fornire loro un telefono pubblico, e farla finita con le guardie carcerarie che fanno molti soldi con il contrabbando di cellulari. Permettere loro di incontrasi con le famiglie senza affrontare il continuo iter angoscioso per ottenere un permesso una volta l’anno. Prolungate le visite e vedrete quale impatto positivo avrà sulla situazione. Quello che stanno cercando di dire i detenuti al servizio carcerario ed all’opinione pubblica israeliani è che entrambe le parti hanno interesse che le prigioni conservino un certo livello di decenza.

L’effettivo livello di sovversione è interno. Si può osservare nello sciopero un tentativo di fare in modo che i palestinesi si scuotano di dosso il loro fatalismo e la loro passività alla luce della sempre più potente ostilità di Israele e di far uscire i loro litigiosi dirigenti dall’acquiescenza nei confronti dello status quo e dalla loro illusione di sovranità.

Non è una cosa da poco nell’era della privatizzazione. Cosa sono gli scioperi della fame dei singoli se non una privatizzazione della lotta? Cosa sono gli attacchi all’arma bianca, le minacce con un coltello e gli investimenti con le auto se non la privatizzazione di una rivolta (o utilizzarla per sfuggire a problemi e frustrazioni personali e familiari, e persino per morire)? Gli scioperi della fame individuali di detenuti amministrativi [cioè senza un’imputazione, ndt] sono stati un peso per le organizzazioni di appoggio ai prigionieri, ma questi gruppi sono stati travolti dalla preoccupazione naturale per il benessere dei detenuti, ed hanno investito negli scioperi moltissimo tempo e discussioni che non hanno portato da nessuna parte. L’uso troppo frequente di scioperi della fame individuali li ha completamente usurati come strumento di mobilitazione, di impatto o di cambiamento.

La carcerazione di palestinesi è una politica pianificata di Israele. Ma, oltre alle prigioni normali, Israele ha creato e continua a creare ogni genere di altri mezzi per tener prigionieri i palestinesi. Questa, in fin dei conti, è la descrizione sintetica del vero processo di Oslo, non quello riflesso nelle promesse altisonanti. Agglomerati ed ancora agglomerati di carceri in mezzo a noi, e tutti noi – ebrei israeliani – siamo i secondini. Quindi l’esperienza della carcerazione, che si tratti di una prigione formale o di altro genere, è condivisa da tutti i palestinesi.

Ma con la frammentazione dello spazio dei palestinesi – utilizzando collaudati trucchi colonialisti che Israele ha aggiornato e raffinato, e a cui ha aggiunto un sacco di faccia tosta – ha creato decine di meccanismi diversi di incarcerazione, di unità geo-sociali con diversi livelli di mancanza di libertà e asfissia. Il culmine è naturalmente Gaza, dove due milioni di persone stanno scontando l’ergastolo. Ma anche nelle altre parti del Paese (compreso il territorio sovrano di Israele), i muri in cui sono imprigionati i palestinesi variano: norme burocratiche che cambiano continuamente, crescente discriminazione, Area C, arroganza, coloni violenti, un divieto di passaggio attraverso il ponte di Allenby [tra la Cisgiordania e la Giordania, ndt], umiliazioni all’aeroporto Ben Gurion, ecc.

Questa frantumazione in dozzine di unità carcerarie ha creato diversi livelli di coscienza tra le persone imprigionate in ognuna di esse, a seconda del livello di soffocamento e detenzione. Quelli per i quali il livello di incarcerazione è minore (libertà di viaggiare all’estero ma non a Gerusalemme, solo metà della terra del villaggio è stata rubata, il filo spinato e la base militare si trovano a un chilometro dalla loro casa invece che a mezzo chilometro) hanno un’ esperienza diversa del secondino israeliano rispetto ad una donna che vive nel quartiere di Tel Rumeida a Hebron, che è tagliata fuori dal mondo a 300 metri da casa sua. I dirigenti ufficiali, guarda caso, hanno esperienza del minor grado di detenzione. Il grado di urgenza per cambiare la situazione è diverso da una prigione all’altra.

Lo sciopero della fame è un mezzo di liberazione dagli effetti distruttivi delle molteplici celle carcerarie che esistono fuori. La sua sfida è la costruzione di una collettività di prigionieri come un’entità che definisca il programma palestinese, un’entità che veda i palestinesi fuori dalle prigioni come una collettività smembrata e frammentata che deve essere riunificata.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele nelle tenebre.

Gideon Levy, Haaretz 14 aprile 2017.

Nessun’altra nazione al mondo perquisisce bagagli alla ricerca di cibi proibiti, eccetto forse l’Iran. La polizia del Passover chametz [il cibo pasquale] è una cosa israeliana più di Mobileye o di Amos Oz.

Ecco come si presenta lo stato ebraico, quello che tanti Israeliani vogliono preservare ad ogni costo: una guardia armata che controlla i bagagli all’ingresso dell’ospedale. Ma non sta cercando ordigni esplosivi. Questa è una settimana di festività e la guardia cerca qualcos’altro: cerca chametz, i cibi lievitati che sono proibiti per la Pasqua ebraica.

Controlla ogni tipo di cibo che entra nell’ospedale ed è lui l’arbitro della legge ebraica, il supervisore della kashrut [la conformità di un cibo]. È proibito far entrare qualunque cosa desti il sospetto di essere treyf, cioè non kosher. Se c’è qualche dubbio, nel dubbio si proibisce. Se non è kosher nei giorni di Pasqua, o torna a casa o va nella spazzatura.

La nostra guardia è un ottimo ragazzo, un tipo amichevole, ma ora è un’autorità teologica. Come se non bastassero i 10.000 guardiani del kashrut che lavorano nei giorni normali nel democratico stato ebraico (che ha solo un millesimo di questi ispettori per la sicurezza nelle costruzioni), ora le guardie della sicurezza e quelle che ispezionano i vostri bagagli sono state aggiunte ai soldati dell’esercito di Dio. Il governo s’infiltra non solo nei bagagli ma anche nello stomaco.

Siamo nell’anno 2017, ma la situazione è medievale. Israele si può vantare quanto vuole di essere l’unica democrazia del Medio Oriente o di essere amico dei gay. Ma la verità è che è retrogrado. È coercitivo. Diventa sempre più tetro e arcigno. Nubi minacciose si addensano nel cielo. Nessun’altra nazione al mondo perquisisce bagagli alla ricerca di cibi proibiti, eccetto forse l’Iran. Il problema è che la polizia dello chametz è più israeliana di Mobileye; la guardia dello chametz è molto più israeliana di Amos Oz.

All’ingresso degli ospedali c’erano cartelli che dicevano: “Questo luogo è stato fatto kosher per la Pasqua, in ossequio alla legge religiosa. Vi chiediamo di non introdurre cibo chametz [lievitato] per tutta la durata della festività. È consentito introdurre frutta e verdura oppure prodotti in confezione chiusa recanti la certificazione di idoneità kosher per la Pasqua.” Firmato dal rabbino dell’ospedale, dal capo dei servizi religiosi e dall’amministrazione.

Lasciamo perdere l’obbligo di kashrut in tutte le cucine degli ospedali, un precetto a cui avremmo dovuto ribellarci già da anni. Ora è proibito anche introdurre gli avanzi del seder [cena rituale] di Pasqua, se non hanno il timbro di idoneità kashrut. Chi non è religioso ha il diritto di mangiare come gli pare, ma questa ovvia affermazione è considerata sovversiva in Israele.

In altre parole, nessun Israeliano ha il diritto di mangiare come vuole quando è in ospedale o in qualunque altra istituzione pubblica. Il fatto che almeno un quinto dei pazienti sono arabi, così come buona parte del personale medico, e ancora più numerosi sono i non-Ebrei o semplicemente i non-religiosi, tutto questo non interessa a nessuno. Che mangino matza [pane azzimo] fino a strozzarsi. Oppure non mangino proprio. Ci sono migliaia di prigionieri palestinesi che mangiano matza anche per due mesi dopo Pasqua per finire la produzione in eccesso: i pazienti arabi possono ben fare a meno del pane per una settimana. Volevate uno stato ebraico e l’avete avuto. Non lo volevate? il problema è vostro.

Gli Israeliani accettano questa situazione come fosse un decreto venuto dal cielo. Quasi nessuno protesta. Così vanno le cose in una società anestetizzata. Il fatto che tutto questo succede in una festività che per qualche motivo viene chiamata la festa della libertà, non fa altro che aggiungere una tocco grottesco a una situazione che non è affatto divertente. E quello che succede nella pratica è anche meno divertente: infatti la gente porta di nascosto cibo in ospedale. Una coscia di pollo in tasca; pesce gefilte nella giacca; hummus, patate fritte e insalata nel doppio fondo della borsa per la doccia. Questa settimana ho portato di contrabbando un quarto di pollo avvolto nei pantaloni del pigiama. Per alcuni pazienti, il cibo fatto in casa è il loro maggior conforto.

Potreste dire: ma insomma, è solo per una settimana all’anno. Oppure potreste dire: non è così terribile, alla fine si tratta solo di cibo. E ci vogliamo dimenticare la tradizione? Ma non si tratta solo di una settimana, la cosa è molto peggiore di quanto sembra. Perché mentre Israele si vanta di essere tanto progressista, non si accorge di come sta andando giù per la china verso le tenebre. Proprio così: un paese che si comporta in questo modo è nelle tenebre. Le tradizioni non si trasmettono con le guardie armate.

Il giorno in cui Israele sarà un po’ più democratico e un po’ meno ebraico, inshallah, ognuno potrà mangiare quel che gli pare, dove gli pare. Sembra una cosa irrealizzabile? In effetti, nell’Israele del 2017 è un’utopia.

(http://www.haaretz.com/misc/article-print-page/.premium-1.783140)

Traduzione di Donato Cioli

http://www.assopacepalestina.org/




“Pulizia etnica” di chi?: l’appropriazione israeliana della narrazione palestinese

Dina Matar, Al-Shabaka– 26 marzo 2017

Sintesi

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha recentemente sostenuto in un video postato sulla sua pagina Facebook che la richiesta palestinese di smantellare le colonie israeliane illegali nei Territori Palestinesi Occupati costituisce un atto di “pulizia etnica” contro i coloni ebrei israeliani. L’attribuzione di questo termine ai coloni da parte di Netanyahu ha colpito molti analisti ed ha creato un intenso dibattito sui media internazionali. Eppure questo discorso non è che l’esempio più recente di una strategia israeliana di appropriazione di una narrazione di vittimizzazione per sollecitare l’appoggio dell’opinione pubblica.

II primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha recentemente sostenuto in un video postato sulla sua pagina Facebook che la richiesta palestinese di smantellare le colonie israeliane illegali nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) costituisce un atto di “pulizia etnica” contro i coloni ebrei israeliani (1). Il termine, che è stato originariamente utilizzato come un eufemismo durante la campagna serba contro i bosniaci, è rapidamente passato a descrivere pratiche estremamente violente, uccisioni di massa ed espulsioni forzate durante conflitti e guerre. E’ stato usato anche da molti studiosi, così come nel dibattito pubblico, in riferimento alle pratiche sioniste contro la popolazione palestinese immediatamente prima e durante la Nakba del 1948. Queste pratiche comprendono la distruzione di oltre 500 villaggi palestinesi e l’espulsione di circa 730.000 palestinesi dalle loro case.

L’attribuzione di questo termine ai coloni israeliani da parte di Netanyahu ha raccolto più di un milione di visualizzazioni sulla sua pagina Facebook, e ne ha portati altri milioni attraverso la ridiffusione del video su altre piattaforme dei social media. Ciò ha colpito molti analisti, ha creato un intenso dibattito nei media internazionali e ha portato ad una condanna di una personalità come l’allora segretario generale dell’ONU Ban ki-moon, che lo ha definito “inaccettabile e oltraggioso.” Eppure questo discorso, benché più provocatorio del solito, non è che l’ultimo esempio di una strategia israeliana di appropriazione di una narrazione della vittimizzazione per sollecitare l’appoggio dell’opinione pubblica.

Questo commento delinea la storia delle pretese israeliane di questa narrazione dalle prime campagne del movimento sionista all’inizio del XX secolo fino ad oggi. Puntualizza i modi in cui questa strategia retorica è stata utilizzata per giustificare le azioni dello Stato di Israele a danno dei palestinesi. Si conclude con suggerimenti su come dirigenti, intellettuali, giornalisti e attivisti palestinesi possono opporsi alla strategia israeliana di appropriazione per sostenere le loro richieste per l’autodeterminazione ed i diritti umani dei palestinesi.

Narrazioni della vittimizzazione nel loro contesto

In ogni conflitto gli attori fanno ricorso alle narrazioni di vittimizzazione per giustificare le aggressioni, le invasioni e persino l’uccisione di civili. Una tale retorica intende stabilire il dualismo tra bene e male, tra vittima e carnefice. Ciò mobilita sostenitori contro “il nemico”. Come vediamo con Israele e in altri conflitti, le narrazioni di vittimizzazione servono a legittimare azioni violente e spesso preventive contro “il nemico”, perpetuando indefinitamente il ciclo di violenza e vittimizzazione.

I politici israeliani utilizzano narrazioni che privilegiano la vittimizzazione ebraica rispetto alle vite ed i diritti dei palestinesi.

Al contrario, le narrazioni palestinesi di vittimizzazione si basano sull’ingiustizia insita nella dichiarazione Balfour del 1917 [in cui la Gran Bretagna si impegnava ad appoggiare la creazione di un “focolare ebraico” in Palestina. Ndt.], che iniziò ad essere messa in atto prima e durante il Mandato britannico del 1923 e fino al piano di partizione ONU del 1947. Queste opinioni continuano fino ad oggi, e sono esacerbate dalla mancanza di volontà della comunità internazionale, e del mondo arabo, di imporre le leggi internazionali e i diritti umani fondamentali. Quindi la narrazione di vittimizzazione dei palestinesi non può essere discussa al di fuori di questo contesto e delle continue azioni politiche e militari israeliane contro i palestinesi nei TPO. La situazione include una diseguale dinamica di potere dovuta al fatto che Israele è la potenza più forte e l’occupante; un gran numero di vittime palestinesi, compresi bambini, in conseguenza di azioni ed attacchi israeliani; il controllo israeliano di spazio e territorio, così come di risorse e mobilità.

Di conseguenza, mentre un’analisi di come la storia delle persecuzioni contro gli ebrei e la loro vittimizzazione è stata, ed è tuttora, utilizzata per giustificare le azioni dello Stato di Israele non dovrebbe mai perdere di vista i fatti e il contesto di quella persecuzione molto concreta, allo stesso tempo è necessario esaminare attentamente l’utilizzo di questa narrazione per comprendere come un gruppo, gli ebrei israeliani, ha ottenuto la condizione di vittima, mentre un altro, i palestinesi, non l’ha avuta, rafforzando uno squilibrio di potere in cui i diritti degli ebrei israeliani sono favoriti a spese dei diritti dei palestinesi.

Dalla vittimizzazione alla pulizia etnica

La persecuzione degli ebrei in Europa è radicata nell’antisemitismo e nei molti modi in cui ha colpito le comunità ebraiche in luoghi e tempi diversi. Quanto alla narrazione della persecuzione, essa si può far risalire alla fine del XIX° secolo, quando Theodor Herzl, uno dei padri del sionismo, ha attinto alla storia delle persecuzioni contro gli ebrei in Europa per legittimare il progetto nazionalista dello Stato israeliano e le sue pratiche di colonialismo di popolamento. Dopo la Seconda guerra mondiale, questa storia di persecuzioni è stata di nuovo invocata per giustificare la fondazione dello Stato di Israele. Infatti, la Dichiarazione di Indipendenza di Israele afferma che

l’Olocausto … in cui milioni di ebrei in Europa sono stati spinti al macello dimostra ancora una volta oltre ogni dubbio l’esigenza impellente di risolvere il problema della mancanza di una patria e della dipendenza ebraiche attraverso la rinascita dello Stato ebraico sulla terra di Israele, che spalancherà le porte della patria ad ogni ebreo” (2).

Dalla creazione di Israele, le narrazioni storiche che danno valore alla vittimizzazione ebraica rispetto alle vite ed ai diritti palestinesi sono state utilizzate ripetutamente dai politici israeliani. Il primo ministro Golda Meir, ad esempio, ha affermato che gli ebrei hanno un “complesso di Masada”, un “complesso del pogrom” e un “complesso di Hitler”, e l’ex primo ministro Menachem Begin ha tracciato un parallelo tra i palestinesi ed i nazisti (3).

Alcuni studiosi hanno suggerito che i dirigenti israeliani e sionisti hanno manipolato la memoria delle persecuzioni contro gli ebrei, soprattutto in rapporto all’Olocausto, come strumento diplomatico nel loro rapporto con i palestinesi. Per esempio, lo storico israeliano Ilan Pappe, nel suo libro “L’idea di Israele”, sostiene che questi dirigenti hanno costruito un’idea degli israeliani come vittime, un’auto-rappresentazione che impedisce loro di vedere la situazione dei palestinesi. Questo, afferma, ha impedito una soluzione politica al conflitto arabo-israeliano (4).

In anni recenti nuove prove e studi hanno iniziato a mettere in dubbio le principali rivendicazioni del movimento sionista. Al contempo il movimento internazionale di solidarietà in appoggio dei palestinesi è andato crescendo, in parte grazie alle piattaforme digitali che permettono all’opinione pubblica internazionale un accesso diretto alla storia ed alla situazione vissuta dai palestinesi. Ciò ha spinto i dirigenti, i manager, i portavoce israeliani ed i loro mezzi di comunicazione a concentrarsi su differenti strategie per mantenere il controllo sull’opinione pubblica occidentale (5).

Queste includono l’uso di un discorso – come l’utilizzo da parte di Netanyahu della pulizia etnica – per fare riferimento a cittadini ebreo-israeliani come vittime di continue persecuzioni da parte dei palestinesi, con la consapevolezza che questi termini hanno specifici significati giuridici e, secondo le leggi internazionali, sono considerati crimini contro l’umanità. Ma sono i significati emotivi associati ai termini, soprattutto se sono intesi per agire come ricordi della lunga storia di persecuzione degli ebrei, che servono a promuovere la vittimizzazione degli ebrei israeliani a spese delle esperienze di oppressione dei palestinesi. Il termine “pulizia etnica” deve ancora essere utilizzato ufficialmente in Occidente riguardo alla Nakba, esponendolo così all’appropriazione da parte di Israele.

Più o meno in contemporanea con l’affermazione di Netanyahu sulla pulizia etnica, il ministro degli Affari Esteri israeliano ha ri-postato un video a questo proposito sulla sua pagina Facebook, che era stato originariamente reso pubblico nel 2013. Il video, intitolato “Benvenuti nella patria del popolo ebraico”, è stato pubblicizzato come una breve storia degli ebrei. Segue le vicende di una coppia di ebrei, chiamati Giacobbe e Rachele, quando la loro patria (la “Terra di Israele”) viene invasa da vari gruppi, compresi gli assiri, i babilonesi, i greci, gli arabi, i crociati, l’impero britannico e, alla fine, i palestinesi. Ciò quindi suggerisce che gli ebrei sono sopravvissuti ad una serie di brutali invasioni, con i palestinesi come unici invasori rimasti. Il video ha provocato una dura reazione da parte degli attivisti palestinesi e di quelli che lavorano per i loro diritti, a causa del chiaro tentativo di riscrivere la storia del conflitto, inquadrando gli ebrei israeliani come vittime al posto dei palestinesi e con l’utilizzo di un linguaggio razzista e violento nella raffigurazione dei palestinesi.

Il video di Netanyahu sulla pulizia etnica è l’ultimo di una serie di video ideati e prodotti da David Keyes, il portavoce di Netanyahu per i media esteri, che è stato nominato nel marzo 2016. Keyes è stato uno degli uomini chiave dell’incremento delle campagne di propaganda a favore di Israele sui social media. Dalla sua nomina, sono stati postati otto video con Netanyahu che affronta una vasta gamma di problemi. Tutti sono stati apprezzati dai suoi sostenitori in Israele e negli USA.

Con una simile attenzione verso l’Occidente, quindi non è forse sorprendente che nel video sulla pulizia etnica e in altri Netanyahu comunichi in inglese, con versioni disponibili sottotitolate in ebraico e in arabo.

Contrastare la strategia retorica di Israele

La storia delle persecuzioni contro gli ebrei è un problema che colpisce in profondità gli israeliani e, più in generale, la comunità internazionale, soprattutto in Europa. Tuttavia l’uso di termini come pulizia etnica per mano dei palestinesi da parte di Israele lo rappresenta falsamente come vittima ed i palestinesi come aggressori. Questa retorica può essere utilizzata nella prassi pericolosa di vedere qualunque critica delle azioni israeliane come antisemitismo o come ostile nei confronti di Israele. Ciò aiuta ad ostacolare i tentativi da parte dei palestinesi e dei movimenti di solidarietà con i palestinesi di rendere Israele responsabile delle sue azioni, come le uccisioni extragiudiziali e la costruzione illegale di colonie nei TPO.

Dato che le dispute sulla narrazione sono diventate più frequenti e più visibili nell’era digitale, e dati i modi in cui un particolare linguaggio può essere utilizzato per distogliere l’attenzione dagli sviluppi sul terreno, l’uso evidente del discorso della vittimizzazione da parte di Netanyahu non può essere ignorato. L’attenzione su questo sviluppo è particolarmente fondamentale in questo frangente, in cui Israele progetta di espandere le colonie e possibilmente di annettersi altro territorio occupato, e la determinazione e la capacità internazionali di risolvere il conflitto sono più che mai deboli. E’ anche necessario, e strategico, prestare una particolare attenzione in un anno che segna il centenario dalla dichiarazione Balfour, il cinquantennale della guerra del 1967 e i trent’anni dalla prima Intifada palestinese.

L’appropriazione del discorso sulla vittimizzazione da parte di Israele richiede un impegno più efficace da parte dei portavoce, delle élite politiche e degli attivisti palestinesi nella sfera pubblica per esporre la realtà delle azioni di Israele e sollecitare l’appoggio internazionale per la Palestina e per i palestinesi. Ciò non significa partecipare ad una futile battaglia su chi meriti di essere chiamato la vera vittima nel conflitto, ma costruire una campagna coordinata per confutare attraverso delle prove le pretese israeliane.

Una simile campagna dovrebbe contestare la narrazione israeliana utilizzando immagini ed il linguaggio dei diritti umani internazionali che facciano appello all’opinione pubblica ed ai dirigenti occidentali. Dovrebbe sempre basarsi su prove, fatti e contesti, per respingere i tentativi di disinformazione ed iniziative di travisamento. La campagna dovrebbe anche addestrare la dirigenza politica e il personale diplomatico palestinesi nell’uso di un discorso politico rivolto ai palestinesi, su scala regionale ed internazionale, per garantire che il dibattito non legittimi il discorso sionista, per esempio, con l’uso involontario di metafore antisemite. I palestinesi che guidano la campagna e i gruppi della solidarietà internazionale devono utilizzare Twitter e altre reti sociali per confutare i media principali con la situazione reale sul terreno nei TPO, rivolgendosi al contempo ai cittadini palestinesi di Israele e a quelli rifugiati ed esiliati, utilizzando il linguaggio dei diritti e delle leggi internazionali.

Infine, la campagna dovrebbe impegnare professionisti dei media per formare palestinesi e gruppi di sostegno su come controbattere alle narrazioni e affermazioni propagandistiche, nonché su come utilizzare i mezzi di comunicazione digitale per raggiungere un pubblico globale.

Solo con questi sforzi congiunti la strategia israeliana di appropriazione della narrazione palestinese può essere contestualizzata e quindi svelata come un discorso che intende mascherare la violenza del colonialismo di insediamento israeliano.

Note:

(1) Il numero dei coloni è stimato in 600.000. Vedi Ilan Pappe, “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi, 2008. Vedi anche Isabel Kershner, “Benjamin Netanyahu Draws Fire After Saying Palestinians Support ‘Ethnic Cleansing’” [Benjamin Netanyahu provoca un incendio dopo aver detto che i palestinesi sostengono ‘una pulizia etnica’], New York Times, September 12, 2016.

(2) Dov Waxman, “The Pursuit of Peace and the Crisis of Israeli Identity: Defending/Defining the Nation” [Il perseguimento della pace e la crisi dell’identità israeliana: difendere/definire la Nazione), (London: Palgrave Macmillan, 2006).

(3) Waxman, 49-56.

(4) Ilan Pappe, “The Idea of Israel: A History of Power and Knowledge” [L’idea di Israele: una storia di potere e di conoscenza], (London: Verso, 2014)

(5) Come ha sostenuto Edward Said, è “il senso sionista del ‘mondo come sostegno e pubblico’ che ha fatto della lotta sionista per la Palestina una lotta che è stata lanciata, comunicata e alimentata nelle grandi capitali dell’Occidente,” con tanto successo – e che ha garantito, fino a un certo punto, la condiscendenza e la complicità dell’Occidente. Edward Said, “Permission to Narrate”(Permesso di Raccontare), Journal of Palestine Studies 13, 3 (Spring 1984): 27-48.

(6) Frank Luntz, “The Israel Project’s Global Language Dictionary” (Il dizionario linguistico del progetto globale di Israele), 2009.

Dina Matar

Membro di Al-Shabaka, Dina Matar è docente in comunicazione politica del Centro per gli Studi sui Film e i Media alla Scuola di Studi Orientali e Africani. Lavora sui rapporti tra cultura, comunicazione e politiche, con una particolare attenzione alla Palestina, al Libano e alla Siria. E’ autrice di “What it Means to be Palestinian: Stories of Palestinian Peoplehood”[Cosa significa essere palestinese: storie di gente palestinese] (Tauris, 2010); co-curatrice di “Narrating Conflict in the Middle East: Discourse, Image and Communication Practices in Palestine and Lebanon” [Raccontare il conflitto in Medio Oriente: discorso, immagine e pratiche comunicative in Palestina e in Libano), (Tauris, 2013) e co-autrice di “The Hizbullah Phenomenon: Politics and Communication” [Il fenomeno Hezbollah: politiche e comunicazione], (Hurst, 2014). Matar è anche co-fondatrice e redattrice del “The Middle East Journal of Culture and Communication” [Giornale del Medio oriente di Cultura e Comunicazione].

(traduzione di Amedeo Rossi)




La fase successiva nella guerra al BDS: perché Israele ha arrestato Omar Barghouti

Ramzy Baroud, Ma’an News30 marzo 2017

Lo Stato israeliano ha violato le leggi internazionali più di ogni altro Paese, tuttavia è stato raramente, se non mai, portato a rendere conto dei suoi crimini e dei sui abusi.

Le efficaci campagne di pubbliche relazioni di Israele attraverso partner mediatici occidentali ben disposti, insieme al costante lavoro e alle pressioni portate avanti dai suoi potenti sostenitori a Washington, Londra, Parigi ed altrove, hanno prodotto risultati magnifici.

Per un momento è sembrato che Israele fosse in grado di conservare l’occupazione e negare ai palestinesi i loro diritti indefinitamente, promuovendosi al contempo come “l’unica democrazia in Medio Oriente”.

Quelli che osavano sfidare questo paradigma distorto con la resistenza in Palestina erano eliminati o imprigionati; quelli che hanno sfidato Israele in pubblico ovunque nel mondo sono stati calunniati come “antisemiti” o “ebrei che odiano se stessi”.

Sembrava che le cose andassero avanti senza problemi per Israele. Con l’aiuto finanziario e militare americano-occidentale, le dimensioni, la popolazione e l’economia delle colonie illegali sono cresciute rapidamente. I partner commerciali di Israele sembravano dimenticare il fatto che i prodotti delle colonie fossero costruiti o coltivati su terra palestinese occupata illegalmente.

Quindi per molto tempo l’occupazione è stata molto redditizia, con poche condanne e pressioni. L’unica cosa che i dirigenti israeliani dovevano fare era rispettare il copione: i palestinesi sono terroristi, non abbiamo partner per fare la pace, Israele è una democrazia, le nostre guerre sono tutte fatte per auto-difesa, e via di questo passo. I media ripetevano all’unisono queste nozioni ingannevoli. I palestinesi, oppressi, occupati e diseredati, erano regolarmente demonizzati. Quelli che sapevano la verità sulla situazione dovevano affrontare il rischio di pronunciarsi apertamente – e di patirne le conseguenze – o rimanere in silenzio.

Ma, come si suol dire, “puoi prendere in giro tutti per un po’ di tempo, e alcuni per sempre, ma non puoi prendere in giro tutti per sempre.”

[Lo slogan] “Giustizia per i palestinesi”, che un tempo sembrava che fosse una “causa persa”, è stato massicciamente ripreso durante la Seconda Intifada (Rivolta) palestinese nel 2000.

Una crescente consapevolezza, dovuta all’impegno di molti intellettuali, giornalisti e studenti, ha visto l’arrivo in Palestina di migliaia di attivisti internazionali come parte dell’International Solidarity Movement (ISM).

Accademici, artisti, studenti, membri del clero e persone comuni sono venuti in Palestina e poi si sono sparsi in molte parti del mondo, utilizzando qualunque mezzo a disposizione per diffondere un messaggio concorde tra le loro numerose comunità.

E’ stato questo lavoro di base che ha reso possibile il successo del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

Sorto nel 2005, il BDS è stato un appello delle organizzazioni della società civile palestinese alle persone di tutto il mondo perché partecipassero alla denuncia dei crimini israeliani e perché il governo e l’esercito israeliani e le imprese che traggono vantaggio dall’oppressione dei palestinesi ne fossero considerati responsabili. Sostenuto da un’ampia e crescente rete già consolidata, il BDS si è velocemente diffuso ed ha colto di sorpresa il governo israeliano.

Nell’ultimo decennio il BDS si è dimostrato in grado di resistere e ricco di risorse, aprendo nuovi canali e tribune per discutere di Israele, della sua occupazione, dei diritti dei palestinesi e della responsabilità morale di quanti appoggiano o ignorano le violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

Ciò che più preoccupa Israele riguardo al BDS è quello che esso definisce il tentativo del movimento di “delegittimarlo”. Fin dalla sua creazione, Israele ha lottato per la legittimazione. Ma è difficile ottenere legittimazione senza rispettare le norme richieste ad un Paese per ottenerla. Israele vuole avere entrambe le cose: continuare la sua proficua occupazione, testare la sua nuova tecnologia bellica, arrestare e torturare, assediare ed assassinare e allo stesso tempo ottenere l’assenso internazionale.

Usando minacce, intimidazioni, taglio di fondi, gli Usa ed Israele hanno insistito, senza risultati, per far tacere le critiche a Israele, principale alleato degli Usa in Medio Oriente.

Solo qualche giorno fa un rapporto delle Nazioni Unite ha affermato che Israele ha istituito un “regime di apartheid”. Anche se l’autrice del rapporto, Rima Khalaf [a capo della Commissione ONU per l’Asia occidentale (ESCWA). Ndtr.], ha rassegnato le dimissioni in seguito a pressioni, il genio non può tornare nella bottiglia.

Progressivamente, il BDS è cresciuto fino a diventare l’incubatore di molte delle critiche internazionali a Israele. Il suo iniziale impatto ha riguardato artisti che rifiutano di esibirsi in Israele, poi imprese che hanno iniziato ad abbandonare le proprie attività in Israele, seguite da chiese ed università che hanno disinvestito dall’economia israeliana. Con il tempo Israele si è trovato a dover affrontare un’unica, grande sfida.

Quindi, cosa deve fare Israele?

Ignorare il BDS si è dimostrato pericoloso e costoso. Combattere il BDS è come scatenare una guerra contro la società civile. Peggio, più Israele tenta di distruggere il lavoro del BDS, più legittima il movimento, offrendogli nuovi spazi per il dibattito, per le notizie dei media e per la discussione pubblica.

Nel marzo 2016 una grande conferenza ha radunato insieme funzionari del governo israeliano, dirigenti dell’opposizione, esperti dei media, studiosi e persino personaggi dello spettacolo da Israele, dagli Usa e da altri Paesi. La conferenza è stato organizzata da una delle maggiori imprese mediatiche di Israele, Yediot Achronot. C’è stata una rara esibizione di unità tra i politici israeliani; centinaia di israeliani influenti e loro sostenitori che cercavano di costruire una strategia intesa a sconfiggere il BDS.

Sono state proposte molte idee.

Il ministro degli Interni israeliano, Aryeh Deri, ha minacciato di revocare la residenza [a Gerusalemme] a Omar Barghouti, cofondatore e una delle personalità più attive del BDS.

IIl ministro dell’Intelligence e dell’Energia Atomica, Israel Katz, ha invocato “un’eliminazione civile mirata” dei dirigenti del BDS, indicando in particolare Barghouti.

Il ministro della Pubblica Sicurezza, Gilad Erdan, ha chiesto che gli attivisti del BDS “ne paghino il prezzo”.

La guerra contro il BDS è iniziata ufficialmente, benché il lavoro di base per la lotta fosse già in atto.

Il governo del Regno Unito aveva annunciato all’inizio dell’anno che era illegale “rifiutare di acquistare beni e servizi da imprese coinvolte nel commercio di armi, di combustibili fossili, prodotti per fumatori o nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.”

Quello stesso mese, il Canada ha votato una mozione che ha reso il BDS un reato.

Un paio di mesi prima, il Senato Usa ha approvato la legge ” Consapevolezza dell’Anti-Semitismo”, che ha accorpato la definizione di antisemitismo per includervi le critiche contro Israele nei campus Usa, molti dei quali hanno risposto positivamente all’appello del BDS.

Infine il Regno Unito ha adottato una definizione simile equiparando i crimini di vero e proprio odio antiebraico alle critiche a Israele.

Più di recente, Israele ha votato una legge che pone un bando all’ingresso in Israele di persone accusate di appoggiare il movimento BDS. Considerando che entrare in Israele è l’unico modo per raggiungere i Territori Palestinesi Occupati, il bando israeliano intende recidere il forte rapporto che mette in contatto i palestinesi con il movimento globale di solidarietà.

La campagna contro il BDS è infine culminata con l’arresto e l’interrogatorio dello stesso Omar Barghouti.

Il 19 marzo le autorità fiscali israeliane hanno arrestato Barghouti e lo hanno accusato di evasione fiscale. Così facendo Israele ha svelato la natura del prossimo passo della sua lotta, utilizzando tattiche diffamatorie e incolpando dirigenti di punta sulla base di imputazioni che sono apparentemente apolitiche per distogliere l’attenzione dall’imminente e pressante dibattito politico.

Insieme ad altri passi, Israele pensa che sconfiggere il BDS sia possibile con la censura, i divieti di ingresso e tattiche intimidatorie.

Tuttavia la guerra di Israele contro il BDS è destinata a fallire e, come diretto risultato di questo fallimento, il BDS continuerà ad espandersi.

Israele ha mantenuto la società civile mondiale all’oscuro per decenni, vendendole una versione fuorviante della realtà. Ma nell’era dei media digitali e dell’attivismo su scala globale la vecchia strategia non mantiene più le sue promesse.

Nonostante quello che appare nel caso di Barghouti, il BDS non si indebolirà. E’ un movimento decentralizzato con reti locali, regionali, nazionali e globali sparse in centinaia di città in tutto il mondo.

Diffamare una persona, o un centinaio di persone, non modificherà il crescente movimento del BDS.

Israele si renderà presto conto che la sua guerra contro il BDS, contro la libertà di parola e di espressione, non può essere vinta. Si tratta di un tentativo inutile di imbavagliare una comunità globale che ora lavora all’unisono da Città del Capo, in Sudafrica, a Uppsala, in Svezia.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Esperti israeliani e palestinesi redigono una ‘road map’ per salvare l’economia palestinese

Amira Hass, 25 marzo 2017, Haaretz

Circa 2 milioni di palestinesi sono ammassati nei 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza. Nella Valle del Giordano, che conta 1.600 chilometri quadrati, ci sono 65.000 palestinesi (e altri circa 10.000 coloni israeliani). Teoricamente gli accordi di Oslo avrebbero dovuto consentire a molti abitanti di Gaza di spostarsi nella Valle del Giordano – per lavorare nelle infrastrutture e in agricoltura (anche se solo per attività stagionali), nell’edilizia, nel turismo e nell’industria.

Ma in realtà queste due aree palestinesi “contribuiscono” al deterioramento dell’economia palestinese nel suo complesso. In entrambe, la principale ragione del declino sta nelle draconiane restrizioni alla libertà di movimento, di accesso alle risorse e alle possibilità di commercio, costruzione, agricoltura e sviluppo imposte da Israele.

Queste affermazioni non sono affatto nuove, già la scorsa settimana un gruppo di 11 economisti palestinesi ed israeliani ha pubblicato due studi a questo riguardo. Gli studiosi delineano un piano per espandere l’attività economica palestinese nella Valle del Giordano e salvare l’economia di Gaza (prima del 2020, data entro la quale, se nulla cambia, questa enclave isolata sarà inabitabile, come hanno avvertito due anni fa le Nazioni Unite).

Per ragioni di cortesia, e forse perché gli studi sono stati elaborati in collaborazione con la Banca Mondiale, gli autori si occupano di sincere affermazioni di politici israeliani circa il desiderio di vedere un miglioramento nell’economia palestinese. In effetti, i due autori – Saeb Bamya e il professor Arie Arnon che, insieme al dottor Shanta Devarajan, capo economista al MENA (Medio Oriente e Nord Africa, ndtr.) della Banca Mondiale, hanno presentato i documenti mercoledì all’Istituto Truman di Gerusalemme – sono perfettamente coscienti che l’attuale situazione non è solamente il risultato di una casuale serie di errori umani.

Ma è stato il moderatore di una tavola rotonda, l’ex ambasciatore di Israele in Sudafrica Ilan Baruch, a non moderare i termini. “Vi è stata una deliberata politica israeliana tesa a creare deficit”, ha detto. “La comunità internazionale deve essere coinvolta – non come donatore, ma per esercitare pressioni [su Israele].”

Il giorno prima, gli studi sono stati presentati per la prima volta negli uffici della Banca Mondiale nel quartiere Dahiyat al-Barid di Gerusalemme, all’ombra del muro di separazione. Alcuni relatori hanno detto ai funzionari presenti: sono state elargite grosse somme di denaro per determinare un cambiamento, non per perpetuare lo status quo. Ma sembra che il denaro dei contribuenti dei vostri Paesi in realtà rafforzi la situazione di deterioramento. E questo deve cambiare.

A coloro che sono arrivati a pensare al blocco di Gaza come a un dato di fatto e che sono abituati a pensare che la Valle del Giordano appartenga ad Israele, le misure di semplice ricostruzione proposte dagli economisti sembreranno surreali. Permettere il regolare movimento di persone e camion direttamente tra Gaza e la Cisgiordania? Riaprire l’aeroporto di Gaza? Fornire acqua e maggiore elettricità alla Striscia? Ricostruire la flotta di pescatori e costruire un porto? Permettere ai palestinesi di coltivare altri 40.000 dunams ( 24,7 km²) nella Valle del Giordano? Lasciare che vi creino e sviluppino il turismo?

Un approccio differente da Oslo

Sembra inconcepibile. Ma secondo Arnon le raccomandazioni degli studi sono in realtà molto vicine all’approccio prospettato da alti dirigenti militari e della sicurezza israeliani, che comprendono i rischi per la sicurezza contenuti in un’economia palestinese in difficoltà. Quindi queste raccomandazioni sono un ulteriore tentativo di trovare persone responsabili in Israele che possano fare dei passi per scongiurare le disastrose previsioni.

Il Gruppo di Aix, che prende il nome dall’università francese in cui fu fondato nel 2002 (Università Paul Cézanne Aix-Marseille III), è stato creato per delineare scenari socioeconomici per la fase di status finale dei due Stati. Questo approccio è l’opposto di quello degli Accordi di Oslo, in cui sono state indicate in modo molto dettagliato fasi intermedie come percorso per realizzare un’ipotesi che non era definita.

Perciò, per il Gruppo di Aix, i due studi sono un nuovo lavoro che propone passi concreti per salvare e rivitalizzare l’economia a breve e medio termine, indipendentemente dalla situazione dei negoziati sullo status finale e con la consapevolezza della scarsa probabilità che tali colloqui possano ricominciare presto.

Ogni studio utilizza cifre e grafici per illustrare le tendenze economiche. Per esempio, nei 20 anni trascorsi dalla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, il prodotto interno lordo pro capite a Gaza è stato in media di 1.200 dollari (calcolati a prezzi del 2004). Negli anni migliori, 1998 e 1999, è stato di 1.450 dollari. Il livello più basso è stato nel 2007 e 2008 con solo 900 dollari. Per fare un confronto, a quel tempo il dato è stato di 4.200 dollari in Giordania e di 20.000 dollari in Israele.

Il PIL per lavoratore illustra ulteriormente il peggioramento – da 24.000 dollari nel 2005 a 10.000 dollari oggi. Questo è anche il modo per calcolare la produttività nell’economia.

Secondo gli autori, che citano uno studio della Banca di Israele che ha rilevato che dal 2006 al 2009 l’occupazione nel settore manifatturiero è crollata del 33%, rispetto ad un aumento del 24% nel settore dei servizi, questo drastico peggioramento è dovuto soprattutto al blocco di Gaza. Intanto nel 2015 la disoccupazione giovanile a Gaza è arrivata al 57.6%; il tasso complessivo di disoccupazione è stato del 41%.

Un altro modo per osservare il deterioramento è considerare il valore delle importazioni pro capite. Nel 1997 questo dato era di 800 dollari a Gaza e 1.000 dollari in Cisgiordania. Nel 2015 era di 400 dollari a Gaza e 1.400 in Cisgiordania.

E le esportazioni pro capite? Queste sono sempre state basse. Ma anche questo valore ridotto è diminuito. Nel 2000 le esportazioni erano il 10% del PIL, con 15.255 camion che uscivano da Gaza. Questo dato è sceso al 6.8% nel 2005 (9.319 camion) e a 0 tra il 2008 e il 2010. E’ stato registrato un lieve incremento nel 2015 e 2016, con 1.400 camion in uscita da Gaza ogni anno (grazie all’Olanda, che ha fatto pressioni perché si permettesse a Gaza di esportare all’estero alcune delle sue produzioni agricole).

Scarso sostegno a Gaza da parte dell’ANP

Il blocco israeliano impedisce all’economia di Gaza di beneficiare del movimento di merci e di persone. I costi crescenti abbassano la produttività e scoraggiano gli investitori, oltre alle fatiscenti infrastrutture di Gaza. Gli investitori sono spaventati anche dai rischi militari e politici, sostengono gli autori, che non ignorano un fattore interno: i due distinti governi palestinesi e la rivalità tra Hamas e l’ANP.

Gli autori respingono la ricorrente affermazione dell’ANP che il 40% del suo budget viene investito a Gaza. In base ai loro calcoli, solo il 15% del budget non coperto da entrate doganali e da imposte sul valore aggiunto viene trasferito alla Striscia. Non è un grande aiuto, dicono gli autori, aggiungendo che generalmente le zone ricche sovvenzionano quelle più povere.

Quanto alla paura di Israele del rischio per la sicurezza che comporterebbe allentare il blocco, le argomentazioni degli autori poggiano su una logica elementare: il blocco draconiano non ha impedito ad Hamas di armarsi e non ha impedito i conflitti. La situazione socioeconomica in peggioramento non fa che aumentare il malessere e la rabbia, che alimentano gruppi e idee estremiste. Secondo gli autori un allentamento del blocco in ultima istanza ridurrà il sostegno ad Hamas.

Inoltre scrivono: “Il blocco di Gaza potrebbe non essere solo una punizione per Hamas, ma anche un modo per rafforzare il suo controllo su Gaza. E’ più facile controllare un territorio chiuso che uno aperto, dove le persone possono entrare ed uscire.”

La valle del Giordano non è separata dal resto della Cisgiordania, ma, in base al secondo studio, per 50 anni, e soprattutto negli ultimi 20 anni, Israele ha vietato ai palestinesi l’accesso, la costruzione e lo sviluppo in circa il 75% dell’area, con diversi pretesti: zone di esercitazione militare, riserve naturali, zone di sicurezza, terreni dello Stato. Circa il 90% della terra nella Valle del Giordano rientra sotto l’autorità di 24 colonie. Circa l’80% del territorio è in Area C, sotto l’esclusivo controllo israeliano.

Dei 160.000 dunams (16.000 ha., ndt.) nella Valle del Giordano, i palestinesi ne coltivano solo 42.000 (4.200, ndt). I coloni coltivano tra i 30.000 (3.000 ha, ndt) e i 50.000 dunams (5.000 ha, ndt), ed il resto è vietato ai palestinesi. Riguardo all’accesso all’acqua, questo dato da solo illustra adeguatamente la situazione: la quantità media di acqua usata da un colono è quasi 10 volte maggiore della quantità usata da un palestinese.

Ecco il risultato, secondo lo studio: “Questo sottosviluppo si manifesta in sviluppo rurale limitato e scarsa crescita economica, che produce un aumento della povertà, inadeguate condizioni sanitarie ed igieniche, deterioramento materiale ed ambientale. E’ la conseguenza di tante difficoltà ed ostacoli, compresa l’iniqua distribuzione delle risorse idriche, la distruzione di vitali infrastrutture idriche, mancanza di fognature e notevoli perdite di acqua.”

C’è un altro dato molto eloquente: l’aspettativa media di vita per i palestinesi nella Valle del Giordano è di 65 anni, a fronte di 71.8 nell’intera Cisgiordania.

Gli autori affrontano la questione della sicurezza e le restrizioni di movimento ad essa dovute. Affermano che la sicurezza si ottiene non solo con strumenti militari, ma riducendo la motivazione della parte avversa a lottare contro di te. La situazione di povertà crescente e di qualità della vita in continuo peggioramento crea un focolaio di rabbia e disperazione che potrebbe portare, prima o poi, ad ulteriori cicli di violenza.

Gli autori non trattano della mancanza di sicurezza per i palestinesi, che sono spesso attaccati da esercito e polizia, o dai coloni.

Infatti, proprio in questi giorni, gli abitanti di nuovi avamposti non autorizzati eppure prosperi nel nord della Valle del Giordano stanno facendo uso di intimidazioni e violenze per scacciare pastori e contadini palestinesi da un’ampia zona di territorio. Perciò gli autori farebbero bene ad aggiungere una raccomandazione: adottare metodi per sventare attacchi dei coloni, che probabilmente aumenteranno se le persone responsabili consentiranno ai palestinesi maggiore accesso alle loro terre.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)