L’orrendo nuovo divieto di ingresso di Israele dice al mondo: state lontani se non siete d’accordo con noi

Allison Kaplan Sommer – 8 marzo 2017, Haaretz

La nuova legge contro il BDS segna un drastico cambiamento nelle relazioni di Israele con il resto del mondo, inviando il messaggio che molti di quelli che sono in profondo disaccordo con l’occupazione non sono più ospiti graditi.

A prima vista il radicale divieto di ingresso in Israele approvato lunedì notte dalla Knesset non cambia essenzialmente niente. Le autorità israeliane sui confini o negli aeroporti hanno già una totale discrezionalità nel tenere fuori chiunque e molti potenziali visitatori sono stati messi su una lista nera e rimandati indietro perché ritenuti ostili ad Israele.

Non c’era bisogno di questa legge, che definisce l’appoggio al boicottaggio di qualunque istituzione israeliana o di qualunque area sotto il suo controllo come criterio per impedire l’ingresso come visitatori.

Ma in realtà cambia tutto. La dichiarazione che fa e il messaggio che manda – che quelli che sono talmente contrari all’occupazione da scegliere di non comprare prodotti delle colonie non sono più visitatori graditi per vedere e conoscere il Paese – segnano un drastico cambiamento nei rapporti di Israele con il resto del mondo.

Storicamente quelli che credono nell’importanza di Israele per il mondo, nonostante i conflitti ed i problemi, hanno sempre sostenuto “vedere per credere”.

Mi includo in quel gruppo. Quando ho incontrato chiunque nel mondo che volesse discutere delle politiche di Israele, persino quelli che facevano obiezioni sulla stessa esistenza dello Stato come risultato dell’occupazione, la mia risposta è sempre stata la stessa: una sfida e un invito.

“Beh, sei stato in Israele?” chiedo loro nel momento opportuno di una conversazione, che la mia controparte sia di destra o di sinistra, appassionatamente a favore delle colonie o contro l’occupazione.

Il più delle volte la risposta è “no”: la persona in questione non è mai stata né in Israele né in Palestina e basa la sua posizione politica su quello che è stato visto da altri o gli è stato raccontato. Allora gli dico: “Bene, vieni e guarda con i tuoi occhi. Poi decidi.”

La mia convinzione è che finché uno non è stato qui, non ha visto e provato quello che succede in questa nazione disperatamente complessa e non arriva alle sue conclusioni in base a quello ha visto con i propri occhi e ascoltato da israeliani e palestinesi reali nel loro contesto domestico, il valore della sua opinione è limitato.

In più, il solo fatto che spenda tempo e denaro per fare il viaggio mi convince che gli importi veramente. In fin dei conti il contrario dell’amore non è l’odio – ma sono la presa di distanza e l’indifferenza.

Finora il governo israeliano e quelli che lo appoggiano hanno condiviso questo approccio. Il governo israeliano e le organizzazioni non governative che lo appoggiano hanno investito milioni – probabilmente miliardi – con l’assunto che il Paese ed i suoi cittadini raccontano la loro storia al meglio e quelli che vogliono convincere devono essere portati qui.

E’ la convinzione che sottolinea “Birthright Israel” [“Eredità Israele”, organizzazione no profit che propone 10 giorni gratis in Israele a giovani di origine ebraica] ed è la ragione per cui il governo finanzia viaggi per opinionisti, celebrità dello spettacolo e dello sport in visita.

Questa è la ragione per cui le organizzazioni di ebrei americani dell’AIPAC, le federazioni ebraiche e J Street [organizzazione di ebrei statunitensi moderatamente critica verso il governo israeliano. Ndtr.] portano mediatori politici da Washington per visitare il Paese e parlare con la gente, invitandoli a testimoniare e a partecipare ai liberi, aperti e dinamici dibattiti nella società israeliana.

Tutti questi programmi si basano sull’assunto che quello che sta succedendo sul terreno è molto più ricco di sfumature degli slogan urlati nelle manifestazioni nei campus americani o nelle riunioni delle organizzazioni.

Mentre la nuova legge colpisce tutti – ebrei e non ebrei – i suoi effetti sulla nuova generazione nella relazione Israele-Diaspora saranno di certo particolarmente profondi.

Riconoscendo che molti nella loro comunità sono in contrasto con le politiche del governo israeliano, molte delle principali organizzazioni ebraiche americane hanno spostato il proprio discorso dalla “difesa di Israele” all’ “impegno per Israele”, nel tentativo di avvicinare le persone di ogni tendenza ideologica al Paese.

Pochi anni fa, durante una sessione sull’ “Impegno per Israele” in una conferenza di un’organizzazione ebraica, ho parlato di questo con Akiva Tor, capo dell’ufficio di questioni ebraiche mondiali al ministero degli Esteri.

Mi ha detto che, anche se “impegnarsi” non è sempre un’esperienza armoniosa e piacevole, lui pensava che molti israeliani preferissero questo piuttosto che la distanza e la disaffezione.

“Ci è del tutto chiaro che questo è il significato della parola “relazione”. Non sempre è facile:”

Ora per la prima volta Israele sta rifiutando gli ebrei della Diaspora che sono impegnati, che hanno un rapporto con Israele, che si preoccupano del suo destino in modo così profondo che stanno cercando di fare qualcosa in proposito, nella forma della scelta attiva di non appoggiare le colonie.

Con questa nuova legge il messaggio ai giovani ebrei ed al resto del mondo non è più: “Venite, guardate con i vostri occhi, discutiamone – anche con una discussione in cui io cerco di cambiare il vostro punto di vista. Sappiamo che è complicato, ma non interrompiamo la nostra relazione.”

Invece è: “Statevene lontani. Se non siete d’accordo con noi, qui non c’è posto per voi.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Divieto di ingresso in Israele: come il bando contro chi boicotta le colonie mi sta portando nelle braccia del BDS

Mira Sucharov – 7 marzo 2017,Haaretz

Il divieto di ingresso in Israele per chi boicotta le colonie ha lasciato me, come molti altri ebrei della diaspora contrari all’occupazione con forti legami con lo Stato ebraico, disorientata, frustrata e senza certezze.

Ora che Israele ha approvato una legge che vieta l’ingresso persino a quelli che chiedono un boicottaggio dei prodotti delle colonie, mi sto chiedendo se, dopo tutto questo, schierarmi a favore del BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) vero e proprio. Spingermi nelle braccia del BDS non è probabilmente quello che i redattori della legge avevano in mente, ma una norma mal concepita spesso ha conseguenze inattese.

Nel 2012 ho scritto su Haaretz che “boicottare le colonie può permettere a quelli come noi che si oppongono all’occupazione una nuova e ben studiata espressione della nostra identità ebraica.” E’ un argomento che ho ripetuto qui sei mesi dopo.

E lo scorso autunno mi sono unita a oltre 300 altre persone firmando un boicottaggio delle colonie promosso da “Partner per un Israele progressista” [associazione statunitense legata al sionismo di sinistra. Ndtr.]. Curiosamente l’opposizione più rumorosa che ho sentito a proposito di questa petizione non è stata da parte dei sostenitori di Israele, ma da quelli del BDS.

In una lettera alla New York Review of Books [prestigiosa rivista culturale statunitense di sinistra. Ndtr.], in cui la petizione originale era stata pubblicata, cento attivisti BDS, compresi Alice Walker [famosa filosofa e teorica gender di origine ebraica. Ndtr.] e Roger Waters [leader del gruppo rock Pink Floyd. Ndtr.], hanno criticato l’appello.

Hanno scritto: “Sfidando il senso comune, la dichiarazione chiede il boicottaggio delle colonie mentre non tocca Israele, lo Stato che ha costruito e mantenuto illegalmente queste colonie per decenni.”

Ci sono legittime ragioni politiche e di strategia politica a favore di un boicottaggio solo delle colonie piuttosto che di un BDS totale. Ciò riapre il dibattito sulla Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. Ndtr.] e quindi ricorda all’opinione pubblica l’importanza di una soluzione dei due Stati.

Solleva l’illegittimità dell’occupazione. In breve, per alcuni il boicottaggio delle colonie è stata la classica espressione del sionismo progressista, il che ha portato Peter Beinart [noto giornalista progressista statunitense. Ndtr.] a definire un boicottaggio delle colonie una forma di “BDS sionista”, quando per primo ha delineato la sua visione di questo tipo di iniziativa.

E ci sono ragioni di principio corrette per opporsi a un BDS totale – in parte a causa del fatto che potrebbe limitare l’importante lavoro da persona a persona necessario per cambiare menti e cuori degli israeliani, e in parte perché ci sono alcune componenti dell’appello al BDS, in particolare il boicottaggio accademico, che pongono una sfida ad altri principi cruciali, in particolare la libertà accademica.

Ma, poiché la prospettiva di una soluzione dei due Stati si allontana rapidamente e la promessa del sionismo progressista perde il suo smalto ad ogni iniziativa per rafforzare ulteriormente l’occupazione, e se quelli di noi che vogliono mantenere i propri legami con il tipo di lavoro verso le persone, che ritenevamo fondamentale, non potranno più avervi accesso perché saremo in ogni caso bloccati, l’appello per il BDS sembra più giustificato.

E se uno accoglie l’affermazione secondo cui il boicottaggio accademico intende colpire le istituzioni e non gli individui (un’affermazione a cui non credo totalmente, ma che potrebbe essere portata avanti, come io stessa recentemente mi sono trovata a fare intervenendo in qualche modo in questo dibattito), e se l’idea di uno Stato ebraico ora sembra sempre più problematica alla luce della democrazia messa a dura prova in Israele e delle misure che prende per escludere, e se l’idea di chiedere un ritorno dei rifugiati [palestinesi] non sembra tanto sconvolgente per le nostre sensibilità culturali quanto poteva essere una volta, potrebbe essere tempo di un appello più convinto per la giustizia, utilizzando tutti i mezzi non violenti a disposizione.

Quando si tratta di BDS comprendo che ci ho girato faticosamente attorno e l’ho tenuto accuratamente a distanza in parte per rimanere negli elenchi (sufficientemente) buoni degli agenti della dogana israeliana all’aeroporto Ben Gurion.

Continuare ad entrare in Israele ha messo in ombra ogni mia azione di attivista. Ci sono state petizioni che non ho firmato per paura di vedermi negare l’ingresso. Ma ora che la Knesset non ha fatto nessuna distinzione tra il boicottaggio mirato e il BDS integrale, forse non ci sono ragioni perché ci asteniamo da entrambi.

Sto immaginando cosa proverò se nella mia prossima visita mi verrà davvero negato l’ingresso, mentre insisterò perché il mio interrogatorio si svolga in ebraico – la mia lingua preferita al mondo. Probabilmente proverò un misto di rabbia, frustrazione e vergogna. Proverò una grande delusione per non poter visitare la gente -familiari e amici – e i luoghi – urbani e rurali – che amo.

Probabilmente rimpiangerò di non aver richiesto la cittadinanza durante uno dei tre anni che ho vissuto nel Paese quando ero ventenne. Sentirò probabilmente un senso di dissonanza cognitiva per il fatto che il Paese a cui sono rimasta legata e con cui sono ancora così sdegnata per la sua precoce cecità riguardo all’ingiustizia e per il suo continuo scivolare verso la mancanza di libertà abbia ora utilizzato la stessa mentalità da assedio che una volta ho studiato e su cui ho fatto ricerca spassionatamente – per escludermi dai suoi muri da fortezza. In breve, mi sentirò disorientata, scossa e senza certezze.

Ma so che alla fine ho il mio Paese che mi garantisce libertà di espressione, di movimento e dalla violenza di Stato. Ciò è incommensurabilmente più di quanto abbiano i palestinesi che vivono sotto occupazione.

Mira Sucharov è professore associato di scienze politiche all’università Carleton di Ottawa.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Oltre 12.000 palestinesi vivono in un limbo, 15 anni dopo l’introduzione della legge “temporanea”

Nir Hasson – 3 marzo 2017 Haaretz

Un’ordinanza d’emergenza impedisce ai palestinesi sposati con cittadini israeliani o residenti permanenti di ottenere permessi per entrare in Israele, benché persino i dati ufficiali dello Shin Bet suggeriscano che l’allentamento delle restrizioni rappresenterebbe un pericolo molto ridotto.

Il figlio di un anno di Taysir al-Asmar, che vive nella città vecchia di Gerusalemme, è nato con seri problemi cerebrali. E’ ricoverato nell’ospedale Herzog di Gerusalemme, all’estremità ovest della città, ma Asmar non ha il permesso di viaggiare fin là per visitarlo. In effetti Asmar non può avere la patente di guida e, se prende l’autobus, potrebbe essere arrestato dalla polizia.

Asmar è solo una delle oltre 12.000 persone che vivono con la paura e l’incertezza dovute alla legge che vieta il ricongiungimento familiare quando i membri della famiglia in questione sono palestinesi.

Il mese prossimo segnerà 15 anni dalla decisione iniziale del governo (poi sostituita da un’ “ordinanza d’emergenza”, la legge “Della cittadinanza e dell’ingresso in Israele”, rinnovata annualmente) che ha eretto una quasi impenetrabile barriera burocratica tra i palestinesi di Gerusalemme est e di Israele in generale e i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

La legge è stata giustificata sul piano giuridico per ragioni di sicurezza, ma sono stati citati anche obiettivi demografici – in altre parole limitare la popolazione araba in Israele.

Migliaia di persone che vivono nei territori [palestinesi occupati. Ndtr.] sposate con cittadini israeliani o residenti permanenti [status giuridico dei palestinesi di Gerusalemme est. Ndtr.], ed i loro figli, si sono trovati intrappolati da questa legge in un insostenibile limbo burocratico, senza prospettive di cambiamento.

La scorsa settimana sia la Knesset che l’Alta Corte di Giustizia hanno tenuto audizioni sulla legge. Come previsto, è stata mantenuta in vigore. La Knesset ne ridiscuterà tra sei mesi, mentre la presidentessa della Corte Suprema Miriam Naor ha suggerito ai richiedenti di ritirare la loro richiesta all’Alta Corte.

Delle 12.500 persone che hanno avviato la procedura di ricongiungimento, 10.000 sono attualmente prive di uno status giuridico. Ciò significa, tra le altre cose, che non possono andare a scuola o lavorare; solo fino a pochi anni fa, non potevano neppure ottenere l’assicurazione sanitaria.

Occasionalmente, grazie all’intervento dell’Alta Corte, la legge è stata messa da parte per ragioni umanitarie. Per esempio, residenti nei territori che non sono considerati un rischio per la sicurezza ed hanno almeno 25 anni (per le donne; 35 per i maschi) e sono sposati ad israeliani possono ora ricevere un permesso di residenza temporanea (come quelli concessi ai lavoratori palestinesi).

Tuttavia rinnovare questi permessi ogni anno o due è una procedura complicata, che richiede la raccolta meticolosa di vari documenti (bollette, certificati scolastici e buste paga, per citarne solo alcuni).

La legge ha un grande impatto sulla società a Gerusalemme est, sui suoi contatti con la Cisgiordania e persino sulla geografia urbana. La legge ha contribuito a creare i quartieri poveri nei pressi del muro di separazione con la Cisgiordania – luoghi che sono diventati “città rifugio” per migliaia di coppie di cui uno dei partner è residente nei territori e l’altro in Israele.

L’ordinanza d’emergenza che impedisce il ricongiungimento familiare fu emanata alla fine del marzo 2002 dall’allora ministro degli Interni Eli Yishai. Quello fu il mese peggiore della seconda intifada – pochi giorni dopo l’attacco contro il Park Hotel di Netanya e l’inizio dell’operazione “Scudo difensivo” in Cisgiordania.

Il giorno dopo l’attacco suicida contro il ristorante Matza di Haifa, in cui vennero uccise 16 persone, Yishai ordinò a tutte le anagrafi di Israele di bloccare i ricongiungimenti familiari. La ragione: l’attentatore di Haifa, Shadi Tobassi, viveva a Jenin ma aveva una carta d’identità israeliana perché sua madre era cittadina israeliana.

La giustificazione demografica della legge emerse 15 anni fa, in una relazione del ministro degli Interni, scoperta da Hamoked – il “Centro per la Difesa degli Individui” – durante una discussione del governo sulla legge. La relazione affermava: “Questa ondata di immigrazione porta con sé un rischio per la sicurezza di Israele – un rischio per la sicurezza, criminale e politico, un peso economico e soprattutto demografico sul futuro di Israele.”

“Suicidio nazionale”

Nel 2012 ha avuto luogo un’udienza davanti ad una commissione, per l’occasione allargata, dell’Alta Corte per ricorsi contro la legge. La sentenza di 232 pagine ha rigettato i ricorsi con un solo voto contrario. L’allora presidente della Corte Suprema Asher Grunis, che ha appoggiato il parere della maggioranza, ha scritto: “I diritti umani non sono una ricetta per il suicidio nazionale.” L’ex giudice Edmond Levy, l’unico di opinione contraria, ha scritto: “La perdita dell’immagine di Israele come democrazia…sarà uno dei maggiori risultati di quelli che desiderano distruggerla.”

I giudici di quella commissione, ed altri da allora, hanno sottolineato che la legge della cittadinanza è un norma temporanea e di emergenza che deve essere riconfermata ogni anno dalla Knesset. I giudici della Corte Suprema hanno ripetutamente dato indicazioni allo Stato perché verifichi la necessità di questa norma.

Circa sei mesi fa, per la prima volta in un decennio, si è tenuta una discussione sull’argomento in una riunione congiunta della commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset e della commissione Interni e Ambiente. Un rappresentante del servizio di sicurezza dello Shin Bet, noto solo come G., ha detto che il servizio appoggia il prolungamento della legge, a causa della continua “minaccia da parte di quella stessa popolazione”. Ma ha faticato a sostenere questa affermazione con dei dati. Ha citato 104 casi di sospetti tra la “popolazione (palestinese) che riceve lo status (legale) in Israele in seguito a ricongiungimento familiare.”

Questo dato include tutti i sospetti dal 2002 al 2016. Tuttavia in seguito si è chiarito che molti di quelli “in relazione con il terrorismo” non erano residenti dei territori che sono entrati in Israele in seguito a ricongiungimento familiare, ma loro familiari – sopratutto figli. In effetti solo 17 dei 104 erano in Israele in seguito a ricongiungimento familiare ed erano coinvolti nel terrorismo.

L’avvocatessa Adi Lustigman, che rappresenta le persone senza uno status legale in Israele, ha messo in dubbio il significato del termine “in rapporto con il terrorismo”. Ha affermato che non era chiaro se ciò significava che la persona era stata incriminata, arrestata o era un parente di qualcuno che aveva tirato una pietra. “Questi dati hanno tolto il terreno sotto i piedi alla legge e mostrano che la Knesset ha ignorato la questione,” ha affermato.

Alla fine della riunione della Knesset in cui G. ha testimoniato, il presidente della commissione Avi Dichter (del Likud) ha convocato un’altra riunione dopo sei mesi – riunione che si è tenuta questa settimana. Lo Shin Bet e la polizia non sono stati presenti per fornire dati aggiornati. “Era chiaro fin dall’ultima riunione che non hanno problemi di sicurezza. La domanda è: perché non ridurre il danno, se è possibile?” è stato chiesto al consulente legale dello Shin Bet. Il consulente ha risposto che erano state fatte analisi per gruppi di età e la posizione dello Shin Bet doveva ancora essere formulata. Ha affermato che, quando lo sarà, il servizio informerà la commissione,.

Asmar, 36 anni, è nato a Gerusalemme – nella stessa casa della città vecchia in cui era nato suo padre – e ha vissuto lì tutta la sua vita. Non ha ancora uno status legale in Israele perché dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 a Gerusalemme si era diffusa la voce che l’esercito israeliano aveva occupato case vuote in Cisgiordania. Il nonno di Asmar aveva costruito una casa nel villaggio di Al Azariya, a est di Gerusalemme. Perciò mandò i suoi tre figli più giovani a vivere lì. In seguito a ciò, quando venne fatto il primo censimento, furono registrati come abitanti di Al Azariya, non di Gerusalemme. E a causa della norma d’emergenza, sono ancora considerati residenti nei territori.

Ciò non è stato realmente molto importante per la maggior parte della loro vita. Ma dalla costruzione della barriera di separazione e dalla legge provvisoria sono diventati residenti illegali nelle loro stesse case. Alcuni dei suoi fratelli sono riusciti ad avere un “permesso” – il documento dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano nei territori occupati. Ndtr.] che consente loro di entrare in Israele, ma non Asmar.

“Voglio portare i miei bambini a vedere il mare, ma non posso,” dice. “Ma la cosa peggiore è che non posso vedere mio figlio, ” riferendosi al suo bambino nell’ospedale Herzog. “Amo mio figlio e vorrei vederlo, ma non posso.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Non lasciar perdere la Linea Verde: questo è il tallone d’Achille di Israele

Al Shabaka

di Nadia Hijab – 15 febbraio 2017

Il poeta Dylan Thomas invitava suo padre – e tutti quelli che si avvicinano alla morte: “Non entrate tranquillamente in quella dolce notte” ma “rabbia, rabbia contro il morire della luce”. La morte della soluzione dei due Stati è stata preannunciata per circa 20 anni, dopo che è risultato chiaro che Israele ha firmato il processo di pace di Oslo nel 1993 senza l’intenzione di permettere che si costituisse uno Stato palestinese sovrano.

Eppure la luce si è rifiutata di morire. E’ stato interesse di ogni Paese, compresi Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina/Palestina (OLP/Palestina), mantenere qualche scintilla di vita nella possibilità dei due Stati nonostante l’incessante colonizzazione israeliana dei Territori Palestinesi Occupati (TPO) che ha finora insediato qui circa 200 colonie e 600.000 coloni, azioni che in base alle leggi internazionali rappresentano crimini di guerra.

Per i palestinesi che vivono nella zona grigia dell’occupazione le libertà fondamentali di vita, libertà, movimento, salute e accesso all’acqua, tra le altre, sono quotidianamente negate.

Rifugiati ed esiliati palestinesi sono sostanzialmente lasciati al loro destino, e i cittadini palestinesi di Israele devono fare i conti come possono con la discriminazione e la spoliazione da parte dello Stato israeliano. Oltretutto, lo stallo dell’entità politica palestinese impedisce un’azione politica collettiva efficace dei palestinesi.

Tuttavia, se i palestinesi sono troppo impotenti, per il momento, per poter uscire da questa zona grigia, la destra israeliana e il movimento dei coloni pensa di non esserlo. Nel corso dei decenni ha incrementato la propria forza e si è infiltrata nell’esercito, nel sistema politico e giudiziario, e il suo considerevole potere è stato totalmente sostenuto e finanziato dallo Stato israeliano. Né gli USA né l’Unione Europea hanno fatto pagare il prezzo della colonizzazione della Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Al contrario gli USA, l’UE e i suoi Stati membri, e Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’Amercia latina, vogliono mantenere relazioni militari e commerciali con Israele.

Il movimento dei coloni non vuole più vivere nell’oscurità dello scenario dei due Stati: mira alla chiarezza di una annessione formale del resto dei TPO (Israele ha già annesso illegalmente Gerusalemme) o almeno dell’Area C [in base agli accordi di Oslo, il territorio palestinese sotto totale controllo provvisiorio di Israele. Ndtr.], che rappresenta circa il 60% della Cisgiordania. Per ora questo è l’obiettivo del leader della destra israeliana e ministro dell’Educazione Naftali Bennett, che ha trionfalmente annunciato che “l’era dello Stato palestinese è finita”, dopo che Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali americane.

La legge che il partito di Bennett “Casa Ebraica” ha fatto approvare alla Knesset [il parlamento israeliano. ndtr.] il 6 febbraio 2017 per “regolarizzare” gli avamposti illegali come Amona, costruiti su terreni di proprietà privata palestinese, ha l’intenzione di stabilire una volta per tutte chi detiene la proprietà della terra palestinese e chi ha il potere reale in Israele. La legge è stata descritta come un furto di terra persino in Israele, tra avvertimenti che la mossa potrebbe condurre il Paese davanti alla Corte Penale Internazionale.

L’inorridita risposta della comunità internazionale alla legge di “regolarizzazione” è stata quasi comica. Il ministro degli Esteri tedesco ha detto che la sua fiducia nell’impegno del governo israeliano per la soluzione dei due Stati è stata “scossa nelle fondamenta”, mentre la Francia ha chiesto ad Israele di ritirare la legge e di onorare i suoi impegni. Dov’erano loro negli ultimi 50 anni, quando questi crimini di guerra erano in corso? Tutte le colonie che Israele ha costruito, sia su terreni incolti che sulle rovine di terre e case palestinesi, sono illegali in base alle leggi internazionali, come il crescente sfruttamento delle risorse naturali palestinesi.

Inoltre il continuo uso della forza da parte di Israele per mantenere l’occupazione impedisce al popolo palestinese di godere del proprio diritto all’autodeterminazione internazionalmente riconosciuto. Al momento le potenze mondiali stanno sperando che una sentenza della Corte Suprema israeliana contro la legge eviti loro di dover fare qualcosa per bloccare le pratiche neocoloniali di Israele.

Israele non può legalizzare le sue conquiste: ciò minaccerebbe l’ordine mondiale

Ciò che questo episodio ha dimostrato, più di ogni altra cosa, è che, nonostante tutte le sue manovre, Israele non è stato ancora in grado di cancellare completamente la Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967. Ndtr.] e di legalizzare l’acquisizione permanente dei TPO. Fino ad ora, la comunità internazionale non riconosce la sua annessione formale di Gerusalemme est o le sue pretese unilaterali su Gerusalemme ovest. Il mondo ribadisce che Gerusalemme ha uno status separato (corpus separatum) in base al piano di spartizione del 1947 e il suo status può essere concordato soltanto attraverso negoziati.

Anche se la comunità internazionale non ha chiamato Israele a risponderne in modo effettivo – per esempio, la tanto strombazzata etichettatura da parte dell’Unione Europea dei beni provenienti dalle colonie che entrano nel mercato UE ha avuto un impatto minimo – non firmerà il consenso sul progetto di colonizzazione israeliana e non gli concederà legittimità agli occhi del mondo.

In breve, Israele non può ripetere l’originaria vittoria del movimento sionista con la creazione di uno Stato in Palestina, includendo l’espansione delle frontiere di quello Stato ben oltre quelle stabilite nel piano di spartizione del 1947, su cui si era basata la sua esistenza. Siamo nel secolo sbagliato per questo progetto colonialista.

La Linea Verde – la linea dell’armistizio alla fine della lotta tra gli eserciti arabi e israeliano nel 1949 – è alla base del rifiuto della comunità internazionale di legalizzare l’occupazione israeliana perché separa quello che il mondo considera come lo Stato di Israele dal territorio che ha occupato nel 1967 e i suoi atti illegali al suo interno.

Cosa ancora più importante, lo status dei TPO non è solo qualcosa che riguarda il popolo palestinese: coinvolge qualunque altro Stato esposto a una perdita di territorio. E la minaccia posta dai cambiamenti unilaterali da parte israeliana alla stabilità dell’ordine internazionale preoccupa in particolare l’Europa, che ha subito due guerre mondiali.

Questa è la ragione per cui la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza ONU, approvata il 23 dicembre 2016, non è importante solo per i palestinesi: è significativa per tutto l’ordine del Dopoguerra, perché riafferma l’illegalità delle colonie e l’applicazione delle leggi internazionali – comprese le leggi che regolano l’occupazione militare – per territori che sono soggetti a un’ occupazione.  E questa è la ragione per cui la risposta di Israele è stata così rabbiosa: la sua possibilità di cancellare la Linea Verde ha subito un duro colpo.

Benché l’ipocrisia della comunità internazionale sia chiara nel trattamento molto diverso tra l’occupazione israeliana della Palestina e l’occupazione russa della Crimea, entrambi sono fondati sulle stesse leggi internazionali. Forse l’affermazione più importante espressa dalla nuova amministrazione USA è stata quella che ha fatto l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikky Hayley, al Consiglio di Sicurezza riguardo al riacutizzarsi della violenza in Ucraina all’inizio di questo mese. Ha chiesto la fine immediata dell’occupazione russa della Crimea ed ha dichiarato che gli USA non toglieranno le sanzioni sulla Russia finché la Crimea non sarà restituita all’Ucraina. Date le parole calorose di Trump nei confronti della Russia, la dichiarazione è stata una sorpresa, ma senza dubbio gradita dagli europei.

A questo punto lasciar perdere la Linea Verde sarebbe un grave, forse mortale, errore. Il carattere illegale delle attività di Israele nei TPO ribadisce la possibilità dei palestinesi di perseguire Israele ed i dirigenti israeliani nelle corti internazionali e nazionali. E’ anche un elemento importante per potenziare gli sforzi del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), fondato e diretto dalla società civile palestinese.

Al momento i tentativi a livello statale hanno avuto solo modesti successi perché Israele si è posizionato in modo da essere importante per la comunità internazionale nel commercio, nello sviluppo degli armamenti e dal punto di vista geopolitico. Il palesamento delle vere intenzioni dei dirigenti israeliani riguardo all’acquisizione permanente dei TPO con la forza rende questo il momento opportuno per una spinta congiunta da parte dell’OLP/Palestina per, quanto meno, il bando completo dei prodotti delle colonie e la fine degli accordi con lo Stato israeliano e con le imprese del settore privato, come le banche, che finanziano le colonie.

La Linea Verde non riguarda lo Stato unico piuttosto che i due Stati

La Linea Verde è vista come il confine sul quale si dovrebbe fondare la soluzione dei due Stati. Tuttavia sostenere che i palestinesi non dovrebbero lasciar perdere la Linea Verde non è un’affermazione di appoggio al risultato politico della soluzione dei due Stati. E’ piuttosto un argomento per utilizzare ogni possibile ed efficace fonte di potere a disposizione senza abbandonare i diritti inalienabili dei palestinesi.

E’ importante perorarne la causa in questo momento perché sempre più voci tra i palestinesi e nel movimento di solidarietà con la Palestina stanno invocando uno spostamento dell’obiettivo politico palestinese dalla soluzione dei due Stati allo Stato unico o verso una lotta per i diritti civili. Queste voci probabilmente aumenteranno ancora di più in vista dell’anniversario dei 50 anni di occupazione il prossimo giugno, con i palestinesi sia in Israele che nei TPO che affrontano alcune della più drastiche minacce israeliane alla loro esistenza sulla loro terra da quando l’occupazione è iniziata.

E’ naturale che un popolo alla ricerca di diritti nazionali ed umani e i suoi alleati dovrebbero pretendere chiarezza in merito e unità sull’obiettivo politico finale. Oltretutto la crescente divisione tra, da una parte, coloro i quali sostengono uno Stato unico o una lotta per i diritti civili, di cui sono attivisti palestinesi ed i loro sostenitori della base, e dall’altra parte quelli che sposano i due Stati, molti dei quali sono funzionari palestinesi e uomini d’affari (così come sionisti progressisti), è stata dannosa per la capacità palestinese di coalizzarsi attorno ad un’azione comune.

Sfortunatamente, in questa fase non è possibile raggiungere una definizione chiara dell’ apparato politico palestinese sull’obiettivo finale. E’ stato possibile riguardo allo Stato unico dal 1969 al 1974, quando il programma dell’OLP era basato su uno Stato democratico laico. E’ stato possibile anche riguardo ai due Stati negli anni tra la dichiarazione di indipendenza palestinese del 1988 e il successivo riconoscimento di Israele fino alla fine degli anni ’90 e il fallimento del processo di Oslo.

Oggi i palestinesi non hanno la forza di raggiungere un obiettivo politico finale per il prossimo futuro. Ciò non dovrebbe e non deve impedire di lavorare per ottenere risultati intermedi, senza compromettere diritti fondamentali. Questa è, in effetti, la posizione presa dal movimento BDS : si basa sui diritti e non sulla “soluzione”. Non sposando uno scopo politico finale, il movimento può arrivare al più largo numero di palestinesi e attori della solidarietà, consentendo ad ognuno di agire a modo suo per contrastare le violazioni dei diritti da parte di Israele. Possono, in effetti, concentrarsi sull’occupazione e/o sui diritti dei cittadini palestinesi di Israele e/o sui diritti dei rifugiati palestinesi.

Sulla questione dell’obiettivo finale si spreca una grande quantità di energie che sarebbero meglio utilizzare per sviluppare strategie specifiche per far pagare ad Israele il costo dell’occupazione e della violazione dei diritti. Queste energie possono essere usate sia per un approccio basato sui diritti per comunicare con la società civile, o per un approccio basato sulla soluzione per raggiungere i governi e il mondo degli affari. Né è necessario negare un risultato politico finale dei due Stati di Israele e Palestina, in cui tutti i cittadini godano dei diritti umani, o di uno Stato unico palestinese-israeliano in cui tutti godano dell’intera gamma di diritti.

Quindi non ha senso abbandonare nessuna delle linee di forza a disposizione per bloccare e ribaltare le azioni illegali di Israele e promuovere i diritti dei palestinesi, compresa, forse sopratutto, la Linea Verde. Le questioni più immediate sono come prevenire le imminenti trappole dei negoziati guidati dall’amministrazione Trump, approfittando al contempo dell’obiettivo dello stesso Israele che rivela le sue vere intenzioni verso i TPO in modo che diventi impossibile per chiunque far finta di niente.

Fare i conti con i negoziatori

La mossa della destra israeliana per legalizzare i suoi avamposti ha evidenziato la realtà che, nonostante il suo preponderante potere, non ha a disposizione una via unilaterale per un riconoscimento internazionale del suo status nei territori. Solo l’OLP/Palestina come rappresentante del popolo palestinese può accettare un cambiamento dello status che permetta ad Israele di prendere una parte del suo “bottino” – e dovrebbe essere scontato che non lo deve fare; la società civile palestinese deve fare ogni sforzo per assicurarsi che non lo faccia. Il prossimo futuro è ricco di pericoli e sfide che richiederanno strategie ed azioni palestinesi chiare e condivise.

Uno dei maggiori pericoli è il desiderio di Trump di fare un accordo tra Palestina e Israele. Probabilmente Israele accentuerà le pressioni economiche e militari che esercita sui palestinesi sotto occupazione, che sono già notevolmente oppressi. Inoltre l’approccio dell’amministrazione è già pesantemente a loro sfavore data la nomina del sostenitore dei coloni per antonomasia, David Friedman, come ambasciatore USA. La sfida ora è riflettere a fondo su come l’OLP/Palestina possa resistere a questa pressione, con l’appoggio dei (e la pressione dai) cittadini palestinesi di Israele e internazionale, e quali strategie possa adottare per non apparire “quella del rifiuto a negoziare”, non soccombere sotto la pressione (anche dai Paesi arabi), e possa esercitare una pressione opposta. Anche all’interno si devono identificare modi per ridurre gradualmente il coordinamento per la sicurezza con Israele, che non potrebbe essere giustificato nei momenti migliori, ma ora non può più essere assolutamente perdonato.

Un’ altra minaccia ha a che fare con le tensioni che possono sorgere tra la società civile palestinese e il movimento di solidarietà con la Palestina negli USA, che è uno dei maggiori punti di forza per il popolo palestinese, se e quando l’OLP/Palestina intraprenderà negoziati sponsorizzati dall’amministrazione Trump. Il movimento di solidarietà con la Palestina e i suoi alleati naturali – comprese le comunità nere, latine e dei nativi americani – non può ipotizzare una situazione che “normalizzi” accordi con l’amministrazione Trump e le sue componenti nazionaliste bianche e razziste. Inoltre sta per diventare difficile mantenere viva l’attenzione sulla Palestina con così tanti problemi in concorrenza tra loro che si troveranno ad affrontare i cittadini americani – compresi l’accesso alle cure mediche, l’ambiente, l’educazione e i diritti dei lavoratori.

Comunque la situazione può cambiare entro due anni. La mobilitazione di vasti settori della società civile americana sui diritti dei migranti, sulle cure mediche e sull’educazione, e contro il razzismo e le discriminazioni potrebbero cambiare drasticamente la composizione del Congresso alle elezioni di medio termine, con un passaggio dal partito Repubblicano a quello Democratico. E le forze progressiste, così come i sostenitori della causa palestinese – compreso l’appoggio a sanzioni contro Israele – stanno crescendo all’interno del partito Democratico.

Anche l’Europa, l’altra area importante, è preoccupata. L’UE è alle prese con l’uscita della Gran Bretagna, le minacce dell’elezione di dirigenti di estrema destra in Paesi chiave e l’imprevedibilità della nuova amministrazione USA. Ma gli europei temono anche l’indebolimento dell’ordine mondiale, e le azioni di Israele potrebbero fornire opportunità alla società civile per fare pressione sui rispettivi governi perché esercitino le loro responsabilità e smettano di accordarsi con enti israeliani che svolgono attività oltre la Linea Verde, o prendano in considerazione il tipo di sanzioni applicate contro la Russia dopo la sua occupazione della Crimea.

L’OLP/Palestina si è mossa su fronti che possono e sono stati portati avanti con maggiore efficacia, come l’adesione della Palestina alla Corte Penale Internazionale (CPI) e il suo impegno con il Consiglio dei Diritti Umani [commissione dell’ONU. Ndtr.], compresa la decisione del Consiglio di creare un database di tutte le imprese impegnate in attività illegali nei TPO. L’ingresso in questi organismi può anche essere utilizzato dalle organizzazioni palestinesi dei diritti umani che sono direttamente impegnate con la CPI e il Consiglio dei Diritti Umani, tra le altre organizzazioni internazionali, in coordinazione con o tramite attività di pressione dell’OLP/Palestina.

E l’approvazione della Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nonostante tutti i suoi difetti, compreso il sostegno al coordinamento per la sicurezza con Israele, può ancora essere considerata come una vittoria dell’OLP/Palestina. Benché non siano mancate risoluzioni simili, la loro riconferma oggi è stato un ammonimento a Israele che dovrà affrontare una grande lotta nei suoi tentativi di formalizzare la sua acquisizione illegale del territorio con la forza. Oltretutto la risoluzione 2334 si è spinta oltre i precedenti testi dell’ONU chiedendo “a tutti gli Stati” di “fare distinzioni nei loro accordi” tra il territorio israeliano e i territori occupati nel 1967.

Questa è la ragione per cui Israele sta contrastando duramente la risoluzione 2334, anche a livello dei singoli Stati negli USA. Alcuni Stati USA stanno già cercando di reagire contro i successi del movimento BDS boicottando imprese che rifiutano di fare affari nelle colonie – circa 20 Stati hanno leggi a questo scopo. Ora ci sono Stati che stanno specificamente citando la risoluzione 2334 come parte del loro contrattacco. Per esempio lo Stato dell’Illinois ha messo in guardia l’UE contro l’incoraggiamento a imprese perché seguano la stessa strada, sostenendo che “l’adozione di sanzioni ai sensi della ” Risoluzione 2334 (che di fatto non menziona la minaccia di sanzioni) potrebbe “portare imprese dell’UE al rischio di violare le leggi dell’Illinois.”

La mancanza di progressi decisivi verso la realizzazione di diritti per i prossimi anni lascia di fronte a tempi cupi i palestinesi che vivono sotto occupazione e assedio da parte di Israele, i palestinesi cittadini di Israele ed i rifugiati palestinesi. Tuttavia ci sono ancora ragioni di speranza, compresa la resilienza della società civile palestinese e l’ingresso che l’OLP/Palestina ha ottenuto alla CPI, tra le altre aree. La brama della destra israeliana di prendere il potere in Israele e di completare l’annessione della Palestina determinerà altre opportunità di azione. Mentre la società civile americana si mobilita contro Trump, è tempo di resistere, difendere le conquiste, approfittare delle opportunità ed evitare le concessioni. Ed è tempo di difendere la Linea Verde.

Nadia Hijab è direttrice esecutiva di Al-Shabaka, la rete politica palestinese, di cui è stata cofondatrice nel 2009. E’ una assidua ospite e commentatrice sui media e ricercatrice presso l’Istituto di Studi Palestinesi [istituto di ricerca con sedi a Beirut, Ramallah, Parigi e Washington. Ndtr.]. Il suo primo libro, “Womanpower: The Arab Debate on Women at Work ” [Potere delle donne: il dibattito arabo su donne e lavoro], è stato pubblicato da Cambridge University Press, ed è coautrice di “ Citizens Apart: A Portrait of the Palestinian Citizens of Israel”  [Cittadini separati: un ritratto dei cittadini palestinesi di Israele] (I.B. Tauris).

(traduzione di Amedeo Rossi)




La tracotanza militare rappresenta un disastro

Amira Hass, 21 febbraio 2017 Haaretz

L’idea che Israele possa essere cambiato o sconfitto con gli strumenti in cui eccelle – guerra e uccisioni – è la definitiva identificazione con la mentalità israeliana.

Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, afferma che i missili di Hezbollah possono raggiungere l’impianto nucleare israeliano nella città di Dimona, nel Negev. E’ difficile sospettare che intenda causare la morte di decine o centinaia di migliaia di palestinesi nella vicina Gaza e nel Negev, o provocare loro malattie letali. Hezbollah è riuscita a cacciare dal proprio Paese l’occupazione israeliana. Per questo Hezbollah ed il popolo libanese meritano apprezzamento. Però oggi le sue affermazioni possono essere interpretate come millanteria, cosa che più di ogni altra rivela paura e debolezza.

Nella Striscia di Gaza è stato eletto alla guida del movimento [Hamas] un nuovo leader, Yahya Sanwar. Hamas è un partito moderno ed organizzato, che tiene regolari elezioni interne, benché clandestine, un’impresa che Fatah non è mai riuscita a realizzare neppure operando alla luce del sole ed in relativa libertà. Hamas cambia i suoi capi e nessuno di loro decide le linee politiche da solo, al contrario della situazione all’interno di Fatah.

A Gaza si dice che Sanwar è stato eletto perché ha acquisito grandi capacità di leadership in prigione, e che è modesto, ascolta gli altri ed è equilibrato. Ma anche se lui aderisce all’attuale tendenza politica per evitare un conflitto armato, l’ala militare della sua organizzazione lavora incessantemente per armarsi e migliorare le proprie potenzialità. Le sue ostentate parate militari inviano un messaggio, anche quando Iz al-Din al-Qassam (ala militare di Hamas, ndtr.) smette di sparare.

Le parate e le promesse creano un’atmosfera di ‘resistenza’. Scatenano l’immaginazione del popolo che stiamo opprimendo e schiacciando, dando loro una speranza, un filo di speranza a cui aggrapparsi. Ma ci si dimentica di alcuni fatti: dopo la guerra in Libano del 2006, Hezbollah non ha osato aprire un secondo fronte quando Gaza veniva attaccata da tre offensive israeliane. Dal momento del rapimento di Gilad Shalit nel giugno 2006 fino all’offensiva del dicembre 2008, Israele ha ucciso 1.132 abitanti della Striscia di Gaza. Di questi, 604 erano legati a gruppi armati, ma non tutti avevano necessariamente preso parte agli scontri. Dei civili uccisi, 207 erano minori e 89 erano donne. Erano anche parte del prezzo pagato per il rilascio di Sanwar e di altri.

Il profilo personale di Sanwar che appare sui siti web di Hamas attesta che ha messo a morte dei collaborazionisti nell’ambito di una strategia incentrata sulla deterrenza. Sono passati trent’anni e il collaborazionismo non è diminuito. L’assassinio – ovviamente di solito di pesci piccoli e di innocenti – non si è dimostrato efficace.

Questa settimana un portavoce che partecipava ad una conferenza in Iran ha detto che Hamas dispone di gruppi armati in Cisgiordania. Le loro attività sono forse riuscite in passato a fermare l’orgia colonialista israeliana? No. Non ci sono riuscite neanche le tattiche diplomatiche, anche questo è vero. Ma se il risultato è lo stesso, perché scegliere la strada senza uscita che comprende uccisioni, arresti e distruzioni? Potreste dire che è una domanda ingenua e femminile, e noi rispondiamo: questa è una tattica fallimentare e maschile.

I palestinesi lamentano che i loro figli adottano i concetti di Israele ed interiorizzano il disprezzo nei loro confronti. Ma l’idea che Israele possa essere cambiato o sconfitto con i mezzi in cui eccelle – guerra ed uccisioni – è proprio l’estrema identificazione con la mentalità israeliana.

Israele ha un costante interesse ad esagerare la minaccia militare costituita dalle due organizzazioni religiose islamiche. Questa tendenza va di pari passo con la sistematica distorsione della realtà attraverso la presentazione degli ebrei come vittime dei palestinesi. Entrambe le organizzazioni islamiche hanno interesse a che Israele le consideri esageratamente temibili. Questo accresce il loro peso politico.

Israele procede senza campagne militari a tutto campo, usando la violenza burocratica, il sadismo organizzato, la concentrazione dei palestinesi in enclaves e l’assedio. Ma per le sue esigenze politiche interne ed estere sa molto bene, quando necessario, come usare la tracotanza militare. Allora questo rappresenta un disastro che richiede anni per una pur debole ripresa. Non bisogna tirare questa corda. Bisogna trovare altri metodi di lotta.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La soluzione dei due Stati: che cosa ha detto esattamente Trump

Amir Tibon, 15 febbraio 2017, Haaretz

Cinque domande per dare senso alla conferenza stampa Trump-Netanyahu

La conferenza stampa congiunta di Donald Trump e Benjamin Netanyahu di mercoledì scorso è stata esattamente come ci aspettavamo che fosse, ed anche qualcosa di più. E’ stata piena di grandi titoli, sorrisi, momenti di imbarazzo ed anche di un minimo di tensione. Per molti che l’hanno seguita in diretta, la conferenza stampa ha lasciato un senso di confusione, ulteriormente rafforzato dalle contraddittorie conclusioni che ne hanno tratto vari organi di stampa.

Alcuni titoli hanno annunciato che Trump aveva rotto con “decenni di politica americana”, in quanto avrebbe “abbandonato la soluzione dei due Stati.”Altri hanno sottolineato con quanta forza Trump abbia enfatizzato il suo desiderio di vedere un accordo di pace in Medio Oriente, al punto da dire esplicitamente a Netanyahu che Israele dovrà fare compromessi e mostrare flessibilità, chiedendo al primo ministro: “Lo capisci, vero?”

Per cercare di dare un senso a tutto questo, ecco cinque domande chiave che hanno avuto maggior rilevanza nei reportage sulla conferenza stampa – ed il nostro modesto tentativo di darvi risposta.

1. Che cosa ha detto esattamente Trump riguardo alla soluzione dei due Stati?

Il presidente americano non ha citato la soluzione dei due Stati nell’ intervento che aveva preparato, ha invece parlato solo in generale di un accordo di pace che richiederà “flessibilità” e “compromessi” da entrambe le parti. Alla domanda specifica sulla soluzione dei due Stati, Trump ha risposto che non privilegia alcuna opzione – uno Stato, due Stati o qualcos’altro – a condizione che venga accettata dalle due parti, Israele e i palestinesi. Tale risposta corrisponde a quanto detto recentemente da diversi funzionari dell’amministrazione, cioè che Trump vuole un accordo di pace e lascerebbe alle due parti  la definizione dei suoi termini.

Trump ha anche detto a Netanyahu che Israele dovrebbe “frenare un po’” sulle colonie, il che significa che si rende conto della dimensione territoriale del conflitto israelo-palestinese. Il suo tono e le sue parole sulle colonie non sono stati duri come quelli del suo predecessore Barak Obama, però ha anche messo in chiaro che chi in Israele avrebbe potuto aspettarsi una “assegno in bianco” da Trump sulla costruzione di colonie probabilmente sarà rimasto deluso.

2. Che cosa significa l’affermazione di Trump?

La risposta a questa domanda è passibile di diverse interpretazioni. In Israele alcuni politici e commentatori di destra hanno apertamente acclamato le parole di Trump e le hanno presentate come un certificato di morte ufficiale della soluzione dei due Stati. Oltreoceano, negli USA, il New York Times ha considerato l’apertura di Trump ad una soluzione di un solo Stato come il principale risultato della conferenza stampa.

Altri tuttavia hanno visto questa dichiarazione come una semplice affermazione che i termini dell’accordo di pace dovranno essere negoziati tra le due parti e che gli Stati Uniti non li imporranno loro. Bisogna notare che il primo presidente americano che ha formalmente sostenuto la soluzione dei due Stati fu George W. Bush, che lo fece solo nel 2001. Bush, ed Obama dopo di lui, definì quella soluzione come un vitale interesse americano. Mentre alcuni alti funzionari dell’amministrazione Trump – come il segretario alla difesa James Mattis – concordano con questa impostazione, Trump sembra pensarla diversamente. Per lui l’interesse vitale è un accordo di pace, che preferibilmente coinvolga non solo Israele e i palestinesi, ma anche altri Stati arabi.

Se un tale accordo di pace sarà possibile solo nel quadro di una soluzione di due Stati, che sia così. Se vi sono altri modi per raggiungerlo,Trump è anche disposto ad esaminarli. La cosa importante dal suo punto di vista è un accordo che entrambe le parti possano accettare. Finora, dopo decenni di negoziati, nessun’altra formula è stata accettata né dai palestinesi né dal mondo arabo. Resta da vedere se la dichiarazione di Trump cambierà le cose o se tra qualche mese dirà che questa è l’unica soluzione accettata dalle due parti.

David Makovsky, ex negoziatore di pace e direttore del Programma per la pace in Medio Oriente presso l’Istituto di Washington per la politica del Vicino Oriente, ha scritto che secondo lui l’affermazione di Trump su due Stati piuttosto che un unico Stato voleva sostanzialmente dire che “gli Stati Uniti non possono desiderare un accordo più delle due parti.”

3. Allora che cosa implica in realtà la visione della pace di Trump? 

Nella conferenza stampa Trump ha esposto diverse idee. Anzitutto ha affermato un’ovvietà, che entrambe le parti dovranno fare concessioni e mostrare flessibilità. Riguardo ad Israele, ha citato moderazione sulle colonie. Riguardo ai palestinesi, il suo linguaggio è stato più duro – ha detto che dovranno fermare l’istigazione contro Israele, anche nelle scuole. Trump ha parlato di “fermare l’odio” verso israeliani ed ebrei. A parte questo, ha detto di volere raggiungere un accordo di pace nella regione con il coinvolgimento di altri Paesi arabi.

Un’affermazione centrale di Trump, che non ha ricevuto molta attenzione dai media, è stata che lui crede che un accordo regionale permetterebbe ad Israele di “mostrare maggior flessibilità” che nel passato. Questo passaggio in realtà coincide con i tentativi delle precedenti amministrazioni USA – da Clinton a Obama – di coinvolgere il mondo arabo nei negoziati di pace, in modo che Israele possa ottenere maggiori vantaggi diplomatici, economici e in tema di sicurezza per ogni compromesso territoriale che accetti. Trump non è il primo presidente USA ad adottare questa linea di pensiero, ma potrebbe essere il primo a metterla realmente in pratica in vista di un accordo di pace.

4. Netanyahu ha ritirato il suo sostegno alla soluzione dei due Stati? 

A differenza di Trump, che ha lasciato ampio spazio all’interpretazione dell’esatto significato delle sue parole, Netanyahu è stato più chiaro nelle sue affermazioni, ed ha fatto un grande passo verso l’abbandono della soluzione dei due Stati, senza dirlo in modo esplicito. Netanyahu ha detto che nella sua ipotesi di accordo di pace Israele dovrà mantenere il controllo sull’intero territorio ad ovest del fiume Giordano. Questo significa, di fatto, che il futuro Stato di Palestina –se mai vi sarà – resterà sotto il controllo israeliano e potrebbe sostenere di essere effettivamente occupato da Israele.

In passato Netanyahu ha pubblicamente insistito su due condizioni per la pace – il riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato ebraico, e che lo Stato palestinese sia demilitarizzato, in modo da non poter attaccare militarmente Israele. Ha anche richiesto in recenti tornate di negoziati che Israele potrà mantenere per decenni una presenza militare nella valle del Giordano – l’area che separa dal Giordano i principali centri popolati palestinesi in Cisgiordania. Però la frase usata nella conferenza stampa, “controllo israeliano”, spinge la sua richiesta di sicurezza ancor più in là.

Netanyahu ha anche detto che lui ed il presidente palestinese Abbas non hanno raggiunto un accordo su una comune definizione di due Stati. Certo non c’è probabilmente nessun leader palestinese che possa accettare di chiamare “Stato” un’entità palestinese sotto controllo militare israeliano. Questo elemento di disaccordo è stato una delle principali ragioni per cui nel 2014 il tentativo di John Kerry di formulare un accordo di pace è fallito. Resta da vedere come Trump, il presidente dell’ “Arte degli accordi” [titolo di un libro scritto da Trump nel 1987. Ndtr.], affronterà la questione.

5. Questa conferenza stampa è stata positiva o negativa per Netanyahu? 

Di nuovo, dipende a chi lo si chiede. L’esultanza nelle fila della destra israeliana sicuramente risponde alle necessità politiche a breve di Netanyahu e non c’è dubbio che anche da un punto di vista di centro-sinistra le parole di Trump sono state musica per le orecchie di Netanyahu, se paragonate ad alcune cose che il presidente Obama gli ha detto negli ultimi otto anni.

D’altro lato, il passaggio in cui Trump ha parlato di concessioni israeliane e poi ha apostrofato direttamente Netanyahu chiedendogli “lo capisci, vero?”, potrebbe creare problemi sulla strada di un primo ministro la cui coalizione dipende da partiti di destra che si oppongono ad ogni forma di compromesso con i palestinesi. Un esponente della destra israeliana con cui ho parlato ha aggiunto che la presentazione da parte di Trump di due sole opzioni – una soluzione di uno Stato unico o una soluzione di due Stati – è un errore, poiché la linea dominante della destra israeliana è contraria ad entrambe le opzioni e privilegia altre ipotesi (per esempio un’autonomia palestinese o uno Stato palestinese in Giordania.)

Se Israele deve scegliere tra due Stati o uno Stato unico, più probabilmente sceglierebbe la prima opzione e non si metterebbe nella condizione di diventare uno Stato binazionale in cui quasi metà della popolazione si trova sotto la soglia di povertà. Trump ha detto che lui accetterebbe una simile situazione, ma Netanyahu probabilmente no. Questo pone sulle sue spalle l’onere di proporre altre ipotesi – e di cercare di convincere Trump che esse possono essere accettate dai palestinesi e dal mondo arabo.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli eroi palestinesi di Hebron

Haaretz, Amira Hass, 20 febbraio 2017

L’esercito israeliano non ammette che gli agricoltori palestinesi hanno bisogno di una scorta militare per coltivare le loro terre, in modo da impedire ai coloni di creare scompiglio.

Quando si parla di estrema violenza perpetrata dai coloni con l’incoraggiamento ufficiale, si pensa a Hebron (scusandoci per escludere dalla discussione tutte le altre colonie che beneficiano di provvedimenti di totale trasferimento – adducendo come motivo la violenza. E le colonie “moderate” di Efrat, Ariel, Givat Ze’ev e altre della stessa risma, la cui ingordigia di terra è appoggiata dalla violenza ufficiale e burocratica, che ha destinato terreni pubblici e privati alla costruzione di quartieri di classe media per ebrei – israeliani e di recente immigrazione – mentre distrugge il territorio palestinese).

Quando si dice Hebron, si pensa alla città vecchia, ma si dimenticano i quartieri sparsi lungo la strada sulla quale viaggiano i signori della terra, da Kiryat Arba alla città fantasma che hanno creato insieme all’esercito. Tutti i palestinesi che sono rimasti – alcuni solo perché non possono permettersi di andarsene, altri per la determinazione a non abbandonare il luogo – non sono nientemeno che eroi. Ognuno di loro merita il riconoscimento internazionale per il fatto di restare umani all’ombra di una delle più rozze mutazioni del popolo ebreo.

Kiryat Arba è costruito “a macchia di leopardo” con quartieri ben ordinati, su tutto ciò che le menti ebree hanno dichiarato “terra dello Stato” o espropriata per “necessità militari”. In mezzo e intorno alle ‘macchie’ ci sono case palestinesi, frutteti, vigneti e campi, su un territorio che Israele non è riuscito a trasformare in proprietà immobiliare di origine divina.

Per questo motivo, le persone che vivono lungo la strada, vicino alla zona di traffico palestinese, tra Kiryat Arba verso il centro di Hebron, sono anch’esse degli eroi, come ho scoperto la settimana scorsa conoscendo la famiglia di Abdul Karim Jabari (Haaretz, 19 febbraio). Per questo eroismo vale la pena di riportare la loro storia.

C’è qualcosa che la famiglia Jabari non ha subito? Il divieto per circa sei anni di accedere alla propria terra e di lavorarla. La costruzione da parte dei coloni di una struttura illegale che occupa una rilevante parte dell’area – che le autorità israeliane continuano a demolire, solo perché sia ricostruita più volte. Aggressioni fisiche, danneggiamento dei loro alberi, interruzione del loro lavoro e imposte astronomiche sulla proprietà.

Il 19 gennaio, tre settimane dopo che il governo aveva detto che Kiryat Arba non aveva autorità per esigere dai Jabari l’imposta sulla proprietà locale, l’esercito ha fatto irruzione nella loro casa col pretesto di cercare armi. Davvero? Secondo i servizi di sicurezza, mi è stato detto.

Cioé informazioni false, poiché nessuno è stato arrestato e l’ufficio del portavoce dell’esercito non ha riferito di nessun sequestro. Quel che possiamo fare è chiederci chi ha fornito la falsa informazione. In più, l’8 febbraio il coordinatore della sicurezza di Kiryat Arba ha scoperto che Jabari stava arando il suo terreno, ha deciso che questo non era stato concordato ed ha ordinato ai soldati di interrompere l’aratura.

Ho chiesto all’ufficio del portavoce dell’esercito di rispondere alla mia ipotesi che l’esercito avesse effettuato l’incursione su ordine dei coloni, per via della loro esplicita e nota volontà di rendere dura la vita dei Jabari in modo che la famiglia abbandoni la sua terra e la sua casa (facilitando l’espansione del quartiere di Givat Ha’avot). Non ho ricevuto risposta. Ho chiesto anche il nome del comandante che ha stabilito che i Jabari dovessero concordare con l’esercito i loro lavori agricoli e il motivo della decisione.

Il coordinatore dell’esercito per le Attività del Governo nei Territori di fatto ha detto che tale coordinamento non era richiesto, ma che un accompagnamento militare era “raccomandato”. Il COGAT ovviamente non ammetterà che la scorta è consigliata per ottenere l’ ‘approvazione’ dei coloni ed evitare i loro attacchi.

Nella sua risposta l’ufficio del portavoce dell’esercito ha detto: “Occorre sottolineare che l’esercito opera in Giudea e Samaria (Cisgiordania, ndtr.) in un contesto di civili, in cui enti civili hanno un ruolo prestabilito durante le operazioni nell’area. Questo collegamento avviene secondo regole e procedure. I coordinatori della sicurezza sono l’ente di sicurezza autorizzato e il collegamento con loro avviene in base alle regole e alle procedure, ma loro non hanno autorità di comando sui soldati.”

Per capire questa risposta enigmatica ed il fatto che il caso del coordinatore della sicurezza di Kiryat Arba non è stato un incidente isolato, dobbiamo ritornare all’ultimo rapporto di Breaking the Silence (Ong israeliana di ex soldati che denunciano gli abusi dell’esercito in Cisgiordania, ndtr.): “ L’Alto Comando – l’influenza dei coloni sulla condotta dell’esercito in Cisgiordania”, basato su testimonianze di soldati. Ecco qualche esempio.

Un sergente in servizio nell’area di Hebron nel 2007 ha detto: “Il coordinatore della sicurezza civile è come l’intelligence militare nei territori: ti danno comunicazione di un grave incidente e poi senti il tuo ufficiale che riceve una telefonata dal coordinatore della sicurezza civile. In tal modo il coordinatore della sicurezza civile non è altro che un’estensione dell’esercito.”

Un sergente maggiore in servizio a Ma’on (colonia a sud di Hebron, ndtr.) nel 2013 ha detto: “Il coordinatore della sicurezza civile ha affermato ‘Io sono il comandante sul campo, io do gli ordini, quando arriva l’esercito lo dirigo io.’ ”

Un altro sergente maggiore in servizio nella valle del Giordano nel 2013 ha detto: “I coordinatori della sicurezza vanno al sodo: ognuno è padrone nella sua zona.”

Un altro sergente, in servizio a Ofra (colonia nel nord della Cisgiordania, ndtr.) nel 2010, ha raccontato di una scorta per i palestinesi durante la raccolta delle olive in un boschetto che è rimasta intrappolata nella colonia.

Alla domanda su chi stabilisse quanto tempo fosse concesso ai palestinesi per raccogliere le loro olive, ha risposto: “Il coordinatore della sicurezza civile. E’ l’unico che conosce il problema. Solo dopo gli eventi capisci chi è il coordinatore della sicurezza civile e che cosa significa ricoprire quel ruolo. Fa parte della colonia, la protegge; è contro i palestinesi. Il Ministero della Difesa lo paga, ma lui non è un loro dipendente. Tu non hai autorità su di lui, ma lui ha una sorta di autorità su di te. In generale, ti dicono ‘Fai ciò che ti dice il coordinatore della sicurezza civile.’ ”

Chi te l’ha detto?”

I comandanti della compagnia. Ed è il coordinatore della sicurezza civile che stabilisce dove i palestinesi dovrebbero stare e dove non dovrebbero.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Nonostante le dichiarazioni di Trump durante l’incontro con Netanyahu, Abbas e i palestinesi tirano un sospiro di sollievo.

Amira Hass, 16 febbraio 2017 Haaretz

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dalla dominazione israeliana, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid.

La dirigenza palestinese non ha nascosto la sua preoccupazione circa le notizie che gli americani hanno rinunciato ad appoggiare la creazione di uno Stato palestinese. Di fatto questo non è stato il messaggio inequivocabile che le dichiarazioni di Donald Trump hanno trasmesso nella conferenza stampa di mercoledì. Ognuna delle parti potrebbe rintracciarvi elementi per rafforzare la propria posizione.

Anche se gli Stati Uniti rinunciassero effettivamente a sostenere uno Stato palestinese, che cosa cambierebbe in realtà? Le amministrazioni USA precedenti a Trump hanno parlato di qualche soluzione dei due Stati e non hanno fatto niente per portarla avanti. Cioè, non hanno fatto niente per impedire ad Israele di bloccarla. Però le loro dichiarazioni e le loro promesse hanno indotto la dirigenza palestinese di Ramallah a mentire a sé stessa ed al suo popolo facendo credere che questa fosse la soluzione che la grande potenza appoggiava.

Questa costante menzogna – accompagnata da una massiccia assistenza finanziaria americana – è stata uno degli strumenti con cui la dirigenza dell’OLP, Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno continuato a dar ragione della propria esistenza. Quella menzogna ha aiutato a giustificare il mantenimento degli accordi con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza. Non stupisce che gli USA eroghino considerevoli contributi finanziari alle forze di sicurezza palestinesi.

La nuova musica che adesso arriva dalla Casa Bianca pone la domanda se i cambiamenti negli Stati Uniti possano indebolire ancor più lo status della leadership palestinese agli occhi dei palestinesi stessi e se quindi la sua esistenza sia in pericolo.

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dal giogo israeliano, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid. Per il popolo palestinese che vive qui [nei Territori Occupati] e per quello della diaspora questi non sono slogan, ma la realtà quotidiana.

Ventiquattro anni fa questa Nazione ha avuto una leadership popolare che ha fatto un generoso regalo ad Israele e agli ebrei – la soluzione dei due Stati. E’ così che i palestinesi hanno interpretato gli accordi di Oslo. Ma Israele ha rifiutato il dono.

La dirigenza palestinese poteva capire anche prima dell’assassinio di Yitzhak Rabin che Israele stava bluffando. Che mentre diceva “due Stati” creava enclaves. L’OLP si è intrappolata nella politica dei negoziati nella speranza che l’Occidente avrebbe fatto pressioni su Israele, che ci sarebbero stati cambiamenti politici positivi in Israele e che gli Stati arabi sarebbero intervenuti. Ma c’è anche un’altra ragione. La dirigenza palestinese ha trasformato la burocrazia di un’organizzazione per la liberazione nazionale in una burocrazia che governa, completa di autoconservazione e aggrappata alla propria posizione.

Il timore del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dei suoi colleghi di una deriva militare che danneggerebbe il loro popolo (come la Seconda Intifada) è reale e giustificato. Ma si confonde con gli interessi personali suoi e del gruppo di potere.

Al tempo stesso, ha preso forma l’illusione di una sovranità limitata all’interno delle enclaves palestinesi. L’ANP in Cisgiordania e Hamas a Gaza forniscono i servizi di base alla popolazione e rendono possibile l’attività pubblica, cosa che non era concessa sotto l’occupazione israeliana diretta.

Pur con tutte le critiche all’ANP per la corruzione, i metodi dittatoriali, l’inefficienza, le carenze nei servizi sociali, ecc., essa continua comunque a provvedere alle necessità fondamentali immediate della popolazione.

La presidenza Trump non è una ragione sufficiente per sciogliere l’ANP e gettare la società palestinese nel caos e nello scompiglio. La leadership palestinese ha ottenuto un’altra pausa.

Mercoledì un ufficiale della sicurezza palestinese ha rivelato ai media palestinesi l’incontro del capo della CIA con Abbas. Il messaggio che sta dietro alla fuga di notizie è chiaro. “Non preoccupatevi, l’esistenza dell’Autorità Palestinese sta a cuore agli Stati Uniti. Le istituzioni di Washington comprendono che il mantenimento del regime di enclaves garantisce una sorta di stabilità della sicurezza.”

Probabilmente stanno dicendo la stessa cosa al nuovo presidente. L’elemento più importante che può compromettere questa precaria stabilità non è Trump, ma un’escalation dell’oppressione israeliana e della sua politica di colonizzazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Opinione. Addio al linguaggio ambiguo: la terrificante visone di Israele per il futuro

L’ostinazione di Israele lascia palestinesi e israeliani con un’unica alternativa: uguale cittadinanza in uno Stato unico o un’orrenda apartheid e altra pulizia etnica

di Ramzy Baroud – Counterpunch

Ramallah, 17 febbraio 2017, Nena News

Le prove storiche empiriche combinate con un po’ di buon senso sono abbastanza per dirci il tipo di opzioni future che Israele ha nel cassetto per il popolo palestinese: apartheid perpetua o pulizia etnica, o un mix di entrambe.

L’approvazione della “Regularization Bill” del 6 febbraio è tutto quello di cui abbiamo bisogno per immaginare il futuro ideato da Israele. La nuova legge permette al governo israeliano di riconoscere retroattivamente gli avamposti ebraici costruiti senza permesso ufficiale su terra privata palestinese.

Tutte le colonie – quelle ufficialmente riconosciute e gli avamposti non autorizzati – sono illegali secondo il diritto internazionale. Tale verdetto è passato numerose volte alle Nazioni Unite e, più recentemente, riaffermato con chiarezza inequivocabile dalla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza.

La risposta di Israele è stata l’annuncio della costruzione di oltre 6mila nuove case da costruire nei Territori Palestinesi Occupati, la costruzione di una colonia nuova di zecca (la prima in 20 anni) e la nuova legge che pavimenta la strada all’annessione di ampie porzioni della Cisgiordania occupata.

Indubbiamente la legge è “l’ultimo chiodo nella bara della soluzione a due Stati”, ma questo non è importante. Non ha mai interessato Israele, quanto meno. Le chiacchiere su una soluzione sono state mero fumo negli occhi per quanto riguardava Israele. Tutti i “dialoghi di pace” e l’intero “processo di pace”, anche quando era al suo apice, raramente hanno rallentano i bulldozer israeliani, la costruzione di altre case per ebrei o messo fine alla pulizia etnica incessante dei palestinesi.

Su Newsweek Diana Buttu descrive come il processo di costruzione delle colonie è sempre, sempre accompagnato dalla demolizione di case palestinesi. 140 strutture palestinesi sono state demolite dall’inizio del 2017, secondo l’agenzia Onu Ocha.

Da quando Donal Trump ha giurato, Israele si è sentito liberato dell’obbligo del linguaggio ambiguo. Per decenni, i funzionari israeliani hanno parlato appassionatamente di pace e hanno fatto tutto quello che potevano per ostacolare il suo raggiungimento. Adesso, semplicemente se ne fregano. Punto.

Avevano perfezionato il loro comportamento equilibrato semplicemente perché dovevano farlo, perché Washington se lo aspettava, lo chiedeva. Ma Trump gli ha dato un assegno in bianco: fate quello che vi piace; le colonie non sono un ostacolo alla pace, Israele è stato “trattato molto, molto ingiustamente” e io correggerò quest’ingiustizia storica, e così via. Quasi subito dopo l’avvento di Trump alla presidenza il 20 gennaio scorso, le maschere sono cadute.

Il 25 gennaio il vero Benjamin Netanyahu è riemerso, dichiarando con invidiabile sfrontatezza: “Noi stiamo costruendo e continueremo a costruire” colonie illegali.

Cosa c’è altro da discutere con Israele a questo punto? Nulla. La sola soluzione che interessa a Israele è la “soluzione” di Israele, sempre guidata dal cieco supporto americano e l’inutilità europea e sempre imposta ai palestinesi e agli altri paesi arabi, se necessario con la forza.

I guardiani della grande farsa della soluzione dei due Stati, chi astutamente ha costruito il “processo di pace” e ha danzato su ogni ritmo israeliano è ora frastornato. Sono stati esclusi dai terrificanti piani di Israele che spara la sua “soluzione” dritto in mezzo agli occhi, lasciando ai palestinesi la scelta tra l’assoggettamento, l’umiliazione e l’imprigionamento.

Jonathan Cook ha ragione. La nuova legge è il primo passo verso l’annessione della Cisgiordania o, almeno, di buona parte. Una volta che i piccoli avamposti saranno legalizzati, dovranno essere fortificati, (“naturalmente”) espansi e protetti. L’occupazione militare, in auge da 50 anni, non sarà più temporanea e reversibile. La legge civile continuerà ad essere applicata agli ebrei nei Territori Palestinesi Occupati e quella militare ai palestinesi occupati.

È l’esatta definizione di apartheid, nel caso ve lo stesse ancora chiedendo.

Per raggiungere i “bisogni di sicurezza” dei coloni, altre by-pass road per soli ebrei saranno costruite, altri muri eretti, altri cancelli per tenere lontani i palestinesi dalle loro terre, dalle scuole e dalle fonti di sussistenza saranno messi su, altri checkpoint, altra sofferenza, altro dolore, altra rabbia e altra violenza.

Questa è la visione di Israele. Anche Trump è più frustrato dalla sfacciataggine e l’audacia israeliane. Ha chiesto ad Israele in un’intervista con il quotidiano Israel Hayom di “essere più ragionevole con il rispetto per la pace”. “C’è molta terra ancora. E ogni volta che la prendete per le colonie, ce n’è di meno”, ha detto Trump. Ha frenato sulla promessa di trasferire l’ambasciata Usa e l’espansione senza controllo delle colonie, perché realizza che Netanyahu e i suoi sostenitori negli Stati Uniti lo hanno lasciato su un baratro e ora gli chiedono di saltare.

Ma ha poca importanza. Che Trump rimanga sulla sua posizione estremamente pro-israeliana o cambi marcia verso una più annacquata simile a quella del suo predecessore Obama, la realtà probabilmente non cambierà, perché solo Israele è alla fine autorizzato a influenzarne i risultati.

L’approvazione dei parlamentari israeliani della legge è, infatti, la fine di un’era. Abbiamo raggiunto il punto in cui possiamo apertamente dichiarare che il cosiddetto “processo di pace” è stato un’illusione fin dall’inizio, perché Israele non ha mai avuto intenzione di concedere Cisgiordania e Gerusalemme est ai palestinesi.

La leadership palestinese è difficilmente innocente in tutto ciò. Il più grave errore che i leader palestinesi hanno commesso (a parte la loro disgraziata divisione) è stato quello di aver creduto che gli Stati Uniti, il principale sponsor israeliano, avrebbero gestito un “processo di pace” che ha garantito a Israele tempo e risorse per terminare i propri progetti coloniali, devastando i diritti e le aspirazioni politiche palestinesi.

Ritornando agli stessi vecchi canali, usando lo stesso linguaggio, cercando la salvezza nell’altare della stessa vecchia soluzione a due Stati non si otterrà nulla se non lo spreco di altro tempo e altra energia.

Ma le umilianti opzioni di Israele per i palestinesi possono essere anche lette in un altro modo. Infatti, è l’ostinazione di Israele che oggi lascia i palestinesi (e gli israeliani) con un’unica alternativa: uguale cittadinanza in uno Stato unico o un’orrenda apartheid e altra pulizia etnica.

Con le parole dell’ex presidente Jimmy Carter, “Israele non troverà mai la pace fino a quando non permetterà ai palestinesi di esercitare i loro diritti fondamentali umani e politici”. Il “permesso” israeliano è lontano dall’arrivare, lasciando la comunità internazionale con la responsabilità morale di pretenderlo. Nena News

Traduzione a cura della redazione di Nena News




Divide et Impera: come il sistema scolastico semina divisione tra i palestinesi di Israele

Mona Bieling Middle East Eye – Martedì 27 ottobre 2016

Com’è strutturato attualmente, il sistema scolastico israeliano serve chiaramente ai principali interessi dello Stato piuttosto che a quelli degli studenti arabo- palestinesi.

Il sistema educativo in Israele è uno dei principali contesti in cui cittadini arabo-palestinesi di Israele ed ebrei sono segregati gli uni dagli altri, in quanto le scuole sono rigidamente separate in differenti settori in base sia alla religione che all’etnia.

Nella sua attuale struttura il sistema è stato fondato nel 1953 con la legge statale per l’educazione che ha definito il quadro giuridico per la formazione di due aree: una per gli ebrei laici e una per i praticanti. Poiché in questa legge la minoranza palestinese non viene citata, ne è scaturita quasi inevitabilmente la costituzione di un settore scolastico arabo separato dai due previsti per gli ebrei.

Nonostante un emendamento della legge nel 2000, il settore destinato agli arabi non ha una posizione giuridica ufficiale, ma esiste come “non ufficiale ma riconosciuto”accanto ai due sistemi ebraici “ufficiali e riconosciuti”. Quindi, fin dall’istituzione del sistema scolastico statale nel 1953, agli israeliani arabo- palestinesi ed a quelli ebrei è in genere impedito di andare a scuola insieme.

Recenti tentativi di prendere in considerazione separatamente la popolazione araba cristiana di Israele riguardo al servizio militare [gli arabo-israeliani non fanno il servizio militare. Ndtr.] e all’educazione suggeriscono che il sistema educativo nella sua struttura attuale non si limita ad offrire una formazione culturale ai cittadini dello Stato. Il ministero dell’Educazione ha il controllo totale dei curricula di ogni tipo di scuola – ebraica, drusa e araba sia pubbliche che private, dall’asilo alle superiori.

Ci sono due modi prevalenti in cui il sistema educativo statale promuove la divisione tra i cittadini palestinesi di Israele: direttamente, attraverso la separazione delle diverse comunità religiose in scuole distinte, la definizione del curriculum e l’assegnazione dei docenti e dei presidi; indirettamente, con questioni relative ai finanziamenti, alle infrastrutture, alle scuole private e all’accesso all’educazione superiore.

Perciò il sistema educativo israeliano può essere visto come un’arma politica utilizzata dal governo per raggiungere i suoi scopi di rafforzamento del carattere ebraico dello Stato piuttosto che per fornire la migliore formazione possibile a tutti i cittadini.

Le divisioni create tra i palestinesi con cittadinanza israeliana avranno anche conseguenze per il tentativo più complessivo dei palestinesi di avere uno Stato e l’autodeterminazione. Pertanto la separazione tra le comunità palestinesi, una dentro Israele e l’altra fuori, come ho fatto in questo articolo, è esclusivamente funzionale all’analisi e non intende inficiare il concetto di una nazione palestinese che li comprenda.

Tener lontani i drusi

I principali e più evidenti interventi attivi da parte di Israele nel sistema educativo per dividere la sua popolazione palestinese sono i tentativi di separare la comunità in base alla religione.

La politica del divide et impera come pratica all’interno del sistema educativo risale al 1956, quando è stato fondato un sistema scolastico separato per i drusi di Israele. Questo sviluppo deve essere visto nel più complessivo contesto del tentativo di Israele di separare la comunità drusa come “un popolo a parte”, non legato in nessuno modo alla comunità palestinese.

Anzi, la lealtà dei drusi verso lo Stato è stata sottolineata e garantita includendo nell’esercito israeliano per il servizio militare tutti i maschi drusi e promuovendo ciò nelle scuole druse. Perciò, come mi ha detto la scorsa estate Ra’afat Harb, un attivista druso, sia il contesto che il curriculum nelle scuole druse sono diversi rispetto alle altre scuole degli arabo-palestinesi.

Il risultato dell’educazione segregata, limitata e tendenziosa nelle scuole druse è che l’identità drusa è stata rimodellata in modo da corrispondere all’obiettivo dello Stato e della maggioranza ebraica. Ovviamente l’identità è sempre un concetto mutevole, che è diverso sia individualmente che collettivamente, e si può manifestare in vario modo. Di nuovo, secondo Harb, ci sono drusi che si identificano come palestinesi, come arabi, come israeliani o persino come sionisti.

Tuttavia, attraverso il sistema educativo, lo Stato ha attivamente inibito lo sviluppo di un’identità araba e palestinese dei drusi ed ha invece imposto loro un’identità unicamente drusa/israeliana. Così facendo lo Stato ha chiaramente seguito un progetto per allontanare i drusi dalla comunità arabo-palestinese.

Sfide per gli arabi beduini

Un’altra divisione molto importante creata all’interno della comunità palestinese in Israele è quella tra arabi cristiani/musulmani da una parte e arabi beduini dall’altra.

La maggioranza dei beduini di Israele vive nel Naqab (Negev), nel sud del paese, dove devono sopportare condizioni di vita miserabili a causa del tentativo israeliano di espellerli dalla loro terra e concentrarli in pochi villaggi e cittadine.

Secondo Noga Dagan-Buzaglo, un ricercatore del centro “ADVA” (Informazione sull’Uguaglianza e la Giustizia Sociale in Israele), in quanto abitanti di villaggi non riconosciuti [dallo Stato israeliano. Ndtr.], i beduini patiscono le peggiori condizioni di vita del Paese.

Benché lo Stato sia obbligato a fornire educazione a tutti i cittadini dall’età di 3 o 4 anni, le scuole nel Naqab si possono trovare solo in villaggi e cittadine riconosciuti. Ciò rende difficile ai genitori dei villaggi non riconosciuti mandare a scuola i propri bambini in modo regolare.

Secondo Muhammad Zidani, ricercatore, e Muna Haddad, avvocato, entrambi di Adalah, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, poiché i genitori possono essere processati se non mandano i figli a scuola, alcune famiglie si sono spostate dai villaggi non riconosciuti a quelli riconosciuti per facilitare la frequenza scolastica ed evitare denunce penali.

Anche a questo proposito, l’educazione è utilizzata come uno strumento politico per imporre la volontà dello Stato ai suoi cittadini arabi, in questo caso spostando una parte della popolazione dalla sua terra d’origine.

Isolare gli arabi cristiani

Un terzo, e abbastanza recente, sviluppo è il tentativo di Israele di isolare gli arabi cristiani come ha fatto con i drusi per 60 anni.

Nel 2013 sono aumentati i tentativi dello Stato per incoraggiare gli arabi cristiani ad arruolarsi nell’esercito israeliano, approfittando del fatto che sono meno numerosi degli arabi musulmani, e cercando di creare timore per la “crescente ‘minaccia musulmana’ nella regione.” L’attuale tentativo dello Stato di assegnare agli arabi cristiani una nuova etnicità aramaica è collegato a questo.

Odna Copty, che lavora per il Comitato di Monitoraggio dell’Educazione Araba (FUCAE), afferma che gli arabi cristiani come lei sono ora definiti come aramaici piuttosto che arabi.

“Dicono che siamo un gruppo con religioni diverse e non abbiamo niente in comune, ” afferma. “Quando parlo con qualcun altro che è arabo, non mi viene mai in mente di chiedergli specificamente della sua religione, perché nella cultura araba non è educato fare domande simili.”

L’intento dello Stato di isolare i cristiani e fare in modo che adottino una nuova identità aramaica non ha ancora attecchito tra la gente. Al contrario, molti arabo-palestinesi come Copty deridono questi tentativi come artificiosi e destinati a fallire.

Tuttavia il passato dimostra che simili iniziative hanno avuto successo nel contesto dei drusi. Pertanto questa nuova strategia del divide et impera dovrebbe essere presa sul serio piuttosto che liquidata come assurda.

La storia di qualcun altro

La seconda area importante in cui lo Stato mette in atto direttamente la sua politica del divide et impera sono i contenuti che gli alunni studiano a scuola. Tutto il sistema educativo è basato “sui valori della cultura ebraica e sui successi in campo scientifico, sull’amore per la patria e la lealtà nei confronti dello Stato e del popolo ebraico (…)” come stabilito nella legge dell’Educazione Statale del 1953.

In pratica, ciò significa che i curricula destinati ai settori ebraici laici o religiosi intendono insegnare agli studenti i valori del sionismo ed il punto di vista ebraico. Di conseguenza, gli studenti arabo-palestinesi durante i 14 anni di scuola non apprendono niente della storia o della cultura del loro stesso popolo.

Oltretutto l’immagine degli arabo-palestinesi descritta per loro nei libri di testo è negativa, se non apertamente razzista.

Le differenze tra gli arabo-palestinesi sono evidenziate in un nuovo e controverso testo di educazione civica introdotto in maggio dall’attuale ministro dell’Educazione Naftali Bennett.

Nonostante accese proteste da parte della comunità arabo-palestinese, Bennett ha insistito per la pubblicazione di un libro che, tra le altre cose, “senza ragione distingue tra le componenti musulmane, cristiane, aramaiche e druse di Israele e dedica più attenzione al servizio militare di quest’ultima piuttosto che al sottogruppo più ampio “, cioè gli arabi musulmani.

Legata a questo problema è l’assunzione di insegnanti e presidi nelle scuole arabe. All’interno della comunità palestinese in Israele è risaputo che il ministero dell’Educazione non nomina le persone più adatte a questo lavoro, ma quelle che collaborano con lo Stato.

Il fatto che lo Shabak (Shin Bet), il servizio di sicurezza interno di Israele, sia coinvolto nelle assunzioni – e nella selezione che le precede- degli insegnanti e dei presidi dimostra quanto Israele consideri fondamentale la nomina delle persone ‘giuste’. Scegliendo insegnanti e presidi leali, o per lo meno non critici, lo Stato garantisce che verranno insegnati solo i contenuti previsti dal curriculum scolastico. Persino nelle scuole private, che hanno un certo grado di libertà riguardo all’assunzione dei docenti e ai contenuti, gli insegnanti sono consapevoli del loro ruolo all’interno del sistema e aderiscono in maggioranza alla narrazione dominante.

Tutti questi aspetti presi insieme garantiscono che lo Stato, grazie all’intervento diretto nel sistema educativo, trasmetta solo la narrazione sionista dominante, che dovrebbe tutelare il carattere ebraico dello Stato. Questa prassi intende seminare divisioni tra gli studenti arabo-palestinesi, perché nega l’esistenza di una Nazione palestinese e sottolinea piuttosto ogni aspetto che separa la comunità in termini di religione o di altro.

Buona educazione – se te lo puoi permettere

Israele tenta anche di indebolire la coesione nella comunità arabo-palestinese in un modo più indiretto e sottile. Anche se le cifre esatte variano, è evidente che il ministero dell’Educazione assegna molti meno fondi alle scuole arabe che a quelle ebraiche, con il risultato di una grave mancanza di risorse in tutte le scuole pubbliche arabe.

Le scuole dei beduini sono considerate ben fornite se si tratta di edifici di mattoni con acqua corrente ed elettricità. In seguito al costante lavoro del FUCAE, il ministero dell’Educazione è totalmente al corrente della quantità di denaro necessaria annualmente per studente al fine di ridurre la differenza tra studenti ebrei ed arabi.

Tuttavia, secondo Aatef Moadei, direttore generale del FUCAE, Israele è interessato a gestire questa differenza piuttosto che a ridurla. L’indifferenza dello Stato è ancora più evidente quando si prende in considerazione il fatto che è diretta contro persone che rappresentano oltre il 20% dei suoi stessi cittadini, che pagano tutti le tasse e si aspettano di vedere in cambio investimenti significativi.

In conseguenza della mancanza di fondi e della carenza delle infrastrutture nella maggior parte delle scuole pubbliche, le scuole private arabe sono diventate l’alternativa preferita per i genitori che vogliono che i propri figli ricevano un’educazione migliore. Molte scuole private arabe sono gestite ed in parte finanziate da chiese, il che significa che hanno più fondi di cui avvalersi e maggiore libertà nella gestione degli affari interni della scuola. Le scuole delle chiese arabe sono aperte a tutti gli alunni arabi, non solo ai cristiani.

Tuttavia, poiché i genitori devono pagare le tasse d’iscrizione a queste scuole, le famiglie arabe più povere, che sono in genere musulmane, sono escluse da questa alternativa. Di conseguenza, con i finanziamenti volutamente scarsi alle scuole pubbliche e obbligando la comunità araba a rivolgersi all’educazione privata, che è in parte a pagamento, ancora una volta lo Stato impone una divisione della comunità in base alla religione, oltre a mettere in evidenza la stratificazione in base alla classe sociale.

Mantenere poco istruiti gli studenti

La strategia dello Stato riguardo al sistema educativo arabo intende garantire che i cittadini palestinesi di Israele rimangano poco istruiti, pur fornendo loro la formazione sufficiente a mascherare la realtà sia per la comunità internazionale che per l’opinione pubblica israeliana.

Il grave deficit nel sistema scolastico determina una bassa partecipazione degli arabi all’educazione superiore: solo uno studente arabo su quattro arriva all’educazione superiore, rispetto a uno su due studenti ebrei. Di conseguenza, le misure dirette ed indirette attuate dallo Stato non portano solo al rafforzamento delle differenze all’interno della comunità arabo palestinese.

Su scala più ampia, queste misure configurano anche un sistema che produce forza lavoro relativamente poco qualificata, per esempio formando insegnanti arabi poco qualificati, cosa che, a sua volta, avrà un effetto sulla prossima generazione di alunni arabo- palestinesi – garantendo una costante marginalizzazione della minoranza palestinese in Israele.

Democrazia solo di nome

Quindi lo Stato interferisce direttamente e indirettamente nel settore dell’educazione araba e intende imporre la separazione tra i cittadini arabo- palestinesi in Israele sulla base dell’etnia, della religione, della geografia e della classe sociale. Il sistema scolastico, così com’è ora, serve agli interessi dello Stato piuttosto che a quello degli studenti.

I palestinesi in Israele sono consapevoli delle diversità della loro comunità. Tuttavia sostengono che il governo utilizza il sistema educativo per rafforzare le differenze esistenti, che non sarebbero così problematiche se non fossero sottolineate continuamente dallo Stato. Il controllo delle loro scuole da parte del ministero dell’Educazione e soprattutto l’assoluta mancanza di libertà riguardo ai contenuti insegnati sono due pratiche che rifiutano ampiamente.

Dunque la comunità araba palestinese di Israele chiede una completa autonomia per il settore dell’educazione araba, per farsi totalmente carico della distribuzione dei fondi, dei contenuti dei curricula e dell’assunzione degli insegnanti in tutte le scuole arabe.

L’autonomia del settore educativo arabo in Israele sarebbe un importante passo verso il miglioramento dell’educazione araba in generale. Inoltre determinerebbe un cambiamento per i cittadini arabo- palestinesi di Israele, ponendo fine ai tentativi dello Stato di dividerli in comunità sempre più ridotte per mettere in crisi il movimento nazionale palestinese.

Anche se questo obiettivo può sembrare utopico, è di cruciale importanza che Israele inizi a trattare tutti i suoi cittadini, ebrei e non, allo stesso modo se vuole continuare a chiamarsi e ad essere chiamato una democrazia.

– Mona Bieling è una dottoranda in Storia Internazionale presso l’Istituto Universitario di Studi Internazionali e Sviluppo (IHEID) di Ginevra, Svizzera. Questa ricerca è stata realizzata con il sostegno di Baladna – Associazione per la Gioventù Araba di Haifa, Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)