Dopo l’attacco di Tel Aviv i palestinesi manifestano poca gioia ma comprendono le ragioni di chi ha sparato

Ogni settimana, centinaia di palestinesi sono soggetti a colpi di arma da fuoco da parte degli israeliani e scappano terrorizzati. Secondo loro quello che hanno provato gli israeliani in questo unico attacco è nulla rispetto a quello che sperimentano ogni giorno.

di Amira Hass | 10 giugno, 2016 |

Haaretz

Wafa, l’agenzia ufficiale di notizie dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina [OLP], ha messo sul suo sito una spettacolare fotografia dei fuochi d’artificio a Gaza in onore del sacro mese musulmano del Ramadan e non per inneggiare all’attacco armato di mercoledì a Tel Aviv. Anche se ci sono stati palestinesi che hanno espresso soddisfazione per l’attacco di fronte alle telecamere che li hanno trovati proprio nel momento e nel luogo giusti, né la soddisfazione né l’appoggio[all’attacco] potrebbero descrivere con precisione i sentimenti della maggior parte dei palestinesi sulla sparatoria.

C’è una generale comprensione riguardo al motivo che ha spinto [ad agire]i due attaccanti della città cisgiordana di Yatta, insieme all’apprezzamento per quello che è apparso il loro coraggio. Vi è anche molta preoccupazione rispetto a quale sarà la risposta di Israele.

L’agenzia Wafa ha anche pubblicato una condanna dell’attacco proveniente dall’ufficio del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas. Sicuramente gli israeliani non si accontenteranno di questo, mentre allo stesso tempo i palestinesi si arrabbiano per la sua equidistanza. “L’ufficio di presidenza ha espresso la sua ripetuta condanna di ogni azione da qualunque parte provenga che prenda di mira i civili indipendentemente da quello che potrebbero essere le motivazioni,” afferma il comunicato. Ha anche affermato che la creazione di un clima positivo e la realizzazione di una giusta pace potrebbero garantire la sicurezza dei civili.

L’opposizione di Abbas a qualsiasi escalation ha avuto un riflesso concreto. Per esempio, le sue forze di sicurezza stanno arrestando e imprigionando gli attivisti che non sono stati arrestati da Israele e che hanno guidato le manifestazioni contro il muro di separazione a Betlemme. Di conseguenza sono cessati gli scontri in uno dei punti più caldi. Ma con questo suo comunicato moderato, Abbas ha evidentemente cercato di evitare di urtare la suscettibilità del suo pubblico.

Il suo partito Fatah non ha potuto condannare l’attacco di Tel Aviv. Un comunicato dell’organizzazione ha definito la sparatoria “una risposta individuale e naturale” alla violenza dello Stato israeliano. Un portavoce ha spiegato che per “violenza dello Stato” si intendeva la politica delle demolizioni delle case e lo sradicamento dei palestinesi dalle loro comunità, le “irruzioni dei coloni” sulla spianata delle moschee di Al-Aqsa a Gerusalemme e “gli omicidi a sangue freddo di palestinesi ai checkpoint”.

Da parte sua il movimento Hamas ha elogiato l’attacco, mentre il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [FPLP] lo ha definito un punto di svolta nell’attuale intifada e una condivisibile reazione al gran numero di palestinesi uccisi da Israele. Riferendosi al luogo dell’attacco di Tel Aviv, avvenuto di fronte al Ministero della difesa, [il FPLP] ha detto che si è trattato di una sfida al nuovo ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, e che è la conferma che la lotta armata è il modo migliore per garantire i diritti dei palestinesi.

Il comunicato del Fronte Popolare si avvicina allopinione prevalente nell’opinione pubblica palestinese rispetto alle posizioni di Abbas o di Fatah, come riportato dal sondaggio pubblicato questa settimana dal Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro palestinese di ricerca e analisi politica]. Il sondaggio ha rivelato che il 58% degli intervistati (il 68% nella Striscia di Gaza e il 52% in Cisgiordania) è convinto che la rivolta degli attacchi individuali esplosa a ottobre, caratterizzata in prevalenza da attacchi all’arma bianca e che si sta trasformando in un’intifada armata, potrebbe essere più utile agli interessi nazionali palestinesi rispetto ai negoziati con Israele.

L’appoggio agli attacchi all’arma bianca è diminuito. Solamente il 36% degli intervistati nella Cisgiordania è solidale. Nella più lontana Gaza, invece, gli attacchi all’arma bianca sono stati appoggiati dal 75% degli intervistati.

In altre parole, vi è un ampio sostegno a parole da parte di coloro che sono lontani e che non sono coinvolti, mentre quelli che possono agire sono restii a farlo.

L’uso delle armi conserva nelle analisi e nelle dichiarazioni la propria aura quale punto più alto della lotta nazionale contro l’occupazione israeliana. Ma né il FPLP, né Hamas o Fatah hanno cercato o osato trasformare l’escalation dell’anno scorso in una lotta armata, perché non possono oppure sanno che fallirebbe, o che la gente non è realmente interessata o preparata.

I programmi televisivi che hanno mostrato gli israeliani che scappavano terrorizzati dagli attentatori sono scene familiari ai palestinesi. Giorno dopo giorno, sperimentano la paura asfissiante degli israeliani armati. Ogni settimana centinaia di palestinesi sono esposti alle sparatorie degli israeliani e fuggono terrorizzati; qualche volta sono feriti o uccisi. Secondo la loro opinione, quello che hanno passato gli israeliani in questo unico attacco è nulla rispetto a quello che sperimentano ogni giorno.

I palestinesi si prendono qualche rivalsa se viene sconvolta la normalità di Tel Aviv, solo a un’ora di macchina dalle zone di disperazione individuale e nazionale a Gaza e in Cisgiordania. La maggior parte è ben consapevole che questo sconvolgimento non cambierà l’orientamento e il comportamento degli israeliani. Tuttavia neppure le dimostrazioni pacifiche, le trattative diplomatiche e i resoconti dei media hanno trasformato gli israeliani in sostenitori del Meretz [partito sionista della sinistra moderata sostenitore della soluzione dei due Stati, ndt]. Quindi tutto quello che rimane è una soddisfazione momentanea di vendetta.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Il futuro di Israele è terrificante: la “moralità” inquietante di Moshe Yaalon e di Israele

1 giugno 2016

Ma’an news

di Ramzy Baroud

La società israeliana sta continuamente andando a destra e, di conseguenza, viene regolarmente ridefinita l’intera scala di valori [del sistema] politico.

La società israeliana sta continuamente andando a destra e, di conseguenza, viene regolarmente ridefinita l’intera scala di valori [del sistema] politico. Che Israele sia ora governato dal “governo di destra più estrema della sua storia” è passato nel giro di pochi anni dall’essere un’affermazione fondata ad un vuoto luogo comune.

Infatti quella stessa argomentazione è stata utilizzata nel maggio del 2015 quando il primo ministro di destra Benjamin Netanyahu ha formato il suo governo con una risicata maggioranza di esponenti della destra con idee simili, con fanatici religiosi e ultranazionalisti. Lo stesso concetto, praticamente con le medesime parole viene nuovamente adottato, quando Netanyahu ha allargato la sua coalizione imbarcando l’ultranazionalista Avigdor Lieberman.

Così mercoledì 25 maggio Lieberman è diventato anche il ministro della difesa d’Israele. Tenendo conto della sua politica facinorosa e violenta, come ha dimostrato nei suoi due incarichi come ministro degli esteri (dal 2009 al 2012 e di nuovo dal 2013 al 2015), con lui come ministro della difesa del “governo di destra più estrema della storia” ci si aspetta ogni tipo di terrificante futuro”.

Mentre molti commentatori ricordano opportunamente le passate provocazioni di Lieberman e le [sue ] rozze affermazioni, per esempio, la sua dichiarazione del 2015 in cui minacciava di decapitare con un’ascia i cittadini palestinesi d’Israele se non avessero manifestato piena lealtà nei confronti di Israele; in cui propugnava la pulizia etnica dei palestinesi d’Israele; il suo ultimatum [con minaccia] di morte all’ex primo ministro palestinese Ismail Haniyeh e così via, al suo predecessore, Moshe Yaalon è stata risparmiata gran parte delle critiche.

Peggio, l’ex ministro della difesa Yaalon è stato additato da alcuni come un esempio di professionalità e di moralità. Egli è “ben stimato”, ha scritto William Booth sul Washington Post, paragonato a Lieberman “ un ribelle divisivo”. Ma “stimato bene” da chi? Dalla società israeliana la cui maggioranza appoggia l’assassinio a sangue freddo di palestinesi?

Israele si è attenuto per un lungo periodo a una definizione sua propria della terminologia politica. Il suo “socialismo” di prima maniera era una combinazione di vita in comune resa possibile dai massacri dei militari e basata sul colonialismo. La sua attuale definizione di “sinistra”, “destra” e “centro” è relativa, valida solo per Israele.

Yaalon è ora un esempio di livello di ragionevolezza e di moralità grazie a Lieberman, l’ex immigrato russo , buttafuori nei club trasformatosi in politico che sta organizzando costantemente il milione circa di ebrei russo- israeliani in base al suo programma politico sempre più violento.

Infatti, la citazione riportata numerose volte dai media sulle ragioni delle dimissioni di Yaalon è che ha perso fiducia “nella capacità decisionale di Netanyahu e nella sua moralità”.

Moralità? Analizziamo la realtà.

Yaalon ha partecipato a ogni importante guerra israeliana fin dal 1973 e il suo nome è stato più tardi associato alle più atroci guerre ed ai massacri israeliani prima in Libano e dopo a Gaza.

La sua “moralità” non gli ha mai impedito di ordinare alcuni dei più indicibili crimini di guerra perpetrati contro la popolazione civile, sia a Qana in Libano(1996) sia a Shujayya ,Gaza (2014).

Yaalon si è rifiutato di collaborare con qualsiasi inchiesta internazionale organizzata dalle Nazioni Unite o da qualsiasi altra organizzazione sulla sua violenta condotta. Nel 2005 è stato portato in giudizio in un tribunale degli Stati Uniti dai sopravissuti al massacro di Qana dove centinaia di civili e di operatori delle forze di pace delle Nazioni Unite sono stati uccisi e feriti dalle incursioni militari israeliane in Libano. In questo caso, non è prevalsa né la moralità israeliana né quella americana, e la giustizia deve ancora fare il suo corso.

Yaalon, che ha ricevuto l’addestramento militare all’inizio della sua carriera presso il British Army’s Camberley Staff College dell’esercito inglese [scuola di guerra inglese di origine coloniale e che ha formato molti ufficiali superiori israeliani, tra cui Rabin, ndtr], ha continuato ad avanzare di grado nell’esercito fino al 2002 quando è stato nominato capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [IDF]. Rimasto per quasi tre anni in tale veste di conseguenza ha ordinato l’assassinio di centinaia di palestinesi e ha sovrainteso a diversi massacri che sono stati perpetrati dall’esercito israeliano durante la seconda intifada.

L’allora ministro della difesa, Shaul Mofaz, l’ha sollevato dal suo incarico nel 2005. Anche in questo caso è stata l’immoralità, non la moralità che ha giocato un ruolo nel conflitto tra lui e i suoi superiori. Yaalon era e rimane un fervente sostenitore della colonizzazione illegale del territorio palestinese. Nel 2005 egli si è opposto con forza al cosiddetto trasferimento dalla Striscia di Gaza dalla quale poche migliaia di coloni illegali sono stati ricollocati in colonie ebraiche nella Cisgiordania.

Nel 2006 in Nuova Zelanda fu raggiunto[da un ordine di cattura] per i suoi crimini di guerra riguardo all’assassinio di un comandante di Hamas, Saleh Shehade, insieme a 14 membri della sua famiglia e ad altri civili. L’ ordine di arresto fu emesso ma revocato in seguito, dopo pesanti pressioni politiche, permettendo a Yaalon di scappare dal paese.

È tornato alla guida dell’esercito nel 2013, giusto in tempo per intraprendere la guerra devastante contro Gaza nel 2014 nella quale furono uccisi 2.257 palestinesi in 51 giorni. L’OCHA , l’agenzia delle Nazioni Unite per il monitoraggio della situazione [nei territori occupati], ha calcolato che oltre il 70% degli uccisi fossero civili, tra cui 563 bambini.

La distruzione di Shujayya, in particolare, era una strategia preordinata concepita dallo stesso Yaalon. In un incontro nel luglio del 2013 con il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, Yaalon informò il capo dell’ONU che avrebbe bombardato l’intero quartiere in caso di guerra. L’ha fatto.

Nel maggio del 2015 non si era ancora pentito. Parlando a una conferenza a Gerusalemme, ha minacciato di ammazzare civili nel caso di un’altra guerra contro il Libano. “ Noi colpiremo i civili libanesi comprese le famiglie con bambini” ha detto.

Abbiamo discusso molto approfonditamente. Lo abbiamo fatto allora, lo abbiamo fatto nella Striscia di Gaza e lo rifaremo in futuro in qualunque altro conflitto”, ha detto. Ha anche parlato implicitamente di sganciare una bomba nucleare sull’Iran.

Yaalon ha più volte dato via libera all’esercito israeliano di occupazione perché metta in pratica la politica di “sparare per uccidere” i palestinesi per contrastare la “tensione” in aumento nei Territori Occupati.

Queste sono le parole [pronunciate]da Yaalon durante una visita alla base militare di Gush Etzion nel novembre del 2014:[prima colonia costruita dagli israeliani in Cisgiordania, ndtr.]

Deve essere chiaro che chiunque viene per uccidere ebrei deve essere eliminato. Qualunque terrorista che usa un’arma, un coltello o una pietra, che prova a investire o in qualsiasi modo attaccare ebrei deve essere ammazzato.”

Centinaia di palestinesi sono stati uccisi nei mesi scorsi nella Gerusalemme Est occupata e in Cisgiordania. Molte delle vittime sono ragazzi che tiravano le pietre per fronteggiare i veicoli dell’esercito israeliano e migliaia di coloni ebrei felici di premere il grilletto.

Nella sua prima dichiarazione publica dopo le dimissioni, Yaalon ha accusato “una minoranza chiassosa” in Israele di attaccare “i valori fondamentali” del paese, affermando che si sono persi i “punti di riferimento morali” del paese .

La cosa preoccupante è che molti israeliani sono d’accordo con Yaalon. Considerano come un esempio di moralità e un difensore di principi fondamentali l’uomo che è stato accusato di aver commesso crimini di guerra per la maggior parte della sua carriera.

Mentre Lieberman ha dimostrato di essere una mina vagante e di essere politicamente irresponsabile, Yaalon ha parlato pubblicamente di colpire i bambini e più volte ha mantenuto le sue promesse.

Quando i “mi piace” per Yaalon , un uomo dal passato sanguinario, diventa il volto della moralità in Israele, si può comprendere perché c’è poca speranza per il futuro di quel Paese, specialmente adesso che Lieberman ha portato il suo partito “Israele è Casa Nostra” nel terrificante covo di partiti politici[del governo] di Netanyahu.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La comunità ebraica degli USA spinge Israele verso la soluzione dei due Stati

di Yivonne Ridley – Middle East Monitor

31 maggio 2016

I palestinesi sono continuamente accusati di essere il vero ostacolo alla pace nel Medio Oriente, ma questa settimana una nuova iniziativa da parte di un gruppo di ebrei molto influenti potrebbe dimostrare il contrario.

Per decenni molti politici occidentali hanno discusso della soluzione dei due Stati. Questa è stata citata praticamente da tutti al di fuori di Israele, ma non è mai stata presa realmente sul serio all’interno dello Stato di Israele. Ora, improvvisamente, sembra che Tel Aviv voglia adottarla ed ha inviato istruzioni alle proprie ambasciate, amici nei campus universitari e all’interno di altre istituzioni in ogni dove perché promuovano lidea che Israele vuole parlare di una pace sulla base dei due Stati.

Yiftah Curiel, il capo delle operazioni mediatiche presso l’ambasciata israeliana a Londra, per esempio, è stato inviato a Oxford la scorsa settimana per discutere del valore e della realizzazione della soluzione dei due Stati durante il prestigioso dibattito dell’università in merito alla sua praticabilità. ” Chutzpah” è una parola yiddish estremamente espressiva, che deriva dall’ebraico “ḥutspâ”; non credo che ne esista una simile in lingua inglese che possa esprimere pienamente la sfrontatezza del governo israeliano. Pertanto in questo caso dovremo attenerci alla parola “chutzpah”, in quanto è ciò che meglio descrive l’esibizione di Curiel.

Il pungente editorialista e giornalista israeliano Gideon Levy, che ha seguito da vicino il dibattito, ha osservato ironicamente: “Avete capito? Israele sostiene di appoggiare la soluzione dei due Stati, forse perché ha capito che la soluzione dei due Stati non è più realizzabile.” Che cosa, ha chiesto, ha impedito a Israele di mettere in atto questa soluzione negli ultimi circa 50 anni di occupazione? “E come può il rappresentante ufficiale dello Stato, che non ha mai cessato di costruire sempre più colonie, il cui unico scopo era di vanificare la soluzione dei due Stati, avere il coraggio di dire che Israele è favorevole alla divisione del territorio?”

Scrivendo su Haaretz, Levy ha ammesso: “Ma né la “chutzpah” israeliana né la temerarietà dei suoi propagandisti hanno limiti.”

Perciò, cosa sta dietro a questo nuovo entusiasmo del governo israeliano per la soluzione dei due Stati? La risposta, forse, si trova a migliaia di chilometri, in America, dove due diversi documenti di lavoro stanno per essere pubblicati in un tentativo di preparare il terreno per una soluzione dei due Stati che possa rispondere alle aspirazioni palestinesi e alle richieste israeliane di sicurezza.

Le proposte includeranno la RICOLLOCAZIONE dei coloni; il CONGELAMENTO degli insediamenti illegali; la SOVRANITÀ palestinese; un RADICALE allontanamento dalle politiche del governo di destra israeliano; PREPARARE il nuovo presidente USA ad insistere sui colloqui di pace.

Le notizie sugli audaci progetti devono aver colpito duramente Benjamin Netanyahu, perché egli ha messo decisamente in chiaro all’amministrazione Obama – così come alle altre parti interessate, come le Nazioni Unite, Gran Bretagna e Francia – che non avrebbe tollerato interferenze esterne. Mentre finora respingere le iniziative di Washington è stato relativamente facile, persino Netanyahu sembra aver capito che né Donald Trump né Hillary Clinton presumibilmente tollereranno lo stesso irritante trattamento. Entrambi i candidati alla presidenza hanno messo in chiaro che hanno l’intenzione di portare la pace nella regione ponendo fine al conflitto israelo-palestinese, benché Netanyahu ed i suoi predecessori abbiano, con grande facilità, fatto in modo da portare molti presidenti USA a lasciarlo nel dimenticatoio durante i loro mandati.

L’ultima fase della vicenda, tuttavia, è diversa. Quello che dovrebbe aver scosso il primo ministro israeliano è che quest’ultima iniziativa è stata guidata da una serie di influenti organizzazioni indipendenti che fino ad ora hanno sempre garantito di essere dalla stessa parte di Tel Aviv. Con una mossa imprevista sembra che il molto influente “Israel Policy Forum” [organizzazione ebraica statunitense impegnata per la soluzione dei due Stati. Ndtr.] abbia preso il controllo del progetto sionista, lasciando isolato Netanyahu o obbligandolo a rincorrerlo. Dopo il discorso di Curiel alla “Oxford Union” [un luogo di dibattito indipendente dell’università di Oxford. Ndtr.] lo scorso giovedì, sembra che Tel Aviv, presa dal panico, stia mettendo in atto la seconda ipotesi.

L’IPF, di cui si dice sia allarmato degli sviluppi e dell’imprevedibilità del governo di destra di Netanyahu, sta ora lavorando insieme a un certo numero di ex militari e ufficiali dell’intelligence altrettanto preoccupati, così come con un gruppo di studio di Washington. Il fondatore dell’IPF Alan Solow, alcuni comandanti della sicurezza israeliana e il Centro per la Nuova Sicurezza Americana, un gruppo di lavoro sulla politica internazionale appoggiato da molti pesi massimi della politica, compreso l’ex senatore Joe Lieberman [democratico, poi passato ai repubblicani e sostenitore della guerra in Iraq. Ndtr.], questa settimana sveleranno i loro progetti per i due Stati.

Mentre il destrorso American Israel Public Affairs Committee (AIPAC — probabilmente il principale gruppo lobbistico filo-israeliano negli USA) appoggia anchesso l’idea di colloqui di pace, ma non darà mai impulso a nessuna iniziativa senza l’assenso di Tel Aviv, né pubblicherebbe progetti che mostrino come sarebbero i due Stati senza consultare prima Israele, questo è esattamente quello che faranno questi altri gruppi statunitensi tra pochi giorni.

“Il dibattito sul futuro di Israele non si sta svolgendo in Israele,” ha commentato Gideon Levy dopo l’incontro di Oxford. “Sta avvenendo ovunque meno che in Israele. Israele non sta pensando al suo futuro, si sta occupando del suo presente e, soprattutto, del suo passato. Qui la gente non parla del futuro.”

Questa nuova iniziativa a Washington, che una volta era considerata come occupata politicamente da Israele mentre i palestinesi soffrono sotto la sua occupazione militare, potrebbe cambiare il narcisismo di Tel Aviv. Tuttavia, se gli israeliani e il loro primo ministro di destra Netanyahu tornano alla loro posizione predefinita, allora lo Stato sionista apparirà come il vero ostacolo alla pace, che è una cosa che i palestinesi ed i loro sostenitori sanno da lungo tempo. Ci vorrà molto più dell’usuale chutzpah sionista per uscire da questo particolare impiccio.

(traduzione di Amedeo Rossi)




E’ tempo di porre fine alla “hasbarà”: i media palestinesi e la ricerca di una narrazione comune

Ma’an News – 24 maggio 2016

di Ramzy Baroud

Il solo fatto di essere insieme a centinaia di giornalisti palestinesi e ad altri professionisti dei media di ogni parte del mondo è stata un’esperienza edificante.

Per molti anni i media palestinesi sono stati sulla difensiva, incapaci di articolare un messaggio coerente, lacerati tra fazioni e cercando disperatamente di contrastare la campagna mediatica israeliana, con le sue falsificazioni e l’instancabile propaganda, o “hasbarà”.

E’ ancora troppo presto per affermare che ci sia stato un qualche cambiamento di paradigma, ma la seconda conferenza di Tawasol a Istanbul, che ha avuto luogo il 18 e 19 maggio, è servita come un’opportunità per prendere in considerazione un vasto cambiamento del panorama mediatico e di mettere in luce le sfide e le opportunità che i palestinesi devono affrontare nella loro ardua lotta.

Non solo ci si aspetta che i palestinesi demoliscano anni ed anni di disinformazione israeliana, imperniata su un discorso storico irreale che è stato venduto al resto del mondo come un fatto, ma anche che costruiscano una propria lucida narrazione che sia libera dai capricci di fazione e da vantaggi personali.

Ovviamente non sarà facile.

Il mio messaggio alla conferenza “La Palestina nei media”, organizzata dal “Forum Internazionale della Palestina per i Media e la Comunicazione” è che, se la dirigenza palestinese non è capace di raggiungere l’unità politica, almeno gli intellettuali palestinesi devono insistere nell’unificare la loro narrazione. Persino il più disposto al compromesso tra i palestinesi può essere d’accordo sulla centralità della Nakba, della pulizia etnica dei palestinesi e della distruzione dei loro villaggi e città nel 1947-48.

Possono, e devono, anche concordare sull’atrocità e sulla violenza dell’occupazione; sulla disumanizzazione ai chekpoint militari; sulla sempre maggiore riduzione degli spazi in Cisgiordania come risultato delle colonie illegali e della colonizzazione di quanto rimane della Palestina; sul soffocante dominio nella Gerusalemme occupata; sull’ingiustizia dell’assedio a Gaza; sulle guerre unilaterali contro la Striscia di Gaza che hanno ucciso più di 4.000 persone, per la maggior parte civili, nel corso di sette anni – e molto altro.

Il professor Nashaat al-Aqtash dell’università di Birzeit, forse più realisticamente, ha ridotto ulteriormente le speranze. “Se potessimo anche solo essere d’accordo su come presentare la narrazione riguardo ad Al-Quds (Gerusalemme) e alle colonie illegali, almeno sarebbe un inizio,” ha detto.

Il fatto ovvio è che i palestinesi hanno più cose in comune di quante ne vorrebbero ammettere. Sono stati vittime delle stesse circostanze, lottato contro la stessa occupazione, sofferto le stesse violazioni dei diritti umani e devono affrontare le stesse conseguenze future determinate dallo stesso conflitto. Tuttavia, molti sono stranamente incapaci di liberarsi dalle loro affiliazioni di fazione, di carattere tribale.

Naturalmente non c’è niente di male nell’avere orientamenti ideologici e nell’appoggiare un partito politico piuttosto che un altro. Tuttavia ciò determina una crisi morale quando le affiliazioni di parte diventano più forti di quelle con la lotta collettiva e nazionale per la libertà. Tristemente, molti sono ancora intrappolati in questa logica.

Ma le cose stanno anche cambiando; succede sempre. Dopo oltre due decenni di fallimenti del cosiddetto “processo di pace” e il rapido incremento della colonizzazione dei territori occupati, oltre all’estrema violenza utilizzata per raggiungere questi risultati, molti palestinesi si stanno finalmente rendendo conto di questi tristi fatti. Non ci può essere libertà per il popolo palestinese senza unità e senza resistenza.

Resistenza non deve necessariamente significare un fucile e un coltello, ma piuttosto l’utilizzazione delle energie di una nazione, in patria e nella “shatat” (diaspora), insieme alla mobilitazione delle comunità in tutto il mondo a favore della giustizia e della pace. Ci dev’essere al più presto un movimento in cui i palestinesi dichiarino una lotta globale contro l’apartheid, coinvolgendo tutti i palestinesi, la loro dirigenza, le fazioni, la società civile e le comunità ovunque. Devono parlare con una sola voce, dichiarare un solo obiettivo e formulare le stesse richieste, continuamente.

E’ sconcertante rendersi conto che una nazione così offesa per tanto tempo sia stata così incompresa, mentre i responsabili sono largamente assolti e visti come vittime. A un certo punto, alla fine degli anni ’50, il primo ministro israeliano David Ben Gurion si è reso conto della necessità di unificare la narrazione sionista riguardo alla conquista ed alla pulizia etnica della Palestina.

Secondo le rivelazioni del giornale israeliano” Haaretz”, Ben Gurion temeva che la crisi dei rifugiati palestinesi non si sarebbe risolta senza un sistematico messaggio israeliano secondo cui i palestinesi avevano abbandonato la loro terra di loro spontanea volontà, seguendo le direttive di vari governi arabi.

Naturalmente anche questo era un’invenzione, ma molte supposte verità nascono da una sola menzogna. Egli diede incarico ad un gruppo di accademici di presentare la storia assolutamente falsificata, ma coerente, sull’esodo dei palestinesi. Il risultato fu il documento Doc GL-18/17028 del 1961. Quel documento, da allora, è servito come pietra angolare dell’ “hasbarà” israeliana relativa alla pulizia etnica della Palestina. I palestinesi se ne andarono e non furono cacciati, era il punto cruciale del messaggio. Israele ha continuato a ripetere questa menzogna per oltre 55 anni e, ovviamente, molti gli hanno creduto.

Finché solo recentemente, grazie agli sforzi di un crescente gruppo di storici palestinesi – e di coraggiosi israeliani – che hanno smentito la propaganda, una narrazione palestinese sta prendendo forma, benché molto ci sia ancora da fare per controbilanciare il danno che è già stato fatto.

Infatti, una reale vittoria della verità ci sarà soltanto quando la narrazione palestinese non sarà più vista come una “contro-narrazione”, ma come una legittima storia autonoma, libera dai limiti di un atteggiamento difensivo e dal peso di una storia carica di menzogne e di mezze verità.

L’unico modo in cui lo vedo realizzabile è quando gli intellettuali palestinesi dedicano più tempo e sforzi nello studio e nel racconto di una “storia popolare” della Palestina, che possa finalmente umanizzare il popolo palestinese e sfidare la percezione polarizzata dei palestinesi come terroristi o eterne vittime. Quando la persona comune diventa il centro nella storia, i risultati sono più pregnanti, efficaci e incisivi.

La stessa logica può essere applicata anche al giornalismo. Oltre a trovare le loro vicende comuni, i giornalisti palestinesi devono raggiungere il mondo intero, non solo il loro tradizionale circolo di amici e sostenitori affezionati, ma la società nel suo complesso. Se la gente comprende veramente la verità, soprattutto da un punto di vista umano, non può certo appoggiare il genocidio e la pulizia etnica.

E con “il mondo intero” non mi riferisco certo a Londra, Parigi e New York, ma all’Africa, al Sud America, all’Asia e a tutto il Sud del mondo. Le nazioni di quell’emisfero possono comprendere pienamente la sofferenza e l’ingiustizia dell’occupazione militare, della colonizzazione, dell’imperialismo e dell’apartheid. Temo che l’importanza attribuita alla necessità di contrastare la “hasbarà” israeliana in Occidente abbia portato a destinare una sproporzionata quantità di risorse ed energie in pochi luoghi, ignorando al contempo il resto del mondo, il cui appoggio è stato a lungo la spina dorsale della solidarietà internazionale. Non deve essere data per scontata.

Tuttavia la buona notizia è che i palestinesi hanno fatto notevoli progressi nella giusta direzione, benché senza il riconoscimento della dirigenza palestinese. La cosa fondamentale ora è la capacità di unificare, dare forma e costruire sugli sforzi esistenti in modo che tale crescente solidarietà si trasformi in un grande successo nel suscitare una consapevolezza globale e rendere Israele responsabile dell’occupazione e della violazione dei diritti umani.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Io c’ero

di Uri Avnery

21 maggio, 2016  Gush Shalom

“Per favore non scrivere di Ya’ir Golan!”, mi ha pregato un amico. “Qualunque cosa scriva uno di sinistra come te non farà che danneggiarlo!”

Così per alcune settimane ho evitato di farlo. Ma non posso tacere oltre.

Il Generale Ya’ir Golan, vice Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, ha tenuto un discorso in occasione del Giorno della Memoria dell’Olocausto. Indossando la sua uniforme, ha letto un testo preparato in anticipo e ben ponderato, che ha provocato uno scalpore non ancora sopito.

Decine di articoli sono stati pubblicati su di lui, alcuni di condanna, altri di lode. A quanto pare, nessuno ha potuto rimanere indifferente.

La frase principale è stata: “Se qualcosa mi terrorizza della memoria dell’Olocausto, è la consapevolezza dei terribili sviluppi verificatisi in generale in Europa, e particolarmente in Germania, 70, 80, 90 anni fa, e il ritrovarne traccia qui in mezzo a noi, oggi, nel 2016.”

Si è scatenato l’inferno. Come!!! Tracce di nazismo in Israele? Un paragone tra ciò che i nazisti hanno fatto a noi e ciò che noi stiamo facendo ai palestinesi?

Novant’ anni fa era il 1926, uno degli ultimi anni della repubblica tedesca. Ottant’ anni fa era il 1936, tre anni dopo l’ascesa al potere del nazismo. Settant’ anni fa era il 1946, all’indomani del suicidio di Hitler e della fine del Reich nazista.

Dopo tutto mi sento obbligato a scrivere riguardo al discorso del generale, perché io c’ero.

Da bambino sono stato testimone degli ultimi anni della Repubblica di Weimar (così chiamata perché la sua costituzione è stata stilata a Weimar, la città di Goethe e Schiller). In quanto ragazzo interessato alla politica, ho assistito alla Machtergreifung (“presa del potere”) nazista ed ai primi sei mesi di governo nazista.

So di che cosa parlava Golan. Benché apparteniamo a due differenti generazioni, condividiamo lo stesso background. Entrambe le nostre famiglie provengono da piccole cittadine della Germania occidentale. Suo padre ed io probabilmente abbiamo avuto molte cose in comune.

C’è un rigido precetto in Israele: nulla può essere paragonato all’Olocausto. L’Olocausto è unico. E’ successo a noi, gli ebrei, poiché noi siamo unici. (Gli ebrei religiosi aggiungerebbero: “Perché Dio ci ha prescelti”.)

Ho infranto quel precetto. Appena prima che Golan nascesse, ho pubblicato (in ebraico) un libro intitolato “La svastica”, in cui raccontavo i miei ricordi d’infanzia e cercavo di trarre da essi delle conclusioni. Era la vigilia del processo ad Eichmann ed io ero sconvolto dalla scarsa conoscenza riguardo al periodo nazista tra i giovani israeliani di allora.

Il mio libro non si occupava dell’Olocausto, che avvenne quando io ormai vivevo in Palestina, ma di una questione che mi ha turbato attraverso gli anni ed ancora oggi: come è potuto accadere che la Germania, forse la nazione più colta al mondo a quel tempo, la patria di Goethe, Beethoven e Kant, abbia eletto democraticamente come leader uno psicopatico delirante come Adolf Hitler?

L’ultimo capitolo del libro si intitolava “Può succedere qui!” Il titolo era preso da un libro dello scrittore americano Sinclair Lewis, intitolato ironicamente “Non può succedere qui”, in cui descriveva una ascesa nazista negli Stati Uniti.

In quel capitolo disquisivo sulla possibilità che un partito ebraico di tipo nazista arrivasse al potere in Israele. La mia conclusione era che un partito nazista può arrivare al potere in qualunque paese del mondo, se vi sono le condizioni giuste. Sì, anche in Israele.

Il libro fu ampiamente ignorato dal pubblico israeliano, che a quell’epoca era travolto dalla tempesta emotiva provocata dalle tremende rivelazioni del processo Eichmann.

Adesso arriva il generale Golan, uno stimato militare professionista, e dice le stesse cose.

E non con una considerazione estemporanea, ma in un’occasione ufficiale, indossando la sua uniforme di generale, leggendo un testo preparato e ponderato.

La tempesta è scoppiata, e non si è ancora calmata.

Gli israeliani hanno un atteggiamento autoprotettivo: quando si trovano di fronte a verità scomode, evitano di affrontare l’essenziale e si occupano di aspetti secondari e irrilevanti. Tra le decine e decine di reazioni sulla stampa, in televisione e sulle piattaforme politiche, quasi nessuna si è confrontata con la dolente opinione del generale.

No, l’accesa discussione che si è scatenata verte sulle seguenti questioni: è consentito ad un militare di alto grado dell’esercito esprimere un’opinione su questioni riguardanti l’istituzione civile? E farlo in uniforme militare? In un’occasione ufficiale?

Un ufficiale dell’esercito dovrebbe tacere le proprie convinzioni politiche? O esprimerle soltanto a porte chiuse – “in sedi appropriate”, come ha detto un furioso Benyamin Netanyahu?

Il Generale Golan gode di altissimo rispetto nell’esercito. Come vice capo di Stato Maggiore era finora quasi sicuramente candidato a capo di Stato Maggiore, quando il titolare lascerà la carica dopo i consueti quattro anni.

L’avverarsi di questo sogno, condiviso da ogni generale dello Stato Maggiore è ora molto lontano. Praticamente Golan ha sacrificato la sua prossima promozione per estrinsecare il suo allarme e dargli la più ampia risonanza.

Si può solo aver rispetto per un tale coraggio. Credo di non aver mai incontrato il generale Golan e non conosco le sue opinioni politiche. Però ammiro il suo gesto.

(In certo modo mi torna alla mente un articolo pubblicato dalla rivista inglese Punch prima della prima guerra mondiale, quando un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito fece una dichiarazione contro la politica del governo in Irlanda. La rivista disse che, pur disapprovando l’opinione espressa dagli ufficiali ribelli, era orgogliosa del fatto che ufficiali così giovani fossero pronti a sacrificare la loro carriera per le proprie convinzioni.)

La marcia nazista verso il potere iniziò nel 1929, quando la Germania fu colpita dalla terribile crisi economica mondiale. Un minuscolo e irrisorio partito di estrema destra diventò una forza politica con cui fare i conti. Da allora in quattro anni divenne il più grande partito del paese e prese il potere (anche se ancora aveva bisogno di governare insieme ad altri partiti).

Io c’ero quando ciò accadde, un ragazzo di una famiglia nella quale la politica diventò il principale argomento a cena. Ho visto quando la repubblica è crollata, gradualmente, lentamente, passo dopo passo. Ho visto i nostri amici di famiglia sventolare la bandiera con la svastica. Ho visto il mio insegnante delle superiori alzare il braccio entrando in classe e dire “Heil Hitler” per la prima volta (per poi rassicurarmi in privato che niente era cambiato).

Ero l’unico ebreo in tutto il ginnasio (scuola superiore). Quando le centinaia di ragazzi – tutti più alti di me – alzarono le braccia e cantarono l’inno nazista, ed io non lo feci, mi minacciarono di rompermi le ossa se fosse successo nuovamente. Pochi giorni dopo lasciammo la Germania per sempre.

Il Generale Golan è stato accusato di paragonare Israele alla Germania nazista. Nulla del genere. Un’attenta lettura del suo discorso dimostra che ha paragonato gli sviluppi in Israele agli eventi che condussero alla disintegrazione della Repubblica di Weimar. E questo è un paragone fondato.

I fatti che accadono in Israele, soprattutto dopo le ultime elezioni, assomigliano paurosamente a quegli eventi. Certo, il contesto è totalmente diverso. Il fascismo tedesco nacque dall’umiliazione della resa nella prima guerra mondiale, dell’occupazione della Ruhr da parte di Francia e Belgio dal 1923 al 1925, dalla tremenda crisi economica del 1929, dalla miseria di milioni di disoccupati. Israele riporta la vittoria nelle sue numerose azioni militari, noi viviamo una vita agiata. I pericoli che ci minacciano sono di natura del tutto differente. Derivano dalle nostre vittorie, non dalle nostre sconfitte.

Certo, le differenze tra l’Israele di oggi e la Germania di allora sono molto più grandi delle similitudini. Ma queste similitudini esistono, e il generale ha fatto bene a segnalarle.

La discriminazione nei confronti dei palestinesi praticamente in tutte le sfere della vita può essere paragonata al trattamento degli ebrei nel primo periodo della Germania nazista. (L’oppressione dei palestinesi nei territori occupati ricorda di più il trattamento dei cechi nel “protettorato” dopo il tradimento di Monaco [cioé l’accettazione da parte di Francia e Gran Bretagna dell’occupazione della Cecoslovacchia da parte dei nazisti, ndt.].)

Il diluvio di leggi razziste alla Knesset (Parlamento israeliano), quelle già adottate e quelle in itinere, richiama fortemente le leggi adottate dal Reichstag nei primi giorni del regime nazista. Alcuni rabbini invitano al boicottaggio dei negozi arabi. Come allora. Il grido “Morte agli arabi” (“Judah verrecke”?) si sente sistematicamente durante le partite di calcio. Un membro del parlamento ha auspicato la separazione tra neonati ebrei ed arabi negli ospedali. Un capo rabbino ha dichiarato che i goyim (i non ebrei) sono stati creati da Dio per servire gli ebrei. I nostri ministri dell’educazione e della cultura sono impegnati a sottomettere scuole, teatri ed arti alla linea di estrema destra, cosa che era conosciuta in Germania come “Gleichschaltung”. La Corte Suprema, il vanto di Israele, viene attaccata senza sosta dal ministro della giustizia. La Striscia di Gaza è un enorme ghetto.

Ovviamente nessuno sano di mente potrebbe paragonare neanche lontanamente Netanyahu al Fuhrer, ma qui ci sono partiti politici che emanano un forte odore di fascismo. La marmaglia politica che occupa l’attuale governo Netanyahu avrebbe facilmente trovato posto nel primo governo nazista. 

Uno dei principali slogan del nostro attuale governo è sostituire la “vecchia dirigenza”, considerata troppo liberale, con una nuova. Uno dei principali slogan nazisti era sostituire “das System”.

Tra l’altro, quando i nazisti arrivarono al potere, quasi tutti gli ufficiali di alto grado dell’esercito tedesco erano convinti antinazisti. Presero anche in considerazione un putsch contro Hitler. Il loro leader politico fu giustiziato sommariamente un anno dopo, quando Hitler liquidò i suoi oppositori nel suo stesso partito. Ci viene detto che il generale Golan è ora protetto da una guardia del corpo personale, cosa mai accaduta ad un generale nella storia di Israele.

Il generale non ha menzionato l’occupazione e le colonie, che sono sotto il controllo dell’esercito. Ma ha ricordato l’episodio avvenuto poco prima che lui tenesse il suo discorso, e che sta ancora scuotendo Israele: nella Hebron occupata, sotto controllo dell’esercito, un soldato ha visto un palestinese gravemente ferito che giaceva senza aiuto a terra, si è avvicinato e lo ha ucciso con un colpo alla testa. La vittima aveva tentato di assalire alcuni soldati con un coltello, ma non costituiva più una minaccia per nessuno. Si è trattato di una chiara trasgressione agli ordini vigenti nell’esercito, ed il soldato è stato trascinato di fronte alla corte marziale.

Si è alzato un grido in tutto il paese: il soldato è un eroe! Dovrebbe essere decorato! Netanyahu ha telefonato a suo padre per assicurargli il suo appoggio. Avigdor Lieberman [leader di un partito ultranazionalista, ndt.] è entrato nell’affollata aula del tribunale per esprimere la propria solidarietà al soldato. Pochi giorni dopo Netanyahu ha nominato Lieberman ministro della difesa, il secondo più importante incarico in Israele.

Prima di ciò, il Generale Golan ha ricevuto un forte appoggio da parte del ministro della difesa, Moshe Ya’alon e del Capo di Stato Maggiore, Gadi Eisenkot. Probabilmente è stata questa la ragione immediata della revoca di Ya’alon e della nomina di Lieberman al suo posto. Assomiglia ad un putsch.

Sembra che Golan non sia solo un ufficiale coraggioso, ma anche un profeta. L’inserimento del partito di Lieberman nella coalizione di governo conferma i più neri timori di Golan. E’ un altro colpo fatale alla democrazia di Israele.

Sarò condannato ad assistere agli stessi sviluppi per la seconda volta nella mia vita?

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Le radici del conflitto:la Nakba palestinese come parte della più vasta “catastrofe” araba

16 maggio, 2016, Maan News

di Ramzy Baroud

Negli ultimi 68 anni, ogni 15 maggio, i palestinesi commemorano il loro esilio collettivo dalla Palestina . La pulizia etnica della Palestina per fare spazio a una ‘patria ebraica’ è avvenuta a prezzo di una implacabile violenza e di una continua sofferenza. I palestinesi fanno riferimento a questa esperienza che dura tuttora come”Nakba” o “Catastrofe”.

Tuttavia, la ‘Nakba’ non è semplicemente un caso palestinese, ma è anche una ferita araba che continua a sanguinare.

La “Nakba” araba è stata precisamente l’accordo Sykes-Picot del 1916, che ha suddiviso gran parte del mondo arabo tra le potenze occidentali in competizione tra loro. Un anno dopo, la Palestina è stata rimossa del tutto dalla questione araba e “promessa” al movimento sionista in Europa, dando luogo ad uno dei conflitti più duraturi della storia moderna.

Come è potuto accadere?

Quando il diplomatico britannico, Mark Sykes, all’età di 39 anni è deceduto a causa dell’epidemia di spagnola, nel 1919, un altro diplomatico, Harold Nicolson, ha descritto la sua influenza sulla regione mediorientale in questo modo:

“E’stato a causa del suo indefesso impulso e della sua perseveranza, del suo entusiasmo e della sua fede, che il nazionalismo arabo e il sionismo sono diventati due delle nostre cause di guerra di maggior successo.

“Retrospettivamente sappiamo che Nicolson ha parlato troppo presto. La caratteristica del”nazionalismo arabo” cui si riferiva nel 1919 era fondamentalmente diversa dai movimenti nazionalisti che hanno fatto presa in diversi paesi arabi negli anni ’50 e ’60. Lo slogan del nazionalismo arabo negli anni successivi fu la liberazione e l’indipendenza dal colonialismo occidentale e dai suoi alleati locali.

Il contributo di Sykes all’avvento del sionismo non ha nemmeno prodotto una maggiore stabilità. Dal 1948, il sionismo e il nazionalismo arabo sono stati in costante conflitto, provocando deprecabili guerre ed altrettanto continui spargimenti di sangue.

Tuttavia, il contributo duraturo di Sykes per la regione araba è stato il suo ruolo di primo piano nella firma dell’accordo Sykes – Picot noto anche come l’ accordo dell’Asia Minore, un centinaio di anni fa. Quel trattato infame tra la Gran Bretagna e la Francia, che è stato negoziato con il consenso della Russia, ha plasmato la geopolitica del Medio Oriente per un intero secolo.

Nel corso degli anni, le sfide allo status quo imposto dall’ [accordo] Sykes -Picot non sono riuscite a modificare radicalmente i confini arbitrariamente disegnati che dividevano gli arabi in “sfere di influenza” amministrate e controllate dalle potenze occidentali.

Eppure, la persistente eredità [dell’accordo] Sykes – Picot potrebbe eventualmente essere messa in dubbio sotto la pressione delle nuove violente circostanze, con il recente avvento di’Daesh’ e la creazione di una sua propria versione di confini altrettanto arbitrari che comprendono ampie zone della Siria e dell’Iraq, come nel 2014, in concomitanza con l’attuale discussione sulla divisione della Siria in una federazione.

Perché l’accordo Sykes Picot?

L’accordo Sykes-Pycot è stato firmato in conseguenza dei violenti avvenimenti che coinvolsero in quegli anni la maggior parte dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente.

Tutto è iniziato quando, nel mese di luglio del 1914, è scoppiata la prima guerra mondiale. L’Impero Ottomano immediatamente ha preso parte alla guerra, schierandosi con la Germania, in parte perché era consapevole del fatto che gli alleati – costituiti principalmente dalla Gran Bretagna, Francia e Russia – avevano l’ambizione di prendere il controllo di tutti i territori ottomani, che includevano anche le regioni arabe della Siria, della Mesopotamia, dell’Arabia, dell’Egitto e del Nord Africa.

Nel novembre del 1915 la Gran Bretagna e la Francia hanno avviato seriamente i negoziati, con lo scopo di dividere l’eredità territoriale dell’Impero ottomano nell’eventualità di una conclusione a loro favore della guerra.

Così, una mappa, disegnata con delle linee rette usando una matita Chinagraph, ha condizionato in gran parte il destino degli arabi, dividendoli in base alle varie ipotesi di appartenenze tribali e di confessioni religiose prese a casaccio.

La divisione del bottino

Mark Sykes è stato il negoziatore per conto della Gran Bretagna e François Georges Picot il rappresentante della Francia. I diplomatici convennero che, una volta che gli ottomani fossero stati sonoramente sconfitti, la Francia avrebbe ricevuto le zone contrassegnate con una (a), che comprendevano la regione del sud- est della Turchia, il nord dell’Iraq, la maggior parte della Siria e il Libano.

L’area ( b) è stata contrassegnata come territori sotto il controllo britannico, che includevano la Giordania, l’Iraq meridionale, Haifa e Acri in Palestina, e la fascia costiera tra il Mare Mediterraneo e il fiume Giordano .

Alla Russia, d’altra parte, sarebbero stati concessi Istanbul, l’Armenia e gli strategici stretti turchi.

L’improvvisata mappa consisteva non solo di linee, ma anche di colori, insieme a un linguaggio attestante il fatto che i due paesi consideravano la regione araba in termini puramente convenzionali, senza prestare la minima attenzione alle possibili ripercussioni del fatto di tagliare a fette intere civiltà aventi una multiforme storia di cooperazione e di conflitto.

L’eredità del tradimento

La prima guerra mondiale terminò l’11 novembre 1918, dopo di che ebbe inizio sul serio la divisione dell’Impero Ottomano .

Gli inglesi e i francesi estesero i [loro] mandati su entità arabe divise, mentre al movimento sionista venne concessa la Palestina, su cui tre decenni più tardi venne formato uno Stato ebraico .

L’accordo, che è stato accuratamente progettato per soddisfare gli interessi coloniali occidentali, ha lasciato dietro di sé un’eredità di divisioni, tensioni e guerre.

Mentre lo status quo ha creato una stabile egemonia dei paesi occidentali sul destino del Medio Oriente, non è riuscito invece a garantire un qualche grado di stabilità politica o a creare un sistema di uguaglianza economica.

L’accordo Sykes – Picot è stato siglato segretamente per un motivo preciso: era completamente in contrasto con le promesse fatte agli arabi durante la Grande Guerra. Alla leadership araba, sotto il comando di Sharif Hussein, era stata promessa, in cambio dell’aiuto agli alleati contro gli ottomani, la completa indipendenza dopo la guerra.

Ai paesi arabi ci sono voluti molti anni e successive ribellioni per ottenere la loro indipendenza. Il conflitto tra gli arabi e le potenze coloniali ha determinato l’ascesa del nazionalismo arabo, che è sorto nel bel mezzo di contesti estremamente violenti e ostili, o più precisamente, come un loro risultato.

Il nazionalismo arabo potrebbe essere riuscito a mantenere una parvenza d’identità araba, ma è fallito nel produrre una risposta valida e unitaria al colonialismo occidentale.

Quando la Palestina – che fu promessa già nel novembre del 1917 [la dichiarazione Balfour, ndt] dalla Gran Bretagna come focolare nazionale per gli ebrei- è diventata Israele, ospitando per lo più coloni europei, il destino della regione araba a est del Mediterraneo è stato marchiato come il territorio del conflitto permanente e dell’antagonismo.

È qui, in particolare, che si percepisce soprattutto la terribile eredità dell’accordo Sykes – Picot in tutta la sua violenza, miopia e spregiudicatezza politica.

Cento anni dopo che due diplomatici, un britannico e un francese, hanno diviso gli arabi in sfere di influenza, l’accordo Sykes – Picot rimane una realtà pugnace ma dominante del Medio Oriente.

Dopo cinque anni che la Siria è in preda a una violenta guerra civile, il marchio Sykes – Picot ancora una volta si fa sentire, in quanto la Francia, la Gran Bretagna, la Russia – e ora gli Stati Uniti – stanno prendendo in considerazione quello che il Segretario di Stato americano, John Kerry, ha recentemente definito il ‘ Piano B ‘ – cioè la divisione della Siria sulla base di linee religiose, probabilmente in accordo con una nuova interpretazione occidentale delle “sfere di influenza”.

La mappa Sykes – Picot può anche essere stata un’ idea rozza disegnata frettolosamente nel corso di una guerra globale, ma, da allora, è diventata il principale quadro di riferimento che l’Occidente usa per ridisegnare il mondo arabo e per “controllarlo come desidera e come ritengono eventualmente opportuno.”

La ‘ Nakba ‘ palestinese, pertanto, deve essere intesa come parte integrante dei vasti disegni occidentali sul Medio Oriente di un secolo fa, quando gli arabi erano (e rimangono) divisi e la Palestina era (e rimane ) conquistata .


Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza”


Le opinioni espresse in quest’articolo sono dell’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.


(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




“Un popolo, una nazione”: una rappresentazione visiva dell’ignoranza .

Se una qualunque immagine vale mille parole, questa immagine potrebbe valere mille editoriali sul pericoloso declino della democrazia israeliana.

di Asher Schechter, 13 maggio 2016

Haaretz

Mercoledì sono iniziati i festeggiamenti per il 68° Giorno dell’Indipendenza di Israele, con una cerimonia ufficiale sul Monte Herzl a Gerusalemme, che tradizionalmente scandisce il passaggio dal lutto solenne del Giorno della Memoria di Israele all’atmosfera celebrativa dello Yom Ha’atzmaut (Giorno dell’Indipendenza). La cerimonia, il cui tema quest’anno è stato l’ “eroismo civico”, ha rispettato tutte le caratteristiche della tradizione: fuochi d’artificio, discorsi, una cerimonia di accensione della torcia a celebrazione delle imprese di israeliani che hanno dato importanti contributi alla società e portabandiera con diversi colori che formavano i simboli dell’identità nazionale israeliana.

Mentre i soldati passavano da una formazione raffigurante un sacro simbolo ad un’altra – una colomba della pace, una stella di David – a un certo punto hanno formato una frase che avrebbe dovuto sconcertare chiunque avesse una pur minima conoscenza della storia: “un popolo, una nazione.”

E’ una frase che, se la pronunciate in tedesco, in Germania, è più che probabile che veniate arrestati per apologia. Il motivo? E’ più che una piccola reminiscenza di uno slogan in voga proprio di un certo regime tedesco dagli anni ’30. Di fatto, si tratta di una traduzione quasi letterale. La differenza è che, quando i tedeschi hanno originariamente coniato questa frase, essa finiva con le parole “un Fuhrer”.

Per essere chiari, Israele non è affatto simile alla Germania nazista in alcun modo e in alcuna forma. Le persone responsabili di aver inserito l’inquietante frase durante la celebrazione nazionale di Israele probabilmente lo hanno fatto per sbaglio, senza alcuna conoscenza del suo precedente utilizzo.

Tuttavia, è difficile immaginare una raffigurazione più appropriata dei pericolosi processi che stanno prendendo corpo nella società israeliana – gli stessi processi rispetto a cui il capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano Yair Golan ha messo in guardia la settimana scorsa – e dell’ignoranza storica che in vario modo li alimenta, dell’evocazione inconsapevole di uno slogan nazista durante le celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza di Israele.

Nel respingere risolutamente ogni similitudine tra la frase e lo slogan nazista, la ministra della Cultura Miri Regev (che era la responsabile della cerimonia) in qualche modo è riuscito a peggiorare le cose: “La frase ‘un popolo, una nazione’ è un’espressione della giusta aspirazione del movimento sionista fin dal suo inizio: stabilire uno Stato ebraico.” Le similitudini, nondimeno, ci sono, chiare come il sole. Ciò che ha fatto Regev è ciò che le destre fanno sempre: contrastare le critiche alle loro azioni confondendole con l’antisemitismo. Questa impresa è un po’ più ardua da compiere quando si difende l’ utilizzo di uno slogan nazista invece di ammettere semplicemente il proprio errore.

Anche in assenza di scomodi riferimenti storici, la frase “un popolo, una nazione” è molto sconcertante. Un popolo? Il 20% dei cittadini di Israele sono palestinesi. Se Israele include solo “un popolo”, che ne è del gruppo etnico che costituisce un quinto della sua popolazione? E già che ci siamo, che ne è delle altre minoranze etniche, come i drusi e i beduini? Che ruolo hanno in questa “unica nazione”?

La frase “un popolo, una nazione” è l’ultimo degli incessanti tentativi di Israele di negare l’esistenza dei suoi cittadini arabi. Due anni fa, quando l’Autorità israeliana per la popolazione, l’immigrazione e le frontiere (PIBA) pubblicò l’annuale elenco dei nomi di battesimo più popolari in Israele, risultarono in testa i nomi ebraici Yosef, Daniel e Uri, anche se in seguito si scoprì che il più popolare nome di battesimo è in realtà Mohammad (un nome che, come ogni altro nome arabo, non era neppure inserito nella classifica dei primi dieci).

Il mese scorso un sondaggio condotto dal giornale israeliano “Hayom” ha rilevato che il 48% dei ragazzi ebrei israeliani ritiene che gli arabi israeliani non debbano essere ammessi a candidarsi alle elezioni. Un mese prima, un sondaggio del “Pew Research Center” ha mostrato che il 48% degli ebrei israeliani pensano che gli arabi israeliani dovrebbero essere “trasferiti” o “espulsi”.

“Un popolo, una nazione”, dunque, può essere considerata una dichiarazione di intenti, in un certo senso. I membri arabo-israeliani della Knesset (Parlamento israeliano, ndt.) stanno già lottando contro proposte di legge miranti a privare del diritto di voto gli arabi israeliani, come la “legge di sospensione”, che consente ai deputati di sospendere altri parlamentari dalla Knesset con un voto di maggioranza di 90 membri. Questo progetto di legge è passato in prima lettura a marzo.

L’esclusione e la persecuzione degli arabo- israeliani erano un tempo il lato nascosto del sistema politico e giuridico di Israele. Fatti che esistevano, ma che venivano negati. “Un popolo, una nazione” li porta alla luce nel modo più esplicito che si possa immaginare: celebrandoli insieme a simboli nazionali come il calendario a sette bracci e la colomba della pace.

Ma neanche il riferimento storico, pur inconsapevole, dovrebbe essere sottovalutato. La sua tempistica, una settimana dopo che Golan è stato “rimproverato” per aver “ridimensionato” l’Olocausto poiché aveva paragonato certe tendenze nella società israeliana del 2016 ai “terribili sviluppi” verificatisi in Germania decenni fa, non potrebbe essere più premonitrice. Quando Golan ha messo in guardia sui pericoli di tendenze sociali come “intolleranza, violenza, autodistruzione e decadimento morale”, tendenze spesso collegate alla nascita del nazismo in Germania, era di questo che probabilmente voleva parlare.

Non è la prima volta che la foga antidemocratica di Israele ha inavvertitamente imitato le parole di illustri anti-semiti. L’anno scorso Benjamin Netanyahu è riuscito ad ottenere la rielezione mettendo in guardia gli elettori del Likud sul fatto che “gli arabi si stanno precipitando ai seggi in massa”. Come riportato da Gilad Halpern sulla rivista +972 di questa settimana, quelle risultano essere esattamente le stesse identiche parole riferite agli ebrei nella Polonia dei primi anni del Ventesimo Secolo.

Benjamin Netanyahu è un appassionato studioso di storia ebraica, ma è sicuramente possibile che non fosse a conoscenza di questa poco nota citazione, rintracciata dal professor Yaacov Shavit dell’università di Tel Aviv tra gli scritti di Ze’ev Jabotinsky (scrittore e leader della destra sionista, principale riferimento ideologico di Netanyahu, ndt.). Neppure coloro che hanno piazzato la frase “un popolo, una nazione” nel bel mezzo della cerimonia del Giorno dell’Indipendenza di Israele, molto probabilmente ne sapevano di più.

E proprio questa può essere la cosa peggiore a proposito di tutto ciò. In fin dei conti, le società non fanno semplicemente una scelta razionale ed informata per diventare antidemocratiche. Molte volte, questa direzione è ampiamente guidata dall’ignoranza della storia.

Gli israeliani imparano molte cose a scuola a proposito dell’Olocausto. Da adulti, sono circondati dalla sua memoria. Ma gran parte di questa memoria è incentrata sulla vittimizzazione degli ebrei, su una narrazione che radica gli orrori del nazismo nelle tradizioni antisemite. Se questo è vero, ciò che manca è il ricordo dell’intolleranza, della violenza, del nazionalismo estremista e del degrado morale che condussero quelle tradizioni a manifestarsi con metodi indicibili. Non si trattava solo di “Juden raus!”. Ma anche di “Ein volk, ein reich, ein fuhrer.”

Come recita il vecchio adagio, coloro che non conoscono il passato, sono condannati a ripeterlo. Benché non ci sia alcun rischio che Israele possa mai assomigliare alla Germania nazista, sta però prendendo una strada molto inquietante. Non ci credete? Guardate l’immagine sopra citata. Ora c’è la prova fotografica.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’antisionismo è antisemitismo?

The News Arab – Pubblicato il 29 aprile 2016

di

Hilary Aked

Nelle scorse settimane la stampa inglese è stata inondata da affermazioni secondo cui dirigenti della sinistra avrebbero fatto affermazioni antisemite.

In qualche caso sono persino stati fatti commenti apertamente razzisti e sollevati legittimi timori. Ma di fatto altre sono state manifestazioni di anti-sionismo. Le affermazioni di Malia Bouattia, la nuova presidentessa eletta dell’Unione Nazionale degli Studenti del Regno Unito, in assoluto la prima donna di colore a ricoprire questo ruolo, sono forse il più evidente esempio di quest’ultimo caso.

I media hanno dato spazio a quanti sostengono esplicitamente che l’antisemitismo e l’antisionismo sono “la stessa cosa”. Ma questa commistione è pericolosa e sbagliata. Tende a mascherare un movimento politico (il nazionalismo ebraico) con un’identità etnico- religiosa (l’ebraismo). Oltre ad essere analiticamente sbagliato, ciò è anche privo di una base empirica.

L’ideologia sionista presenta varie tendenze, ma tutte le varianti del sionismo politico sono unificate dalla fede nella giustezza di uno Stato nazionale per gli ebrei. Il trattato di Theodor Herzl [il padre del sionismo. Ndtr.] Der Judenstaat [Lo Stato ebraico] del 1896 fornisce una delle più autorevoli dichiarazioni iniziali di questo movimento, che non è esistito da molto più di un secolo e che è stato, per quasi la metà di questo tempo, un movimento politico veramente marginale all’interno delle comunità ebraiche.

Benché oggi sia vero che la maggioranza degli ebrei probabilmente affermi di appoggiare il sionismo, ci sono ancora importanti minoranze che non lo fanno e che non lo hanno mai fatto, per una vasta gamma di ragioni, sia religiose che politiche.

Oltretutto, la generazione più giovane si sta sempre più allontanando dal sionismo persino nelle sue forme teoretiche ed astratte, proprio a causa di quello che il sionismo attualmente esistente – incarnato nel moderno Stato di Israele – sta facendo e che ha continuato a fare in concreto per decenni. Lo testimonia, ad esempio, la recente crescita negli Stati Uniti di “Jewish Voice for Peace” [“Voci ebraiche per la pace”], che appoggia il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) per far pressione su Israele affinché rispetti i diritti dei palestinesi.

In particolare negli Stati Uniti, oggi il movimento politico sionista si fonda in larga misura sul Sionismo cristiano. Come ha concisamente sintetizzato il “Gruppo di Ebrei socialisti” [collettivo di ebrei socialisti nato in Gran Bretagna negli anni ’70. Ndtr.]: non tutti gli ebrei sono sionisti e non tutti i sionisti sono ebrei.

Proprio per aver fatto una distinzione tra Ebraismo e Sionismo, Bouattia è stata accusata da Hannah Weisfeld, del gruppo sionista liberale “Yachad”, di dimostrare una “mancata comprensione dell’identità ebraica”. Si tratta di una versione attenuata della tesi secondo cui i due concetti sono sinonimi. Purtroppo sono invece le affermazioni di Weisfeld che rischiano di fomentare l’antisemitismo, in quanto sembrano implicitamente insinuare che tutto il popolo ebraico è in qualche modo intrinsecamente legato alle azioni oppressive di Israele.

Questo concetto è stato in realtà già smentito da un tribunale britannico. Quando il professor Ronnie Fraser ha sostenuto che il suo sindacato era antisemita per aver preso in considerazione il boicottaggio di Israele, le sue argomentazioni sono state rigettate e il tribunale ha osservato che “credere nel progetto sionista o il legame con Israele…non fa intrinsecamente parte dell’Ebraismo.”

Quindi, se l’antisionismo non è antisemitismo, che cos’è?

Nella sua originaria incarnazione, il movimento sionista – che si è sviluppato nel contesto dell’imperialismo britannico ed europeo in Medio Oriente – si è identificato come un movimento coloniale; una delle sue prime istituzioni, per esempio, era denominata “Autorità per la colonizzazione ebraica”. Nel contempo, lo stesso Herzl scrisse al colonialista inglese Cecil Rhodes – la cui statua all’università di Oxford era diventata il simbolo di un nascente movimento antirazzista – chiedendogli di appoggiare il suo progetto, che egli definì “coloniale”.

Ma quando si svilupparono e conquistarono la libertà movimenti anti-colonialisti in tutto il mondo i gruppi a favore di Israele sentirono la necessità di dare una nuova etichetta al sionismo. Lo hanno fatto in modo molto efficace; oggi il sionismo è presentato come un “movimento di liberazione” e l’antisionismo è accusato di negare “il diritto all’esistenza” di Israele, benché non esista un simile concetto nelle leggi internazionali.

Tutto ciò nonostante il fatto che i diritti fondamentali del popolo palestinese – tra molti altri, quelli alla vita, al ritorno alle proprie case, alla libertà di movimento – siano, e siano stati per decenni, negati. Incredibilmente, siamo spinti a credere che non sia pericoloso lo Stato nazione etnicamente esclusivista responsabile di queste violazioni, ma che lo siano quelli che criticano l’ideologia sionista che è alla base di questo regime.

Significativamente, ciò non implica che gli antisionisti non possano essere antisemiti. A volte le due cose si sovrappongono. Ciò non esclude neppure la comprensione del fatto che, dopo gli orrori dell’Olocausto, il crescente appoggio al sionismo in linea di principio fosse per molti versi comprensibile.

Ma il sionismo non è solo una questione astratta e la maggior parte degli antisionisti non stanno cercando “di negare il diritto dei popolo ebraico all’autodeterminazione”, come spesso viene sostenuto oggi. Semplicemente essi fanno notare il dato storico per cui ciò è stato realizzato, attraverso la creazione dello Stato di Israele, e conservato a spese degli abitanti nativi del territorio.

Mentre i palestinesi si preparano a celebrare i 68 anni della Nakba, è tempo che più persone in Occidente imparino che uno dei principali ‘successi’ del sionismo è stata la pulizia etnica di 700.000 palestinesi, che sono ancora oggi rifugiati, così come i loro discendenti.

Di fronte alla fine del paradigma dei due Stati e alla riemersione dell’idea di una soluzione per uno Stato unico – che significherebbe la fine del progetto sionista – così come alla crescita del BDS, il rinnovato tentativo di equiparare antisionismo ed antisemitismo è una mossa fondamentalmente disperata da parte dei sostenitori di Israele.

In effetti le testimonianze di forte antirazzismo di gente come Malia Bouattia sono assolutamente coerenti con l’opposizione al sionismo. I palestinesi sono esplicitamente oppressi dallo Stato di Israele in base alla loro identità etnica. Dalle strade esclusivamente per ebrei agli insediamenti illegali (colonie), il sionismo concreto ha significato una società basata sui privilegi etnici di un gruppo e sulla subordinazione dell’altro. Oggi l’antisionismo non è né più né meno che l’opposizione a Israele in quanto Stato coloniale di insediamento.

Hilary Aked è un’analista e ricercatrice i cui studi di dottorato riguardano l’influenza della lobby israeliana nel Regno Unito.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità dell’autrice e non riflettono necessariamente quelle di “The News Arab”, del suo comitato editoriale o della sua redazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Analisi: gli arabi hanno tradito la Palestina?

30 aprile 2016, aggiornato 2 maggio 2016, Ma’an News

Di Ramzy Baroud

Ramzy Baroud è un giornalista accreditato a livello internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non detta di Gaza”

All’età di 21 anni ho attraversato il confine da Gaza all’Egitto per conseguire una laurea in scienze politiche. Il momento non avrebbe potuto essere peggiore. L’invasione irachena del Kuwait nel 1990 aveva condotto ad una coalizione internazionale guidata dagli USA e ad un grave conflitto, che alla fine ha spianato la strada all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003. Mi resi conto che i palestinesi vennero da subito “odiati” in Egitto a causa dell’appoggio di Yasser Arafat all’Iraq a quell’epoca. Solo non conoscevo la portata di quel presunto “odio”.

E’ stato in un modesto albergo del Cairo, dove ho pian piano speso i pochi denari egiziani che avevo a disposizione, che ho incontrato Hajah Zainab, una gentile vecchia custode che mi ha trattato come un figlio. Aveva un aspetto malsano, camminava zoppicando e si appoggiava ai muri per prendere fiato prima di proseguire nei suoi incessanti lavori domestici. I tatuaggi sul suo viso, un tempo disegnati accuratamente, erano diventati macchie di inchiostro raggrinzito che deturpava la sua pelle. Eppure la gentilezza dei suoi occhi aveva la meglio e appena mi vedeva mi abbracciava e piangeva.

Hajah Zainab piangeva per due motivi: aveva pena per me perché avevo a che fare con un ordine di deportazione del Cairo – per la sola ragione che ero un palestinese nel momento in cui Arafat appoggiava Saddam Hussein, mentre Hosni Mubarak sceglieva di allearsi con gli Stati Uniti. La mia disperazione cresceva e mi angosciava la possibilità di affrontare l’intelligence israeliana, lo Shin Bet, che poteva convocarmi nei suoi uffici una volta che avessi attraversato il confine per tornare a Gaza. L’altro motivo era che l’unico figlio di Hajah Zainab, Ahmad, era morto combattendo gli israeliani nel Sinai.

La generazione di Zainab considerava le guerre dell’Egitto con Israele, quella del 1948, del 1956 e del 1967, come guerre in cui una delle cause principali era la Palestina. Nessuna politica egoista e nessun condizionamento mediatico avrebbe potuto modificare ciò. Ma la guerra del 1967 fu quella della totale sconfitta. Con l’appoggio diretto e massiccio degli Stati Uniti e di altre potenze occidentali, gli eserciti arabi furono sonoramente sconfitti, battuti su tre differenti fronti. Gaza, Gerusalemme est e la Cisgiordania furono perdute, insieme alle Alture del Golan, la Valle del Giordano ed anche il Sinai.

Fu allora che i rapporti di alcuni paesi arabi con la Palestina iniziarono a cambiare. La vittoria di Israele ed il costante appoggio di Stati Uniti e dell’ occidente convinsero alcuni governi arabi ad abbassare le loro pretese e auspicavano che anche i palestinesi facessero lo stesso. L’Egitto, che era stato il portabandiera del nazionalismo arabo, cedette ad un senso collettivo di umiliazione ed in seguito ridefinì le sue priorità con l’obbiettivo di liberare la propria terra dall’occupazione israeliana. Privi della cruciale leadership egiziana, gli stati arabi si divisero in campi differenti, ogni governo con la propria strategia. La Palestina intera era allora sotto controllo israeliano e gli arabi lentamente si allontanarono da una causa che un tempo era considerata la causa principale della nazione araba.

La Guerra del 1967 pose anche fine al dilemma di un’azione indipendente palestinese, di cui si appropriarono quasi del tutto vari paesi arabi. Inoltre la guerra spostò l’attenzione sulla Cisgiordania e Gaza e consentì alla fazione palestinese Fatah di rafforzare la propria posizione alla luce della sconfitta araba e della conseguente divisione.

Tale divisione venne alla luce pienamente al summit di Khartoum dell’agosto 1967, in cui i leaders arabi si scontrarono su priorità e definizioni. Le conquiste territoriali di Israele dovrebbero ridefinire lo status quo? Gli arabi dovrebbero concentrarsi sul ritorno alla situazione precedente il 1967 o a quella precedente il 1948, quando la Palestina storica fu occupata per la prima volta ed i palestinesi furono fatti oggetto di una pulizia etnica?

Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 242, che rispecchiava il desiderio dell’amministrazione americana Johnson di avvantaggiarsi del nuovo status quo: il ritiro di Israele “dai territori occupati” in cambio della normalizzazione con Israele.

Il nuovo linguaggio del periodo immediatamente successivo al 1967 allarmò i palestinesi, che si resero conto che qualunque assetto politico futuro avrebbe ignorato la situazione preesistente alla guerra.

Infine, l’Egitto combatté e celebrò la sua vittoria nella Guerra del 1973, che gli consentì di consolidare il controllo sulla maggior parte dei suoi territori perduti. Alcuni anni dopo, gli accordi di Camp David nel 1979 divisero ancor di più le fila degli arabi e posero fine alla solidarietà ufficiale dell’Egitto con i palestinesi, garantendo allo stato arabo più popoloso un controllo condizionato sul proprio territorio nel Sinai. Le ripercussioni negative di quell’accordo non possono essere sopravvalutate. Comunque il popolo egiziano, nonostante il passare del tempo, non ha mai veramente normalizzato i rapporti con Israele.

In Egitto esiste ancora una frattura tra il governo, il cui comportamento si basa sull’urgenza politica e sull’autoconservazione, ed il popolo che, nonostante una campagna anti-palestinese imposta su vari media, è come sempre determinato a rifiutare la normalizzazione con Israele finché la Palestina non sia libera. A differenza del ben finanziato circo mediatico che negli ultimi anni ha demonizzato Gaza, gli amici di Hajah Zainab dispongono di pochissimi programmi in cui possono apertamente esprimere la loro solidarietà con i palestinesi. Nel mio caso, sono stato abbastanza fortunato da imbattermi nella vecchia custode che piangeva per la Palestina e per il suo unico figlio tanti anni fa.

Tuttavia quello stesso spirito, di Zainab, mi si è presentato nuovamente nel mio percorso di viaggi, diverse volte. Lo incontrai in Iraq nel 1999. Era incarnato in una vecchia venditrice di verdura che viveva a Sadr City. Lo incontrai in Giordania nel 2003. Si trattava di una taxista, con una bandiera palestinese che sventolava dal suo specchietto retrovisore. Era anche una giornalista saudita in pensione che incontrai a Gedda nel 2010, e una studentessa marocchina incontrata in un giro di conferenze a Parigi nel 2013. Aveva poco più di vent’anni. Dopo il mio intervento, mi disse piangendo che la Palestina per il suo popolo era come una ferita aperta. “Prego ogni giorno per una Palestina libera”, mi disse, “come facevano i miei defunti genitori in ogni preghiera.”

Hajah Zainab è anche l’Algeria, tutta l’Algeria. Quando la nazionale di calcio palestinese ha incontrato la squadra algerina, lo scorso febbraio, si è verificato uno strano fenomeno mai visto prima, che lasciò molti attoniti. I tifosi algerini, tra i più accesi amanti del calcio di ogni dove, hanno tifato per i palestinesi, per tutta la partita. E quando la squadra palestinese ha segnato un goal, è stato come se gli spalti si incendiassero. L’affollato stadio è esploso in un canto entusiasta per la Palestina e solo per la Palestina. Allora, gli arabi hanno tradito la Palestina? La domanda si sente spesso ed è spesso seguita da un affermativo “si, lo hanno fatto”. I media egiziani che fanno dei palestinesi dei capri espiatori a Gaza, i palestinesi perseguitati ed affamati a Yarmouk in Siria, la scorsa guerra civile in Libano, le vessazioni dei palestinesi in Kuwait nel 1991 e più tardi in Iraq, sono esempi spesso citati. Adesso alcuni sostengono che la cosiddetta “primavera araba” sia stata l’ultimo colpo di grazia alla solidarietà araba con la Palestina.

Vi prego di non fare confusione. Il risultato della sfortunata “primavera araba” è stato una grandissima delusione, se non un tradimento, non solo per i palestinesi, ma per la maggior parte degli arabi. Il mondo arabo è diventato il terreno per sporche politiche tra vecchi e nuovi avversari. Se i palestinesi ne sono stati vittime, i siriani, gli egiziani, i libanesi, gli yemeniti ed altri lo stanno diventando anche loro.

Si deve fare una chiara distinzione politica del termine “arabi”. Arabi possono essere dei governi non eletti altrettanto quanto lo può essere una gentile vecchietta che guadagna due dollari al giorno in un infimo albergo del Cairo. Arabe sono le potenti elites che si preoccupano solo dei propri privilegi e ricchezze, mentre non gli importa né dei palestinesi né delle loro proprie nazioni, ma lo sono anche tanti popoli, differenti, unici, emancipati, oppressi, che si trovano in questo momento storico a consumarsi per la propria sopravvivenza e lottano per la libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Solo il boicottaggio può cambiare Israele

di Gideon Levy

Internazionale 1152, 6/12 maggio 2016

In un articolo uscito il 28 aprile il direttore di Haaretz, Aluf Benn, invitava a non essere troppo ottimisti sull’efficacia di un boicottaggio contro Israele per la sua occupazione dei territori palestinesi. Sono d’accordo con Benn, ma in ogni caso non possiamo non riconoscere che la strategia Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) è l’unico modo per cambiare le cose, l’ultima speranza per ottenere il cambiamento che anche Benn desidera. È l’unico mezzo per impedire a Israele di proseguire con i suoi crimini. L’alternativa è lo spargimento di sangue, che nessuno desidera.

Le sanzioni e il boicottaggio sono lo strumento più legittimo e nonviolento a disposizione (Israele chiede continuamente al mondo di usarlo contro i suoi nemici) e hanno dimostrato di essere estremamente efficaci. Anche chi nutre le stesse perplessità di Benn (e io condivido alcuni dei suoi dubbi) deve ammettere che il direttore non offre alcuna alternativa più realistica. Il suo appello alla sinistra israeliana non ha alcuna speranza di successo, considerando fino a che punto la società sia ormai caratterizzata dal lavaggio del cervello, dall’ignoranza, dalla cecità, dall’amore per la bella vita, dalla mancanza di opposizione e dall’aumento dell’estremismo.

Questa è una situazione criminale che deve essere risolta, non possiamo permetterci di restare immobili in attesa che l’opinione pubblica ci faccia la grazia di cambiare. Non lo farà mai di sua spontanea volontà, e non avrà nessun motivo di farlo finché non pagherà per i suoi crimini e sarà punita. Una nuova vetta di arroganza è stata raggiunta: permettere alla tirannia, all’abuso e all’oppressione di perdurare in nome della democrazia.

Nel suo articolo Benn ipotizza che il mondo possa imporre sanzioni contro Israele. In verità spesso

anch’io ho accarezzato questa ipotesi, che non è altro che l’espressione del profondo desiderio di qualcuno che osserva i peccati ogni giorno e vorrebbe vedere anche la punizione. Quando gli agenti della polizia di frontiera uccidono una donna incinta e suo fratello sostenendo che avevano “lanciato un coltello” e la società reagisce con uno sbadiglio annoiato, cresce il desiderio di punire questa società. Non è un desiderio di vendetta, ma un desiderio di cambiamento. Benn è convinto che il boicottaggio radicalizzerebbe ulteriormente Israele. Ma l’esperienza ci insegna che è vero il

contrario. Israele ha sempre fatto delle concessioni dopo aver pagato un prezzo elevato o davanti a una minaccia. È vero che Cuba e la Corea del Nord non si sono piegate alle sanzioni, ma è altrettanto vero che non si tratta di democrazie e che nei due paesi l’opinione pubblica ha un peso relativo.

Basandoci sulle esperienze passate possiamo ritenere che gli israeliani siano molto più viziati dei cubani o dei nordcoreani. Chiudiamo l’aeroporto internazionale di Tel Aviv per due giorni e poi vedremo quanti sono in favore dell’insediamento di Yitzhar. Imponiamo un visto per qualsiasi breve vacanza all’esterno e vedremo quanti continueranno a usare il motto nazionalista “la terra di Israele per il popolo di Israele”. Per non parlare delle ristrettezze materiali e della crisi economica che spingerebbero inevitabilmente Israele a chiedersi: vale davvero la pena soddisfare questo capriccio dell’occupazione? Siamo pronti a pagare di tasca nostra e a sacrificare il nostro stile di vita per regioni del paese che la maggior parte degli israeliani non ha mai visto e in cui non ha nessun interesse concreto?

Probabilmente la prima reazione a un boicottaggio sarebbe quella descritta da Benn: la società farebbe quadrato e prevarrebbe la linea dura. Ma presto comincerebbero le domande, poi le proteste. Gli israeliani del 2016 non sono fatti per vivere a Sparta e neanche a Cuba. Non accetterebbero di guidare auto degli anni cinquanta e fare la fila per la carne pur di mantenere l’insediamento di Esh Kadosh. Rinuncerebbero all’insediamento di Elkana pur di continuare ad andare in vacanza in Bulgaria, ed è un bene. E se questo dovesse significare che Elkana diventerà parte di un unico stato democratico binazionale, tanto meglio. L’ipotesi che un palestinese come Marwan Barghouti venga eletto a capo del governo non mi spaventa affatto.

Il movimento Bds non ha ancora cominciato ad avere effetti sulle nostre vite. Al momento non esiste una vera guerra economica, ma solo iniziative che stanno cambiando gradualmente il dibattito internazionale su Israele. Ai margini esistono forse elementi di antisemitismo, ma in sostanza si tratta di un movimento di protesta animato da persone che hanno una coscienza e vogliono fare qualcosa. Il declino economico che ne risulterebbe potrebbe arrivare presto, e non sarebbe necessariamente graduale. Nel Sudafrica dell’apartheid a un certo punto gli imprenditori sono andati dal governo e hanno detto: “Ora basta, non si può andare avanti così”. Anche in Israele potrebbe succedere qualcosa di simile. E questo mi dà speranza, perché non vedo nessuna alternativa.

Haaretz

(Traduzione di Andrea Sparacino)