La Corte Penale Internazionale e la Palestina

La CPI e la Palestina: un esempio di dubbia giustizia

Al-Shabaka

di Sarah Kanbar – 1 luglio 2016

 

E’ passato più di un anno da quando la Palestina è diventata membro della Corte Penale Internazionale (CPI) e l’Ufficio della Procura Generale della CPI (UPG) ha iniziato l’indagine preliminare della “situazione in Palestina”. Anche se il rifiuto pressoché assoluto di Israele di collaborare con la CPI in questioni relative alla Palestina l’ha ostacolata, Israele non è l’unico intralcio al fatto che la giustizia faccia il suo corso: anche lo stesso UPG ha giocato un ruolo fondamentale nel bloccare di fatto il procedimento. 1

Nel novembre 2015 il rapporto annuale della procuratrice generale Fatou Bensouda sulle attività di indagine preliminare ha fornito un aggiornamento sulla situazione dell’indagine preliminare. In base alle informazioni del rapporto non risulta chiaro come l’UPG procederà in funzione del suo scopo generale di mettere in pratica “i due principali obiettivi dello Statuto di Roma: porre fine all’impunità, incoraggiando corretti procedimenti nazionali, e prevenire i reati” riguardo alla Palestina. Inoltre due elementi del rapporto – l’affermazione dell’UPG riguardante la condizione di Stato sovrano della Palestina ed i possibili crimini che sono stati identificati in via preliminare – inducono ulteriori critiche all’UPG, in particolare le preoccupazioni riguardo alla sua imparzialità e il suo fallimento nel rispondere alle speranze di giustizia delle vittime.

Queste lacune dell’UPG potrebbero far fallire  l’obiettivo della CPI in quanto sede per  valutare e giudicare le atrocità che avvengono in Palestina. La società civile deve esaminare attentamente il lavoro della CPI per garantire che continui ad essere un’istituzione imparziale ed apolitica. Una simile vigilanza aiuterà a ottenere l’attribuzione di responsabilità e a fare un passo avanti nel caso della Palestina.

Palestina: un banco di prova per la CPI

La CPI, che ha iniziato ad operare nel 2002, è un’istituzione giudiziaria giovane ed in evoluzione. Finora quasi tutti i casi aperti davanti alla Corte sono situazioni che riguardano Stati africani. La CPI sta solo iniziando a impegnarsi in altre regioni attraverso indagini preliminari e inchieste. Ciò si riflette nell’incremento del numero di situazioni deferite all’UPG e nell’inizio di inchieste dopo il completamento delle indagini preliminari che durano anni.

La CPI affronta la sfida dovuta a finanziamenti limitati, che la mette nella condizione di aver bisogno del sostegno finanziario degli Stati membri. La CPI non può contare sempre su questi finanziamenti e, anche quando li riceve, lo stesso fatto di averne bisogno la rende soggetta ai progetti politici di alcuni Stati. La CPI è quindi in un momento critico in cui deve dimostrare di essere un’istituzione imparziale.

Durante un recente riunione dell’assemblea degli Stati membri della CPI, il responsabile della gestione e della supervisione della CPI, membri della delegazione palestinese e rappresentanti della società civile hanno espresso l’opinione che il fatto che la CPI si occupi del caso palestinese sarà un banco di prova particolarmente significativo per la Corte. Hanno citato molte ragioni della necessità che la CPI giudichi i crimini in Palestina, compresa la vicenda dei  conflitti regionali che dura da oltre 60 anni, i negoziati falliti e la documentazione della violazione dei diritti umani – dai continui rapporti sul campo delle ONG (organizzazioni non governative) all’opinione consultiva sul Muro israeliano espressa dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004.

Delegati e rappresentanti della società civile hanno anche affermato che l’UPG ha una grande quantità di informazioni che potrebbero portare a concludere efficacemente la sua indagine, benché abbiano  riconosciuto che Israele ha reso difficile l’accesso a informazioni relative all’attacco del 2014 contro la Striscia di Gaza. Inoltre hanno espresso il proprio timore che l’UPG possa cedere alla sua abitudine di perdere il sostegno delle vittime – in questo caso, palestinesi –  prolungando l’indagine.

La CPI è stata frequentemente criticata per il fatto che le vittime, che sono spesso vulnerabili e si aspettano molto dalla Corte, sono state deluse dall’incapacità della CPI di prendere provvedimenti.  Dopo aver aspettato lungo tutto il procedimento estremamente lento e non aver ricevuto una risposta, le vittime di atrocità si sentono abbandonate, e ciò provoca in loro un’ulteriore disillusione in merito al sistema giudiziario che opera sotto l’egida dei suoi Stati membri.

Durante un’indagine preliminare, l’UPG studia le comunicazioni e le informazioni per decidere se un’inchiesta e un processo possono avere luogo. Il rapporto del procuratore generale include materiale come la fase dell’indagine e i dati che sono stati analizzati. 2 L’UPG non conduce inchieste quando effettua un’indagine preliminare. Procede a un  esame e decide semplicemente se una situazione rientra nei parametri dell’articolo 53 dello Statuto di Roma, che dà luogo a un’inchiesta, salvo che il procuratore generale decida che non ci sono “basi ragionevoli” per procedere. 3 Lo Statuto di Roma non stabilisce un periodo di tempo entro il quale l’UPG debba completare un’indagine preliminare, e può essere presa in considerazione un’ ulteriore informazione dopo che un’indagine è iniziata. Quindi ci possono volere degli anni prima che un’inchiesta sia raccomandata o che l’UPG rinunci a procedere.

Ci sono due critiche che si possono fare alla CPI in base al rapporto. La prima è che la preoccupazione dell’UPG di apparire imparziale ha solo ritardato l’indagine preliminare e ha provocato il fatto che l’UPG sia andato oltre l’ambito delle proprie competenze riguardo alla questione della condizione di Stato sovrano della Palestina, un problema su cui si era concentrato il precedente procuratore generale. Secondo, prendendo in esame i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra israeliani, la CPI potrebbe rivelarsi solo un’ennesima organizzazione internazionale che deluderà i palestinesi perché non agirebbe contro Israele e non lo obbligherebbe a rendere conto [dei propri crimini].

Il rapporto dell’UPG e la questione della condizione di Stato sovrano

Vale la pena ricordare che, dopo il 2009, quando l’Autorità Nazionale Palestinese per la prima volta ha sottoposto alla CPI una denuncia relativa all’articolo 12 (3), in cui si dichiara l’accettazione della giurisdizione della Corte, l’UPG ha eluso un’indagine preliminare sulla Palestina perché non la considerava uno “Stato”. Nel primissimo rapporto sulle attività di indagine preliminare del 2011 l’UPG ha scritto che era necessaria una definizione sulla condizione di Stato sovrano della Palestina perché potesse presentare una denuncia. Nel rapporto dell’anno successivo l’UPG ha concluso che solo un’organizzazione internazionale come le Nazioni Unite potrebbe stabilire se la Palestina è uno Stato. Pertanto si è di nuovo rifiutata di procedere con un’indagine preliminare finché questa determinazione non fosse stata fatta.

Questo rinvio è stato duramente criticato, soprattutto perché tra i compiti affidati all’UPG non è compreso il fatto di porre questioni legali in merito alla statualità ai fini della denuncia. Inoltre c’erano altre opzioni a disposizione per decidere se la Palestina potesse presentare una denuncia o persino aderire allo Statuto di Roma, come un rinvio alla Camera Preliminare d’Indagine [che valuta le richieste a procedere dell’Ufficio del procuratore. Ndtr.], che ha l’autorità di emettere una decisione. 4

Una posizione diversa riguardante la condizione di Stato sovrano della Palestina è allora comparsa nel rapporto del 2015. Il procuratore generale Bensouda ha affermato che fosse necessaria una decisione da parte delle Nazioni Unite riguardo allo status della Palestina all’ONU per decidere se potesse aderire allo Statuto di Roma. Ma poi ha scritto che l’UPG aveva deciso che la Palestina poteva presentare una denuncia in base all’articolo 12(3), utilizzando la risoluzione 67/19 dell’assemblea generale dell’ONU come base della decisione. (La risoluzione del 2012 ha elevato lo status della Palestina a livello di osservatore non membro). Tuttavia Bensouda ha anche indicato che la CPI potrebbe ancora discutere della condizione di Stato sovrano sulla base della giurisdizione territoriale o personale.

Tuttavia, come hanno sostenuto molti studiosi ed esperti, l’UPG non ha la potestà di prendere una decisione tale come definire la condizione di Stato sovrano. Invece di proclamare che la Palestina è uno Stato e di conseguenza può presentare una denuncia in base all’articolo 12(3) o aderire allo Statuto di Roma, l’UPG avrebbe potuto arrivare alle conclusione che la Palestina può presentare una denuncia perché riunisce i prerequisiti stabiliti dall’articolo 12 dello Statuto di Roma. Quest’articolo consente a un membro non statale di autorizzare la CPI ad esercitare la propria giurisdizione per un crimine che ricade sotto la materia di competenza della CPI. In sostanza, sostenere che la Palestina possa agire come se fosse uno Stato ai fini di una denuncia ex art. 12(3) va oltre la limitata competenza dell’UPG.

E’ possibile che il pronunciamento dell’UPG sulla condizione di Stato sovrano della Palestina sia stato un tentativo in buona fede di Bensouda per rimediare all’inutile operazione iniziata dal precedente procuratore generale. Tuttavia tale pronunciamento indica anche una debolezza dell’UPG, soprattutto una preoccupazione di apparire imparziale. Facendo questa dichiarazione, l’UPG ha operato una compensazione eccessiva ed è andato oltre le sue competenze, piuttosto che accettare che la Palestina potesse presentare una denuncia in base all’articolo 12(3) perché risponde ai criteri richiesti dall’articolo 12. Questa preoccupazione probabilmente continuerà a impedire che l’UPG possa completare efficacemente un’indagine.

I crimini israeliani e la giurisdizione dell’UPG

Il rapporto del 2015 è comunque un passo positivo in quanto i materiali che documentano vari crimini in Palestina sono finalmente oggetto di considerazione. L’UPG si trova attualmente nella seconda fase dell’esame, durante la quale deve stabilire se ci sono crimini che ricadono sotto la competenza giurisdizionale della CPI – specificamente crimini di guerra e contro l’umanità.

I crimini contro l’umanità sono definiti dall’articolo 7 dello Statuto di Roma. Molte tipologie di fatti sono incluse in questa definizione, però la descrizione delle intenzioni in base alle quali vengono commessi è specifica. Mentre la definizione può includere molte violazioni da parte di Israele, la loro definizione è lasciata all’UPG. I crimini di guerra, in base all’articolo 8, sono delineati in modo più ampio e riguardano un conflitto armato, gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra o violazioni delle leggi e delle consuetudini di guerra.

L’UPG ha indicato nel rapporto che sta rivedendo informazioni concernenti eventuali crimini commessi a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est sia dai gruppi armati palestinesi che dalle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano. Ndtr.]. Sta prendendo in considerazione l’indiscriminato lancio di razzi e proiettili di mortaio verso Israele da parte di gruppi armati palestinesi, attacchi lanciati da aree civili, l’uso di luoghi civili per fini militari e l’esecuzione di palestinesi che avrebbero collaborato con Israele. L’UPG sta anche esaminando materiale riguardante crimini commessi dalle Forze di Difesa Israeliane a Gaza durante l’attacco del 2014 contro la Striscia, come attacchi diretti contro edifici residenziali civili e infrastrutture, così come contro edifici dell’ONU, ospedali e scuole. Queste accuse includono bombardamenti contro aree civili assai densamente abitate come Ash-Shuja‘iyeh e Khaza’a.

Non si sa se l’UPG arriverà alla conclusione che questi crimini – in particolare crimini contro l’umanità –  ricadono sotto la sua competenza giurisdizionale. Per esempio, alcuni dei crimini contro l’umanità in questione, come l’apartheid, sono problemi inediti, cioè questioni legali senza precedenti per la CPI. Ciò significa che la CPI non ha precedenti a cui attingere, rendendo l’esito imprevedibile.

Il procuratore capo Bensouda ha anche indicato che l’UPG ha informazioni riguardanti la violenza dei coloni, il trattamento dei palestinesi nelle prigioni israeliane e i tribunali militari. Questi non necessariamente potrebbero costituire crimini contro l’umanità e quindi non ricadrebbero sotto la giurisdizione della CPI. Peraltro le informazioni riguardo al sistema giudiziario israeliano potrebbero sia dare un impulso a un intervento della CPI, sia portare a un giudizio secondo cui il sistema giudiziario israeliano è in grado di condurre correttamente dei processi. Poiché la CPI è un tribunale di ultima istanza, uno dei suoi obiettivi è incoraggiare i procedimenti giudiziari nazionali. Se l’UPG decidesse che Israele può giudicare in modo corretto questi crimini, allora  potrebbe anche concludere che l’UPG non  ha bisogno di procedere con un’inchiesta – e Israele non sarà di nuovo chiamato a risponderne. 5

La stessa CPI a giudizio

Il vantaggio di avere un’istituzione giudiziaria come la CPI è che garantisce alle vittime di crimini atroci di lunga durata la possibilità di presentare una denuncia. La condanna dell’ex dirigente politico serbo bosniaco Radovan Karadžić nel marzo 2016 per crimini di guerra commessi contro i musulmani bosniaci è un monito circa le potenzialità dei tribunali penali internazionali. La Palestina sembra essere la prova definitiva per stabilire se la CPI deve continuare ad essere una sede per evitare l’impunità e rendere responsabili i colpevoli ai più alti livelli, o se è destinata a fallire perché si piega alle ingerenze politiche.

Benché meno della metà dei rifugiati palestinesi creda che la CPI rappresenterà una soluzione durevole, l’UPG è tenuto a continuare la sua indagine preliminare sulla Palestina. Se identificherà crimini potenziali come l’apartheid o persino il trattamento dei minori nei tribunali militari, ma non gli darà seguito, i palestinesi rimarranno senza risorse e gli verrà ricordato quanto le organizzazioni internazionali siano inefficaci nel trovare una giusta soluzione al conflitto. Ciò che è peggio, Israele continuerà ad agire impunemente. Ma se la CPI utilizzerà la legge come strumento per cambiare e metterà in pratica il principio della responsabilità nazionale, non sarà solo un importante successo per i palestinesi. Sarà anche un successo per la CPI in quanto sarà la prova delle sue prerogative e capacità di non essere influenzata da pressioni esterne.

Le organizzazioni palestinesi e della giustizia internazionale dovrebbero continuare a controllare il lavoro della CPI e dell’UPG, tendendo sotto osservazione come vengono prese le decisioni. I funzionari palestinesi devono anche continuare a considerare la CPI come un’istituzione non politicizzata ed evitare la tentazione di utilizzarla come un mezzo per riaffermare la propria condizione di Stato sovrano. 6  Nonostante la sua attitudine a farsi condizionare dalla politica, c’è ancora la speranza che la Corte possa chiedere conto ai dirigenti israeliani dei loro crimini – benché un simile risultato potrebbe richiedere molti anni. Essendo  la Palestina impegnata in un lungo viaggio con la CPI, si spera che sia verso una giusta meta.

Notes:

  1. L’autrice intende ringraziare Valentina Azarova per la sua competenza e assistenza in questo lavoro, così come Linda Carter e Osamah Khalil per il loro tutoraggio e appoggio.
  2. Ci sono quattro fasi in un’indagine preliminare: esame delle informazioni ricevute; decisione se i crimini identificati ricadano o meno sotto la competenza giurisdizionale della CPI; decisione se un caso è ammissibile; conclusione se debba essere avviata un’inchiesta “nell’interesse della giustizia”.
  3. L’articolo 53 (1) (dalla a alla c) dello Statuto di Roma dispone il contesto giuridico delle indagini preliminari. Per maggiori informazioni sul quadro legale e sulle limitazioni riguardo alle indagini preliminari, vedere l’articolo di politica di Valentina Azarova “Giorno della Palestina alla Corte? Gli effetti imprevisti dell’azione della CPI,” su Al-Shabaka, 1 aprile 2015.
  4. La denuncia ex articolo 12(3) è una concessione di giurisdizione che si applica al crimine in questione e non richiede la condizione di Stato sovrano per aderito allo Statuto di Roma.
  5. Un esempio recente della decisione di un tribunale israeliano è la mancata incriminazione di un colonnello che aveva dato istruzioni alla sua unità di bombardare una clinica  a Ash-Shuja‘iyeh [nella Striscia di Gaza, durante “Margine protettivo”. Ndtr.] come rappresaglia per la morte di un membro del suo reparto.
  6. Come ha scritto Valentina Azarova, “gli interessi della Palestina sono meglio tutelati se non si fraintende la CPI come se fogge uno strumento politico, ma piuttosto tentando di depoliticizzare l’esame della situazione della Palestina da parte della CPI. Si dovrebbe definire una posizione comune, informata e pubblica sul significato della CPI in quanto meccanismo imparziale il cui scopo è assicurare il servizio fondamentale della giustizia.”

Sarah Kanbar

Sarah Kanbar ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nel 2016 presso l’università del Pacifico,  alla Scuola di Diritto McGeorge, con una specializzazione in studi di diritto internazionale. Nella facoltà di legge Sarah ha fatto il praticantato presso l’ufficio del Consiglio Legislativo della California e nell’ufficio del Difensore d’Ufficio federale. Ha ottenuto la laurea in Storia presso l’università della California, Berkeley, concentrandosi sul rapporto tra gli Stati Uniti e il Medio Oriente. Sarah aveva pubblicato in precedenza “Rooted in Our Homeland: The Construction of Syrian American Identity” [Radicati nella nostra patria: la costruzione dell’identità siro-americana. Ndtr.] nella rivista American Multicultural Studies (Sage, 2012) [“Studi multiculturali americani”. Ndtr.] e articoli su Muftah e Kalimat Magazine.

 




Israele teme la presenza al suo interno degli ebrei ‘del deserto’

Countercurrents —di Jonathan Cook —23 giugno 2016

La scorsa settimana, con una mossa poco pubblicizzata, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha vietato l’ingresso in Israele di un funzionario vicino al presidente palestinese Mahmoud Abbas. Mohammed Madani è accusato di “attività sovversive” e “terrorismo politico.”

Vale la pena di riflettere sui suoi delitti, come li ha definiti Lieberman. Essi suggeriscono che il conflitto di Israele con i palestinesi sia radicato non tanto nei problemi di sicurezza, quanto piuttosto nel colonialismo europeo.

Nel suo ruolo di presidente del comitato palestinese per l’interazione con la società israeliana, Madani ha ovviamente utilizzato le sue visite in Israele per incontrare ebrei israeliani, ma ha scelto quelli sbagliati.

Ha tentato di iniziare un dialogo con quelli che in Israele sono noti come i “mizrahim”, israeliani discendenti dagli ebrei che sono emigrati dagli Stati arabi in seguito alla creazione di Israele nel 1948. Oggi questi ebrei arabi rappresentano circa la metà della popolazione di Israele. E’ noto che Abbas è intenzionato a stringere rapporti con loro.

La maggior parte dei dirigenti del Paese si identificano come ebrei europei, o ashkenaziti. Fin dall’inizio, questa elite europea ha diffidato degli ebrei arabi, visti come una popolazione “arretrata” che avrebbero potuto compromettere la pretesa di Israele di essere un avamposto dell’Occidente civilizzato in Medio oriente.

Ma, più specificamente, gli ashkenaziti temevano che un giorno gli ebrei arabi potessero fare un’alleanza politica con la popolazione nativa, i palestinesi. Allora gli ashkenaziti si sarebbero trovati in minoranza. I mizrahi, che provengono da Paesi tanto diversi come Marocco ed Iran, avevano molte più cose in comune con i palestinesi che con gli europei, arrivati di recente.

Originariamente i fondatori di Israele non avevano intenzione di includere gli ebrei arabi nel loro progetto di costruzione della Nazione. Furono obbligati a riconsiderare la questione solo perché il genocidio di Hitler in Europa li privò di un numero sufficiente di ebrei ‘civilizzati’.

Gli archivi rivelano che Israele organizzò buona parte dell’emigrazione degli ebrei arabi, inducendoli con false promesse o mettendo in atto attentati interni per fomentare sospetti nei loro confronti nei loro Paesi d’origine. Erano visti come manodopera a buon mercato, per sostituire i palestinesi che erano stati espulsi.

David Ben Gurion, un polacco che diventò il primo capo del governo, descrisse i mizrahi in termini esclusivamente negativi, come “gentaglia” e “polvere umana”. Essi erano “un prodotto del deserto.” Gli immigranti mizrahi furono sottoposti ad un programma di “de-arabizzazione”, la loro presunta arretratezza venne trattata non diversamente dalle malattie che si supponeva si portassero dietro. Furono ricoperti di DDT sui voli verso Israele.

I documenti mostrano che l’esercito discuteva animatamente se i nuovi coscritti ebrei arabi fossero mentalmente ritardati, facendone casi senza speranza, o semplicemente primitivi, una condizione che avrebbe potuto essere sradicata con il tempo.

Secondo Ben Gurion, la lotta di Israele era “contro lo spirito del Levante, che corrompe individui e società…Non vogliamo che gli israeliani diventino arabi,”

Questa missione era diventata più ardua perché, nonostante una campagna aggressiva di espulsione nel 1948, Israele includeva ancora una significativa popolazione di palestinesi che erano diventati cittadini.

Israele li tenne separati dai mizrahi attraverso la segregazione, comunità e sistemi educativi separati. Ai bambini mizrahi venne proibito di parlare arabo nelle loro scuole ebraiche, e si fece in modo che si vergognassero dell’arretratezza dei loro genitori.

Ci furono sempre quelli che resistettero agli stereotipi negativi. Negli anni ’70 alcuni organizzarono persino una versione locale delle “Pantere nere”, prendendo il nome dal gruppo militante afro-americano negli Stati uniti e riecheggiando le loro richieste per un cambiamento rivoluzionario.

Oggi è una storia vecchia. Un piccolo numero di mizrahi si è unito nell'”Arcobaleno democratico”, che si concentra sulla giustizia sociale per gli ebrei arabi. Altri hanno trovato conforto nel fondamentalismo religioso.

Molti altri ancora hanno interiorizzato l’odio per se stessi coltivato nei loro confronti dallo Stato. Molti ora votano per l’estrema destra, compreso il Likud di Benyamin Netanyahu, il rivale ufficiale dei padri fondatori del partito laburista.

Il programma zelantemente antipalestinese del Likud ha dimostrato di essere attraente. L’allarme di Netanyahu durante le elezioni, secondo cui “gli arabi stanno andando in massa a votare”, ha mobilitato i votanti mizrahi attorno al Likud e probabilmente lo hanno riportato al potere.

Mizrahi che odiano i palestinesi e che scandiscono “Morte agli arabi” si vedono ogni fine settimana sulle gradinate del principale club di pallone di Gerusalemme.

Uno di loro, Elor Azaria, un medico militare israeliano, ha messo in pratica lo slogan dei tifosi. In marzo è stato ripreso da una videocamera in una via di Hebron mentre giustiziava un palestinese steso a terra ferito. Netanyahu e Lieberman gli hanno offerto il loro appoggio.

Tuttavia ashkenaziti più “moderati, compreso il comandante dell’esercito, hanno preso le distanze da Azaria, temendo il danno che la sua azione molto pubblicizzata avrebbe potuto causare alle credenziali “occidentali” di Israele.

Ma il loro odio nei confronti di tutto ciò che è arabo non è meno intenso di quello dei fondatori del Paese.

La scorsa settimana un gruppo di ex-generali dell’esercito e politici ashkenaziti che appoggiano la soluzione dei due Stati ha diffuso un video. Hanno ipotizzato lo “scenario da incubo” dei palestinesi che mettono via le loro armi e vanno ai seggi per eleggere uno di loro come sindaco di Gerusalemme.

E’ stato proprio questo tipo di “terrorismo politico” che ha portato la scorsa settimana Lieberman a bandire Madani da Israele. Con gli ebrei arabi dalla parte dei palestinesi, al conflitto con Israele si potrebbe porre fine nelle cabine elettorali. Ora che potrebbe essere veramente sovversivo.

Jonathan Cook ha vinto il premio speciale “Martha Gellhorn per il giornalismo” [premio inglese per i giornalisti che scrivono in lingua inglese. Ndgr.]. I suoi ultimi libri sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridisegnare il Medio oriente”] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti di Israele nella disperazione umana”] (Zed Books).

(traduzione di Amedeo Rossi)

** Per un approfondimento della questione si veda il libro  di Ella Shoat “Le vittime ebree del sionismo”  a cura di Cinzia Nachira , 2015 edizione Q, Roma

 




Che cosa ci fanno i coloni alla “Marcia per l’Uguaglianza”?

+972 – 20 giugno 2016

di Haggai Matar

I coloni israeliani godono di bilanci preferenziali e sussidi, e giocano un ruolo fondamentale in un sistema di segregazione e espropriazione. Chi gli ha permesso di unirsi alla “Marcia per l’Uguaglianza” con le comunità di Israele più trascurate e svantaggiate?

Questa settimana attivisti sociali israeliani e dirigenti di amministrazioni locali hanno iniziato una marcia verso Gerusalemme, la “Marcia per l’Uguaglianza”, per chiedere uguaglianza nei finanziamenti pubblici per i servizi sociali ed educativi nelle loro trascurate comunità delle aree economicamente e geograficamente periferiche di Israele.

Mentre i manifestanti avanzavano lungo la strada dal deserto del Negev verso Gerusalemme, sono stati raggiunti da alcuni membri della Knesset [il Parlamento israeliano. Ndtr. ], dal capo del più importante sindacato del Paese e da altri.

La lotta in merito ai finanziamenti per l’educazione ed il sistema di welfare destinati alle comunità svantaggiate di Israele è importante e giusta. Anche l’idea di una manifestazione inclusiva, che promuova l’unità tra residenti di comunità periferiche disperse, è ottima. Una tale lotta merita tutto il nostro appoggio.

C’è solo un problema: la partecipazione dei coloni. Tra i partecipanti all’iniziativa, che comprende i sindaci di due delle città israeliane più impoverite, Rahat e Netivot (rispettivamente, un Comune beduino e una cittadina in maggioranza composta da mizrahi [ebrei di origine araba. Ndtr.]), c’erano i dirigenti dei governi locali delle colonie Binyamin, Gush Etzion e delle colline a sud di Hebron, in Cisgiordania. I dirigenti delle colonie non sono arrivati per esprimere solidarietà con le più deboli comunità israeliane, ma piuttosto per cercare e trovare spazio per loro stessi dietro lo striscione impugnato dalle città ignorate e oppresse della periferia israeliana.

La loro partecipazione solleva tre domande inquietanti: in primo luogo, di quale discriminazione nella destinazione dei fondi pubblici soffrono le colonie della Cisgiordania? (Non parlo degli insediamenti degli ortodossi. Le colonie degli ultra-ortodossi effettivamente patiscono di gravi carenze nei finanziamenti). Solo ieri il governo ha approvato il trasferimento di ulteriori 82 milioni di shekel [ quasi 19 milioni di €] agli insediamenti della Cisgiordania, oltre ai 340 milioni [più di 78 milioni di €] che sono stati promessi come parte di un accordo di coalizione.

E si tratta di un’integrazione al bilancio normalmente destinato alle colonie. Questa settimana l’istituto di ricerca “Molad” [gruppo di analisti israeliano di tendenza progressista. Ndtr.] ha evidenziato che i servizi pre-scolastici nelle colonie delle colline di Hebron ricevono per bambino migliaia di shekel in più rispetto a quanti sono destinati ad Ashkelon e ad Ashdod, città all’interno della Linea Verde (confine tra Israele e Cisgiordania prima del ’67. Ndtr.] considerate periferiche. Molad nota che i fondi del governo per lo sviluppo, l’alimentazione e l’agricoltura sono più consistenti negli insediamenti, e in generale il governo investe il 28% in più per un colono della Cisgiordania che per un residente in Galilea [nel nord di Israele. Ndtr.] ( e ciò escludendo i costi aggiuntivi per le spese della sicurezza negli insediamenti della Cisgiordania).

Un altro esempio: il centro Adva [centro indipendente di studi politici di Tel Aviv. Ndtr.] ha scoperto che nel 2014 la spesa pro capite di un’amministrazione locale nelle colonie non ortodosse della Cisgiordania è stata superiore a quanto è stato speso nei 15 Comuni considerati economicamente più importanti all’interno della Linea Verde.

Come ha ripetutamente evidenziato Dani Gutwein [professore di storia ebraica all’università di Haifa, Ndtr.], anche nella sua serie video “Il piatto d’argento” [documentari della rete televisiva israeliana “Canale 8”. Ndtr.], gli insediamenti sono un’alternativa, che Israele ha creato al di fuori dei propri confini, allo Stato sociale. Negli insediamenti le case costano meno, gli investimenti pubblici nell’edilizia e nello sviluppo sono molto più alti e i servizi fondamentali, come i trasporti pubblici, sono sovvenzionati ad un livello significativamente superiore. I servizi pubblici che stanno scomparendo all’interno di Israele abbondano dall’altra parte della Linea Verde.

Uguaglianza sotto un regime militare

A livello più basilare, se prendiamo in considerazione la situazione al di fuori del contesto, ci dovremmo rallegrare che il governo stia ancora investendo nei settori tipici dello Stato sociale, ma questo ci porta alla seconda domanda: quale posto hanno, in una manifestazione per l’uguaglianza, i dirigenti di una classe privilegiata in un regime militare separato in base alla “razza”*? Unendosi alla marcia, i dirigenti delle colonie stanno cercando di rendere normale la propria posizione nella società israeliana, per presentare se stessi semplicemente come un qualunque governo locale delle comunità israeliane, che per caso si trova fuori dai confini dello Stato ed è illegittimo in base alle leggi internazionali. Cercano di eliminare il fatto che la loro stessa esistenza gioca un ruolo attivo nella quotidiana espropriazione dei palestinesi e nella perpetuazione di sistemi giuridici paralleli, uno per gli ebrei e uno per gli arabi.

Mentre i sindaci delle città ebraiche del Negev potrebbero voler marciare insieme a quelli delle vicine cittadine arabe di Hura e Rahat, non si vedrebbero i capi del consiglio dei coloni delle colline a sud di Hebron marciare insieme agli abitanti palestinesi di Susya, sottoposti al regime militare israeliano, in cui loro giocano un ruolo attivo. In virtù della loro partecipazione, i rappresentanti dei coloni hanno apposto un piccolo asterisco sullo striscione della marcia per l’uguaglianza, una nota a pié di pagina che dice: “Uguaglianza, ma non per i palestinesi dei territori occupati.”

Il capo del consiglio regionale dell’insediamento di Shomron, Yossi Dagan, ha enunciato molto chiaramente questo approccio discriminatorio in un editoriale di “Ynet” [sito web di notizie del giornale israeliano “Yedioth Aharonot’. Ndtr.] del lunedì, edizione in ebraico: “Un bambino è un bambino e merita le stesse opportunità, che sia nato a Tel Aviv, a Karnei Shomron o a Taibe.” (Karnei Shomron è una colonia in Cisgiordania, Taibe è una città araba all’interno di Israele).

Certo, ci dovrebbe essere parità di diritti per i bambini di Tel Aviv, Karnei Shomron e Taibe, per quel che riguarda Dagan; ma non per i bambini di Burkin, Nablus o Deir Istiya, città e villaggi palestinesi che soffrono quotidianamente a causa dell’esistenza dell’insediamento che lui guida – per qualche ragione loro rimangono esclusi. E’ qui che Dagan traccia il limite, e si porta dietro tutta la manifestazione per l’uguaglianza.

Perciò, cosa ci fanno i coloni alla manifestazione? Cercano una legittimazione per se stessi. Si stanno ritagliando alleanze con attivisti sociali e sindaci di comunità che effettivamente sono prive di servizi e discriminate, infiltrandosi in una lotta sociale nel tentativo di annullare le differenze tra loro e la reale periferia economica e sociale in Israele.

E questo ci porta alla nostra terza domanda: perché lasciare che si uniscano alla manifestazione? Perché il sindaco di Sakhnin, una grande città araba in Israele, è disposto ad andare insieme a loro? Perché il sindaco di Yerucham, un pacifista del partito laburista, è d’accordo? Perché il “movimento delle periferie” sta marciando con loro, mano nella mano?

Non auguro altro che il successo per la “marcia per l’uguaglianza”, ma fatela senza i coloni.

*i traduttori di Zeitun non condividono l’uso del termine “razza”, ma per rispettare l’opinione dell’autore hanno deciso di mantenere la definizione originale.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La “preghiera per la pioggia” della Palestina:in che modo Israele usa l’acqua come un’arma da guerra.

 

di Ramzy Baroud

Ma’an News – 22 giugno 2016

Intere comunità anche in Cisgiordania non hanno accesso all’acqua o hanno avuto una riduzione di circa la metà della fornitura.

Questo sviluppo allarmante è durato per settimane, da quando l’impresa idrica nazionale di Israele, “Mekorot”, ha deciso di interrompere, o ridurre in modo significativo, le sue forniture d’acqua a Jenin, Salfit e a molti villaggi attorno a Nablus, tra le altre zone.

Secondo il primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese Rami Hamdallah, Israele ha intrapreso una “guerra dell’acqua” contro i palestinesi. L’ironia della vicenda risiede nel fatto che quella fornita da “Mekorot” è in realtà acqua palestinese, di cui Israele si è ingiustamente appropriato, proveniente dalle riserve acquifere della Cisgiordania. Mentre gli israeliani, comprese le colonie illegali in Cisgiordania, ne usano la grande maggioranza, i palestinesi ricomprano la loro stessa acqua a prezzi alti.

Riducendo le forniture idriche in un momento in cui i funzionari israeliani stanno progettando di esportare acqua essenzialmente palestinese, Israele ancora una volta sta utilizzando l’acqua come una forma di punizione collettiva.

Non è certo una novità. Ricordo ancora la preoccupazione nella voce dei miei genitori tutte le volte che temevano che la fornitura d’acqua stesse raggiungendo un livello pericolosamente basso. Si trattava di una discussione pressoché quotidiana in casa mia. Ogni volta che scoppiavano scontri tra ragazzini che lanciavano pietre e le forze di occupazione israeliane nei dintorni del campo di rifugiati, noi correvamo istintivamente sempre a riempire i pochi secchi d’acqua e bottiglie che avevamo sparsi in giro per la casa.

Questo accadeva durante la prima Intifada, o rivolta, palestinese scoppiata nel 1987 nei Territori Palestinesi Occupati.

Ogni volta che scoppiavano incidenti, una delle prime azioni messe in atto dall’amministrazione civile israeliana (una denominazione meno sinistra per indicare gli uffici dell’esercito di occupazione israeliano) era punire collettivamente l’intera popolazione di qualsiasi campo di rifugiati si ribellasse.

Le misure prese dall’esercito israeliano divennero copiose, anche se con il tempo si fecero sempre più vendicative: un rigido coprifuoco militare (che significava la chiusura dell’intera zona e il confinamento di tutti gli abitanti nelle loro case, sotto minaccia di morte); l’interruzione della corrente elettrica e la riduzione delle forniture idriche. Ovviamente, queste misure venivano prese solo nella prima fase della punizione collettiva, che durava per giorni o settimane, a volte persino mesi, punendo qualche campo di rifugiati fino alla fame. Poiché c’era poco che i rifugiati potessero fare per sfidare l’autorità di un esercito ben armato, essi investivano ogni loro magra risorsa o tempo a disposizione per ingegnarsi a sopravvivere.

Di qui l’ossessione per l’acqua, perché una volta che la fornitura era interrotta, non c’era niente da fare; tranne, naturalmente, la “Salat Al-Istisqa”, ossia la “Preghiera per la pioggia” che i musulmani osservanti invocano durante i periodi di siccità. Gli anziani del campo insistevano sul fatto che funzionasse davvero, e riportavano storie miracolose del passato, quando questa speciale preghiera aveva dato risultati durante l’estate, quando c’era meno da aspettarsi che piovesse.

In effetti molti più palestinesi che in ogni altra epoca hanno invocato la pioggia nelle loro preghiere dal 1967. Quell’anno, circa 49 anni fa, Israele ha occupato le due regioni rimanenti della Palestina storica: la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza. E durante quegli anni, Israele ha fatto ricorso ad una costante politica di punizioni collettive, limitando ogni sorta di libertà e utilizzando il rifiuto di fornire l’acqua come un’arma.

In effetti l’acqua è stata utilizzata come un’arma per soggiogare i palestinesi ribelli durante molte fasi della loro lotta. Di fatto questa storia risale alla guerra del 1948, quando le milizie sioniste hanno interrotto le forniture di acqua a moltissimi villaggi palestinesi attorno a Gerusalemme per permettere la pulizia etnica di quella regione.

Durante la “Nakba” (o “Catastrofe”) del 1948, ogni volta che un villaggio o una cittadina venivano conquistati, le milizie distruggevano immediatamente i suoi pozzi per impedire agli abitanti di tornare. Oggi gli illegali coloni israeliani utilizzano ancora questa tattica.

Anche l’esercito israeliano ha continuato ad utilizzarla, soprattutto durante la prima e la seconda rivolta. Nel corso della seconda Intifada, gli aerei israeliani hanno bombardato il sistema idrico di qualunque villaggio o campo di rifugiati che avevano progettato di invadere e sottomettere. Durante l’invasione del campo di rifugiati di Jenin ed il massacro dell’aprile 2002, le forniture di acqua del campo sono state fatte saltare in aria prima che i soldati entrassero nel campo da ogni direzione, uccidendo e ferendo centinaia di persone.

Gaza rimane finora l’esempio più estremo di punizione collettiva riguardante l’acqua. Durante la guerra è stato preso di mira non solo il sistema idrico, ma anche i generatori di elettricità utilizzati per purificare l’acqua sono stati fatti saltare in aria dal cielo. E finché sarà in vigore l’assedio decennale, ci sono poche speranze di riparare in modo permanente entrambi.

C’è ormai una consapevolezza condivisa del fatto che gli accordi di Oslo siano stati un disastro politico per i palestinesi; è tuttavia meno noto come Oslo abbia facilitato l’attuale crescente diseguaglianza in Cisgiordania. Il cosiddetto “Oslo II”, o accordo interinale israeliano-palestinese del 1995, ha separato il sistema idrico di Gaza dalla Cisgiordania, lasciando così alla Striscia lo sviluppo delle sue fonti di acqua situate all’interno dei confini. Con l’assedio e le periodiche guerre le falde acquifere producono in totale tra il 5 e il 10% dell’acqua potabile. Secondo l’ANERA [ong statunitense che si occupa di interventi umanitari in Medio Oriente. Ndtr.], il 90% dell’acqua di Gaza “non è idonea per il consumo umano.”

Pertanto la maggior parte dei gazawi sopravvive con acqua inquinata dagli scarichi o non potabilizzata. Ma la Cisgiordania dovrebbe, per lo meno teoricamente, godere di un maggior accesso all’acqua rispetto a Gaza. Eppure non è così. La più grande risorsa idrica della Cisgiordania è l'”Acquifero montano”, che include una serie di bacini: settentrionale, occidentale e orientale. La disponibilità di questi bacini da parte degli abitanti della Cisgiordania è limitata da Israele, che nega loro anche l’accesso alle acque provenienti dal fiume Giordano e all'”Acquifero costiero”. “Oslo II”, che era stato pensato come un accordo temporaneo fino al termine dei negoziati per lo status definitivo, ha sancito l’attuale disparità, concedendo ai palestinesi meno di un quinto della quantità di acqua di cui gode Israele.

Ma neppure questo accordo sfavorevole è stato rispettato, in parte perché il comitato congiunto [tra l’ente di controllo israeliano e quello palestinese. Ndtr.] sulla questione dell’acqua concede ad Israele il diritto di veto sulle richieste palestinesi. Praticamente, ciò si traduce nel fatto che il 100% di tutti progetti idrici israeliani ricevono l’approvazione, compresi quelli nelle colonie illegali, mentre circa metà delle richieste palestinesi viene rifiutata.

Attualmente, secondo Oxfam [confederazione di ong internazionali. Ndtr.] Israele controlla l’80% delle risorse idriche palestinesi, mentre “i 520.000 coloni israeliani utilizzano circa sei volte la quantità di acqua rispetto a quella che utilizzano i 2.6 milioni di palestinesi della Cisgiordania.”

Secondo Stephanie Westbrook, che ha scritto sulla rivista israeliana “972”, i motivi che stanno dietro tutto ciò sono evidenti,: “L’impresa che fornisce l’acqua è ‘Mekorot’, l’azienda idrica nazionale israeliana. Non solo ‘Mekorot’ gestisce più di 40 pozzi in Cisgiordania, appropriandosi delle risorse idriche palestinesi, ma in pratica Israele controlla anche le valvole di derivazione, decidendo chi ha l’acqua e chi no.”

“Non c’è da sorprendersi che la priorità venga data alle colonie israeliane mentre il servizio alle città palestinesi è regolarmente ridotto o interrotto,” come in questo momento.

L’ingiustizia di tutto ciò è inoppugnabile. Infatti per circa cinque decenni Israele ha messo in atto le stesse politiche contro i palestinesi senza molte proteste o misure significative da parte della comunità internazionale.

Con le temperature di quest’estate in Cisgiordania, arrivate a 38°, secondo quanto riportato famiglie intere vivono con appena 2-3 litri a testa al giorno. Il problema sta raggiungendo proporzioni catastrofiche. Questa volta la tragedia non può essere ignorata, in quanto le vite ed il benessere di intere comunità sono a repentaglio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, autore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia mai raccontata di Gaza.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’acqua è l’unica questione che mette (ancora) in difficoltà Israele con il pretesto della sicurezza e di dio.

di Amira Hass | 22 giugno 2016 | Haaretz

I portavoce israeliani hanno pronte tre risposte da utilizzare quando rispondono alle domande sulla carenza d’acqua nelle città palestinesi della Cisgiordania, che emerge chiaramente rispetto al pieno soddisfacimento idrico delle colonie:

1) Le condutture palestinesi sono vecchie e di conseguenza vi sono perdite d’acqua; 2) i palestinesi si rubano l’acqua tra loro e la rubano agli israeliani; 3) in generale, Israele nella sua grande generosità, ha raddoppiato la quantità d’acqua che distribuisce ai palestinesi in confronto a quella stabilita dagli accordi di Oslo.

Distribuzione”, i portavoce scriveranno nelle loro risposte. Non diranno mai che Israele vende ai palestinesi 64 milioni di m³ d’acqua all’anno invece dei 31 milioni di m³ stabiliti dagli accordi di Oslo. Accordi che sono stati firmati nel 1994 e che era previsto scadessero nel 1999. Non diranno che Israele vende ai palestinesi l’acqua dopo avergliela rubata.

Complimenti per la demagogia. Complimenti per rispondere solo con un ottavo della verità. L’acqua è l’unica questione per cui Israele è (ancora) in difficoltà nel difendere la sua politica discriminatoria, oppressiva e devastante con il pretesto della sicurezza e di dio. Per questo deve confondere e stravolgere questo fatto fondamentale: Israele controlla le risorse idriche. Ed avendone il controllo, impone il contingentamento della quantità di acqua che i palestinesi hanno il permesso di produrre e consumare. In media i palestinesi consumano 73 litri pro capite al giorno. Al di sotto della quantità minima necessaria. Gli israeliani consumano in media 180 litri al giorno, e c’è chi afferma che sono anche di più. E qui, a differenza di là, non troverete migliaia di persone che consumano 20 litri al giorno. D’estate.

Vero, alcuni palestinesi rubano l’acqua. Contadini disperati, i soliti imbroglioni. Se non ci fosse la mancanza d’acqua ciò non accadrebbe. Una gran parte dei ladri sta nell’area C, sotto il pieno controllo di Israele. Per cui, per favore, lasciate all’IDF e alla polizia il compito di trovare tutti i criminali. Ma giustificare la crisi con il furto, questo è un inganno.

Con gli accordi di Oslo, Israele ha imposto una suddivisione vergognosa, razzista , arrogante e brutale delle risorse idriche in Cisgiordania: l’80% agli israeliani (su entrambi i lati della Linea Verde) e il 20 % ai palestinesi ( da pozzi perforati prima del 1967, che i palestinesi continuano a sfruttare; dalla Mekorot, l’azienda idrica, da pozzi da trivellare in futuro dal bacino acquifero montano; da pozzi e da sorgenti per uso agricolo. Tra l’altro, molte sorgenti, si sono prosciugate a causa dei pozzi israeliani troppo profondi o perché i coloni se ne sono impadroniti. Le vie del furto non conoscono confini.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Israele riconosce di aver tagliato le forniture idriche alla Cisgiordania ma incolpa l’Autorità Nazionale Palestinese

Israele sostiene che l’intensa ondata di calore nella regione, insieme al rifiuto dell’Autorità Palestinese per le Acque di approvare un incremento delle infrastrutture ha portato “all’incapacità delle condutture vecchie e insufficienti di far arrivare tutta l’acqua necessaria.”

di Amira Hass – 21 giugno 2016- Haaretz

Dall’inizio di questo mese decine di migliaia di palestinesi hanno patito i pesanti effetti di un drastico taglio nelle forniture idriche della Mekorot, la compagnia israeliana dell’acqua.

Nella regione di Salfit, in Cisgiordania, e in tre villaggi a est di Nablus le abitazioni sono rimaste senza acqua corrente per più di due settimane. Alcune fabbriche hanno chiuso, orti e vivai sono andati in rovina e animali sono morti di sete o sono stati venduti ad allevatori al di fuori delle zone colpite.

La gente ha cercato di arrangiarsi attingendo acqua da pozzi agricoli, comprando acqua minerale o pagando acqua distribuita da grandi cisterne per uso domestico e per innaffiare le loro coltivazioni. Ma procurarsi acqua in questo modo è estremamente dispendioso.

Fonti ufficiali dell’Autorità Palestinese per le Acque hanno affermato ad Haaretz che personale di Mekorot ha detto loro che i tagli nelle forniture dureranno per tutta l’estate. Queste fonti sostengono che gli è stato detto dagli israeliani che c’è una carenza d’acqua e che si deve fare il possibile per garantire che i serbatoi locali di acqua (situati nelle colonie) rimangano pieni in modo da mantenere la pressione necessaria per far scorrere l’acqua attraverso le condutture che portano alle altre colonie ed alle comunità palestinesi.

Impiegati municipali palestinesi affermano che i lavoratori palestinesi dell’Amministrazione civile [in realtà militare, autorità israeliana che governa sui territori occupati. Ndtr.], inviati a regolare le quantità di acqua nelle condutture di Mekorot [compagnia israeliana dei servizi idrici, che fornisce anche i palestinesi. Ndtr.] hanno detto loro che le interruzioni nelle forniture sono state fatte per soddisfare la richiesta di acqua da parte degli insediamenti della zona, in aumento per le alte temperature. Tagli nelle forniture simili ci sono stati lo scorso anno nelle stesse aree, quando avvennero gravi interruzioni del servizio idrico, anche in quel caso durante il Ramadan.

Mekorot non ha voluto rispondere alle domande, indirizzando Haaretz all’Autorità Israeliana delle Acque e al ministero degli Esteri. Uri Schor, portavoce dell’Autorità per le Acque, ha scritto che la quantità di acqua che Israele vende ai palestinesi in tutta la Cisgiordania, compresa la zona di Salfit, è aumentata durante gli anni.

“Si è determinata una carenza idrica sia per israeliani che per palestinesi localizzata nel nord della Samaria a causa del consumo particolarmente elevato dovuto al caldo intenso nella regione,” ha scritto Schor. Ha aggiunto che la carenza è dovuta al fatto che l’Autorità Palestinese delle Acque si rifiuta di approvare un aumento delle infrastrutture idriche in Cisgiordania attraverso il comitato dell’acqua congiunto, “che ha portato all’incapacità delle condutture vecchie e insufficienti di far arrivare tutta l’acqua necessaria nella regione.”

Una fonte della sicurezza israeliana ha detto che anche gli insediamenti [isrealiani] si stanno lamentando della carenza d’acqua.

I palestinesi smentiscono questo ostruzionismo e dicono che l’acqua arriva alle colonie.

Un importante funzionario dell’Autorità Palestinese per le Acque ha negato che il rifiuto palestinese abbia contribuito alla mancanza d’acqua.

“L’Autorità Israeliana sta mentendo all’opinione pubblica,” ha affermato. “Le tubature non necessitano di potenziamento. USAID [agenzia statale USA che si occupa degli aiuti all’estero. Ndtr.], per esempio, ha appena terminato un nuovo condotto a Deir Sha’ar per rifornire la popolazione di Hebron e di Betlemme. Israele dovrebbe aumentare il flusso dalla stazione di pompaggio di Deir Sha’ar e più di mezzo milione di palestinesi riceverebbero la quantità di acqua che gli spetta.

“Peraltro Israele ha proposto un progetto per aumentare la portata di una conduttura che serve le colonie israeliane nella zona di Tekoa, e l’Autorità Israeliana delle Acque sta ricattando l’Autorità Palestinese perché approvi questo progetto in cambio dell’aumento delle forniture dalla stazione di pompaggio di Deir Sha’ar.”

Schor ha fatto l’esempio dei mesi di gennaio-maggio degli ultimi quattro anni, che mostra che quest’anno c’è stato effettivamente un aumento da 2.7 milioni di m³ nel 2013 a 3.48 milioni di m³ della quantità di acqua fornita ai distretti di Salfit e Nablus,.

Ma i dati dell’Autorità Palestinese delle Acque mostrano che nel maggio di quest’anno c’è stato un taglio nelle forniture di acqua alla città di Bidya, con 12.000 residenti, da 50.470 m³ in marzo a 43.440 m³ in maggio. Nel maggio dello scorso anno, Bidya ha ricevuto 45.000 m³.

Nella cittadina di Qarawat Bani Hassan in maggio il consumo è stato superiore a quello di marzo (17.000 m³ rispetto a 15.000 m³), ma nel maggio dell’anno scorso il consumo aveva raggiunto 20.000 m³ e, secondo un funzionario palestinese, non c’è modo di spiegare la riduzione del consumo se non con una caduta delle forniture.

Nel contempo la riduzione delle forniture in giugno è stata molto più netta, fino al 50% all’ora.

Gli accordi di Oslo, che dovevano rimanere in vigore fino al 1999, hanno mantenuto il controllo israeliano sulle fonti idriche della Cisgiordania e sono discriminatorie nella distribuzione dell’acqua. In base agli accordi, Israele riceve l’80% dell’acqua dall’acquifero delle montagne della Cisgiordania, mentre il resto va ai palestinesi. L’accordo non pone limiti alla quantità di acqua che Israele può prelevare, ma impone ai palestinesi un massimo di 118 milioni di m³ dai pozzi esistenti prima degli accordi, e di altri 70 milioni di m³ da nuove perforazioni.

Per varie ragioni tecniche e per imprevisti errori di trivellazione nel bacino orientale dell’acquifero (l’unica parte in cui l’accordo consente ai palestinesi di effettuare perforazioni), in pratica i palestinesi producono meno acqua di quanto stabilito dagli accordi. Secondo B’Tselem [ong israeliana per i diritti umani. Ndtr.], fino al 2014 i palestinesi hanno avuto solo il 14% dell’acqua dell’acquifero. E’ anche per questo che Mekorot sta vendendo ai palestinesi il doppio della quantità di acqua previsto nell’accordo di Oslo, 64 milioni di m³, invece di 31.

Il coordinatore delle attività governative nei territori ha detto: “A causa dell’incremento dei consumi di acqua durante l’estate, è necessario controllare e regolare il flusso per rendere disponibile la maggior fornitura possibile di acqua a tutte le popolazioni. Dato questo problema, il capo dell’Amministrazione Civile ha approvato un regolamento d’emergenza per mettere in funzione la trivella “Ariel 1” e incrementare la quantità di acqua per i residenti della Samaria settentrionale, soprattutto nell’area di Salfit; altri 5.000 m³ di acqua all’ora sono stati approvati anche per le colline di Hebron, a sud.”

Il coordinatore ha anche sottolineato che l’Amministrazione Civile deve lottare contro i furti dalle condutture che arrivano alle comunità palestinesi. Ha detto che solo ieri ha scoperto due furti di acqua dalla conduttura che fornisce l’area di Salfit.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dopo l’attacco di Tel Aviv i palestinesi manifestano poca gioia ma comprendono le ragioni di chi ha sparato

Ogni settimana, centinaia di palestinesi sono soggetti a colpi di arma da fuoco da parte degli israeliani e scappano terrorizzati. Secondo loro quello che hanno provato gli israeliani in questo unico attacco è nulla rispetto a quello che sperimentano ogni giorno.

di Amira Hass | 10 giugno, 2016 |

Haaretz

Wafa, l’agenzia ufficiale di notizie dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina [OLP], ha messo sul suo sito una spettacolare fotografia dei fuochi d’artificio a Gaza in onore del sacro mese musulmano del Ramadan e non per inneggiare all’attacco armato di mercoledì a Tel Aviv. Anche se ci sono stati palestinesi che hanno espresso soddisfazione per l’attacco di fronte alle telecamere che li hanno trovati proprio nel momento e nel luogo giusti, né la soddisfazione né l’appoggio[all’attacco] potrebbero descrivere con precisione i sentimenti della maggior parte dei palestinesi sulla sparatoria.

C’è una generale comprensione riguardo al motivo che ha spinto [ad agire]i due attaccanti della città cisgiordana di Yatta, insieme all’apprezzamento per quello che è apparso il loro coraggio. Vi è anche molta preoccupazione rispetto a quale sarà la risposta di Israele.

L’agenzia Wafa ha anche pubblicato una condanna dell’attacco proveniente dall’ufficio del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas. Sicuramente gli israeliani non si accontenteranno di questo, mentre allo stesso tempo i palestinesi si arrabbiano per la sua equidistanza. “L’ufficio di presidenza ha espresso la sua ripetuta condanna di ogni azione da qualunque parte provenga che prenda di mira i civili indipendentemente da quello che potrebbero essere le motivazioni,” afferma il comunicato. Ha anche affermato che la creazione di un clima positivo e la realizzazione di una giusta pace potrebbero garantire la sicurezza dei civili.

L’opposizione di Abbas a qualsiasi escalation ha avuto un riflesso concreto. Per esempio, le sue forze di sicurezza stanno arrestando e imprigionando gli attivisti che non sono stati arrestati da Israele e che hanno guidato le manifestazioni contro il muro di separazione a Betlemme. Di conseguenza sono cessati gli scontri in uno dei punti più caldi. Ma con questo suo comunicato moderato, Abbas ha evidentemente cercato di evitare di urtare la suscettibilità del suo pubblico.

Il suo partito Fatah non ha potuto condannare l’attacco di Tel Aviv. Un comunicato dell’organizzazione ha definito la sparatoria “una risposta individuale e naturale” alla violenza dello Stato israeliano. Un portavoce ha spiegato che per “violenza dello Stato” si intendeva la politica delle demolizioni delle case e lo sradicamento dei palestinesi dalle loro comunità, le “irruzioni dei coloni” sulla spianata delle moschee di Al-Aqsa a Gerusalemme e “gli omicidi a sangue freddo di palestinesi ai checkpoint”.

Da parte sua il movimento Hamas ha elogiato l’attacco, mentre il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [FPLP] lo ha definito un punto di svolta nell’attuale intifada e una condivisibile reazione al gran numero di palestinesi uccisi da Israele. Riferendosi al luogo dell’attacco di Tel Aviv, avvenuto di fronte al Ministero della difesa, [il FPLP] ha detto che si è trattato di una sfida al nuovo ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, e che è la conferma che la lotta armata è il modo migliore per garantire i diritti dei palestinesi.

Il comunicato del Fronte Popolare si avvicina allopinione prevalente nell’opinione pubblica palestinese rispetto alle posizioni di Abbas o di Fatah, come riportato dal sondaggio pubblicato questa settimana dal Palestinian Center for Policy and Survey Research [Centro palestinese di ricerca e analisi politica]. Il sondaggio ha rivelato che il 58% degli intervistati (il 68% nella Striscia di Gaza e il 52% in Cisgiordania) è convinto che la rivolta degli attacchi individuali esplosa a ottobre, caratterizzata in prevalenza da attacchi all’arma bianca e che si sta trasformando in un’intifada armata, potrebbe essere più utile agli interessi nazionali palestinesi rispetto ai negoziati con Israele.

L’appoggio agli attacchi all’arma bianca è diminuito. Solamente il 36% degli intervistati nella Cisgiordania è solidale. Nella più lontana Gaza, invece, gli attacchi all’arma bianca sono stati appoggiati dal 75% degli intervistati.

In altre parole, vi è un ampio sostegno a parole da parte di coloro che sono lontani e che non sono coinvolti, mentre quelli che possono agire sono restii a farlo.

L’uso delle armi conserva nelle analisi e nelle dichiarazioni la propria aura quale punto più alto della lotta nazionale contro l’occupazione israeliana. Ma né il FPLP, né Hamas o Fatah hanno cercato o osato trasformare l’escalation dell’anno scorso in una lotta armata, perché non possono oppure sanno che fallirebbe, o che la gente non è realmente interessata o preparata.

I programmi televisivi che hanno mostrato gli israeliani che scappavano terrorizzati dagli attentatori sono scene familiari ai palestinesi. Giorno dopo giorno, sperimentano la paura asfissiante degli israeliani armati. Ogni settimana centinaia di palestinesi sono esposti alle sparatorie degli israeliani e fuggono terrorizzati; qualche volta sono feriti o uccisi. Secondo la loro opinione, quello che hanno passato gli israeliani in questo unico attacco è nulla rispetto a quello che sperimentano ogni giorno.

I palestinesi si prendono qualche rivalsa se viene sconvolta la normalità di Tel Aviv, solo a un’ora di macchina dalle zone di disperazione individuale e nazionale a Gaza e in Cisgiordania. La maggior parte è ben consapevole che questo sconvolgimento non cambierà l’orientamento e il comportamento degli israeliani. Tuttavia neppure le dimostrazioni pacifiche, le trattative diplomatiche e i resoconti dei media hanno trasformato gli israeliani in sostenitori del Meretz [partito sionista della sinistra moderata sostenitore della soluzione dei due Stati, ndt]. Quindi tutto quello che rimane è una soddisfazione momentanea di vendetta.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Il futuro di Israele è terrificante: la “moralità” inquietante di Moshe Yaalon e di Israele

1 giugno 2016

Ma’an news

di Ramzy Baroud

La società israeliana sta continuamente andando a destra e, di conseguenza, viene regolarmente ridefinita l’intera scala di valori [del sistema] politico.

La società israeliana sta continuamente andando a destra e, di conseguenza, viene regolarmente ridefinita l’intera scala di valori [del sistema] politico. Che Israele sia ora governato dal “governo di destra più estrema della sua storia” è passato nel giro di pochi anni dall’essere un’affermazione fondata ad un vuoto luogo comune.

Infatti quella stessa argomentazione è stata utilizzata nel maggio del 2015 quando il primo ministro di destra Benjamin Netanyahu ha formato il suo governo con una risicata maggioranza di esponenti della destra con idee simili, con fanatici religiosi e ultranazionalisti. Lo stesso concetto, praticamente con le medesime parole viene nuovamente adottato, quando Netanyahu ha allargato la sua coalizione imbarcando l’ultranazionalista Avigdor Lieberman.

Così mercoledì 25 maggio Lieberman è diventato anche il ministro della difesa d’Israele. Tenendo conto della sua politica facinorosa e violenta, come ha dimostrato nei suoi due incarichi come ministro degli esteri (dal 2009 al 2012 e di nuovo dal 2013 al 2015), con lui come ministro della difesa del “governo di destra più estrema della storia” ci si aspetta ogni tipo di terrificante futuro”.

Mentre molti commentatori ricordano opportunamente le passate provocazioni di Lieberman e le [sue ] rozze affermazioni, per esempio, la sua dichiarazione del 2015 in cui minacciava di decapitare con un’ascia i cittadini palestinesi d’Israele se non avessero manifestato piena lealtà nei confronti di Israele; in cui propugnava la pulizia etnica dei palestinesi d’Israele; il suo ultimatum [con minaccia] di morte all’ex primo ministro palestinese Ismail Haniyeh e così via, al suo predecessore, Moshe Yaalon è stata risparmiata gran parte delle critiche.

Peggio, l’ex ministro della difesa Yaalon è stato additato da alcuni come un esempio di professionalità e di moralità. Egli è “ben stimato”, ha scritto William Booth sul Washington Post, paragonato a Lieberman “ un ribelle divisivo”. Ma “stimato bene” da chi? Dalla società israeliana la cui maggioranza appoggia l’assassinio a sangue freddo di palestinesi?

Israele si è attenuto per un lungo periodo a una definizione sua propria della terminologia politica. Il suo “socialismo” di prima maniera era una combinazione di vita in comune resa possibile dai massacri dei militari e basata sul colonialismo. La sua attuale definizione di “sinistra”, “destra” e “centro” è relativa, valida solo per Israele.

Yaalon è ora un esempio di livello di ragionevolezza e di moralità grazie a Lieberman, l’ex immigrato russo , buttafuori nei club trasformatosi in politico che sta organizzando costantemente il milione circa di ebrei russo- israeliani in base al suo programma politico sempre più violento.

Infatti, la citazione riportata numerose volte dai media sulle ragioni delle dimissioni di Yaalon è che ha perso fiducia “nella capacità decisionale di Netanyahu e nella sua moralità”.

Moralità? Analizziamo la realtà.

Yaalon ha partecipato a ogni importante guerra israeliana fin dal 1973 e il suo nome è stato più tardi associato alle più atroci guerre ed ai massacri israeliani prima in Libano e dopo a Gaza.

La sua “moralità” non gli ha mai impedito di ordinare alcuni dei più indicibili crimini di guerra perpetrati contro la popolazione civile, sia a Qana in Libano(1996) sia a Shujayya ,Gaza (2014).

Yaalon si è rifiutato di collaborare con qualsiasi inchiesta internazionale organizzata dalle Nazioni Unite o da qualsiasi altra organizzazione sulla sua violenta condotta. Nel 2005 è stato portato in giudizio in un tribunale degli Stati Uniti dai sopravissuti al massacro di Qana dove centinaia di civili e di operatori delle forze di pace delle Nazioni Unite sono stati uccisi e feriti dalle incursioni militari israeliane in Libano. In questo caso, non è prevalsa né la moralità israeliana né quella americana, e la giustizia deve ancora fare il suo corso.

Yaalon, che ha ricevuto l’addestramento militare all’inizio della sua carriera presso il British Army’s Camberley Staff College dell’esercito inglese [scuola di guerra inglese di origine coloniale e che ha formato molti ufficiali superiori israeliani, tra cui Rabin, ndtr], ha continuato ad avanzare di grado nell’esercito fino al 2002 quando è stato nominato capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane [IDF]. Rimasto per quasi tre anni in tale veste di conseguenza ha ordinato l’assassinio di centinaia di palestinesi e ha sovrainteso a diversi massacri che sono stati perpetrati dall’esercito israeliano durante la seconda intifada.

L’allora ministro della difesa, Shaul Mofaz, l’ha sollevato dal suo incarico nel 2005. Anche in questo caso è stata l’immoralità, non la moralità che ha giocato un ruolo nel conflitto tra lui e i suoi superiori. Yaalon era e rimane un fervente sostenitore della colonizzazione illegale del territorio palestinese. Nel 2005 egli si è opposto con forza al cosiddetto trasferimento dalla Striscia di Gaza dalla quale poche migliaia di coloni illegali sono stati ricollocati in colonie ebraiche nella Cisgiordania.

Nel 2006 in Nuova Zelanda fu raggiunto[da un ordine di cattura] per i suoi crimini di guerra riguardo all’assassinio di un comandante di Hamas, Saleh Shehade, insieme a 14 membri della sua famiglia e ad altri civili. L’ ordine di arresto fu emesso ma revocato in seguito, dopo pesanti pressioni politiche, permettendo a Yaalon di scappare dal paese.

È tornato alla guida dell’esercito nel 2013, giusto in tempo per intraprendere la guerra devastante contro Gaza nel 2014 nella quale furono uccisi 2.257 palestinesi in 51 giorni. L’OCHA , l’agenzia delle Nazioni Unite per il monitoraggio della situazione [nei territori occupati], ha calcolato che oltre il 70% degli uccisi fossero civili, tra cui 563 bambini.

La distruzione di Shujayya, in particolare, era una strategia preordinata concepita dallo stesso Yaalon. In un incontro nel luglio del 2013 con il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, Yaalon informò il capo dell’ONU che avrebbe bombardato l’intero quartiere in caso di guerra. L’ha fatto.

Nel maggio del 2015 non si era ancora pentito. Parlando a una conferenza a Gerusalemme, ha minacciato di ammazzare civili nel caso di un’altra guerra contro il Libano. “ Noi colpiremo i civili libanesi comprese le famiglie con bambini” ha detto.

Abbiamo discusso molto approfonditamente. Lo abbiamo fatto allora, lo abbiamo fatto nella Striscia di Gaza e lo rifaremo in futuro in qualunque altro conflitto”, ha detto. Ha anche parlato implicitamente di sganciare una bomba nucleare sull’Iran.

Yaalon ha più volte dato via libera all’esercito israeliano di occupazione perché metta in pratica la politica di “sparare per uccidere” i palestinesi per contrastare la “tensione” in aumento nei Territori Occupati.

Queste sono le parole [pronunciate]da Yaalon durante una visita alla base militare di Gush Etzion nel novembre del 2014:[prima colonia costruita dagli israeliani in Cisgiordania, ndtr.]

Deve essere chiaro che chiunque viene per uccidere ebrei deve essere eliminato. Qualunque terrorista che usa un’arma, un coltello o una pietra, che prova a investire o in qualsiasi modo attaccare ebrei deve essere ammazzato.”

Centinaia di palestinesi sono stati uccisi nei mesi scorsi nella Gerusalemme Est occupata e in Cisgiordania. Molte delle vittime sono ragazzi che tiravano le pietre per fronteggiare i veicoli dell’esercito israeliano e migliaia di coloni ebrei felici di premere il grilletto.

Nella sua prima dichiarazione publica dopo le dimissioni, Yaalon ha accusato “una minoranza chiassosa” in Israele di attaccare “i valori fondamentali” del paese, affermando che si sono persi i “punti di riferimento morali” del paese .

La cosa preoccupante è che molti israeliani sono d’accordo con Yaalon. Considerano come un esempio di moralità e un difensore di principi fondamentali l’uomo che è stato accusato di aver commesso crimini di guerra per la maggior parte della sua carriera.

Mentre Lieberman ha dimostrato di essere una mina vagante e di essere politicamente irresponsabile, Yaalon ha parlato pubblicamente di colpire i bambini e più volte ha mantenuto le sue promesse.

Quando i “mi piace” per Yaalon , un uomo dal passato sanguinario, diventa il volto della moralità in Israele, si può comprendere perché c’è poca speranza per il futuro di quel Paese, specialmente adesso che Lieberman ha portato il suo partito “Israele è Casa Nostra” nel terrificante covo di partiti politici[del governo] di Netanyahu.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La comunità ebraica degli USA spinge Israele verso la soluzione dei due Stati

di Yivonne Ridley – Middle East Monitor

31 maggio 2016

I palestinesi sono continuamente accusati di essere il vero ostacolo alla pace nel Medio Oriente, ma questa settimana una nuova iniziativa da parte di un gruppo di ebrei molto influenti potrebbe dimostrare il contrario.

Per decenni molti politici occidentali hanno discusso della soluzione dei due Stati. Questa è stata citata praticamente da tutti al di fuori di Israele, ma non è mai stata presa realmente sul serio all’interno dello Stato di Israele. Ora, improvvisamente, sembra che Tel Aviv voglia adottarla ed ha inviato istruzioni alle proprie ambasciate, amici nei campus universitari e all’interno di altre istituzioni in ogni dove perché promuovano lidea che Israele vuole parlare di una pace sulla base dei due Stati.

Yiftah Curiel, il capo delle operazioni mediatiche presso l’ambasciata israeliana a Londra, per esempio, è stato inviato a Oxford la scorsa settimana per discutere del valore e della realizzazione della soluzione dei due Stati durante il prestigioso dibattito dell’università in merito alla sua praticabilità. ” Chutzpah” è una parola yiddish estremamente espressiva, che deriva dall’ebraico “ḥutspâ”; non credo che ne esista una simile in lingua inglese che possa esprimere pienamente la sfrontatezza del governo israeliano. Pertanto in questo caso dovremo attenerci alla parola “chutzpah”, in quanto è ciò che meglio descrive l’esibizione di Curiel.

Il pungente editorialista e giornalista israeliano Gideon Levy, che ha seguito da vicino il dibattito, ha osservato ironicamente: “Avete capito? Israele sostiene di appoggiare la soluzione dei due Stati, forse perché ha capito che la soluzione dei due Stati non è più realizzabile.” Che cosa, ha chiesto, ha impedito a Israele di mettere in atto questa soluzione negli ultimi circa 50 anni di occupazione? “E come può il rappresentante ufficiale dello Stato, che non ha mai cessato di costruire sempre più colonie, il cui unico scopo era di vanificare la soluzione dei due Stati, avere il coraggio di dire che Israele è favorevole alla divisione del territorio?”

Scrivendo su Haaretz, Levy ha ammesso: “Ma né la “chutzpah” israeliana né la temerarietà dei suoi propagandisti hanno limiti.”

Perciò, cosa sta dietro a questo nuovo entusiasmo del governo israeliano per la soluzione dei due Stati? La risposta, forse, si trova a migliaia di chilometri, in America, dove due diversi documenti di lavoro stanno per essere pubblicati in un tentativo di preparare il terreno per una soluzione dei due Stati che possa rispondere alle aspirazioni palestinesi e alle richieste israeliane di sicurezza.

Le proposte includeranno la RICOLLOCAZIONE dei coloni; il CONGELAMENTO degli insediamenti illegali; la SOVRANITÀ palestinese; un RADICALE allontanamento dalle politiche del governo di destra israeliano; PREPARARE il nuovo presidente USA ad insistere sui colloqui di pace.

Le notizie sugli audaci progetti devono aver colpito duramente Benjamin Netanyahu, perché egli ha messo decisamente in chiaro all’amministrazione Obama – così come alle altre parti interessate, come le Nazioni Unite, Gran Bretagna e Francia – che non avrebbe tollerato interferenze esterne. Mentre finora respingere le iniziative di Washington è stato relativamente facile, persino Netanyahu sembra aver capito che né Donald Trump né Hillary Clinton presumibilmente tollereranno lo stesso irritante trattamento. Entrambi i candidati alla presidenza hanno messo in chiaro che hanno l’intenzione di portare la pace nella regione ponendo fine al conflitto israelo-palestinese, benché Netanyahu ed i suoi predecessori abbiano, con grande facilità, fatto in modo da portare molti presidenti USA a lasciarlo nel dimenticatoio durante i loro mandati.

L’ultima fase della vicenda, tuttavia, è diversa. Quello che dovrebbe aver scosso il primo ministro israeliano è che quest’ultima iniziativa è stata guidata da una serie di influenti organizzazioni indipendenti che fino ad ora hanno sempre garantito di essere dalla stessa parte di Tel Aviv. Con una mossa imprevista sembra che il molto influente “Israel Policy Forum” [organizzazione ebraica statunitense impegnata per la soluzione dei due Stati. Ndtr.] abbia preso il controllo del progetto sionista, lasciando isolato Netanyahu o obbligandolo a rincorrerlo. Dopo il discorso di Curiel alla “Oxford Union” [un luogo di dibattito indipendente dell’università di Oxford. Ndtr.] lo scorso giovedì, sembra che Tel Aviv, presa dal panico, stia mettendo in atto la seconda ipotesi.

L’IPF, di cui si dice sia allarmato degli sviluppi e dell’imprevedibilità del governo di destra di Netanyahu, sta ora lavorando insieme a un certo numero di ex militari e ufficiali dell’intelligence altrettanto preoccupati, così come con un gruppo di studio di Washington. Il fondatore dell’IPF Alan Solow, alcuni comandanti della sicurezza israeliana e il Centro per la Nuova Sicurezza Americana, un gruppo di lavoro sulla politica internazionale appoggiato da molti pesi massimi della politica, compreso l’ex senatore Joe Lieberman [democratico, poi passato ai repubblicani e sostenitore della guerra in Iraq. Ndtr.], questa settimana sveleranno i loro progetti per i due Stati.

Mentre il destrorso American Israel Public Affairs Committee (AIPAC — probabilmente il principale gruppo lobbistico filo-israeliano negli USA) appoggia anchesso l’idea di colloqui di pace, ma non darà mai impulso a nessuna iniziativa senza l’assenso di Tel Aviv, né pubblicherebbe progetti che mostrino come sarebbero i due Stati senza consultare prima Israele, questo è esattamente quello che faranno questi altri gruppi statunitensi tra pochi giorni.

“Il dibattito sul futuro di Israele non si sta svolgendo in Israele,” ha commentato Gideon Levy dopo l’incontro di Oxford. “Sta avvenendo ovunque meno che in Israele. Israele non sta pensando al suo futuro, si sta occupando del suo presente e, soprattutto, del suo passato. Qui la gente non parla del futuro.”

Questa nuova iniziativa a Washington, che una volta era considerata come occupata politicamente da Israele mentre i palestinesi soffrono sotto la sua occupazione militare, potrebbe cambiare il narcisismo di Tel Aviv. Tuttavia, se gli israeliani e il loro primo ministro di destra Netanyahu tornano alla loro posizione predefinita, allora lo Stato sionista apparirà come il vero ostacolo alla pace, che è una cosa che i palestinesi ed i loro sostenitori sanno da lungo tempo. Ci vorrà molto più dell’usuale chutzpah sionista per uscire da questo particolare impiccio.

(traduzione di Amedeo Rossi)




E’ tempo di porre fine alla “hasbarà”: i media palestinesi e la ricerca di una narrazione comune

Ma’an News – 24 maggio 2016

di Ramzy Baroud

Il solo fatto di essere insieme a centinaia di giornalisti palestinesi e ad altri professionisti dei media di ogni parte del mondo è stata un’esperienza edificante.

Per molti anni i media palestinesi sono stati sulla difensiva, incapaci di articolare un messaggio coerente, lacerati tra fazioni e cercando disperatamente di contrastare la campagna mediatica israeliana, con le sue falsificazioni e l’instancabile propaganda, o “hasbarà”.

E’ ancora troppo presto per affermare che ci sia stato un qualche cambiamento di paradigma, ma la seconda conferenza di Tawasol a Istanbul, che ha avuto luogo il 18 e 19 maggio, è servita come un’opportunità per prendere in considerazione un vasto cambiamento del panorama mediatico e di mettere in luce le sfide e le opportunità che i palestinesi devono affrontare nella loro ardua lotta.

Non solo ci si aspetta che i palestinesi demoliscano anni ed anni di disinformazione israeliana, imperniata su un discorso storico irreale che è stato venduto al resto del mondo come un fatto, ma anche che costruiscano una propria lucida narrazione che sia libera dai capricci di fazione e da vantaggi personali.

Ovviamente non sarà facile.

Il mio messaggio alla conferenza “La Palestina nei media”, organizzata dal “Forum Internazionale della Palestina per i Media e la Comunicazione” è che, se la dirigenza palestinese non è capace di raggiungere l’unità politica, almeno gli intellettuali palestinesi devono insistere nell’unificare la loro narrazione. Persino il più disposto al compromesso tra i palestinesi può essere d’accordo sulla centralità della Nakba, della pulizia etnica dei palestinesi e della distruzione dei loro villaggi e città nel 1947-48.

Possono, e devono, anche concordare sull’atrocità e sulla violenza dell’occupazione; sulla disumanizzazione ai chekpoint militari; sulla sempre maggiore riduzione degli spazi in Cisgiordania come risultato delle colonie illegali e della colonizzazione di quanto rimane della Palestina; sul soffocante dominio nella Gerusalemme occupata; sull’ingiustizia dell’assedio a Gaza; sulle guerre unilaterali contro la Striscia di Gaza che hanno ucciso più di 4.000 persone, per la maggior parte civili, nel corso di sette anni – e molto altro.

Il professor Nashaat al-Aqtash dell’università di Birzeit, forse più realisticamente, ha ridotto ulteriormente le speranze. “Se potessimo anche solo essere d’accordo su come presentare la narrazione riguardo ad Al-Quds (Gerusalemme) e alle colonie illegali, almeno sarebbe un inizio,” ha detto.

Il fatto ovvio è che i palestinesi hanno più cose in comune di quante ne vorrebbero ammettere. Sono stati vittime delle stesse circostanze, lottato contro la stessa occupazione, sofferto le stesse violazioni dei diritti umani e devono affrontare le stesse conseguenze future determinate dallo stesso conflitto. Tuttavia, molti sono stranamente incapaci di liberarsi dalle loro affiliazioni di fazione, di carattere tribale.

Naturalmente non c’è niente di male nell’avere orientamenti ideologici e nell’appoggiare un partito politico piuttosto che un altro. Tuttavia ciò determina una crisi morale quando le affiliazioni di parte diventano più forti di quelle con la lotta collettiva e nazionale per la libertà. Tristemente, molti sono ancora intrappolati in questa logica.

Ma le cose stanno anche cambiando; succede sempre. Dopo oltre due decenni di fallimenti del cosiddetto “processo di pace” e il rapido incremento della colonizzazione dei territori occupati, oltre all’estrema violenza utilizzata per raggiungere questi risultati, molti palestinesi si stanno finalmente rendendo conto di questi tristi fatti. Non ci può essere libertà per il popolo palestinese senza unità e senza resistenza.

Resistenza non deve necessariamente significare un fucile e un coltello, ma piuttosto l’utilizzazione delle energie di una nazione, in patria e nella “shatat” (diaspora), insieme alla mobilitazione delle comunità in tutto il mondo a favore della giustizia e della pace. Ci dev’essere al più presto un movimento in cui i palestinesi dichiarino una lotta globale contro l’apartheid, coinvolgendo tutti i palestinesi, la loro dirigenza, le fazioni, la società civile e le comunità ovunque. Devono parlare con una sola voce, dichiarare un solo obiettivo e formulare le stesse richieste, continuamente.

E’ sconcertante rendersi conto che una nazione così offesa per tanto tempo sia stata così incompresa, mentre i responsabili sono largamente assolti e visti come vittime. A un certo punto, alla fine degli anni ’50, il primo ministro israeliano David Ben Gurion si è reso conto della necessità di unificare la narrazione sionista riguardo alla conquista ed alla pulizia etnica della Palestina.

Secondo le rivelazioni del giornale israeliano” Haaretz”, Ben Gurion temeva che la crisi dei rifugiati palestinesi non si sarebbe risolta senza un sistematico messaggio israeliano secondo cui i palestinesi avevano abbandonato la loro terra di loro spontanea volontà, seguendo le direttive di vari governi arabi.

Naturalmente anche questo era un’invenzione, ma molte supposte verità nascono da una sola menzogna. Egli diede incarico ad un gruppo di accademici di presentare la storia assolutamente falsificata, ma coerente, sull’esodo dei palestinesi. Il risultato fu il documento Doc GL-18/17028 del 1961. Quel documento, da allora, è servito come pietra angolare dell’ “hasbarà” israeliana relativa alla pulizia etnica della Palestina. I palestinesi se ne andarono e non furono cacciati, era il punto cruciale del messaggio. Israele ha continuato a ripetere questa menzogna per oltre 55 anni e, ovviamente, molti gli hanno creduto.

Finché solo recentemente, grazie agli sforzi di un crescente gruppo di storici palestinesi – e di coraggiosi israeliani – che hanno smentito la propaganda, una narrazione palestinese sta prendendo forma, benché molto ci sia ancora da fare per controbilanciare il danno che è già stato fatto.

Infatti, una reale vittoria della verità ci sarà soltanto quando la narrazione palestinese non sarà più vista come una “contro-narrazione”, ma come una legittima storia autonoma, libera dai limiti di un atteggiamento difensivo e dal peso di una storia carica di menzogne e di mezze verità.

L’unico modo in cui lo vedo realizzabile è quando gli intellettuali palestinesi dedicano più tempo e sforzi nello studio e nel racconto di una “storia popolare” della Palestina, che possa finalmente umanizzare il popolo palestinese e sfidare la percezione polarizzata dei palestinesi come terroristi o eterne vittime. Quando la persona comune diventa il centro nella storia, i risultati sono più pregnanti, efficaci e incisivi.

La stessa logica può essere applicata anche al giornalismo. Oltre a trovare le loro vicende comuni, i giornalisti palestinesi devono raggiungere il mondo intero, non solo il loro tradizionale circolo di amici e sostenitori affezionati, ma la società nel suo complesso. Se la gente comprende veramente la verità, soprattutto da un punto di vista umano, non può certo appoggiare il genocidio e la pulizia etnica.

E con “il mondo intero” non mi riferisco certo a Londra, Parigi e New York, ma all’Africa, al Sud America, all’Asia e a tutto il Sud del mondo. Le nazioni di quell’emisfero possono comprendere pienamente la sofferenza e l’ingiustizia dell’occupazione militare, della colonizzazione, dell’imperialismo e dell’apartheid. Temo che l’importanza attribuita alla necessità di contrastare la “hasbarà” israeliana in Occidente abbia portato a destinare una sproporzionata quantità di risorse ed energie in pochi luoghi, ignorando al contempo il resto del mondo, il cui appoggio è stato a lungo la spina dorsale della solidarietà internazionale. Non deve essere data per scontata.

Tuttavia la buona notizia è che i palestinesi hanno fatto notevoli progressi nella giusta direzione, benché senza il riconoscimento della dirigenza palestinese. La cosa fondamentale ora è la capacità di unificare, dare forma e costruire sugli sforzi esistenti in modo che tale crescente solidarietà si trasformi in un grande successo nel suscitare una consapevolezza globale e rendere Israele responsabile dell’occupazione e della violazione dei diritti umani.

Ramzy Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.

(traduzione di Amedeo Rossi)