Palestina: un femminicidio sottolinea la necessità di una legge sulla violenza domestica

Zena Al Tahhan 

29 novembre 2021 Al Jazeera

L’uccisione da parte del marito di una madre di 30 anni nella Ramallah occupata ha suscitato clamore tra i palestinesi.

Ramallah, Cisgiordania occupata – Nelle prime ore del 22 novembre Sabreen Yasser Khweira, 30 anni, madre di quattro figli, sarebbe stata pugnalata a morte dal marito in un piccolo villaggio palestinese alla periferia di Ramallah.

Suo marito, Amer Rabee, ha aggredito anche la madre, 75 anni, che è rimasta ferita ed è stata trasferita all’ospedale di Ramallah più vicino. Le sue condizioni sono ora stabili.

Quella mattina Rabee è fuggito dalla scena ma è stato arrestato più tardi, mentre il corpo di Khweira – trovato dalla polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nella sua casa nel villaggio di Kufr Ni’ma – è stato trasferito per un esame medico legale.

La famiglia Khweira chiede alle autorità di giustiziare Rabee per il raccapricciante omicidio, una richiesta sostenuta anche dalla famiglia di Rabee.

La famiglia dice che Rabee era stato violento con Khweira durante tutti i loro 12 anni di matrimonio e che lei lo aveva lasciato più volte.

Jumaa Tayeh, zio di Khweira e portavoce scelto dalla famiglia, ha detto ad Al Jazeera che Rabee ha trascorso un mese in prigione all’inizio di quest’anno, dopo che Khwiera l’aveva denunciato alla polizia per averla picchiata con dei cavi.

Era gravemente contusa – aveva segni su tutto il corpo. Ero con lei quando abbiamo presentato una denuncia alle Unità di Protezione della Famiglia della polizia. Ci sono state diverse udienze in tribunale e lui ha trascorso un mese [in prigione] prima di essere rilasciato”, ha detto Tayeh.

Al Jazeera ha contattato l’addetto stampa della pubblica accusa dell’ANP in merito ai passati casi di violenza domestica denunciati da Khweira, ma ci è stato detto che queste informazioni non potevano essere divulgate in questa fase a causa delle indagini in corso.

Tayeh ha detto che Rabee era stato rilasciato cinque giorni prima dell’omicidio, dopo aver trascorso 40 giorni in prigione per un reato legato alla droga. “Ha passato una notte con lui dopo il suo rilascio, e quando ha iniziato a minacciarla di farle del male, è tornata a casa di suo padre”, ha detto lo zio.

La notte in cui è stata uccisa, per farla tornare a casa Rabee aveva minacciato di far del male al figlio di 11 anni che era a casa della nonna lì vicino. Quando lei è tornata a casa, l’ha uccisa».

L’omicidio di Khweira è avvenuto mentre il mondo si preparava a celebrare la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne il 25 novembre ed era stata lanciata una campagna mondiale di 16 giorni per chiedere la fine della violenza di genere anche in Palestina, dove sono in corso attività di sensibilizzazione.

L’omicidio ha suscitato clamore tra i palestinesi per la persistenza nella società palestinese di violenza domestica e di norme patriarcali.

Nel 2021 sono state finora uccise più di 20 donne nei territori palestinesi occupati in episodi di violenza domestica, e nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza Khweira è la 26a donna palestinese ad essere stata uccisa nel 2021 in un caso di femminicidio, ha detto ad Al Jazeera il Centro per l’Assistenza Legale e la Consulenza alle Donne (WCLAC) di Ramallah. Almeno altre 15 donne palestinesi sono state uccise in Israele.

Richiesta l’adozione della legge per la protezione della famiglia

Le associazioni di donne della società civile condannano da tempo l’assenza di una legge palestinese per proteggere le donne dalla violenza domestica.

L’Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi con sede a Ramallah, che Israele ha recentemente designato come “organizzazione terroristica” insieme ad altre sei istituzioni della società civile, ha condannato l’uccisione.

In un momento in cui le donne palestinesi affrontano i crimini dell’occupazione sionista, inclusi omicidi, arresti, colonie, guerre e distruzione di case, e la decisione di designare le istituzioni che difendono i diritti delle donne come “organizzazioni terroristiche”, un’altra mano ha colpito una donna palestinese, in un orribile criminoso caso di accoltellamento”, ha detto l’Unione in una dichiarazione.

L’Unione ha chiesto la rapida adozione, molto in ritardo, di una legge sulla violenza domestica nota come Legge per la Protezione della Famiglia, “alla luce dell’aumento di omicidi, violenze e vari tipi di abusi contro donne e bambini”.

Una bozza della legge sulla violenza domestica è in stallo almeno dal 2016, sebbene sia stata scritta più di dieci anni fa.

La violenza si verifica perché non abbiamo leggi sulla deterrenza o sulla protezione. Devono esserci leggi per proteggere le donne dalla violenza e queste leggi devono scoraggiare coloro che commettono violenza”, ha detto ad Al Jazeera Amal Abu Srour, direttore dei programmi della WCLAC.

Il motivo è che, fino ad ora, non c’è stata la volontà politica di emanarle – in un momento poi in cui vediamo molte leggi approvate con decreto presidenziale, come la legge sui reati elettronici o le leggi relative al giornalismo e alla comunicazione che limitano la libertà di espressione. L’emanazione di leggi relative ai diritti sociali dovrebbe essere una priorità”, ha affermato Abu Srour.

Ha poi spiegato che la WCLAC, insieme ad altre organizzazioni della società civile femminile, dal 2004 lavora in collaborazione con i governi dell’ANP su una legge contro la violenza domestica.

Sotto il governo dell’ex primo ministro dell’ANP Rami Hamdallah la bozza è arrivata all’ufficio del presidente Mahmoud Abbas per la firma, ha detto Srour, ma è stata inviata ancora una volta per la revisione sotto il governo dell’attuale primo ministro Mohammad Shtayyeh.

“Non abbiamo idea di dove sia ora la proposta di legge “, ha detto Abu Srour.

Al Jazeera ha contattato il ministro per gli Affari femminili, ma al momento della pubblicazione non ha ricevuto risposta.

Il ministero ha affermato in una dichiarazione che “la legge sulla protezione della famiglia contro la violenza è un’urgente necessità sociale, nazionale e umanitaria per mantenere la coesione della famiglia e della società”, aggiungendo che la sua approvazione “deve essere accelerata”.

Qualunque protezione potesse offrire questa legge, è ora troppo tardi per salvare Khweira.

Circolo vizioso

Tayeh ha detto che Khweira aveva avviato le pratiche di divorzio diversi mesi fa, ma stava attraversando un periodo difficile, in particolare per la perdita quest’anno del fratello 33enne, Saif, a causa di un cancro.

Lo stesso zio è stato rilasciato dalle carceri israeliane dopo 25 anni solo un anno e mezzo fa, e il padre vive in Giordania perché Israele ha proibito il suo ritorno.

Sarebbe fuggita dalla prepotenza del marito e sarebbe rimasta a casa del padre, e la famiglia l’avrebbe comunque sostenuta e le diceva di divorziare, ma lei aveva paura per il futuro dei figli e continuava a tornare da lui nella speranza che cambiasse e diventasse responsabile”, ha detto Tayeh.

Ha detto che Khweira aveva anche menzionato a motivo della sua esitazione la paura dello stigma sociale che circonda le donne divorziate e i loro figli. “Lei diceva: ‘Voglio portare questo fardello per i miei figli. Domani cresceranno e mi proteggeranno e mi difenderanno contro il loro papà.’ ”

“Ritengo che Sabreen abbia sacrificato la sua vita per i figli”, ha aggiunto Tayeh.

Khweira era madre di tre maschi, il maggiore dei quali ha 11 anni e di una bambina di meno di due anni. I bambini ora sono dalla nonna materna.

“Sabreen amava la vita, aveva un cuore bello come il suo viso e amava i suoi figli”, ha detto lo zio.

La trentenne era laureata in economia aziendale e aveva in passato lavorato quattro anni presso il consiglio locale di Kufr Ni’ma nell’unità di insediamento territoriale. Al momento del suo omicidio lavorava in un negozio di abbigliamento del villaggio.

Viviamo in una società che opprime le donne, una cultura sbagliata che umilia lo status delle donne – anche se sono onorate negli insegnamenti islamici, le nostre leggi non garantiscono giustizia alle donne in alcuni dei diritti basilari”, ha detto Tayeh.

Peggioramento delle condizioni con il Covid-19

Abu Srour ha affermato che la persistenza della violenza domestica contro le donne in Palestina potrebbe essere attribuita sostanzialmente a tre fattori: una cultura tradizionalmente patriarcale, leggi discriminatorie contro le donne e mancanza di protezioni, e l’occupazione israeliana.

Secondo la WCLAC, durante la pandemia di COVID la violenza domestica è aumentata. Nel 2020, WCLAC ha registrato l’uccisione di almeno 37 donne palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Il Centro ha gestito, attraverso una linea di assistenza gratuita contro la violenza di genere, più di 700 casi di donne bisognose di assistenza, un aumento del 160 % rispetto al 2019.

Diversi altri gruppi per i diritti delle donne hanno segnalato un aumento delle richieste di assistenza.

Ad oggi, nel 2021, WCLAC ha ricevuto chiamate per oltre 300 nuovi casi.

“Le donne sono state costrette a trascorrere lunghi periodi di tempo a casa fianco a fianco con i loro aggressori”, ha detto Abu Srour, spiegando che con tutti a casa a causa della quarantena e delle chiusure, le donne hanno sopportato l’onere aggiuntivo di prendersi cura di tutta la famiglia.

Ogni volta che ci sono situazioni di crisi o di emergenza, c’è un aumento della violenza diretta ai segmenti più deboli della famiglia, le donne e i bambini”, ha aggiunto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




Il Belgio è sulla strada giusta, ma l’Europa ha tradito la Palestina

Dr Ramzy Baroud

30 novembre 2021 Middle East Monitor

Anche se la decisione presa il 25 novembre dal governo belga di etichettare i prodotti provenienti dalle colonie illegali israeliane è lodevole, alla fine si dimostrerà inefficace.

Paragonato ad altri Paesi europei, quali Gran Bretagna, Germania, Francia, il Belgio ha una tradizione di solidarietà nei confronti della Palestina. Sia attraverso la cancellazione di missioni commerciali, sia attraverso l’aperto sostegno da parte della società civile, artisti, intellettuali e gente comune, il Belgio ha dimostrato il desiderio di giocare un ruolo costruttivo per porre fine all’occupazione israeliana della Palestina.

E’ evidente che non basteranno una simbolica solidarietà e dichiarazioni politiche per costringere Israele al rispetto della legge internazionale, allo smantellamento dell’apartheid, alla fine dell’occupazione militare e al riconoscimento del diritto alla libertà per i palestinesi.

Il dilemma cui si trova di fronte il Belgio vale anche per il resto dell’Europa. Mentre i governi europei insistono sulla centralità di tematiche quali democrazia, diritti umani e legge internazionale nelle loro relazioni con Israele, essi non fanno però alcun gesto significativo per garantire che Israele rispetti quelle che l’Unione Europea proclama essere le sue politiche.

La decisione belga di distinguere fra prodotti israeliani provenienti da Israele e quelli che arrivano dalle colonie israeliane illegali non si basa sul quadro normativo di riferimento del Belgio, ma su varie importanti sentenze prese dalla UE. Ad esempio, nel novembre del 2015 l’Unione Europea ha emesso nuove direttive per garantire che i prodotti delle colonie illegali vengano etichettati come tali. Nel gennaio del 2016, poi, pare che la UE abbia ‘ribadito’ la volontà di etichettare in modo chiaro tali prodotti.

Tuttavia da allora non si sono viste molte etichette di quel tipo, tanto da costringere i cittadini UE, con il sostegno di varie organizzazioni della società civile, a rivolgersi direttamente ai tribunali dell’Unione per rimediare al fallimento dell’establishment politico europeo. Nel novembre del 2019 il più importante organo giurisdizionale della UE, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha deliberato che i prodotti provenienti dalle colonie illegali israeliane devono fornire “l’indicazione di tale provenienza (consentendo così ai consumatori di fare) scelte consapevoli.”

Vale a dire che la recente decisione presa dal Belgio non è che una tardiva implementazione di varie sentenze prese in passato e mai fatte rispettare nella maggioranza dei Paesi della UE.

Invece di dimostrare il proprio inequivocabile sostegno al Belgio e di cominciare ad implementare anche loro la sentenza della Corte di Giustizia della UE, la maggior parte dei Paesi europei è rimasta in silenzio di fronte all’attacco di Israele, che ha dichiarato che la decisione del Belgio è “anti- israeliana”, e ha impropriamente sostenuto che “rafforza gli estremisti”.

Non appena i media internazionali hanno dato notizia della decisione del governo belga, Israele ha fatto le solite scenate. Il viceministro degli Esteri Idan Roll ha immediatamente annullato una riunione programmata in precedenza con dei funzionari belgi, costringendo così il ministero degli esteri a Bruxelles a giustificare e a chiarire meglio la propria posizione.

Come prevedibile, l’Autorità Nazionale Palestinese, organizzazioni di attivisti e della società civile e molti soggetti individuali hanno lodato il Belgio per la sua coraggiosa posizione, che è analoga a quelle adottate in passato da Paesi come l’Irlanda, che è stata la prima nazione dell’Unione Europea a dare attuazione a questo provvedimento lo scorso maggio.

Questa euforia è prevalentemente alimentata dalla convinzione che questi passi possano preludere ad altre azioni concrete, che alla fine darebbero la spinta decisiva per un totale boicottaggio europeo di Israele. Ma è davvero così?

Alla luce delle divisioni fra gli europei in tema di etichettatura dei prodotti provenienti dalle colonie illegali, di una netta distinzione fra colonie e “Israele vero e proprio”, e della crescita esponenziale degli scambi fra Israele e Unità Europea, bisogna guardarsi dal saltare a conclusioni affrettate.

Secondo dati della Commissione Europea, la UE è il maggiore partner commerciale di Israele, con un valore totale di scambio di 31 miliardi di euro nel 2020.

Ma, cosa più importante, l’Unione Europea è stata il principale punto di accesso per l’integrazione di Israele in una più vasta dinamica globale non solo di politica e sicurezza, ma anche di cultura, musica e sport. Se il commercio europeo con Israele è facilitato dall’Accordo Euromediterraneo del 1995 [regola l’import-export di prodotti agricoli fra UE e Israele, ndtr], l’integrazione di Israele in Europa è regolata principalmente dal piano di Politica Europea di Vicinato (PEV) del 2004. Il secondo accordo, in particolare, aveva l’obiettivo di controbilanciare i successi ottenuti dai palestinesi e dai loro sostenitori nella delegittimazione dell’occupazione e apartheid praticati da Israele in Palestina.

Non sarebbe verosimile credere che proprio la UE, che ha fatto la scelta strategica di legittimare, integrare e normalizzare Israele agli occhi degli europei e del resto della comunità internazionale, possa essere lo stesso soggetto che costringerà Israele a rispondere dei suoi obblighi rispetto alla legge internazionale.

E non dimentichiamo che, anche se tutti i Paesi europei decideranno di etichettare i prodotti delle colonie, non basterà questo a smuovere Israele, tanto più perché la UE farà quanto in suo potere per compensare qualsiasi deficit commerciale dovesse derivarne.

Inoltre qualsiasi tipo di pressione, simbolica o reale che sia, esercitata dalla UE avviene spesso nel contesto della soluzione dei due Stati in Israele e Palestina, dichiaratamente abbracciata dagli europei. Se è pur vero che quella ‘soluzione’ resta l’unica ratificata dalla comunità internazionale, la complessità del problema, il buon senso e i ‘fatti compiuti’ ci dicono che la coesistenza in un unico Stato laico e democratico rimane l’unica conclusione pratica, possibile e evidentemente giusta per questa tragedia prolungata.

Nonostante le dichiarazioni eloquenti ed inequivocabili della UE sull’illegalità dell’occupazione israeliana, è ovvio che gli europei non hanno una vera strategia su Palestina e Israele. Se invece una strategia c’è, essa è piena di confusioni e contraddizioni. Insomma, Israele non ha alcun motivo di prendere l’Europa sul serio.

E’ facile accusare la UE di ipocrisia. Tuttavia la condotta della UE verso Israele non si spiega solo con l’ipocrisia, ma presumibilmente deriva dalla mancanza di unità politica e di una comunità di vedute fra gli Stati membri dell’Unione. Nei fatti la UE aiuta a sostenere l’occupazione israeliana, finanziandola vuoi direttamente o indirettamente. Attraverso gli scambi commerciali, la legittimazione politica e l’integrazione culturale di Israele, l’Unione Europea ha consentito che si perpetuasse lo status quo dell’occupazione apparentemente senza fine della Palestina. Se anche si imponessero etichette su tutti i prodotti delle colonie ebraiche, non basterà certo questo ad invertire la marcia.

Se la posizione del Belgio è di per sé lodevole – in quanto riflette l’attivismo e pressione incessantemente esercitati dalla società civile del Paese – essa non dovrebbe esser vista come alternativa ad una coraggiosa posizione politica e morale simile a quella adottata durante la lotta anti-apartheid in Sudafrica. Prima di allora, l’Europa ha l’obbligo di dimostrare la volontà di stare dalla parte giusta della storia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Un progetto edilizio a Gerusalemme fa traballare il governo israeliano

Danny Zaken

29 novembre 2021 Al-Monitor

Il governo di Naftali Bennett vorrebbe accantonare i piani per la costruzione del quartiere Atarot a Gerusalemme dall’altra parte della linea verde, ma si trova di fronte alla linea dura del comune di Gerusalemme che intende portare avanti il ​​piano a tutti i costi.

Il 24 novembre il comitato locale per la pianificazione urbanistica di Gerusalemme ha deciso di autorizzare un vecchio progetto per costruire il quartiere di Atarot a nord di Gerusalemme. Il nuovo quartiere residenziale sarebbe situato nel sito dell’aeroporto abbandonato di Atarot [aperto nel 1920 come primo aeroporto nel Mandato Britannico per la Palestina, è stato chiuso nel 2001 dopo la seconda intifada, ndtr.], con un’area di 1.243 dunam (307 acri), e sarebbe composto da 1.000 unità abitative, oltre a hotel, edifici pubblici, aree pubbliche aperte, aree industriali e zone commerciali. Il progetto prevede anche la creazione di una zona industriale e commerciale adiacente alla strada 45 e il mantenimento dello storico terminal che ancora sorge nell’area dell’aeroporto Atarot.

Questo progetto è stato formulato anni fa, ma ogni volta che è stato portato al voto, il voto è stato rinviato a causa dell’opposizione americana. Il motivo dell’opposizione è che si tratta di un territorio situato dall’altra parte della Linea Verde, in un’area tra Gerusalemme e i villaggi palestinesi.

L’ultima volta che il progetto è stato portato ai voti l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu ne ha impedito la discussione su esplicita richiesta dell’amministrazione Trump. Nell'”accordo del secolo” formulato dall’ex presidente Donald Trump e da suo genero/consigliere della Casa Bianca Jared Kushner, quest’area era in effetti destinata a una zona turistica palestinese.

La città di Gerusalemme soffre di una grave carenza di alloggi, per tutti i gruppi della popolazione, in particolare gli ebrei ultra-ortodossi e gli arabi; l’area di Atarot a nord è considerata una delle riserve di terra che potrebbero essere utilizzate per risolvere questo problema. Il luogo era il sito di un villaggio ebraico fondato nel 1919. Fu distrutto durante la Guerra d’indipendenza del 1948 e conquistato dalle forze giordane e palestinesi della regione. Nella Guerra dei Sei Giorni fu riconquistato e inglobato nel territorio comunale di Gerusalemme. In una parte è stata realizzata un’area industriale, fonte di occupazione per molti palestinesi dell’area di Ramallah, e in un’altra parte è previsto il nuovo quartiere.

Ofer Berkovitz, un membro del consiglio comunale di Gerusalemme che ha spinto per molti anni per la costruzione di Atarot, ha risposto che si tratta di un’autorizzazione storica per l’edilizia a Gerusalemme. “C’era un grande pessimismo all’inizio del percorso, [con l’idea] che non saremmo stati in grado di realizzare il quartiere, ma ora è arrivato il giorno. Siamo molto orgogliosi. È una mossa fondamentale per i giovani, per abbassare i prezzi delle case, per preservare il polmone verde della città. Continuerò a lavorare affinché la commissione regionale autorizzi il piano e non ceda a imposizioni esterne”, ha detto Berkovitz.

Dall’altra parte il movimento anti-occupazione Peace Now ha condannato l’autorizzazione sostenendo: “Il ministro per le abitazioni ha sganciato una bomba diplomatica, senza alcun dibattito pubblico o anche solo nel governo. Questo è un piano che sabota la possibilità di pace sulla base di due nazioni per due popoli. Il quartiere progettato è al centro della continuità urbana palestinese tra Ramallah e Gerusalemme est, e quindi impedisce la possibilità di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale. Il piano non è un disegno del fato e non è stato “ereditato” dai precedenti governi. Può ancora essere fermato e non essere autorizzato dalla commissione regionale tra una settimana e mezza. Se il piano non viene rimosso dall’agenda questo duro colpo alla pace sarebbe una vergogna per Meretz, Yesh Atid e Labour che sono membri della coalizione [di governo, ndt].

Dopo l’autorizzazione del progetto da parte del comitato locale, questo deve essere autorizzato dal comitato di pianificazione regionale. Ma secondo le informazioni riportate dalla stampa israeliana il giorno dopo l’approvazione del comitato locale, Israele ha inviato messaggi all’amministrazione Biden che il governo non farà avanzare la costruzione del nuovo quartiere di Atarot. Secondo quanto riferito, a seguito delle pressioni di Washington, Israele ha chiarito che mentre il governo non ha alcun controllo sul comitato locale nella città di Gerusalemme, il piano non avrebbe ricevuto la luce verde dal comitato regionale, che è sotto il controllo del governo.

Le notizie affermano inoltre che durante il precedente governo Netanyahu ha cercato di far avanzare la costruzione del quartiere di Atarot, ma è stato bloccato dall’amministrazione Trump. Il premier israeliano si è quindi offerto di costruire in quell’area 4.000 unità abitative per i palestinesi e 4.000 per gli israeliani, ma l’amministrazione Trump ha respinto il piano poiché quest’area era definita come parte di un futuro Stato palestinese secondo il piano di Trump.

Tuttavia, dopo aver verificato, Al-Monitor ha scoperto che, in contraddizione con queste notizie, l’argomento non è stato finora rimosso dall’ordine del giorno del comitato di pianificazione regionale e sarebbe posto in discussione al prossimo incontro, tra una settimana. Infatti, il vicesindaco Aryeh King ha detto ad Al-Monitor che l’argomento sarà sollevato come previsto e che i rappresentanti comunali si assicureranno che non rimanga bloccato nel comitato.

King ha anche osservato che in questo governo operano, tra gli altri, il ministro Gideon Saar, che in passato ha autorizzato costruzioni a Gerusalemme est, nonché altri ministri che sostengono le costruzioni nella città, tra cui il ministro degli interni Ayelet Shaked e il ministro dell’edilizia abitativa Ze’ ev Elkin. Ritiene che le notizie sul messaggio all’amministrazione americana abbiano lo scopo di calmare la parte di sinistra del governo e che in realtà il piano sarà autorizzato e attuato.

Secondo una fonte diplomatica israeliana che parla a condizione di anonimato l’amministrazione americana si è chiesta perché l’attuale governo non possa riprodurre la mossa che Netanyahu, e il governo di destra da lui guidato, hanno preso per bloccare il progetto su richiesta di Washington. La risposta data agli americani includeva una spiegazione che il comitato locale è controllato da partiti politici ultra-ortodossi nel comune e guidato da Eliezer Rauchberger, un membro del partito ultra-ortodosso Yahadut HaTorah. Secondo questa spiegazione i partiti ultraortodossi facevano parte del governo di Netanyahu e quindi gli hanno obbedito, mentre ora sono all’opposizione e lavorano per ostacolare il governo Bennett-Lapid.

Come accennato, il progetto è all’ordine del giorno del comitato regionale, che è controllato dal ministero delle Finanze e dal ministero dell’Interno. A capo di questi due ministeri ci sono i ministri di destra Avigdor Liberman e Shaked, che troverebbero molto difficile gestire le conseguenze politiche di uno stop al progetto per la costruzione del quartiere di Atarot.

D’altro canto la sinistra del governo è adirata e l’amministrazione americana sta facendo pressioni sul governo. Tra una settimana sapremo come deciderà il primo ministro Bennett su questo tema che minaccia la stabilità della coalizione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il medico di Gaza alla ricerca di giustizia per le sue figlie massacrate non la troverà in Israele

Gideon Levy

28 novembre 2021 – HAARETZ

Anche il dottor Izzeldin Abuelaish ha provato a muoversi nel solco della giustizia. Per 13 anni, dal massacro delle figlie nella Striscia di Gaza, ha girato il mondo parlando di speranza, pace, perdono e convivenza. L’ho visto al Parlamento Europeo e a Tel Aviv. Ha detto di non essere arrabbiato. Durante i suoi interventi era quasi imperturbabile. Era difficile credergli. Un uomo, tre delle cui figlie sono state uccise dall’esercito israeliano, che parla di errore e perdono. Ora è arrivato il momento della rabbia. Anche la Corte Suprema gli ha dato vergognosamente il benservito. Forse ora si renderà conto che la strada che ha scelto non lo porterà da nessuna parte.

Izzeldin, lei non è il primo palestinese che ha tentato la strada della giustizia, arrivando alla disperazione in ogni caso. Marwan Barghouti, ad esempio, ha provato la via della speranza e del dialogo prima di dedicarsi alla resistenza violenta. È finita male per tutti. Quindi si fermi, dottor Abuelaish. Lasci perdere. La smetta di parlare di speranza, giustizia e pace. Non c’è nessuno con cui parlarne. Non c’è nessun interlocutore.

Israele non capisce quella lingua, che è estranea allo Stato. Israele conosce solo una lingua diversa, una lingua alla quale lei deve ricorrere se vuole raggiungere anche una piccola parte dei suoi obiettivi: una [pur] ritardata giustizia per le sue figlie morte; un’ammissione dell’ingiustizia; una riparazione e la prevenzione di tali atti in futuro.

Il caso del medico non sarebbe mai dovuto arrivare in tribunale. Il giorno dopo che le sue figlie sono state uccise, Israele avrebbe dovuto contattare il dottor Abuelaish, che all’epoca faceva parte del personale dello Sheba Medical Center, a Tel Hashomer, nella periferia di Tel Aviv. Il governo israeliano avrebbe dovuto chiedergli perdono e offrirgli la sua assistenza, senza il coinvolgimento di nessun tribunale.

Forse i soldati che hanno ucciso le sue figlie non avevano intenzione di farlo, ma di certo non sono stati abbastanza attenti a non ucciderle. E ‘necessario che qualcuno sia punito e paghi per tale negligenza criminale.

Un precedente? Proprio così. Questo è esattamente lo scopo. Quando Israele comincerà a pagare per i crimini e la negligenza dei suoi soldati, l’esercito comincerà a prendersi maggiormente cura della vita umana. In un raro caso Israele ha dimostrato generosità e umanità. È stato lo straordinario caso di una ragazza di nome Maria Aman, rimasta paralizzata dalla testa ai piedi a causa di un missile israeliano che nel 2006 a Gaza uccise metà della sua famiglia, e non è crollato il mondo. Vive tra noi con tutti i servizi di riabilitazione che le spettano. Non è un precedente e non è pericoloso. È semplicemente un comportamento umano.

Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se Hamas avesse ucciso tre sorelle ebree. La ripugnante organizzazione ultranazionalista di assistenza legale Shurat Hadin l’avrebbe citata in giudizio, urlando al terrorismo, in metà dei paesi del mondo, e avrebbe vinto.

Abuelaish credeva nel sistema legale israeliano. Il capo della giuria della Corte Suprema che ha ascoltato il suo caso, il giudice Isaac Amit, si è profuso in maniera repellente in manifestazioni sdolcinate di rammarico e gentilezza – “I nostri cuori sono con il ricorrente” – prima di ordinare al medico in lutto di sparire dalla sua vista.

Questa è la corte del cui futuro si preoccupano tanto i progressisti, il faro del quale dovremmo seguire la luce. Ci è stato detto che il tentativo da parte di qualcuno di danneggiarlo provocherebbe alla democrazia israeliana un disastro esistenziale. In effetti, non sarebbe un grande disastro. Nessun danno sarebbe provocato se non alla falsa reputazione di giustizia di Israele.

Ora, caro dottor Abuelaish, prenda una strada diversa. Se non la ascoltano a Gerusalemme, vada all’Aia. È vero che secondo il protocollo anche lì le sue prospettive sono scarse. La Corte penale internazionale non si occupa di singoli casi di negligenza e non ha giurisdizione in merito a tutto ciò che è accaduto qui prima del 2014.

Ma può presentare all’Aia una denuncia contro il sistema giudiziario israeliano per l’immunità automatica che garantisce per tutti i crimini di guerra commessi dallo Stato. Che la ascoltino o meno, questa ingiustizia deve avere un’eco mondiale. E poi, dottor Abuelaish, adotti un altro sistema, uno che potrebbe un giorno privare Israele di un po’ delle armi distruttive che hanno ucciso le sue figlie.

Invece di parlare di convivenza, parli di boicottaggi. Invece che di pace, parli di sanzioni. Si unisca al movimento BDS. Soltanto queste misure potrebbero portare al cambiamento per il quale sta combattendo. Questo è ciò che le ha insegnato la Corte Suprema di Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La violenza dei coloni fomenta la tensione in Cisgiordania

Donald Macintyre & Quique Kierszenbaum ad Al Mufakara

28 novembre 2021 – The Guardian

Mentre peggiorano gli attacchi contro i palestinesi, noi abbiamo parlato con contadini, coloni, attivisti israeliani per i diritti umani e con la madre di un bambino di tre anni ferito in un raid

L’attacco era già in corso quando, dopo essere andata velocemente dalla vicina a riprendersi il figlio più piccolo, Baraa Hamamda, 24 anni, è corsa a casa dove ha trovato Mohammed, tre anni, che giaceva in una piccola pozza di sangue e apparentemente senza vita sul nudo pavimento dove l’aveva lasciato addormentato. “Ho pensato: “Ecco, è morto,” dice. “Non tornerà in vita.”

Mohammed non era morto, anche se non riprenderà coscienza per oltre undici ore, perché era stato colpito alla testa da una pietra scagliata attraverso una finestra da un colono israeliano, uno delle decine che avevano invaso l’isolato villaggio di Al Mufakara che si trova in Cisgiordania, sulle aride e rocciose colline a sud di Hebron.

Alle 13,30 circa dei coloni provenienti da 2 avamposti illegali persino secondo la legge israeliana, Havat Maon e Avigayil, tra i quali sorge, in una posizione difficile, il villaggio palestinese, hanno aggredito un gruppo di pastori palestinesi della vicina Rakiz, lanciando pietre e accoltellando pecore, uccidendone sei. Oltre una dozzina dei 120 abitanti di Al Mufakara hanno risposto con sassi nel tentativo di respingerli. Ma i coloni, parecchi dei quali armati, sono entrati rapidamente nel villaggio e, mentre le donne si barricavano con i bambini nelle case, hanno lasciato una scia di finestre fracassate, auto rovesciate, parabrezza rotti, cisterne dell’acqua perforate, penumatici tagliati, pannelli solari vandalizzati e sei palestinesi feriti, incluso Mohammed.

Pare che all’inizio alcuni soldati abbiano tentato di interporsi, un video delle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] li mostra mentre stanno immobilizzando un colono. Ma Mahmoud Hamamda, il nonno di Mohammed, dice che quando sono arrivati i rinforzi si sono concentrati nel disperdere i palestinesi che stavano difendendo il villaggio, circa la metà dei quali si è ora ritirata nella valle sottostante. “Erano a fianco dei coloni, sparavano contro i palestinesi, gas lacrimogeni, granate stordenti e proiettili di gomma,” aggiunge. “Se Israele avesse fatto rispettare la legge nessuno di questi coloni sarebbe qui … invece i soldati israeliani arrivano con i fucili d’assalto M16 e affrontano gente disarmata.”

Tutto ciò solleva la domanda su cosa Israele stia facendo per contenere quello che sembra un crescente uso sistematico della violenza da parte dei coloni delle aree rurali. L’incursione contro Al Mufakara, che Haaretz, quotidiano israeliano di centro-sinistra, ha definito un “pogrom”, è il caso più eclatante fra quelli di una recente violenza in aumento da parte dei coloni. Le organizzazioni israeliane per i diritti umani sostengono che è usata sempre di più come strategia per tentare di allontanare molti dei 300.000 palestinesi che abitano nel 60% della zona agricola della Cisgiordania occupata designata come Area C [sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.] dagli accordi di Oslo.

Probabilmente i coloni stavano provando con la forza a fare quello che Israele cerca da tempo di ottenere con la burocrazia. A differenza della maggior parte dei coloni, agli abitanti palestinesi di villaggi come Mufakara non sono concessi permessi per costruire ambulatori medici e scuole o asfaltare le strade di accesso, così sconnesse da far rizzare i capelli. Non avendo accesso ai servizi, finiscono per pagare l’acqua cinque volte di più degli israeliani. Molte case hanno ricevuto dall’esercito ordini di demolizione. Questo va ad aggiungersi alle decine di migliaia di ettari di “terre demaniali” assegnate ai coloni anche se, da generazioni, sono state usate come pascoli dai palestinesi.

B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha affermato questo mese che lo Stato ha “sfruttato la violenza dei coloni per promuovere la propria politica di occupazione delle terre dei palestinesi a favore degli ebrei”.

Anche se Naftali Bennett, che a giugno ha sostituito Benjamin Netanyahu come primo ministro, è un nazionalista di destra, è stato obbligato a includere nella sua coalizione il partito laburista e il Meretz (il partito ebraico più di sinistra) così come, per la prima volta, Ra’am, un partito arabo di tendenza islamista. Alla base dell’accordo politico che Bennett ha stretto con i suoi partner di centro-sinistra c’era che non avrebbe coronato il proprio sogno di annettere de jure parti fondamentali della Cisgiordania e in cambio il governo si sarebbe concentrato sulle politiche riguardanti Israele vero e proprio: niente annessioni, ma neppure fine dell’occupazione.

Bennett condivide completamente la visione espansionistica dei leader dei coloni per i quali Israele si estende fino al fiume Giordano e ha promesso di continuare la crescita delle colonie esistenti. Mentre il ministro degli esteri Yair Lapid ha immediatamente twittato la condanna dell’attacco ad Al Mufakara definendolo “terrorismo” e “non il modo in cui si comportano gli ebrei”, Bennett non l’ha fatto.

Membri del Meretz [storico partito della sinistra sionista, ndtr.] che siedono all’opposizione nella Knesset, come l’avvocatessa Gaby Lasky, sono stati espliciti sulla necessità che il governo ordini ai soldati di usare i suoi evidenti poteri legali contro l’uso della violenza da parte dei miliziani coloni come “strumento strategico”, inclusi i metodi di controllo dei disordini che l’esercito applica regolarmente contro i palestinesi.

Lei fa notare che la Quarta Convenzione di Ginevra, quella violata da tutte le colonie nei territori conquistati da Israele nel 1967, impone espressamente, nell’articolo 27, che i soggetti di una potenza occupante “debbano essere protetti… da tutti gli atti di violenza o relative minacce”. Mentre i coloni vengono giudicati da tribunali civili israeliani e i palestinesi da quelli militari, “[l’esercito] può legalmente dispendere [i coloni]; può arrestare qualcuno fino all’arrivo della polizia”. Invece, dice, c’è stata “impunità verso i coloni violenti”.

Dopo aver espresso la propria preoccupazione presso le sedi diplomatiche, inclusa Washington, il ministro della Difesa, Benny Gantz, ha reso noto di aver convocato il 18 novembre i vertici di esercito, polizia e intelligence per inasprire le procedure contro quelli che lui chiama “crimini d’odio” in Cisgiordania, incluse nuove linee guida contro le truppe che “restano in attesa” durante gli attacchi dei coloni contro i palestinesi. Tra i presenti c’era anche Yehuda Fuchs, capo del Comando centrale delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), che, durante una delle rare visite ad Al Mufakara dopo l’invasione dei coloni, ha assicurato che “è dovere dell’esercito proteggere tutti gli abitanti”.

Ma Avner Gvaryahu, ex sergente dei corpi speciali nella Cisgiordania settentrionale e direttore esecutivo dell’organizzazione di veterani anti-occupazione Breaking the Silence [“Rompere il silenzio”, ong israeliana contraria all’occupazione formata da ex-soldati, ndtr.], è profondamente scettico. “Le parole non contano nulla,” dice. “Contano solo le azioni. Per ora la violenza dei coloni continua a devastare e Gantz non ha fatto nulla.”

Egli dubita che, anche se sul campo si impiegassero più forze di polizia, “ci sarebbero dei cambiamenti sostanziali” perché l’occupazione, le colonie e gli avamposti, “fanno tutti parte di un sistema di violenza. In questa situazione noi abbiamo il dovere di proteggere i palestinesi, eppure noi sappiamo che alla maggior parte dei soldati non viene detto che hanno l’autorità e a loro, semplicemente, non è ordinato di applicare la legge contro i coloni.”

C’erano sicuramente scarse prove durante la raccolta delle olive di quest’anno che, dopo l’attacco contro Al Mufakara, il cambio di governo avesse modificato il comportamento dei coloni. Nel villaggio di Turmus Aya un contadino di 42 anni, Mumtaz al Salmah, racconta come il 23 ottobre tre gruppi familiari palestinesi siano fuggiti davanti a 20 coloni mascherati che lanciavano pietre e che poi hanno svuotato i sacchi delle olive raccolte, dato fuoco a una macchina e tagliato le gomme di altre. Al Salmah, l’ultimo a fuggire, dice di essere stato bastonato sulla testa e sul collo e che le truppe arrivate hanno usato gas lacrimogeni e granate stordenti per respingere chi era arrivato dal villaggio per aiutare le famiglie, per farli smettere di scagliare pietre. “Adesso ho paura di andare con le donne e i bambini a raccogliere le olive,” dice. “Loro [i coloni] ci attaccano sulle nostre terre e davanti ai nostri bambini ed io non posso fare nulla.”

Anche i soldati sono stati attaccati da coloni estremisti. Ma ci sono fattori culturali che fanno sì che molti si schierino con i coloni. Gli esperti hanno stimato nel 2016 che da un terzo a metà delle reclute dell’esercito sposa il sionismo religioso, il credo dei coloni più ideologizzati, contro il 10% della popolazione in generale.

Oltre a dire che il sionismo religioso è “dominante” fino ai livelli più alti, Yehuda Shaul, un altro attivista anti-occupazione di spicco del Centro per gli affari pubblici di Israele, aggiunge che i coloni spesso godono di un rapporto “simbiotico” con unità dell’IDF a livello locale. Attingendo alla propria esperienza come coscritto a Hebron egli dice dei coloni: “La domenica sono nel mio accampamento e usano il poligono di tiro perché fanno parte delle mie unità di riservisti, il sabato mi invitano per il cholent (il tradizionale stufato dello Sabbath); il martedì il loro leader partecipa all’incontro delle IDF su intelligence e operazioni; il mercoledì faccio un giro con loro alla Tomba del Patriarca [Giuseppe] e volete che li arresti il giovedì? Ma siete matti?”

La presenza di ebrei civili israeliani può offrire ai contadini palestinesi una certa protezione. Un venerdì di questo mese, a Burin, un villaggio della Cisgiordania settentrionale, Michael Marmur, londinese, docente di teologia ebraica, che presiede Rabbis for Human Rights [“Rabbini per i Diritti Umani”, ndt.] era su una scala e raccoglieva olive con la famiglia Qaduz nei pressi di Givat Ronen, avamposto illegale e notoriamente abitato da estremisti. A Burin il mese precedente i soldati non avevano impedito ai coloni di prendere ripetutamente a pietrate una casa occupata da tre donne e un ragazzino e solo quando, dopo 40 minuti, finalmente è arrivato un contingente armato più numeroso, i coloni se ne sono andati, dando fuoco a 100 olivi.

Descrivendo “sottostimolati e fortemente motivati” i coloni “giovani delle colline”, in prima fila nella battaglia per l’Area C, Marmur cita il comandamento biblico di non “distogliere lo sguardo” e dichiara “un obbligo morale opporsi alle quotidiane violazioni dei diritti umani”.

Il contadino Jamal Qaduz, 48 anni, ha mostrato la sua gratitudine ai suoi visitatori israeliani non solo con generose porzioni di arrayes (piadine farcite di carne), ma dicendo, mentre saliva verso i suoi oliveti con le olive ancora da raccogliere nei pressi di Givat Ronen: “La prossima settimana avremo bisogno di molti altri volontari, ho paura di avvicinarmi di più senza di loro.”

Seppure con poche speranze, Qaduz ha presentato un reclamo alla polizia sull’incidente della settimana precedente. Secondo Yesh Din, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, oltre l’80% di tali reclami non si conclude con un’indagine penale e dal 2015 al 2019 solo il 9% è finito con un rinvio a giudizio.

A Burin i coloni non hanno sparato. Ma il 10 novembre nel villaggio di Khalat al-Daba, sulle colline a sud di Hebron, gli eventi hanno preso una piega più inquietante. I coloni, a cui un ufficiale militare dell’amministrazione civile aveva detto di smantellare una tenda che avevano eretto, ufficialmente per far ombra alle loro pecore, ma vicino a una masseria palestinese, sono rimasti nella zona, spostando il loro gregge sotto gli olivi coltivati dagli abitanti del villaggio.

Itai Feitelson è arrivato poco dopo le 8 con altri attivisti, palestinesi e israeliani, in seguito alle informazioni secondo cui i coloni avevano cominciato a tirare pietre, rompendo la gamba di un palestinese di 64 anni. Feitelson, 26 anni, appartiene a una nuova generazione di attivisti israeliani che passano lunghi periodi sulle colline a sud di Hebron, imparando l’arabo e aiutando gli agricoltori palestinesi. Membro di quella che lui descrive come una “famiglia israeliana tradizionale”, Feitelson ha fatto i suoi tre anni di servizio militare nel nord di Israele, scegliendo un distaccamento di intelligence, un compromesso che non l’avrebbe invischiato nell’occupazione, ma gradualmente ha deciso di impegnarsi di più. Dice: “Non mi piace farmi sparare, ma mi piace raccogliere le olive, mi piace andare con i pastori, mi piace vivere nei villaggi.

Non ci sono molte vittorie. Qualche volta si può rendere meno tesa una situazione o prevenire un arresto o avere la sensazione che una protesta è soppressa in modo meno duro perché ci sono degli israeliani qui.”

Eppure quella notte a Khalat al-Daba Feitelson ha solo potuto testimoniare gli eventi che si sono svolti rapidamente nel buio. C’è stata una drammatica escalation quando, in quello che sembrava il momento di massima tensione, i soldati improvvisamente “sono saliti sulle loro jeep e se ne sono andati ”.

Una tregua minacciosa è stata seguita da “un fittissimo lancio di pietre da entrambe le parti” fino a che, appena sette minuti dopo che l’esercito se n’era andato “i coloni hanno cominciato a sparare come pazzi”, apparentemente con delle pistole, ferendo due palestinesi e colpendo dei veicoli, inclusa un’ambulanza palestinese. Dopo ci sono voluti 40 minuti prima che, su insistenza degli abitanti del villaggio, sia ricomparso l’esercito che ha ordinato ai palestinesi di ritornare al paese e infine ha scortato i coloni verso l’avamposto illegale di Mitzpe Yair.

Ho visto i coloni sparare,” dice Feitelson, “ma mai per 40 minuti. La cosa più incredibile da quello che ho capito … è che l’esercito se ne sia andato. Era così ovvio che la situazione stava per peggiorare.”

La relazione di questo mese di B’Tselem si concentra principalmente su un nuovo tipo di avamposto “non autorizzato”, 40 “fattorie” sparse in Cisgiordania che gradualmente si stanno impadronendo di pascoli e fonti d’acqua, vitali per i palestinesi. Questo, dice Yehuda Shaul, “sarà l’ultimo chiodo piantato nella bara delle comunità pastorali palestinesi”. La violenza, sostiene Shaul, è “esistenziale per le fattorie… un passo necessario” verso l’obiettivo di “rimuovere le comunità di pastori palestinesi”.

Il 7 novembre, degli uomini provenienti da una di queste fattorie, di proprietà del colono Issachar Mann, si sono diretti verso il villaggio di al-Tha’ala e sono riusciti ad abbeverare le proprie pecore a una cisterna da tempo usata e di cui si occupano pastori palestinesi. Tali cisterne sono fondamentali per l’economia pastorale palestinese perché gli abitanti dei villaggi dipendono da esse per le proprie pecore.

Un attivista palestinese, Basil Adraa, è arrivato in tempo per filmare scene caotiche mentre i soldati respingevano i palestinesi verso il villaggio permettendo nel contempo alle pecore dei coloni di raggiungere la cisterna. I soldati dicono che l’uso della cisterna è “permesso a entrambe le parti”. Comprensibilmente, i palestinesi la considerano totalmente di loro proprietà. In uno scambio rivelatore, un ufficiale ha chiesto ad Adraa il suo nome. Adraa gli ha risposto in ebraico: “Perché non chiedi ai coloni mascherati di identificarsi?”

Non preoccuparti,” replica l’ufficiale, “li conosco molto bene.”

L’incidente ad al-Tha’ala è successo mentre a Susiya, un paese vicino, Hamdan Mohammed stava descrivendo una scena bizzarra del giorno prima, quando dei coloni hanno fatto irruzione nel campo giochi del villaggio creando l’immagine di uomini fatti e adolescenti che sghignazzando andavano su altalene e dondoli mentre tutt’intorno i soldati dell’IDF impedivano ai palestinesi di entrare. Era il sabbath, cosa che ha spinto Hamdan a commentare: “Non rispettano la loro stessa religione.”

Ben oltre mille anni fa ebrei e musulmani hanno occupato occasionalmente la zona. Il villaggio palestinese di Susiya è destinato a essere demolito, in quanto giudicato illegale ai sensi della legge israeliana, sebbene non lo sia più di 150 avamposti ebraici molto più recenti e “non autorizzati”, incluso quello di Givat Ha Degel, da cui provenivano alcuni degli invasori del parco giochi. Secondo il diritto internazionale la parte palestinese del villaggio è completamente legale, motivo per cui EU e USA sono da tempo contrari alla sua demolizione.

La Susiya israeliana, di cui Givat Ha Degel è un avamposto, è la colonia più grande della zona. Ma, sebbene alcuni dei suoi 1.500 abitanti si siano uniti all’irruzione del parco giochi, Nadav Abrahamov, importante colono di Susiya, dice che è stato un “errore”. Egli dice che non c’è stata “violenza”, ma che i coloni della zona “si erano veramente arrabbiati” vedendo un nuovo parco giochi in un’area su cui pendono degli ordini di demolizione e poi che, proprio quella mattina, degli attivisti israeliani erano arrivati a filmare delle case costruite recentemente a Givat Ha Degel.

Ciononostante, dice Abrahamov, l’episodio è stato “uno stupido incidente. Non avrebbe dovuto succedere.” Inoltre sostiene che l’irruzione ad Al Mufakara è stata l’azione di “una minoranza di una minoranza”, anche se riconosce di non sapere “esattamente cos’è successo”.

Qualsiasi soluzione, dice Abrahamov, richiede la rimozione degli attivisti israeliani, che descrive ripetutamente come “anarchici” e che, insiste, sono “quelli che creano le tensioni”. Egli dice che “senza di loro, noi [i coloni e i palestinesi aggrappati al loro villaggio di Susiya] possiamo trovare un modo di vivere insieme”. Egli dice che i leader della colonia di Susiya hanno ripetutamente impedito agli abitanti di ripetere l’irruzione al parco giochi il sabato successivo, in effetti stringendo un accordo con l’esercito che avrebbe vietato l’ingresso all’area agli “anarchici”. In realtà quel sabato l’esercito ha piazzato dei checkpoint temporanei, impedendo alle auto con targa israeliana, incluse, per due ore, quelle dell’Observer, di raggiungere le colline a sud di Hebron.

Eppure, nonostante l’asserzione che i coloni di Susiya senza gli “anarchici” avrebbero potuto coabitare con i palestinesi di Susiya, che preferirebbero non esistessero, resta un abisso incolmabile fra la loro visione e quella della comunità internazionale su chi abbia o meno il diritto di abitare sulle colline a sud di Hebron e nel resto dell’Area C. La designazione di Area C, indispensabile per il futuro dello Stato palestinese che i governi stranieri insistono nel volere, doveva essere temporanea, in attesa di un accordo di pace finale. Invece i coloni adesso stanno aspettando la sua completa annessione a Israele. “Noi siamo una parte integrale di Israele, ma non [ancora] nello Stato di Israele,” si lamenta Shmaya Berkowitz, un altro colono di Susiya.

Né il concetto che la violenza dei coloni sia limitata a una frangia ultra-estremista si sposa facilmente con l’accusa di organizzazioni come Yesh Din, sostenute da prove crescenti, secondo cui essa è “parte di una strategia calcolata per privare i palestinesi delle loro terre”. O con Yehuda Shaul, convinto sostenitore dell’accordo a due Stati con i palestinesi, che sostiene che “la violenza dei coloni non è una storia di 50 matti alla periferia del movimento … ma un passo essenziale nell’evoluzione del progetto coloniale”.

L’altra settimana l’esercito israeliano ha detto di essere “impegnato a garantire il benessere di tutti gli abitanti della zona e ad agire per prevenire la violenza nella sua area di responsabilità”. Riferendosi ai coloni, ha aggiunto: “Qualsiasi affermazione che l’IDF supporti o permetta violenze da parte degli abitanti dell’area è falsa.”

Tornando ad Al Mufakara, Baraa Hamamda dice che da quel pomeriggio di settembre i suoi bambini sono traumatizzati e che adesso sono spaventati dalle finestre, sapendo che sono fatte di vetro che può essere rotto da una pietra. “Loro dicono: ‘Come fanno i vetri a proteggerci? Noi non abbiamo bisogno di finestre.’”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una madre sola palestinese fa sorgere una tendopoli in segno di protesta contro la gentrificazione di Giaffa

Oren Ziv

23 novembre 2021 – +972 Magazine

Anni di abbandono da parte dello Stato e l’aumento dei prezzi fanno sì che le famiglie palestinesi non possano più permettersi un affitto nella propria città. I manifestanti hanno allestito tende per chiedere soluzioni.

Farida Najar aspetta da quattro anni di ricevere un alloggio pubblico a Giaffa. Ma questa madre palestinese sola con quattro figli non può più affrontare l’aumento degli affitti nella città in cui è nata e cresciuta. La scorsa settimana ha trasferito la sua famiglia in una tenda in un parco pubblico, per protestare contro la gentrificazione razziale che, secondo lei, sta cacciando via da Giaffa gli abitanti palestinesi.

“Mi sono trasferita in una tenda perché non ho una casa in cui vivere”, dice Najar a +972 Magazine. Tutto quello che voglio è un appartamento. Lo Stato vuole che ce ne andiamo in altre città come Lydda o Ramle [altre città israeliane con una forte presenza di arabo-israeliani, ndtr.]. Questa è una politica razzista e non resteremo in silenzio”.

Giorni dopo che Najar aveva montato la sua tenda, altre madri sole che affrontano sfide simili hanno iniziato ad unirsi a lei. Mercoledì il piccolo parco di Yefet Street era pieno di tende.

In un primo momento, nonostante l’ordine municipale di sgombero emesso contro la tendopoli, le 10 famiglie hanno continuato a rimanere nel parco con i loro bambini. Nemmeno le forti piogge le hanno scoraggiate. Decine di manifestanti palestinesi e israeliani, tra cui i parlamentari Ayman Odeh, Sami Abu Shehadeh e Ofer Cassif [tutti e tre parlamentari arabo-israeliani della Lista Unita, ndtr.] hanno partecipato per tutta la settimana alle veglie per sostenere la lotta delle madri sole.

Ma dopo un incontro domenicale con il Mishlama, settore locale del comune di Tel Aviv che si occupa di questioni riguardanti gli abitanti di Giaffa, alcune famiglie hanno accettato di lasciare immediatamente il parco in cambio di aiuti sociali e finanziari, anche se non è stato offerto loro un alloggio come soluzione definitiva. Fino a lunedì almeno sei delle donne hanno firmato quelli che hanno descritto come ” accordi migliori ” e hanno lasciato l’accampamento di protesta.

Le donne che hanno deciso di restare, tra cui Najar, si sono trasferite a dormire nel rifugio pubblico del parco, dopo che martedì mattina sono arrivati gli agenti comunali per rimuovere il materiale rimasto.

L’accampamento di protesta è stato eretto da famiglie di Giaffa, per lo più madri sole, che stanno vivendo gravi difficoltà a causa di anni di abbandono da parte delle politiche governative riguardanti l’edilizia popolare”, ha detto a +972 Magazine un portavoce di Tel Aviv-Giaffa. “Le tende sono state smantellate volontariamente, dopo un incontro tra le donne, il Comitato di rappresentanza di Giaffa e i rappresentanti del comune, il cui obiettivo era trovare soluzioni per le famiglie e porre fine alla protesta in modo rispettoso e non violento”.

Il portavoce ha aggiunto che i rappresentanti dei servizi sociali del comune e del Comitato di rappresentanza di Giaffa si incontreranno con le donne ogni due settimane per seguire i loro casi.

Ogni protesta è legittima e il comune incoraggia gli abitanti a partecipare attivamente alla dialettica democratica. Detto ciò, l’allestimento di un campo in uno spazio pubblico ha un limite di tempo, indipendentemente dalla legittimità della causa”, aggiunge il portavoce.

Anche se le famiglie hanno diritto all’edilizia pubblica, anni di politiche carenti hanno reso quasi impossibile assicurarsi un appartamento economico in città. Esse dicono che i sussidi che nel frattempo ricevono dallo Stato non bastano a coprire un affitto a Giaffa.

La carenza di appartamenti di edilizia pubblica disponibili a Tel Aviv in generale e a Giaffa in particolare fa sì che le famiglie spesso aspettino anni prima di assicurarsi un alloggio a prezzi accessibili. Secondo un rapporto del 2019 della Corte dei Conti le persone che hanno diritto all’alloggio popolare hanno dovuto aspettare in media 31 mesi per ricevere un appartamento, e nella zona centrale di Israele i tempi di attesa possono essere anche più lunghi.

“I nostri genitori hanno debiti e non possono aiutarci, e ora noi non possiamo aiutare i nostri figli”, lamenta Najar.

Una delle donne che si è unita a Najar è Fatima, madre di quattro figli, che ha preferito non far sapere il suo cognome. “Siamo 8 famiglie con 27 bambini, viviamo come una grande famiglia”, dice. Siamo qui perché non abbiamo un tetto sotto cui vivere con i nostri figli. A Giaffa l’affitto è caro e l’assistenza che riceviamo dallo Stato non ci permette di vivere dignitosamente».

“All’inizio i bambini pensavano che fossimo in campeggio, ma dopo pochi giorni per loro è diventato difficile”, prosegue Fatima. “Con questa pioggia ne hanno abbastanza, ma resteremo qui finché non vedremo soddisfatti i nostri diritti”.

La crisi abitativa che i cittadini palestinesi affrontano a Giaffa ha un contesto storico più ampio. Dopo la Nakba del 1948 [l’esodo della popolazione araba palestinese in seguito alla guerra di occupazione israeliana, ndtr.] gli abitanti palestinesi rimasti a Giaffa vennero concentrati nei quartieri di Ajami e Jabalia, dove molti ricevettero lo status di protezione” come affittuari in case di loro proprietà o appartenenti a famiglie di palestinesi sfollati o profughi. Quelle case vennero registrate come di proprietari “assenti”, per cui alla fine furono trasferite all’Autorità statale per lo sviluppo.

Negli ultimi anni i progetti per la costruzione di immobili di lusso hanno dominato il paesaggio della città costiera e le società di edilizia residenziale pubblica hanno venduto gli edifici a investitori privati. Ciò ha reso ancora più difficile per gli abitanti palestinesi del luogo prendere in affitto o acquistare una casa a Giaffa.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I palestinesi si scontrano con la sicurezza israeliana dopo l’attacco terroristico a Gerusalemme

Rina Bassist

22 novembre 2021 Al Monitor

I residenti del campo profughi di Gerusalemme est Shuafat si sono scontrati con le forze di sicurezza israeliane esprimendo il loro sostegno all’assalitore che ha ucciso un israeliano e ne ha ferito altri quattro nei vicoli della Città Vecchia di Gerusalemme

Centinaia di palestinesi hanno marciato il 21 novembre attraverso il campo profughi di Shuafat a Gerusalemme est a sostegno di Fadi Abu Shkhaydam, che ha sparato e ucciso un cittadino israeliano e ne ha ferito altri quattro all’inizio della giornata. Dopo la sparatoria le forze di sicurezza israeliane sono arrivate al campo per arrestare diversi familiari di Abu Shkhaydam sospettati di averlo assistito. Secondo quanto riferito, i sospetti sono aumentati dopo che si è saputo che la moglie di Abu Shkhaydam e alcuni dei suoi figli avevano lasciato la loro casa a Shuafat tre giorni prima dell’attacco.

Secondo quanto riferito, i residenti di Shuafat si sono riuniti per protestare contro il raid. I manifestanti hanno dato fuoco a pneumatici e lanciato sassi contro gli agenti della polizia di frontiera che sono giunti sul posto, mentre cantavano canzoni di sostegno all’ala militare di Hamas. Hanno anche chiamato ad uno sciopero generale oggi a Shuafat.

La sparatoria è avvenuta la mattina del 21 novembre nella Città Vecchia di Gerusalemme. Abu Shkhaydam, noto alle agenzie di sicurezza israeliane come membro di Hamas, ha sparato più volte con un fucile automatico contro un gruppo di civili israeliani e agenti di polizia israeliani nei vicoli della Città Vecchia. Una delle persone prese di mira da Abu Shkhaydam era Eliyahu David Kay, 26 anni, una guida turistica della Western Wall Heritage Foundation, immigrato un paio di anni fa dal Sudafrica e in procinto di sposarsi con la sua fidanzata. Abu Shkhaydam gli ha sparato più volte, incluso un colpo mortale alla testa. Gli agenti di polizia sulla scena hanno sparato ad Abu Shkhaydam dopo che aveva aperto il fuoco, uccidendolo.

Il ministro dell’interno, Omer Bar Lev, ha affermato che l’aggressore “si è mosso attraverso i vicoli e ha sparato un bel po’. Fortunatamente, il vicolo era semideserto perché altrimenti – il cielo non voglia – ci sarebbero state più vittime. L’intero incidente è durato 32 o 36 secondi. L’azione delle agenti donne è stata al più alto livello operativo possibile”.

Migliaia di persone hanno partecipato al funerale di Kay questa mattina. Una delle quattro persone ferite sarebbe ricoverata a Gerusalemme in condizioni critiche. Il primo ministro Naftali Bennett ha twittato ieri: “Il cuore piange per l’amato Eliyahu David Kay che è stato ucciso questa mattina da un vile terrorista a Gerusalemme. Eliyahu è emigrato in Israele dal Sud Africa, ha servito come paracadutista nel 202° battaglione e per il suo sostentamento ha lavorato come guida turistica al Muro del Pianto. Incarnava il meraviglioso israeliano che è legato al suo paese e alla sua patria”.

L’incidente è stato il primo del suo genere nella Città Vecchia di Gerusalemme dal 2018, quando un uomo ebreo – Adiel Kolman – fu pugnalato a morte. Kolman aveva lavorato all’epoca negli scavi archeologici nel vicino sito della Città di David.

Le informazioni dicono che Abu Shkhaydam era un insegnante di studi islamici e che frequentava assiduamente la moschea di Al-Aqsa. Altri rapporti sostengono che di tanto in tanto predicava nel complesso del Monte del Tempio. Una dichiarazione di Hamas ha elogiato Abu Shkhaydam per il suo atto, affermando: “La Città Santa continua a combattere contro l’occupante straniero e non si arrenderà all’occupazione”.

Hamas non ha rivendicato l’attentato.

Questa mattina il ministero degli Esteri francese ha condannato l’attentato nella Città Vecchia di Gerusalemme.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




“È divertente sparare ai palestinesi”: parlano sei ex-soldati israeliani

Rasha Reslan

21 novembre 2021- Al Mayadeen

Sei soldati dell’occupazione israeliana rievocano in un video le atrocità che hanno commesso in una realtà sconcertante che riflette la gravità della situazione ad al-Khalil da un punto di vista: una realtà di crimini contro l’umanità.

Ai soldati piace proprio sparare proiettili ricoperti di gomma.”

E’ divertente.”

Tutti si danno il cinque.”

Sei fantastico, l’hai beccato.”

Di recente il New York Times ha ottenuto dalla regista ed ‘ex’-soldatessa israeliana Rona Segal un documentario breve: “Mission: Hebron”.

È la prima volta negli ultimi anni che un documentario mette in luce una parte delle sofferenze giornaliere dei palestinesi nella al-Khalil/“Hebron” occupata: una realtà sconvolgente che raramente viene consentito all’opinione pubblica di vedere.

Al-Khalil è considerata la più grande città della Cisgiordania occupata e l’unica in cui i coloni israeliani abitano accanto ai palestinesi, accentuando quindi le loro sofferenze.

I palestinesi devono affrontare gravi limitazioni agli spostamenti, in quanto le forze di occupazione israeliane sono costantemente presenti e impegnate da molto tempo a espellerli, in particolare dalla Città Vecchia.

Nei suoi sei capitoli il breve documentario inquadra le atrocità israeliane ad al-Khalil

Sei soldati dell’occupazione israeliana, tutti arruolati all’età di 18 anni, descrivono la loro cosiddetta “missione” ad al-Khalil. A loro è stato “affidato l’incarico di proteggere e controllare i coloni israeliani.” A questi soldati appena maggiorenni è stato dato un totale controllo sulle vite dei palestinesi in città.

I sei ‘ex’ soldati descrivono in un set in studio la loro “missione” basata sui “doveri stabiliti dalle loro regole d’ingaggio”: i coloni israeliani di al-Khalil sono “controllati e protetti” attraverso una serie di strategie, rendendo nel contempo insopportabili le vite dei civili palestinesi.

Ripensandoci, i soldati ricordano la loro confusione, il loro disagio e il loro odio.

Raccontano sullo schermo le atrocità commesse con una nuova prospettiva della gravità della situazione sul terreno ad al-Khalil, che costituisce un crimine contro l’umanità, di apartheid e persecuzione.

Missione” principale

Il tuo unico compito è di controllare e proteggere i coloni israeliani a Hebron (al-Khalil).”

Chiarendo che il compito dei soldati israeliani è di proteggere e scortare i coloni israeliani con ogni mezzo, risulta chiaro che la crescente e sempre più grave violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi viene attuata con l’esplicito appoggio delle autorità israeliane di occupazione. Nel contempo i soldati israeliani hanno l’ordine di chiudere gli occhi e persino di difendere i responsabili [delle violenze].

La violenza dei coloni contro i palestinesi include danneggiamento di proprietà privata, lancio di pietre e aggressioni fisiche, così come attacchi contro attivisti e giornalisti.

Tali aggressioni sono diventate sempre più frequenti negli ultimi anni e vengono commesse impunemente.

Uno dei soldati israeliani testimonia che è un coordinatore della sicurezza dei coloni israeliani che gli dà gli ordini, non il loro comandante militare. In molti casi i soldati dell’occupazione israeliana forniscono agli aggressori una scorta e un supporto. Ma quando i soldati israeliani non si uniscono agli attacchi, secondo le ammissioni dei soldati, “i coloni illegali possono rivoltarsi contro di loro, diventando quindi nemici,”.

Se spari ai palestinesi i coloni ti danno una pizza e un caffè.” Questo è di gran lunga uno degli aspetti più sgradevoli della “missione”. L’‘affetto’ dei coloni può trasformarsi in odio se a loro viene vietato di fare aggressioni estreme contro i palestinesi. A questo punto il soldato che prima era amato si trasforma in “traditore” e “nazista”.

Una strada sterilizzata senza palestinesi”

Con un’affermazione razzista, uno degli ‘ex’ soldati israeliani afferma che ci sono strade che sono “sterilizzate da palestinesi”.

Come parte della politica dell’esercito israeliano di rendere queste zone “sterilizzate” da palestinesi, ad al-Khalil le forze israeliane di occupazione vietano ai palestinesi di camminare in vaste aree di quella che prima dell’occupazione era la principale arteria della città.

Nel suo racconto Imad Abu Shamsieh, il coordinatore dello Human Rights Defenders Group [Gruppo dei Difensori dei Diritti Umani, ong palestinese che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi, ndtr.], dice ad al Mayadeen in edizione inglese che l’occupazione israeliana ha piazzato più di cento posti di controllo con cancelli in metallo ed elettronici, videocamere di sorveglianza, barriere di cemento armato e avamposti di ispezione nelle vie “sterilizzate”.

Rivela anche che circa 525 negozi palestinesi cono stati completamente chiusi nel 2000 a causa della decisione di un tribunale militare dell’occupazione israeliana.

Inoltre Abu Shamsieh afferma chiaramente che dall’ottobre del 2000 i veicoli palestinesi, comprese le ambulanze, sono esclusi dall’“area H2” [sotto totale controllo israeliano, ndtr.].

L’attivista per i diritti umani continua affermando che “le forze di occupazione israeliane impediscono ai giornalisti locali e internazionali di entrare nell’area H2 e nelle strade sterilizzate. Nel contempo io, insieme a un gruppo di palestinesi di al-Khalil, abbiamo deciso di documentare i crimini di guerra israeliani che avvengono giornalmente e prendono di mira uomini, donne e bambini palestinesi.”

Dal 2010, con l’iniziativa ‘Capturing Occupation Camera Project in Palestine’ [Progetto della Telecamera che Riprende l’Occupazione in Palestina]”, abbiamo iniziato a filmare le atrocità dell’occupazione israeliana contro i palestinesi.

Siamo un gruppo di circa 30 giovani volontari palestinesi che mettono in evidenza e documentano le violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali in Palestina,” dice Abu Shamsieh ad Al Mayadeen.

Perquisizioni corporali

Uno dei soldati israeliani afferma spavaldo che lo scopo principale delle perquisizioni corporali è “fermare e perquisire ogni palestinese”, ma implicitamente le perquisizioni sono di fatto intese a umiliare i palestinesi senza alcuna giustificazione legale.

Quando perquisisci qualcuno che prendi per la strada ciò richiede di toccare la persona,” dice un soldato.

Un gruppo di uomini palestinesi può essere preso di mira per una perquisizione semplicemente perché può avere un aspetto basato sullo stereotipo hollywoodiano razzista di “terrorista” nella mente dell’occupante. Le perquisizioni non sono messe in atto per trovare armi, ma per umiliare i palestinesi o creare “tensioni” tra loro. “L’idea è di provocare loro tensione, in modo che tengano la testa bassa.”

A causa della vicinanza delle colonie israeliane in città, i palestinesi sono circondati da una grande presenza militare e sono sottoposti a caso a perquisizioni di routine e offensive, a maltrattamenti e pestaggi.

Pattuglie

La ricercatrice sul campo palestinese Manal al-Jaabari di al-Khalil dice ad Al Mayadeen che i minori di al-Harika, un quartiere della città, sono quotidianamente soggetti al terrorismo israeliano.

Ad al-Harika, che si trova nei pressi di “Kiryat Arba” [una delle prime e più violente colonie israeliane, ndtr.], le forze dell’occupazione israeliana entrano nelle case dei palestinesi quando viene lanciata una pietra contro la barriera, e i minori vengono interrogati nelle loro case. A volte i soldati israeliani li trascinano per le strade e li piazzano davanti alle telecamere di sorveglianza,” aggiunge.

La giovane ricercatrice afferma con commozione che i soldati israeliani incitano giovani coloni israeliani ad aggredire ragazzini palestinesi della loro età nel quartiere di Jaber.

Le forze di occupazione israeliane affermano di essere state colpite da pietre per arrestarli o detenere minori palestinesi per ore, conferma al-Jaabari ad Al Mayadeen.

Nei pressi delle scuole, soprattutto nella zona sud vicino ai posti di controllo, molti minori sono arrestati e detenuti per lunghi periodi. A volte vengono picchiati o insultati e lasciati senza cibo e senz’acqua prima di essere consegnati all’al-Khalil Coordination and Liaison Office [Ufficio del Coordinamento e Collegamento di Al-Khalil] se hanno un’età inferiore ai 13 anni.”

Sopra questo limite d’età vengono arrestati e sottoposti a un’indagine alla stazione della polizia israeliana occupante, poi trasferiti in un tribunale israeliano o multati per almeno 1000 shekel [circa 280 €] prima di essere rilasciati.

Ai posti di controllo è tutta una questione casuale

Piazzi degli spuntoni antigomme, fermi le auto e provochi un grande ingorgo.” 

A volte non c’è nessuna ragione.”

Mentre i posti di controllo israeliani ostacolano la vita quotidiana dei palestinesi in città, gli ‘ex’ soldati israeliani confessano che un checkpoint è una specie di posto di blocco stradale.

È solo un episodio e quello che è stato documentato dal Palestinian Human Rights Defenders Group è molto più tragico.

Abu Shamsieh racconta ad Al Mayadeen che nel 2016 la sua telecamera ha ripreso l’esecuzione a sangue freddo del martire Abdel Fattah al-Sharif a uno dei posti di controllo dell’occupazione israeliana.

Il difensore dei diritti umani afferma che il caso di al-Sharif è solo uno dei molti crimini di guerra israeliani.

Egli rivela anche ad Al Mayadeen in versione inglese che i coloni israeliani hanno regolarmente investito bambini palestinesi persino di cinque anni.

Abu Shamsieh afferma di aver subito maltrattamenti, limitazioni alla sua libertà di movimento, sequestri, lunghi periodi di detenzione arbitraria, in genere con ordini di detenzione amministrativa [cioè senza accuse né processo, ndtr.] e perquisizioni illegali in casa e nel suo ufficio, per non parlare delle minacce di morte.

Detenzioni: “chiunque è sospetto”

Secondo le confessioni dei soldati, ogni palestinese è sospetto, e la procedura di arresto include il fatto di mettere ogni palestinese “in un posto con un soldato e poi tenerlo sotto sorveglianza’

Gli ‘ex’ soldati testimoniano che i militari israeliani mettono una benda sugli occhi e ammanettano i palestinesi arrestati a caso.

Come ogni città e villaggio palestinese, anche al-Khalil assiste quotidianamente ad arresti arbitrari di palestinesi, anche di bambini di 10 anni.

La violenta repressione delle proteste da parte delle forze di occupazione israeliane ha anche incluso l’arresto e la detenzione di manifestanti palestinesi.

Un altro “compito”: prendere di mira i giornalisti

Da parte sua un giornalista palestinese sul campo di al-Khalil, Sari Jaradat, dice ad Al Mayadeen che le forze dell’occupazione israeliana impediscono deliberatamente ai giornalisti palestinesi e internazionali di informare sull’attualità per nascondere i loro crimini quotidiani che colpiscono ogni aspetto della vita in città.

Circa una settimana fa un ufficiale dell’occupazione mi ha detto: ‘Se vieni ucciso dai nostri proiettili noi non ne avremo alcuna responsabilità.’”

Avevano già l’intenzione di prendermi di mira per impedirmi di fare il mio lavoro ed ho subito in totale cinque ferite da proiettili veri mentre informavo sui loro crimini, per non parlare delle decine di fermi, arresti, divieti di informare e limitazioni agli spostamenti,” aggiunge.

Jaradat parla del progetto “Blue Wolf” e dell’installazione ad al-Khalil di telecamere per il riconoscimento facciale, affermando che queste telecamere porteranno all’eliminazione della libertà più importante, quella della stampa, che è già limitata.

I soldati dell’occupazione israeliana emaneranno qualunque legge desiderino per impedire ai giornalisti palestinesi di fare il loro lavoro,” aggiunge.

La sistematica oppressione dei palestinesi è stata parzialmente riflessa da “Mission” ed evidenziata nel suo complesso dalle testimonianze accorate di Sari, Imad e Manal. Eppure ciò che sta avvenendo in Palestina, e in particolare ad al-Khalil, non può essere documentato o riassunto in un film, in un titolo o in una foto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La messa al bando dei difensori dei diritti umani: Israele e Sudafrica a confronto

La messa al bando dei difensori dei diritti umani: Israele e Sudafrica a confronto

Neppure il regime di apartheid in Sudafrica mise mai fuorilegge i difensori dei diritti umani come ha appena fatto Israele che ha dichiarato “organizzazioni terroriste” sei associazioni palestinesi

John Dugard

16 novembre 2021- Mondoweiss

 

Israele ha definito “organizzazioni terroriste” sei associazioni dedite alla causa dei diritti umani nella Palestina occupata. Esse sono: A- Haq che monitora violazioni dei diritti umani nella Palestina occupata e che recentemente ha giocato un ruolo importante nel fornire assistenza al pubblico ministero della Corte Penale Internazionale nelle sue indagini sui crimini commessi da Israele nella Palestina occupata; Addameer che fornisce supporto legale ai prigionieri palestinesi e denuncia le torture contro i detenuti commesse da Israele; Defense for Children International  [Difesa internazionale dei minori -Palestina] che promuove il benessere dei minorenni nella Palestina occupata; la Union of Agricultural Work Committees [Unione dei Comitati del lavoro agricolo], la Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] e il Bisan Center for Research and Development  [Centro Bisan per la Ricerca e lo Sviluppo].

Questa dichiarazione, fatta ai sensi di una legge israeliana del 2016, autorizza Israele a chiudere i loro uffici, confiscarne i beni, incarcerare i dipendenti, proibirne il finanziamento e punire il sostegno pubblico per le loro attività.

Oggi si fanno sempre più spesso paragoni fra le leggi e le pratiche dell’apartheid in Sudafrica e in Israele nella Palestina occupata. Due organizzazioni per i diritti umani molto autorevoli, Human Rights Watch, con base negli Stati Uniti, e l’ong israeliana B’Tselem hanno recentemente dichiarato che Israele pratica l’apartheid nella Palestina occupata. Al momento iI pubblico ministero della Corte Penale Internazionale sta indagando se Israele abbia commesso il crimine di apartheid nella Palestina occupata. Nel 2007, quando ero relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati ho denunciato di non avere dubbi che le leggi e le pratiche israeliane costituiscano apartheid, un giudizio basato su 40 anni di vita sotto l’apartheid in Sudafrica e per aver diretto un organismo di difesa dei diritti umani per oltre 10 anni.

Ciò mi induce a esaminare la reazione nel Sudafrica sotto l’apartheid contro le organizzazioni di opposizione o che monitoravano le sue pratiche razziste e repressive.

La legislazione del Sudafrica assomigliava alla legge israeliana del 2016 che ha permesso di dichiarare illegali le organizzazioni. Applicando tali norme il governo sudafricano mise fuori legge, fra gli altri, il partito comunista, l’African National Congress, il partito Liberale, il National Union of South African Students [Sindacato nazionale degli studenti sudafricani] e il Christian Institute, [Istituto Cristiano]. Queste leggi erano chiaramente così ampie da permettere al regime d’apartheid di chiudere organizzazioni che monitoravano violazioni di diritti umani, difendevano diritti umani e lottavano per i diritti umani.

Verso la fine degli anni ’70, al culmine dell’apartheid, furono fondate varie organizzazioni per i diritti umani, quasi tutte con fondi provenienti dagli Stati Uniti.

Insieme monitoravano violazioni di diritti umani, propugnavano uguaglianza razziale e libertà politica, si opponevano alla repressione politica e lottavano per il cambiamento sociale. Il lavoro di queste organizzazioni assomigliava, sotto molti aspetti, a quello delle sei organizzazioni palestinesi recentemente dichiarate illegali. Una di queste era il Centre for Applied Legal Studies [Centro per gli Studi Giuridici Applicati] che dirigevo io.

Il regime di apartheid in Sudafrica mise in chiaro di non gradire queste organizzazioni di difesa dei diritti umani, soprattutto quando le loro pubblicazioni e denunce attiravano l’attenzione su tortura, confisca di terre, demolizioni di case, repressione politica e apartheid, il tipo di attività per cui le sei associazioni palestinesi per la difesa dei diritti umani sono state bandite.

Ma non bandì queste organizzazioni, sebbene ci fossero leggi che l’avrebbero autorizzato. Perché? Sospetto che la ragione principale fosse che erano tutte organizzazioni che cercavano di usare la legge per far progredire la giustizia razziale. Esse dimostravano, specie a una comunità internazionale ostile, che il Sudafrica rispettava lo Stato di Diritto. E il Sudafrica sapeva che ciò era cruciale per mantenere una sembianza di rispettabilità agli occhi degli Stati occidentali.

Ora Israele ha vietato sei associazioni palestinesi che difendono i diritti umani e che, nei limiti della legge, cercano, come le loro controparti sudafricane, di ottenere giustizia per i palestinesi denunciando torture, demolizioni di case, confisca di terre, espansione delle colonie, violenza dei coloni, persecuzione razziale, trasferimenti forzati di palestinesi e l’apartheid israeliano.

Tutto ciò prova che Israele non si preoccupa di presentare un’immagine di Stato di diritto. Non ne ha bisogno perché sa che l’Occidente non agirà contro alcuna violazione. Sa che il suo eccezionalismo è un valore occidentale che perdona a Israele tutti i suoi crimini.

Oggi persone imparziali e informate non si pongono più la domanda: “Israele commette il crimine di apartheid nella Palestina occupata?” Esse accettano l’evidenza che mostra chiaramente che gli ebrei israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est, compresi gli oltre 800.000 coloni e soldati, costituiscono un gruppo razziale che sistematicamente opprime il gruppo razziale palestinese tramite atti inumani, la definizione del crimine di apartheid dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. Si fanno invece la domanda: “L’apartheid israeliano è peggio di quello del Sudafrica?”. A giudicare dalle ultime azioni di Israele contro i paladini dei diritti umani la risposta deve essere “sì”.

John Dugard

John Dugard è professore emerito presso le Università di Leiden e Witwatersrand (Johannesburg). Era relatore speciale del Consiglio per diritti umani sui diritti umani nella Palestina occupata e autore del libro “Confronting Apartheid: A personal history of South Africa, Namibia and Palestine.” ([Confrontare gli apartheid: una storia personale di Sudafrica, Namibia e Palestina)

 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)

 

 

 

 

 

 

 

 




Amnesty condanna la JCB per i macchinari usati per demolire le case dei palestinesi

Areeb Ullah

18 novembre 2021 – Middle East Eye

L’organizzazione per i diritti umani riporta che il rappresentante esclusivo della JCB in Israele ha venduto macchinari al ministero della difesa israeliano che li ha usati per demolire le case dei palestinesi e distruggere coltivazioni

Amnesty International ha accusato l’impresa edile britannica JCB di ignorare la vendita, tramite la sua unica sussidiaria in Israele, dei suoi bulldozer al governo israeliano che si dice li abbia usati per demolire le case dei palestinesi nella Cisgiordania occupata. 

In un’inchiesta divulgata giovedì, Amnesty International riporta che la JCB non ha adottato le misure necessarie per impedire alla Comasco, il suo distributore in esclusiva in Israele, di vendere ed eseguire la manutenzione di mezzi quali bulldozer e scavatrici al ministero della difesa israeliano.

L’organizzazione con sede a Londra ha detto che ci sono decine di casi specifici riguardanti macchinari della JCB usati per demolire edifici residenziali e agricoli appartenenti a palestinesi, oltre a condutture, oliveti e altre coltivazioni.

Peter Frankental, direttore del Programma affari economici di Amnesty UK (Regno Unito), ha attaccato la JCB per la sua inazione e ha detto che l’azienda aveva “i mezzi tecnologici e contrattuali per opporsi” all’uso dei suoi macchinari fatto da Israele per infrangere il diritto internazionale.   

“Nessuna azienda responsabile dovrebbe stare a guardare mentre i suoi prodotti sono usati per violare i diritti umani, specialmente quando ciò succede da oltre un decennio come la demolizione delle case dei palestinesi nei territori palestinesi occupati,” dice Frankental a Middle East Eye.   

“È assolutamente prevedibile che i macchinari che la JCB vende al suo unico distributore in Israele vengano usati per la demolizione delle case dei palestinesi e per la costruzione delle colonie illegali di Israele.

“È semplicemente imperdonabile la negligenza della JCB nel valutare l’impatto sui diritti umani dell’uso dei suoi macchinari nell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele.”

L’anno scorso il governo inglese lanciò un’indagine circa le denunce secondo cui i macchinari costruiti dalla JCB sono stati usati per demolire le case dei palestinesi e la costruzione di colonie israeliane illegali nei territori palestinesi occupati. 

L’UK National Contact Point (NCP) [Punto di contatto nazionale del Regno Unito] che è finanziato dal governo britannico per indagare in modo indipendente su reclami contro le imprese multinazionali per presunte violazioni dei diritti umani e di altri obblighi, ha accolto la denuncia contro la JCB presentata dall’ente britannico e filantropico di assistenza legale Lawyers for Palestinian Human Rights (LPHR).  

La scorsa settimana il NCP ha detto che è “deplorevole” che la JCB “non abbia preso alcuna iniziativa per applicare la dovuta diligenza circa la difesa dei diritti umani di ogni tipo, sebbene consapevole dell’impatto di eventi che potrebbero essere contrari ai diritti umani”.

Un portavoce della JCB ha detto a Middle East Eye che “l’impresa non tollera alcuna forma di violazione dei diritti umani” e che “non contribuisce né è in alcun modo responsabile o collegata a violazioni dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, sia direttamente che indirettamente.” 

“Queste asserzioni sono state recentemente oggetto di un’indagine completa e indipendente da parte dell’UK National Contact Point per le linee guida OCSE [Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico] per le imprese multinazionali,” aggiunge il portavoce. 

“La recente conclusione del NCP-UK riconferma gli accertamenti iniziali secondo cui non ci sono state violazioni da parte della JCB. In particolare, il NCP–UK ha concluso che il presunto impatto sui diritti umani non può essere collegato alle operazioni commerciali o agli accordi contrattuali della JCB.”  

Una storia di violazioni dei diritti

Le attività della JCB in Israele sono al centro di polemiche e hanno ricevuto pesanti critiche da parte di attivisti per i diritti [umani]. 

L’azienda domina il mercato israeliano con una quota di mercato del 65% di tutte le scavatrici e con il 90% del mercato dei veicoli da carico comunemente usati nel Paese. 

All’inizio di quest’anno la JCB era su una lista pubblicata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite secondo cui l’impresa edile ha dei legami con le colonie israeliane ritenute da molte organizzazioni a livello globale in violazione del diritto internazionale. 

Il consiglio ha compilato la lista e detto che le imprese elencate hanno agevolato la costruzione delle colonie, fornito loro apparecchiature di sorveglianza o servizi di sicurezza a imprese che vi lavorano.

Nel 2018 Middle East Eye rivelò che attrezzature di perforazione della JCB erano usate nei pressi di Khan al-Ahmar, un villaggio palestinese nella Cisgiordania centrale occupata e da tempo minacciato di demolizione da Israele.

Nel 1984 la JCB cominciò a produrre veicoli di tipo militare appositamente ideati per costruire edifici. Tramite la sua branca JCB Defence Products ha fornito 3.500 veicoli alle forze armate di 57 Paesi. 

“Per molti palestinesi i caratteristici bulldozer gialli e neri della JCB sono un segno nefasto dell’incombente perdita delle loro case e di altre terre sottratte ai palestinesi per far posto alle illegali colonie israeliane,” dice Sacha Deshmukh, l’AD di Amnesty UK.

“Secondo gli standard internazionali di commercio, la JCB ha la chiara responsabilità di prendere misure per assicurare che i propri prodotti non siano usati nel commettere violazioni dei diritti umani e ciò dovrebbe essere considerato parte essenziale della diligenza dovuta per garantire i diritti umani.”

MEE ha contattato la JCB per un commento ma al momento della pubblicazione di questo articolo non ha ricevuto risposta.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)