Editoriale | Perché Israele ha paura di permettere ai giornalisti stranieri di accedere a Gaza? Cosa nasconde?
11 settembre 2024 – Haaretz
Vietando ai giornalisti di entrare a Gaza, Israele impedisce non solo la copertura mediatica degli orrori della guerra, ma anche il riscontro in tempo reale delle rivendicazioni di Hamas – un interesse fondamentale di Israele
Dopo undici mesi di guerra, è possibile dire che le circostanze che Israele ha usato per giustificare l’interdizione dei media da Gaza non sono più valide e che occorre permettere l’accesso alla stampa estera affinché la guerra possa avere adeguata copertura mediatica.
A causa del controllo esercitato da Israele sui valichi di frontiera, ulteriormente rafforzato dopo la presa di Rafah, nessun giornalista straniero può mettere piede nella Striscia senza l’autorizzazione dello Stato. Il divieto assoluto per i giornalisti stranieri di entrare senza un accompagnatore dell’Unità Portavoce dell’esercito israeliano limita gravemente sia la capacità di fare informazione in modo indipendente sia il diritto del pubblico israeliano e mondiale di sapere cosa stia succedendo a Gaza.
Il ruolo del giornalista è quello di essere sul campo, di parlare direttamente con le persone e non solo con portavoce che rappresentano interessi costituiti, di percepire l’atmosfera e riferire gli eventi. Non c’è paragone tra un resoconto immediato, sul campo, e uno realizzato con la mediazione di terzi, interviste telefoniche e analisi condotte per mezzo di video e fermo-immagine.
Quando Israele impedisce ai giornalisti di andare a Gaza, non solo impedisce loro di raccontare gli orrori della guerra, ma anche di esaminare le dichiarazioni di Hamas in tempo reale – il che costituisce un chiaro interesse israeliano. Quando Israele impedisce ai giornalisti stranieri di testimoniare ciò che sta accadendo a Gaza, dobbiamo chiederci: che cosa vuole nascondere lo Stato? In che modo trae vantaggio dal fatto che i giornalisti non entrano a Gaza?
Se si impedisce ai giornalisti stranieri di fare il loro lavoro, la conseguenza è che l’onere della cronaca ricade sulle spalle dei giornalisti palestinesi, che subiscono in prima persona la guerra e le aspre condizioni di vita che essa impone.
Secondo i dati del Committee to Protect Journalists [Comitato per la protezione dei giornalisti], almeno 111 giornalisti palestinesi sono stati uccisi durante la guerra (di cui tre, secondo l’esercito israeliano, attivisti di Hamas o della Jihad Islamica palestinese) – cosa che rende ancora più urgente l’ingresso a Gaza di altri giornalisti.
Ad ogni modo, è proprio in tempo di guerra che assume più importanza la presenza di giornalisti che non siano parte in causa del conflitto: persone che possano raccontare l’evento senza timore di pressioni da parte della loro comunità o del loro governo. In tempo di guerra, al giorno d’oggi, quando nessuna immagine è al di sopra del sospetto di essere stata generata con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, il ruolo del giornalista sul campo è più importante che mai.
Non c’è nulla di vero nell’affermazione dell’esercito secondo la quale l’accesso di giornalisti “embedded” [giornalisti che si recano sul campo tra le fila dell’esercito al quale si accompagnano e al quale sono perciò vincolati per quanto riguarda la libertà di movimento e il punto di vista sui fatti n.d.t.] sia un’alternativa adeguata all’accesso indipendente. Niente può sostituire l’ingresso indipendente, senza il quale i giornalisti non possono parlare liberamente con le persone del posto né recarsi in aree di interesse per il pubblico e i media. Non possiamo accettare una situazione in cui l’esercito determina le modalità della copertura giornalistica. Israele deve permettere ai giornalisti di entrare nella Striscia di Gaza, in modo che tutti possano capire meglio che cosa vi sta accadendo e che la “nebbia di guerra” [in gergo militare, la difficoltà di ottenere informazioni attendibili in contesti bellici n.d.t.] sia dissipata almeno in parte.
L’articolo sopra riportato è l’editoriale principale di Haaretz, pubblicato in lingua ebraica e inglese in Israele.
(Traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)