Occidente e Stato di apartheid

L’Israele di Netanyahu dichiarerà uno Stato dell’apartheid. L’Occidente non farà niente?

I leader del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile Sudafrica

Gideon Levy

30 Aprile 2019 – Middle East Eye

Il mondo continua a girare sul suo asse, nulla è cambiato nemmeno dopo le recenti elezioni in Israele.

Eletto alla guida di Israele per la quinta volta, Benjamin Netanyahu è pronto a dare vita al governo più nazionalista e di destra nella storia del Paese – e intanto il mondo sembra andare avanti come niente fosse.

Da decenni Israele sputa continuamente in faccia al resto del mondo, con noncurante disprezzo del diritto internazionale e con totale indifferenza riguardo alle esplicite decisioni e precise politiche adottate dalle istituzioni mondiali e dalla maggioranza dei governi nazionali del mondo.

Tuttavia nel mondo tutto quel disprezzo scivola via come fosse acqua fresca. Le elezioni sono arrivate e passate senza evidenti effetti sul sostegno ciecamente automatico a Israele da parte dei governi europei e, ovviamente, anche da parte americana: incondizionato, senza riserve, appartenente invariato. Evidentemente ciò che era è ciò che sarà.

Però Israele è cambiato nel corso del lungo regno di Netanyahu. Questo abile statista israeliano sta lasciando il segno sul volto del suo Paese, con un profondo e duraturo effetto – molto più di quanto previsto o di quanto appaia.

È pur vero che anche i governi di sinistra in Israele hanno fatto il possibile per mantenere l’occupazione israeliana per sempre e non hanno avuto intenzione neppure per un istante di porvi fine – ma Netanyahu sta portando Israele molto più lontano, verso livelli ancor più estremi.

Sta compromettendo ciò che costituisce un governo accettabile entro il territorio sovrano riconosciuto di Israele, anche nei confronti dei suoi cittadini ebrei. Il volto stesso dell’“unica democrazia in Medio Oriente”, che ha a lungo funzionato soprattutto a beneficio degli ebrei israeliani che costituiscono la sua classe privilegiata, viene adesso sfigurato da Netanyahu e soci.

Beniamino dell’Occidente

Intanto, incredibilmente, la risposta del mondo è di non cambiare affatto il sostegno che ha offerto a Israele in tutti gli anni del governo Netanyahu, come se in quest’ultima fase lui non stesse modificando niente, come se le mutate posizioni assunte da Israele non facessero aumentare né diminuire quel sostegno.

Con o senza Netanyahu, Israele resta il beniamino dell’Occidente. Nessun altro Paese gode dello stesso livello di sostegno militare, economico, diplomatico e morale, senza condizioni. Ma la prossima amministrazione israeliana, il quinto governo Netanyahu, è pronta ad annunciare un cambiamento che alla fine il mondo avrà difficoltà ad ignorare.

Il nuovo governo è pronto a strappare l’ultimo lembo di maschera dal suo volto reale. La principale risorsa di Israele, nel proporsi come una democrazia liberale che condivide i valori cari all’Occidente, sta per essere annientata.

L’Occidente continuerà allora a sostenerlo? L’Occidente, che chiede che la Turchia introduca profondi cambiamenti prima di concederle una piena ammissione, che impone sanzioni alla Russia quando invade la Crimea, questo Occidente continuerà a sostenere la nuova repubblica di Israele che Netanyahu e i suoi partner di governo stanno preparandosi a varare?

Un cambiamento radicale

Il livello del cambiamento atteso non può essere sopravvalutato. Israele sarà diverso. Dove il precedente governo ha appiccato l’incendio, questo attizzerà il fuoco appena si propagherà. Il sistema giudiziario, i media, le organizzazioni di difesa dei diritti umani e dei diritti degli arabi in Israele presto proveranno una cocente sensazione.

Gli editoriali, se criticano per esempio i soldati israeliani o appoggiano un boicottaggio contro Israele, tra breve per legge non verranno più pubblicati sui media israeliani. L’aeroporto Ben Gurion amplierà i divieti di ingresso per chi critica il regime israeliano.

Le organizzazioni della società civile verranno private del loro status giuridico. Gli arabi verranno più rigorosamente esclusi in vista della realizzazione di uno Stato ebraico in cui tutti i parlamentari sono ebrei.  E ovviamente vi è l’annessione, attualmente in attesa dietro le quinte.

Il nuovo governo sarà il governo israeliano dell’annessione. Se il previsto appoggio di Washington sarà imminente – il riconoscimento americano dell’annessione delle Alture del Golan è stato il primo passo, il ‘ballon d’essai’ – allora Netanyahu farà la mossa che finora si è trattenuto dal fare durante tutto il suo regno.

Annuncerà l’annessione almeno di parte dei territori occupati.

Il significato sarà inequivocabile: Israele ammetterà per la prima volta che la sua occupazione militare della Cisgiordania, durata 52 anni, sarà permanente; che non è, come per molto tempo sostenuto, un fenomeno transitorio.

Drastici cambiamenti di politica

I territori non sono “merce di scambio” in negoziati per la pace, come sostenuto all’inizio dell’occupazione, bensì possedimenti coloniali che rimarranno in modo permanente sotto il governo israeliano. Non vi è alcuna intenzione che i territori annessi ora, che potranno poi espandersi, vengano mai restituiti ai palestinesi.

Quindi il nuovo governo Netanyahu annuncerà due drastici cambiamenti di politica. Primo, si chiuderà la questione della soluzione di due Stati, che persino Netanyahu ha appoggiato e a cui tutti i leader mondiali si sono dichiarati favorevoli.

Quell’opzione verrà dichiarata morta. Al tempo stesso Israele si dichiarerà uno Stato di apartheid non solo di fatto, ma adesso, per la prima volta, anche di diritto.

Poiché nessuno di coloro che sono a favore dell’annessione intende garantire uguali diritti ai palestinesi nei territori che verranno annessi, e poiché una annessione mirata solo sulla terra su cui si trovano le colonie è palesemente una mistificazione, gli uomini di Stato del mondo non avranno altra scelta che riconoscere che, di nascosto, nel XXI secolo, è stato dichiarato un secondo Stato di apartheid in stile sudafricano.

L’ultima volta un regime di apartheid è stato miracolosamente abbattuto senza alcuno spargimento di sangue. Questa volta il mondo si riunirà e ripeterà l’impresa?

Quale Israele state ancora appoggiando?

Questa domanda va posta anzitutto ai leader dell’Europa, da Angela Merkel a Emmanuel Macron, compresa Theresa May – a tutti i leader dell’Unione Europea. Hanno ripetuto all’infinito il mantra che il loro appoggio ad Israele e al suo diritto di esistere in sicurezza è fermo e irrevocabile.

Hanno continuamente dichiarato il loro sostegno ad una soluzione negoziata di due Stati. Quindi chi sostenete adesso? Che cosa sostenete? Quale Israele, esattamente? In quale mondo pensate di vivere? Forse in un mondo dei sogni che evidentemente trovate comodo, ma che ha sempre meno rapporti con il mondo reale.

L’Europa riuscirà a continuare a sostenere che Israele condivide i suoi valori liberali, quando in Israele sono vietate le organizzazioni della società civile? Quando quasi tutti i politici sionisti israeliani dichiarano che non hanno niente da discutere con i deputati arabi eletti in parlamento?

Provate a immaginare un diplomatico europeo che dichiari che i membri ebrei del suo parlamento nazionale non possono partecipare ad alcun dialogo politico. O che un diplomatico europeo dichiari che i cittadini ebrei del suo Paese sono dei traditori e una quinta colonna.

Questo genere di cose sono politicamente corrette in Israele, in tutti i partiti. E che dire della libertà di parola, tanto sacra nel discorso europeo, quando il ‘World Press Freedom Index’ (Indice mondiale della libertà di stampa) del 2019 di Reporter senza Frontiere classifica già Israele al numero 88 – dopo Albania, Kirghizistan e l’Ungheria di Victor Orban?

Questo è l’Israele che state appoggiando.

La soluzione dei due Stati è morta

Anche il sostegno automatico dell’Occidente alla soluzione dei due Stati deve essere aggiornato. Credete davvero, cari uomini e donne di Stato, che questo Israele abbia qualsivoglia intenzione di applicare una simile soluzione?

Vi è mai stato anche un solo politico israeliano che volesse, o potesse, trasferire circa 700.000 coloni, anche da Gerusalemme est occupata?

Credete davvero che senza un ritiro da tutte le colonie, che rappresenterebbe il minimo di giustizia per i palestinesi, vi sia qualche prospettiva che una simile soluzione si affermi e si trasformi in realtà?

Si potrebbe notare che la maggior parte dei diplomatici occidentali che sono ben informati su ciò che accade sanno già da tempo che questa soluzione è morta, ma nessuno di loro ha il coraggio di ammetterlo.

Ammetterlo richiederebbe di ridefinire tutte le loro posizioni sul conflitto in Medio Oriente, compreso il sostegno all’esistenza di uno Stato ebraico.

Con l’arrivo del nuovo governo Netanyahu il mondo occidentale non può semplicemente continuare a chiudere un occhio e sostenere che tutto va bene. Niente va bene.

Perciò ora la domanda è: siete pronti ad accettare questo? Rimarrete in silenzio, muti, concederete il vostro appoggio e chiuderete gli occhi sulla realtà?

Chi di voi si preoccupa per il futuro di Israele dovrebbe essere il primo a svegliarsi e trarre le dovute conclusioni. Certamente, ogni persona di coscienza dovrebbe farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Gideon Levy

Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro della direzione editoriale del quotidiano. E’ entrato in Haaretz nel 1982 ed è stato per quattro anni vicedirettore del giornale. Ha vinto il premio ‘Euro-Med Journalist’ nel 2008; il premio ‘Leipzig Freedom’ nel 2001; il premio ‘Israeli Journalists’Union’ nel 1997; il premio ‘The Association of Human Rights in Israel’ nel 1996. Il suo nuovo libro, ‘The Punishment of Gaza’ (La punizione di Gaza) è stato appena pubblicato da Verso.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Una strana simbiosi*

 

 

Perché Israele e Gaza continuano a combattersi in brevi battaglie? Perché è nell’interesse dei loro leader

 

 

Di David M. Halbfinger

6 maggio 2019 – New York Times

 

GERUSALEMME – Più di venti persone sono state uccise, case e negozi distrutti negli scontri del fine settimana tra Israele e Gaza, ma lunedì i leader di entrambe le parti si sono dichiarati soddisfatti dei risultati.

Il ciclo di ripetute violenze e cessate il fuoco che continuano a rasentare una guerra totale può sembrare una distruzione senza senso agli occhi del mondo esterno. Ma gli analisti affermano che ciò è perfettamente funzionale agli interessi dei due principali antagonisti.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riesce a strapazzare Hamas, il gruppo di miliziani che controlla Gaza, rafforzando il suo discorso secondo cui i palestinesi non sono pronti a fare la pace e che la soluzione dei due Stati è impossibile.

Hamas, che a quanto pare cerca e ottiene rinnovate garanzie di un allentamento del blocco israeliano contro Gaza, riesce a dimostrare agli scettici e impoveriti abitanti di Gaza che la sua strategia di resistenza armata sta funzionando.

Il risultato è uno strano tipo di simbiosi.

La relazione tra Hamas e Israele è sicuramente conflittuale: sempre ostile, frequentemente mortale e carica di rischi che possa degenerare in un protratto conflitto terreste, per un razzo vagante che uccide troppe persone o per un cambiamento dei calcoli politici da entrambe le parti.

Potrebbe dimostrarsi un armistizio che procede lentamente – “un negoziato attraverso l’uso delle armi”, come lo ha descritto Ghaith al-Omari, ex-funzionario dell’Autorità Nazionale Palestinese, o forse una forma di tregua in stile mediorientale.

Ma ad ogni ripetizione del ciclo che non porta a uno scoppio, Israele e Hamas sono utili agli scopi l’uno dell’altro e si stanno sempre più abituando ad avere rapporti in questo modo.

Gli scontri del fine settimana, i peggiori dalla guerra di 50 giorni del 2014, sono stati almeno l’ottavo round di brevi lotte tra Israele e Gaza durante lo scorso anno, con battaglie a volte finite in poco più di un giorno. Ognuna è terminata rapidamente con un cessate il fuoco, in genere mediato dall’Egitto e visto come una prova che nessuna delle due parti vuole una guerra vera e propria.

Hamas ha dimostrato la capacità di essere all’altezza dei suoi impegni: un momento importante è stato alla fine di marzo, quando per l’anniversario delle manifestazioni lungo la barriera tra Gaza e Israele, secondo gli analisti Hamas ha schierato agenti con giubbotti dai colori vivaci per ridurre al minimo le violenze, mostrando di poter imporre il cessate il fuoco.

Ma in altri momenti può esprimere la propria impazienza con le armi. La violenza del fine settimana potrebbe essere stata alimentata da un ritardo nell’arrivo dei milioni di dollari in denaro del Qatar per contribuire a pagare i salari dei lavoratori di Gaza e dalla sensazione che Israele non stesse dando seguito abbastanza rapidamente ad altre promesse.

Tuttavia alcuni degli scontri fin dall’ultima estate sono stati interpretati come tentativi da parte dei dirigenti di Hamas di ottenere un accordo migliore.

“Hanno la tendenza a cercare di estendere i termini degli accordi e a migliorare quello che hanno ottenuto mostrando i muscoli,” dice Ehud Yaari, uno studioso residente in Israele del Washington Institute for Near East Policy [Istituto di Washington per la Politica in Medio Oriente, centro studi legato all’AIPAC, il più importante gruppo lobbystico filo-israeliano Usa, ndtr.].

Per il governo israeliano questa gestione dei rapporti con Hamas è piena di contraddizioni e della necessità di un attento bilanciamento. Vedendo Hamas come un gruppo terroristico intenzionato alla distruzione di Israele, il governo israeliano non ha interesse a concedergli legittimità o a consentire ad Hamas di rafforzarsi.

Ma Netanyahu ha anche dimostrato scarso impegno per distruggere Hamas – nonostante le richieste di alcuni politici di destra perché lo faccia – per quello che Aaron David Miller, un esperto negoziatore in Medio Oriente per gli Stati Uniti, ha chiamato “il problema del giorno dopo”. Israele dovrebbe rioccupare Gaza con le sue truppe, prendendosi la totale responsabilità dei suoi due milioni di abitanti. C’è anche il rischio che un gruppo ancora più radicale di Hamas possa prendere il potere, come la Jihad Islamica palestinese, già potente rivale di Hamas a Gaza, o forse elementi dello Stato Islamico che operano nel deserto del Sinai.

Questo problema è la ragione per cui Netanyahu nel suo modo di controllare Gaza sembra avere l’appoggio dell’establishment della sicurezza di Israele. I suoi oppositori politici lo hanno aggredito per aver consentito che la situazione cadesse nell’attuale schema, ma non hanno detto cosa farebbero di diverso.

E gli israeliani sembrano aver mostrato una maggiore tolleranza che in passato per le vittime [israeliane]. Domenica ad Ashkelon i sopravvissuti a un attacco con i razzi che ha ucciso un operaio loro collega in una fabbrica hanno manifestato un incrollabile sostegno a Netanyahu, benché abbiano anche incolpato l’opinione pubblica mondiale perché impedisce all’esercito di dare a Gaza il colpo che merita.

“Dovrebbero colpire duro,” ha detto delle forze armate Menashe Babikov, 42 anni, manager di Ashdod, ma non lo faranno “perché hanno paura di quello che direbbe il resto del mondo.”

Gli analisti dicono che Hamas svolge anche un’altra funzione per il governo di Netanyahu. Con l’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania e Hamas a Gaza, non c’è un cammino facile per una soluzione a due Stati del conflitto, a cui si pensa unanimemente che Netanyahu si opponga.

Unificare le due fazioni – cosa che gli Stati Uniti, l’Egitto e altri attori internazionali hanno passato mesi a cercare di fare prima di rinunciarvi lo scorso anno –  inevitabilmente rivitalizzerebbe colloqui per una soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese, dice Miller.

“Finché hai una situazione con tre Stati, non ne puoi avere una con due,” afferma. “Hamas è la polizza di assicurazione di Netanyahu.”

Anche qui gli oppositori israeliani alla soluzione dei due Stati condividono gli stessi interessi di Hamas, che vuole uno Stato unico, anche se non lo stesso che desiderano gli israeliani. Per Hamas un negoziato mediato e ufficioso sulla sicurezza, sull’aiuto economico e umanitario è praticabile, ma abbandonare la sua ideologia di resistenza armata per colloqui di pace con Israele è fuori discussione.

“Dal punto di vista di Hamas è meglio un governo come quello che abbiamo piuttosto che uno più moderato che aspiri a progredire nel processo di pace,” dice Celine Touboul, un’esperta di Gaza della “Israel’s Economic Cooperation Foundation” [Fondazione Israeliana per la Cooperazione Economica, gruppo di studiosi israeliani che si occupano dei rapporti con il mondo arabo, ndtr.]. “Perché una volta che lo fai, agevoli l’ANP,” dice, in riferimento all’Autorità Nazionale Palestinese. “E questa è la cosa che in fondo più importa ad Hamas: in questa competizione politica indebolire il più possibile l’ANP.”

Per Hamas più dura il cessate il fuoco a Gaza meglio è, dice Yaari, che per molti anni ha informato sui palestinesi per la televisione israeliana. Deve ricostituire il suo arsenale di razzi e missili e ricostruire o sostituire le molte installazioni militari e di intelligence che Israele ha distrutto.

“Ogni volta per loro è dispendioso,” afferma.

Ma Yaari dice anche che il leader di Hamas a Gaza, Yehya Sinwar, ha voluto concentrare le energie dell’organizzazione sul miglioramento delle condizioni là, in parte per guadagnare tempo, per vedere cosa succederà con l’Autorità Nazionale Palestinese quando l’amministrazione Trump svelerà il suo progetto per l’accordo di pace israelo-palestinese e mentre la salute dell’anziano presidente dell’Autorità, Mahmoud Abbas, peggiora.

“L’approccio di Sinwar è di bloccare il deterioramento delle condizioni a Gaza,” sostiene Yaari. “Il prezzo sarà un prolungato cessate il fuoco, e in due o tre anni vedremo cosa succede.”

Per allora Abbas potrebbe essersene andato, o Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese potrebbero benissimo essere in rotta di collisione, dice, soprattutto se Netanyahu dà seguito alla promessa elettorale di annettere come parte di Israele alcune colonie in Cisgiordania.

Secondo Yaari entrambi gli sviluppi potrebbero creare un’apertura per Hamas, per cercare di avere la meglio contro l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. “Sinwar sta dicendo: ‘La mia vera priorità è la Cisgiordania,’” afferma.

Per il momento questa dinamica fa di Hamas un avversario affidabile.

Curiosamente, dice Touboul, Netanyahu sta “guardando ad Hamas come un partner più affidabile dell’ANP.”

Isabel Kershner ha contribuito con informazioni da Ashkelon.

*Nota redazionale: pur non condividendo alcune considerazioni presenti nell’articolo e il fatto che vengano citate quasi esclusivamente fonti israeliane, il che evidenza da quale prospettiva il giornale informa i propri lettori. Ad esempio, quelle dei palestinesi di Gaza sono descritte come “sensazioni” e non fatti concreti e facilmente verificabili riguardo al mancato rispetto degli accordi di tregua accettati da Israele. Né nell’articolo si ricorda che la strategia di isolare Cisgiordania da Gaza risale almeno al ritiro unilaterale deciso da Sharon. Tuttavia riteniamo interessante proporre la traduzione di questo articolo sia per l’autorevolezza del New York Times che per la prospettiva che questo editoriale propone per spiegare gli ultimi scontri tra Gaza e Israele.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Cambiamento climatico e ANP

Cambiamento climatico e Autorità Nazionale Palestinese

 

Al Shabaka

 

Di Zena Agha – 7 marzo 2019

 

 

Il cambiamento climatico è una delle maggiori minacce che attualmente la vita umana deve affrontare. I suoi effetti sono globali, ad ampio raggio e diversamente distribuiti. Nonostante i palestinesi e gli israeliani vivano sullo stesso territorio geografico, i palestinesi sotto occupazione soffriranno gli effetti del cambiamento climatico in modo molto più grave.

Il principale rischio non ambientale che i palestinesi in Cisgiordania devono affrontare rimane la continua occupazione israeliana, un’occupazione così pervasiva che il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo la considera a tutti gli effetti come un “rischio” ambientale. Arrivata ormai al cinquantaduesimo anno, l’occupazione impedisce ai palestinesi l’accesso e la gestione della loro terra e delle loro risorse, soprattutto l’acqua. Impedisce loro in modo significativo di perseguire misure per sostenere l’adattamento al cambiamento climatico, cioè all’adeguamento di sistemi umani o naturali per rispondere agli effetti del cambiamento climatico. In Cisgiordania l’impossibilità dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a perseguire politiche di adattamento è una diretta conseguenza dell’occupazione e avrà gravi ripercussioni umane e ambientali per gli abitanti palestinesi.

 

Conseguenze per la Palestina

La Palestina/Israele si trova in una delle regioni del mondo con maggiore scarsità di acqua. Si prevede che il cambiamento climatico avrà come risultato la riduzione delle piogge e l’aumento delle temperature. Ciò mette a serio rischio i settori idrico e agricolo, soprattutto nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), che hanno una delle più basse disponibilità di acqua pro capite. La principale fonte di acqua potabile per i palestinesi è l’acqua della falda freatica immagazzinata (principalmente da acquiferi), mentre circa metà dell’acqua estratta da questi pozzi sotterranei è utilizzata per l’agricoltura.

Israele ha ideato un complicato sistema burocratico per controllare e limitare l’accesso dei palestinesi alla falda freatica sotto la copertura dell’applicazione dei termini dell’accordo interinale di Oslo II del 1995, che destinava temporaneamente le risorse idriche al governo israeliano e all’ANP. Oslo II concesse a Israele il controllo su circa l’80% delle riserve idriche in Cisgiordania per un periodo iniziale di cinque anni. Tuttavia l’accordo, oggi ancora in vigore, non prende in considerazione i cambiamenti a lungo termine nella distribuzione dell’acqua o l’aumento della popolazione.

Il Joint Water Committee [Commissione Congiunta per l’Acqua] (JWC), un organismo degli accordi di Oslo, vieta ai palestinesi di prendere decisioni relative all’acqua senza l’approvazione di Israele, che impedisce loro l’accesso al fiume Giordano e nega i permessi per raccogliere in dighe l’acqua di dilavamento. Le politiche israeliane quindi rendono estremamente difficile ai palestinesi lo sviluppo di un nuovo accesso all’acqua o riparare infrastrutture già esistenti; spesso ciò ha come risultato la demolizione di strutture e pozzi vitali con il pretesto che sono state costruite senza il permesso di Israele. Allo stesso tempo in Cisgiordania i 600.000 coloni illegali israeliani utilizzano sei volte più acqua dei tre milioni di palestinesi. La violenza dei coloni nei confronti delle infrastrutture dei palestinesi mette ulteriormente a rischio i fragili sistemi idrici.

La maggior parte dell’acqua dei palestinesi viene utilizzata per l’irrigazione, rendendo contadini e pastori quelli che dovranno pagare lo scotto di ogni ulteriore riduzione della disponibilità di acqua. Il furto di terre da parte di Israele, le restrizioni nei movimenti e l’accesso condizionato ai pascoli accentua notevolmente la particolare vulnerabilità di contadini e pastori. In Cisgiordania, con oltre 400 posti di controllo e blocchi stradali, un sistema discriminatorio per il rilascio da parte dei militari di permessi di spostamento, l’espansione delle colonie, le strade solo per i coloni e il muro dell’apartheid, l’agricoltura e i contadini palestinesi hanno a disposizione meno terre e i coltivatori sono sempre meno in grado di occuparsi della terra di cui sono proprietari, mettendo a repentaglio i loro campi e i loro armenti. Oltretutto la maggior parte delle risorse naturali e degli spazi liberi della Cisgiordania, compresi alcuni dei migliori terreni agricoli nella valle del Giordano, si trovano nell’Area C, che comprende oltre il 63% della Cisgiordania ed è stata annessa di fatto da Israele.

 

L’Autorità Nazionale Palestinese

L’ANP non ha poteri sovrani su più del 60% del territorio della Cisgiordania e non detiene il potere politico indipendente per gestire i rischi climatici. La scarsa possibilità di governare e la divisione politica tra Hamas a Gaza e Fatah in Cisgiordania accrescono i rischi per una già vulnerabile popolazione palestinese.

In particolare, l’ANP è poco attrezzata per sostenere adeguamenti a lungo termine, una sfida che richiede un appoggio politico esterno, consistente collaborazione tra ministeri e maggiori risorse fiscali di quelle attualmente disponibili. Per esempio, l’Autorità per la Qualità Ambientale dell’ANP nel 2011, con l’appoggio di esperti esterni e di finanziamenti dei donatori, ha sviluppato una “Strategia Nazionale per l’Adattamento al Cambiamento Climatico”. Il progetto sottolinea la necessità di adattamento climatico e calcola il costo stimato dell’adeguamento idrico e agricolo a 1 miliardo e 369,3 milioni di dollari rispettivamente – molto al di là delle attuali disponibilità finanziarie. È importante notare che molti dei problemi fiscali dell’ANP derivano dal fatto che Israele dirotta i proventi delle tasse, dell’aiuto e del commercio palestinesi nelle proprie casse.

Riguardo all’appoggio internazionale, nel marzo 2016 la Palestina è diventata membro della “UN Framework Convention on Climate Change” [Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici] (UNFCCC) e un mese dopo ha ratificato l’accordo di Parigi. “Il Piano Nazionale di Adattamento” della Palestina è stato presentato nel novembre 2016 all’UNFCCC. Mentre questi sforzi sono molto necessari, essi non sono né rapidi né sufficientemente organici per contrastare gli effetti del cambiamento climatico, aggravato dall’occupazione israeliana in continua espansione.

 

Indicazioni

  1. Si dovrebbe riconoscere che le disposizioni ambientali degli accordi di Oslo II, soprattutto riguardo ai diritti sull’acqua, sono scaduti e i palestinesi dovrebbero riprendere il totale ed assoluto accesso agli acquiferi e al fiume Giordano.
  2. L’ANP e le organizzazioni della società civile palestinese dovrebbero diffondere una campagna di sensibilizzazione per informare i palestinesi dei rischi climatici e suggerire strategie per affrontarli.
  3. Un’attenta raccolta di dati è fondamentale per rafforzare la possibilità dell’ANP di adattarsi al cambiamento climatico. L’ANP dovrebbe condurre una raccolta, analisi e condivisione coordinate delle informazioni riguardanti il clima, concentrandosi su dati del clima a livello locale per fornire un monitoraggio in tempo reale.
  4. Dato che la società palestinese dipende pesantemente dagli aiuti, i donatori internazionali dovrebbero finanziare progetti che includano pienamente l’attenuazione dei rischi climatici. Tuttavia ci sono molte critiche riguardo agli aiuti e alla struttura delle Ong nei TPO e inserire la vulnerabilità climatica in questo quadro non è privo di preoccupazioni etiche.

 

 

Zena Agha

Zena Agha è l’esperta di politica USA per Al-Shabaka. I suoi settori di competenza includono l’edilizia delle colonie nel territorio palestinese occupato, in particolare a Gerusalemme, la storia contemporanea del Medio Oriente e le pratiche territoriali. In precedenza ha lavorato all’Economist [settimanale britannico di politica internazionale, ndt.], all’ambasciata irakena a Parigi e nella delegazione palestinese all’UNESCO. Oltre ad editoriali sull’”Independent” [giornale britannico di centro sinistra, ndt.] e su “The Nation” [rivista americana di sinistra, ndt.], l’attività di Zena nei mezzi di informazione include il servizio internazionale della BBC, la BBC in arabo e “El Pais” [quotidiano spagnolo di centro sinistra, ndt.]. Zena ha ottenuto il premio “Kennedy Scholarship”  per studiare all’università di Harvard, dove ha conseguito il master in Studi sul Medio Oriente.

 

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Politica estera UE e demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar

Il momento della verità per la politica UE su Israele/Palestina

Che gli Stati europei diano un seguito alle loro minacce ed ai loro avvertimenti in merito alla demolizione di Khan al-Ahmar oppure no definirà in notevole misura l’importanza dell’UE e la sua capacità di influire sulla politica israeliana nei confronti dei palestinesi

+972

 

Di Michael Schaeffer Omer-Man – 5 settembre 2018

 

Le potenze europee stanno per dover fare una scelta fondamentale nella prossima settimana. Due mesi dopo che cinque Stati europei pare abbiano messo in guardia Israele che la demolizione e la deportazione di Khan al-Ahmar avrebbe “innescato una reazione” da parte dei suoi alleati, mercoledì [5 settembre] la Corte Suprema israeliana ha dato il suo beneplacito definitivo al fatto che la demolizione prosegua.

  • Insieme al villaggio di Susya, a sud della Cisgiordania, l’UE ha dichiarato, apparentemente in modo arbitrario, Khan al-Ahmar come una delle poche linee da non superare nella pluridecennale politica israeliana di demolizione di case palestinesi ed espansione del suo piano di estensione delle colonie nei territori occupati (per una spiegazione del perché, vedi l’intervista di Edo Konrad con l’esperto di Gerusalemme Daniel Seidemann).
  • Ogni volta che piccoli e fatiscenti villaggi nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.] stanno per essere distrutti, arrivano file di diplomatici. Dichiarazioni di condanna ed occasionali ammonizioni vengono diffuse nell’etere.

Finora questo approccio ha funzionato parzialmente. Ma le cose sono cambiate negli ultimi due anni: la principale differenza è che l’attuale Casa Bianca – la cui politica in Medio Oriente è guidata da personaggi sfacciatamente di destra e a favore dei coloni come Jared Kushner [genero e consigliere per il Medio Oriente di Trump, ndtr.] e David Friedman [attuale ambasciatore USA in Israele e proprietario di una casa in una colonia, ndtr.]  – non si preoccupa più di quello che Israele fa ai palestinesi. E se le importa, non è disposta a mormorare neppure un minimo segno di disapprovazione.

Ciò significa che le potenze europee, per dirla senza mezzi termini, dovranno decidere se opporsi o stare zitte riguardo al loro impegno nei confronti di Khan al-Ahmar. Anche se dovessero agire, è improbabile che lo facciano come blocco unitario, data la nascente amicizia di Israele con governi di estrema destra europei, che detengono il potere di veto effettivo nel sistema di politica estera consensuale dell’UE. I governi dovrebbero quindi intervenire singolarmente.

Tenendo conto su quante poche questioni la comunità internazionale ha intenzione di prendere una posizione nei confronti di Israele, e che i dirigenti dell’UE si sono assunti la responsabilità di tracciare una linea rossa più o meno coerente su Khan al-Ahmar, le risposte di Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Italia saranno fondamentali per determinare il destino dell’impegno internazionale sulla questione palestinese.

Con gli Stati Uniti non più interessati ad applicare neppure pressioni simboliche su Israele, le potenze europee, che detengono leve economiche significative, dovranno dimostrare se i loro avvertimenti sono effettivamente serie minacce o parole vuote. Se non reagiscono con una qualche sorta di sanzioni o di misure punitive, avranno perso quel poco che è rimasto della loro deterrenza per porre fine alla continua campagna del governo israeliano per rendere la soluzione dei due Stati (sostenuta dall’UE) un’idea obsoleta.

Ma è improbabile che simili punizioni vengano imposte. Le minacce diplomatiche non sono quasi mai fatte con l’intenzione di darvi seguito; per questo le conseguenze non sono mai specificate o accennate. Israele crede da tempo che sia così, ed ora comincia a mettere ulteriormente alla prova i confini della sua impunità – una cosa che ha fatto sempre più audacemente negli ultimi anni.

La conseguenza è che l’attuale governo israeliano, e i governi futuri, saranno incoraggiati a diventare ancora più aggressivi nel riscrivere le norme che governano il proprio comportamento: in questo caso, quelle che regolano con quanta rapidità può portare avanti la sua silenziosa annessione, un pezzo alla volta, della Palestina nei prossimi anni.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gli aiuti umanitari di Israele ai profughi siriani

Non c’è nulla di sincero negli aiuti umanitari di Israele ai siriani

L’uso degli aiuti per occultare le responsabilità israeliane riguardo a occupazione e violazioni dei diritti umani non è nuovo

Middle East Eye

Abir Kopty

Lunedì 2 luglio 2018

La scorsa settimana l’esercito israeliano ha emesso un comunicato sulla consegna di aiuti umanitari a migliaia di profughi siriani. Secondo tale comunicato, gli aiuti includono tende, cibo, apparecchiature sanitarie e indumenti e sono stati spediti in diversi luoghi del lato siriano delle Alture del Golan occupate, dove migliaia di siriani vivono in campi, dopo essere fuggiti dai bombardamenti di Daraa.

Se sostituiamo Israele e Siria con, per esempio, Indonesia e Filippine, questa notizia sarebbe assolutamente normale ed anche positiva. Ma si tratta di Israele e sta mandando aiuti ad un popolo la cui terra – le Alture del Golan – continua ad occupare dal 1967.

Sistema di occultamento

L’uso degli aiuti umanitari per occultare le responsabilità israeliane riguardo a occupazione e violazioni dei diritti umani non è nuovo. Dal Nepal ad Haiti, all’Uganda o alle Fiji, a questi aiuti umanitari è sempre seguito uno sforzo propagandistico per dire al mondo quanto “Israele è umano”, il che è ben lontano dalla realtà.

Qualche anno fa è circolato un video che mostrava i volontari di IsraAID, l’agenzia israeliana per gli aiuti umanitari, che fornivano assistenza ai rifugiati siriani arrivati sulle coste greche. Anche se i volontari ripresi nel video potevano avere buone intenzioni nell’aiutare il prossimo, sono diventati parte della propaganda di occultamento di Israele.

Il video illustrava bene come Israele riesce a sfruttare i momenti più drammatici della vita dei rifugiati siriani, quando annaspano a riva dopo un terribile viaggio per mare, per usarli ai fini del suo programma di marketing. Non si tratta solo del diffuso fenomeno di salvatori “bianchi” che sfruttano le sofferenze delle vittime per farsi pubblicità, ma si tratta anche dell’obbiettivo di Israele di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalla sua disumanità, brutalità e razzismo in casa propria – nei confronti dei palestinesi.

Il concetto di aiuto umanitario è sempre stato sopravvalutato. Da un lato, per le vittime in difficoltà, l’aiuto umanitario fornisce soccorso immediato e salva le vite. Inoltre può rafforzare la solidarietà tra Nazioni e unificare i popoli. D’altro lato, solleva la questione dell’iniqua distribuzione della ricchezza e del potere nel mondo.

In molti casi i Paesi che forniscono aiuto hanno interesse ad evitare, per esempio, un afflusso di rifugiati al loro interno. Nel caso dell’aiuto israeliano ai siriani, questo interesse certamente sussiste, accanto all’obiettivo di occultamento.

L’ aiuto umanitario da parte di Israele, uno Stato occupante che pratica l’apartheid, non può essere considerato un gesto disinteressato. Farà sempre emergere ciò che con esso Israele vuole nascondere. Se Israele fosse sincero riguardo alle proprie motivazioni umanitarie, dovrebbe cominciare da casa sua.

La beneficenza inizia a casa propria

Ci sono circa 1,5 milioni di rifugiati palestinesi che vivono con grave disagio in campi profughi in tutta la regione. Hanno passato le stesse vicissitudini che adesso stanno affrontando i siriani. Da più di 70 anni Israele continua a negare il loro diritto a ritornare nella loro patria.

La Striscia di Gaza subisce un assedio brutale da 12 anni. Israele imprigiona due milioni di palestinesi a Gaza nella più grande prigione a cielo aperto del mondo, controlla cibo e merci che entrano a Gaza ed in passato ha utilizzato un calcolo delle calorie per limitare l’arrivo del cibo per i palestinesi a Gaza. Di tanto in tanto bombarda Gaza ed ha scatenato tre guerre che hanno causato quasi 4.000 vittime palestinesi.

Negli ultimi tre mesi l’esercito israeliano ha sparato contro manifestanti disarmati a Gaza, uccidendo oltre 130 persone che protestavano pacificamente. La detenzione di minori, il divieto di libertà di movimento, la demolizione di case e la deportazione di comunità sono alcune delle prassi quotidiane di Israele.

Se si possono elencare le innumerevoli violazioni nei confronti dei palestinesi, sia di quelli nei territori palestinesi occupati che di coloro che hanno la cittadinanza israeliana, è anche importante non dimenticare il razzismo israeliano verso la sua stessa popolazione ebraica non bianca e le pratiche disumane contro i rifugiati africani arrivati in Israele in fuga dai conflitti nei loro Paesi.

All’inizio di quest’anno il governo israeliano ha annunciato l’intenzione di espellere con la forza decine di migliaia di richiedenti asilo africani. Quei richiedenti asilo provengono per la maggior parte da Eritrea e Sudan. Questi migranti non sono ebrei e perciò Israele li considera una minaccia demografica contro la sua ossessione di mantenere una maggioranza ebraica in Israele. Essi subiscono razzismo e disprezzo a tutti i livelli, dall’essere cacciati dalle strade all’istigazione politica e religiosa.

Un Paese razzista caratterizzato da gravissime responsabilità riguardo a crimini di guerra, violazioni dei diritti umani, occupazione militare, incarcerazione ed uccisione di minori, isolamento di un’intera popolazione in una prigione a cielo aperto, distruzione di comunità e respingimento di richiedenti asilo in difficoltà per il fatto che non sono ebrei, non può essere considerato sincero  nell’ offerta di aiuto umanitario ai siriani o a chiunque altro, perché la moralità non si può dividere a metà: o esiste o non esiste.

Abir Kopty è una scrittrice palestinese e studentessa di dottorato. 

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’ autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Purezza razziale e coppie miste in Israele

I sostenitori della purezza razziale in Israele: uniti nel timore degli ebrei che amano non-ebrei

Se i politici effettivamente progressisti sperano di allontanare Israele dal baratro, dovranno impegnarsi a favore di ogni sorta di uguaglianza

Middle East Eye

 

David Sheen – Mercoledì 27 giugno 2018

Nel pomeriggio di un Sabbath [sabato ebraico, giorno di festa settimanale, ndtr.] alla fine di novembre del 2014 tre giovani membri della banda di strada israeliana razzista “Lehava” hanno fatto irruzione nell’unica scuola di Gerusalemme che non è segregata in base alla religione.

Dopo che uno dei suoi complici ha tracciato con lo spray sui muri della scuola graffiti con la scritta “Nessun matrimonio misto”, Yitzhak Gabay, 22 anni, ha dato fuoco alla scuola con il benzene che aveva portato con sé.

Un anno dopo un tribunale israeliano ha dichiarato colpevole Gabay di incendio e incitamento alla violenza razzista, vandalismo, possesso di armi e collaborazione con un gruppo terroristico. È stato condannato a tre anni e quattro mesi di carcere e rilasciato a febbraio.

La scorsa settimana Gabay era di nuovo in tribunale, per un altro caso di incendio. Questa volta non era presente come imputato, ma piuttosto come uomo libero, come sostenitore di altri presunti incendiari.

Un giudice si stava occupando del caso di altri due giovani israeliani imputati di essere entrati nel luglio 2015 di notte in un villaggio della Cisgiordania e di aver lanciato una bomba incendiaria nella casa di una famiglia palestinese, bruciando vivi il padre, la madre e un bambino di un anno. I media israeliani hanno fotografato Gabay tra i 20 giovani israeliani che sono andati in tribunale per deridere il nonno del bambino, gridandogli “Barbecue! Tuo nipote era sulla griglia!”

Chiaramente, per quanto Gabay abbia scontato una breve condanna in carcere, ciò non ha ridotto il suo odio per i palestinesi e per gli ebrei che vogliano vivere con loro come uguali e come amanti.

Purezza razziale

Per quanto deprimente, la macabra scena avrebbe potuto essere presa in considerazione e trasformata in un’occasione istruttiva. I dirigenti israeliani avrebbero potuto respingere pubblicamente l’insistenza di Gabay sulla purezza razziale ed esprimere solidarietà con le vittime – se non con i palestinesi sotto attacco solo per il fatto di esistere, almeno con gli ebrei e gli arabi che Gabay ha attaccato perché coesistono.

Invece quel giorno il ministro dell’Educazione israeliano si è comportato come un capo sensale di matrimoni e su twitter ha chiesto una “riunione mondiale in Israele degli ebrei non sposati.”

Memore del fatto che le famiglie miste sono vittime della violenza razzista, Naftali Bennett [il ministro dell’Educazione, ndtr.] ha cercato innanzitutto di impedire che ne esistano altre.

Indubbiamente sarebbe stato ingenuo aspettarsi una qualunque simpatia da parte del ministro dell’Educazione. Sotto la sua direzione, libri in cui si trovino relazioni sentimentali tra ebrei e palestinesi sono stati eliminati dalla lista di letture per la scuola.

“Casa Ebraica”, il partito politico guidato da Bennett, è stato all’avanguardia nei tentativi di eliminare quei pochi matrimoni misti esistenti in Israele. Gruppi di coloni di estrema destra affiliati al partito ricevono regolarmente finanziamenti pubblici per spostarsi dalla Cisgiordania occupata in Israele, nelle poche città in cui ebrei ed arabi vivono negli stessi quartieri, con l’obiettivo dichiarato di interrompere rapporti sentimentali tra ebrei e non ebrei.

Campagna globale

Ma Bennett non è solo intenzionato a sradicare l’amore interrazziale in Israele. Detiene anche la competenza sugli affari della diaspora, e utilizza i fondi di quel ministero per finanziare programmi intesi a convincere gli ebrei che vivono fuori da Israele a non frequentare non ebrei.

Nel 2015, assumendo questo incarico, ha chiesto che i finanziamenti governativi per questi programmi internazionali contro i matrimoni misti salissero da 4 a 50 milioni di dollari.

Ad essere onesti, non sono solo le fazioni d’estrema destra del governo ad odiare le famiglie multiculturali di Israele. Bentzi Gopstein, il leader di “Lehava”, che ha apertamente invocato l’incendio di chiese in tutto il Paese, è riuscito ad entrare alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] ed esporvi le sue opinioni suprematiste solo grazie al partito di governo del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Nel 2011 i deputati del Likud Tzipi Hotovely e Danny Danon hanno invitato Gopstein a un’audizione in una commissione della Knesset, quindi ha potuto senza alcun fondamento definire spregiativamente rapimenti i rapporti consensuali tra uomini palestinesi e donne ebree. Funzionari di polizia in servizio hanno affermato di non conoscere neanche un singolo caso di questo tipo. Tuttavia i sostenitori di Gopstein alla Knesset oggi sono le due figure più importanti del governo dal punto di vista diplomatico: Hotovely è ministra degli Esteri ad interim e Danon è ambasciatore alle Nazioni Unite.

Gli accoliti e le accolite di Gopstein vanno a protestare ai matrimoni tra arabi ed ebrei e pattugliano le città in Israele per molestare coppie interrazziali, sperando di evitare del tutto che avvenga anche uno solo di questi rari matrimoni.

Per anni queste attività contro i matrimoni misti sono state finanziate dallo stesso governo israeliano. Dopo che il giornalista d’inchiesta Uri Blau lo ha rivelato nel 2011, il flusso di denaro del governo si è interrotto.

Da allora, “Lehava” è stato finanziato dalla famiglia Falic [miliardari della Florida, ndtr.], che è anche il maggior donatore delle campagne elettorali di Benjamin Netanyahu.

La “piaga” di Herzog

Non dovrebbe sorprendere che in Israele il campo della dominazione (sostenitori di una soluzione di uno Stato unico dell’apartheid) e quello dell’eliminazione (quelli che vogliono uno Stato dell’apartheid con la pulizia etnica dei non ebrei) vorrebbero eliminare ogni possibilità che gli ebrei dormano con i loro cosiddetti nemici.

Ma cosa dire del campo israeliano della segregazione? Cosa fanno i sostenitori della soluzione dei due Stati – sionisti etichettati come progressisti –  per proteggere i diritti di ogni cittadino israeliano di innamorarsi, sposarsi e fare figli con chiunque il loro cuore voglia, indipendentemente dalla razza o dalla religione?

Domenica il deputato del partito Laburista Yitzhak Herzog ha annunciato che avrebbe dato le dimissioni dalla Knesset. Facendosi da parte dopo cinque anni come leader dell’opposizione, ha messo in chiaro che le sue simpatie non vanno alle assediate famiglie miste di Israele, ma semmai ai razzisti che passano notti in bianco cercando di escogitare il modo per contrastare i matrimoni misti tra ebrei e non ebrei.

Il giorno in cui è stato scelto per dirigere la parastatale “Agenzia Ebraica” – spesso definita come il governo della comunità ebraica internazionale –  Herzog ha indicato le sue principali priorità, facendo un elenco dei problemi che sentiva più importanti da affrontare. Come ha spiegato al sito di notizie israeliano Ynet:

“Le racconterò un’esperienza personale. La scorsa estate ho fatto un viaggio con (mia moglie) negli USA. Per le vacanze. Mi sono diplomato in una scuola ebraica di New York. E siamo andati a trovare degli amici. Ho molti amici negli USA.  Ed ho trovato qualcosa che ho definito una vera piaga. Ho visto i figli dei miei amici sposati o insieme a compagni non ebrei! E i genitori si battevano il petto e si facevano domande, e stavano soffrendo. Senta, si tratta di ogni famiglia (ebrea) negli USA! E stiamo parlando di milioni! E allora ho detto che ci deve essere una campagna, una soluzione. Dobbiamo spremerci il cervello per trovare il modo di risolvere questa grande sfida.”

Leggendo il reportage di Ynet sulle osservazioni di Herzog in ebraico, ho twittato che egli ha chiamato i rapporti sentimentali tra ebrei e non ebrei negli USA “una vera piaga” per cui sperava di trovare una “soluzione”.

Herzog ha subito risposto, twittando che Ynet lo aveva citato in modo errato. Così ho scaricato il file video dell’intervista e guarda un po’: la trascrizione di Ynet delle affermazioni di Herzog contro i matrimoni misti era stata assolutamente corretta. Quindi Herzog ha definito le famiglie interrazziali come un morbo, intendendo forse che la purezza razziale dovrebbe essere la cura adeguata per il popolo ebraico.

Se vi stupite del fatto che presunti progressisti come Herzog possano denigrare relazioni interrazziali, non dovreste farlo.

Altri politici israeliani che si definiscono di centro – compresi Yair Lapid ed Elazar Stern di “Yesh Atid”, così come, tra gli altri, il vice-ministro degli Affari Esteri Michael Oren [della lista centrista “Kulanu”, ndtr.], hanno anche loro parlato in termini denigratori dei matrimoni misti.

Separatisti progressisti

Ma abbracciare apertamente in ebraico una simile retorica razziale – e fare poi una debole retromarcia una volta che è stata svelata in inglese – lascia prevedere una fine ingloriosa per il lavoro ipocrita di Herzog come leader dell’opposizione.

Nell’ultimo decennio, Israele è stato guidato da governi Netanyahu sempre più razzisti, forse i più razzisti nella storia del Paese. Herzog ha passato un lungo periodo del suo mandato come dirigente di quell’opposizione parlamentare che cerca di diventare il socio di minoranza di Netanyahu.

Secondo informazioni giornalistiche, Herzog voleva entrare nel governo e guidare il ministero degli Esteri, dove avrebbe potuto presentare un aspetto più accettabile a livello internazionale delle politiche razziste di Netanyahu.

Con la sua visione rivolta alla purezza del popolo ebraico, Herzog sta tornando alle sue radici familiari. Settantacinque anni fa il nonno da cui ha preso il nome – Isaac HaLevi Herzog, l’allora rabbino capo della comunità ebraica in Palestina, –  fondò il “Comitato per la Difesa dell’Onore delle Figlie di Israele” per combattere i matrimoni misti.

In quel clima di odio e isteria, le donne ebree che frequentavano uomini non ebrei – sia cristiani che musulmani – erano vessate, picchiate, torturate sessualmente e a volte persino uccise. Nessuno è mai stato punito, arrestato, imputato, e nemmeno indagato per quei crimini efferati.

Patriarchi che vigilino sulla vita sessuale dei propri figli non sono un’invenzione del sionismo del XX^ secolo, né sono un’esclusiva della religione ebraica. Ma mentre Israele pretende di definirsi una democrazia, proibisce ai suoi cittadini di sposarsi tra loro se i rispettivi genitori sono registrati con religioni diverse.

Questa particolare caratteristica del Paese venne inserita nella legge da David Ben Gurion, il padre fondatore di Israele e suo primo capo del governo – del campo laburista. E ora, addirittura 70 anni dopo, i dirigenti progressisti di Israele vedono ancora le eccezioni alla regola, le poche famiglie che sopravvivono e si sviluppano sotto queste avverse condizioni, come vera e propria incarnazione di una malattia.

Benché il suo intervistatore di Ynet lo incoroni come neo-eletto “primo ministro del popolo ebraico”, è estremamente improbabile che Isaac Herzog abbia una maggiore influenza sulle abitudini in camera da letto degli ebrei fuori da Israele di quella che ha avuto sulle abitudini elettorali degli ebrei all’interno del Paese – vale a dire, veramente poca.

Sprofondato nell’odio

Ma la generalizzata opinione contro i matrimoni misti che Herzog ha intercettato rimane una forza potente. Sabato sera, mentre camminavo per la strada nel sud di Israele con la mia compagna non ebrea, a meno di cinquanta passi dal nostro appartamento un uomo che non avevamo mai visto prima ci ha fissati e ha sputato verso di noi mentre gli passavamo vicino. Non è stata la prima volta che ciò è accaduto, e probabilmente non sarà l’ultima.

Herzog non è, e non potrà mai essere, “il primo ministro del popolo ebraico”. Qualunque ebreo descriva le famiglie tra ebrei e gentili come una “piaga” – o qualcosa in meno che membri apprezzati delle nostre comunità – non è degno di servirci un piatto di hummus, figuriamoci di prestare servizio in un qualunque ruolo dirigente in Israele, America o altrove.

Se i politici veramente progressisti sperano di allontanare Israele dal baratro, allora dovranno opporsi a qualunque tipo di supremazia e difendere qualunque forma di uguaglianza. Qualunque altra cosa garantirebbe solo che la persona che alla fine sconfiggerà Netanyahu alle elezioni erediterà un Paese ancora più sprofondato nell’odio.

– David Sheen è un giornalista e regista indipendente nato in Canada, ora corrispondente da Israele-Palestina. Il suo lavoro si concentra principalmente sulle tensioni razziali e l’estremismo religioso. Nel 2017 Sheen è stato dichiarato da “Front Line Defenders” [Difensori in prima linea], con sede in Irlanda, difensore dei diritti umani per il suo lavoro di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La storia della Palestina e di Israele

La storia più convincente e sensata della Palestina e di Israele

PalestineChronicle – 19 giugno 2018

Di Rima Najjar

La storia che sta dietro alla Palestina e a Israele è una storia di colonialismo di insediamento di ebrei europei – cioè, sionismo.   E dato che il razzismo è un sintomo e uno strumento del colonialismo di insediamento, il sionismo è visto anche come antisemitismo, e come supremazia etnica o ebraica, arabofobia e islamofobia. 

La triangolazione di antisemitismo, islamofobia e arabofobia nella storia della Palestina e di Israele è parte del movimento coloniale di insediamento del sionismo e non è una “nuova storia” nel senso di come il termine è stato presentato dallo storico israeliano Benny Morris nel 1980 per rendere umane, nel discorso accademico israeliano, le vittime del sionismo.   Riflette semplicemente una terminologia moderna e comprende eventi storici che la mentalità sionista in buona misura ancora non accetta.

In linea generale questi avvenimenti storici sono semplici. Gli ebrei sionisti (che si autoproclamavano atei) decisero di costruire uno Stato ebraico in Palestina e finirono per prendersi con la forza la maggior parte della terra e per espellere la maggior parte della popolazione arabo-palestinese non ebraica, impedendole di tornare.

Ora Israele sta occupando il resto del territorio che l’Organizzazione Sionista Mondiale non era riuscita a prendersi e continua a “insediarvisi”.

Ne “La fine del sionismo: razzismo e lotta palestinese”, Joseph Massad [docente alla Columbia University, ndtr.] scrive:

“Il sionismo, in quanto movimento colonialista, è costituito nell’ideologia e nella prassi da un’epistemologia religiosa e razziale attraverso la quale concepisce se stesso ed il mondo attorno a lui… Non si mette più in discussione, persino tra molti israeliani, che l’impatto del sionismo sul popolo palestinese nell’ultimo secolo include: l’espulsione di una maggioranza di palestinesi dalle loro terre e case, impedendone il ritorno, e la successiva confisca delle loro proprietà per uso esclusivo degli ebrei;  l’imposizione dal 1948 al 1966 di un sistema di  apartheid militare sui palestinesi rimasti in Israele, che da allora si è attenuato in un sistema civile discriminatorio di supremazia ebraica; l’occupazione militare e un sistema di apartheid imposto alla Cisgiordania, alla Striscia di Gaza ed alla loro popolazione per i rimanenti 35 (ora 51) anni, come anche la continua colonizzazione di quei territori occupati.”

In questo senso la storia del colonialismo di insediamento degli ebrei europei – cioè del sionismo – che sta dietro la Palestina e Israele (come opposto alla storia come “narrazione” o mito sionista) ha a monte la voce della ragione, perché rivela un’atrocità a cui si deve porre rimedio.

Riconoscere ed assumersi la responsabilità dei crimini storici ed attuali di Israele contro gli arabi palestinesi è il primo passo per risolvere la Nakba.  I particolari storici riguardo a come e perché questi tragici avvenimenti sono accaduti hanno riempito molti libri, ma non è questo il punto.

La questione generale ha di per sé la voce della ragione, se si considerano anche la giustizia come ragionevole e l’ingiustizia come irragionevole.

Per esempio, cos’è ragionevole e plausibile riguardo ad Ivanka Trump, figlia del presidente USA Donald Trump e moglie di Jared Kushner, che ora può comprarsi una casa a Gerusalemme e “tornare” in Israele grazie alla sua conversione all’ebraismo ed all’ebraicità del suo marito americano, mentre a Ghada Karmi, un’araba palestinese musulmana, viene negato il ritorno alla sua patria e non le viene neppure consentito di ricomprare la casa rubata a suo padre?

In “Umanizzare il testo: la ‘nuova storia’ israeliana e il percorso della storiografia sul 1948”, Ilan Pappe [storico israeliano attualmente docente in Gran Bretagna, ndtr.], universalmente noto per il suo “La pulizia etnica della Palestina”, scrive:

“Una cosa è chiara quando si analizzano le sorti della nuova storia israeliana dal tempo dei suoi inizi, alla fine degli anni ’80, fino alla sua breve/momentanea scomparsa nel 2000: la ricostruzione storica è strettamente legata agli sviluppi e sconvolgimenti politici generali. In società lacerate da fratture e conflitti interni ed esterni, il lavoro degli storici è costantemente pervaso dal dramma politico intorno a loro. In questi contesti geopolitici la pretesa di obiettività è particolarmente fuori luogo, se non totalmente infondata.”    

Storici ebrei dissidenti radicali come Ilan Pappe in Israele sono fondamentali per una storia che ha dalla sua parte la voce della ragione. Sono un ponte verso un pubblico più vasto in Israele.

Spesso i palestinesi si chiedono cosa sia necessario per fare breccia nella coscienza dell’opinione pubblica occidentale riguardo alla tragica storia della Palestina lunga 70 anni.

Credo che il modo migliore per spostare l’opinione pubblica occidentale dall’appoggio ad Israele verso il sostegno alla causa palestinese sia continuare a sottolineare quello che ha già avuto luogo attraverso l’abbandono del cosiddetto “processo di pace” e della “soluzione dei due Stati” – la comprensione, finora  poco chiara, che il problema di Israele risiede nella sua natura di progetto sionista di colonialismo d’insediamento in Palestina, piuttosto che di “occupante” militare.

In “Perché il termine ‘occupazione israeliana’ deve essere rifiutato”, Ramzy Baroud scrive:

“…Spesso si sostiene che Israele è un occupante che ha violato le norme sull’occupazione come stabilite dalle leggi internazionali. Sarebbe stato così un anno, due anni o cinque anni dopo che l’occupazione iniziale ha avuto luogo, ma non 51 anni dopo. Da allora l’occupazione si è trasformata in una colonizzazione a lungo termine.”

Molte persone credono che la “Grande Marcia del Ritorno” abbia riscosso reazioni giornalistiche così positive nei media occidentali perché le proteste sono state essenzialmente non violente – ad esempio, non si può dire che abbiano minacciato la sicurezza di Israele e quindi la forza mortale che Israele utilizza è “sproporzionata” e criminale.

È il massimo a cui arriva l’azione non violenta palestinese. Ciò non fa nulla per cambiare la percezione dell’opinione pubblica occidentale di Israele come uno Stato legittimo simile a quelli occidentali, che protegge le proprie frontiere (benché con una forza sproporzionata) contro un mare di arabi o la percezione dei palestinesi come “turbolenti” e “barbari”, il cui unico desiderio malvagio è di uccidere ebrei.

La resistenza non violenta sicuramente ha i suoi vantaggi, ma a mio parere non deve mai essere imposta ad un popolo oppresso e brutalizzato come se fosse un terreno moralmente superiore di resistenza.

Inoltre l’enfasi sulla tattica della resistenza non violenta delegittima implicitamente altre forme di resistenza, santificando alcuni martiri palestinesi e prigionieri tenuti in detenzione amministrativa [cioè senza un’imputazione né una condanna, ndtr.] in sciopero della fame ed accettando le giustificazioni di Israele per l’uccisione e l’arresto di migliaia di altri palestinesi.

Quello che c’è di diverso nella “Grande Marcia del Ritorno” è che la sua richiesta di tornare mette in rapporto l'”occupazione” e l’assedio [di Gaza] con la Nakba, mettendo in scena per il pubblico occidentale, con la protesta e la resistenza, la colonizzazione di tutta la Palestina.

Questa richiesta, udita per la prima volta nella storia recente della resistenza palestinese, sta spostando la percezione dell’opinione pubblica occidentale.

Sulle reti sociali attivisti per la giustizia in Palestina hanno a lungo utilizzato diverse tattiche (soprattutto documentando e rendendo pubbliche le violazioni delle leggi internazionali e della dignità umana da parte di Israele) per raggiungere il pubblico occidentale (per aprirsi un varco nei principali media dell’Occidente). Le più efficaci sono le campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS – PACBI), che hanno convinto grandi nomi dell’accademia e celebrità della cultura e dello sport ad abbracciare la causa dei palestinesi.

L’opinione pubblica occidentale è anche diventata più informata della reazione violenta sionista contro le campagne del BDS, soprattutto in quanto incide sulla libertà di parola.

In generale, per rivolgersi a un pubblico occidentale, soprattutto quello di sinistra, è efficace fare riferimento ai valori progressisti applicabili alle ingiustizie contro tutti i gruppi marginalizzati nella società occidentale, in quanto ciò evidenzia la contraddittorietà di  prendere in considerazione unicamente la causa palestinese come se fosse un’eccezione.

Il pubblico occidentale si presume faccia parte della tradizione giudaico-cristiana, un termine coniato da George Orwell nei lontani anni ’30 per combattere l’antisemitismo. Sfortunatamente questa tradizione umanistica è stata infangata perché ora antisemitismo e antisionismo vi sono inesorabilmente legati, e quindi lottare contro uno significa lottare contro l’altro.

La civiltà occidentale è stata a lungo definita dalle conquiste coloniali (in Medio oriente con islamofobia e arabofobia) e dal potere imperialista; ciò ha dato vita al sionismo.

Oltretutto,

“… una volta occupata la posizione di superiorità militare, la cultura colonialista produce, attraverso un’ampia gamma di mezzi di comunicazione, un’infinita serie di asserzioni che lentamente e sottilmente – con l’aiuto di libri, giornali, scuole e i loro testi, pubblicità, film, radio – invade le menti e plasma la visione del mondo del gruppo a cui si appartiene…La colonizzazione efficace porta l’oppresso a identificarsi con la visione del mondo dell’oppressore.” [citazione da “Pelle nera, maschere bianche” di Frantz Fanon, ndtr.]

L’Autorità Nazionale Palestinese ora si identifica con il suo oppressore in modo così profondo che non si vergogna, come imposto da Israele, di reprimere brutalmente i palestinesi che in Cisgiordania si riuniscono contro le misure economiche punitive di Mahmoud Abbas a Gaza.

Ciò che alla fine cambierà la percezione del pubblico occidentale saranno gli stessi palestinesi che comunque scelgono di resistere. Devono insistere sulla liberazione – sulla decolonizzazione e non solo sulla “fine dell’occupazione”.

– Rima Najjar è una palestinese la cui famiglia paterna viene dal villaggio di Lifta, nella periferia occidentale di Gerusalemme, svuotato dei suoi abitanti con la forza. È un’attivista, una ricercatrice e docente in pensione di letteratura inglese all’università di Al-Quds, nella Cisgiordania occupata.   Ha offerto quest’articolo a PalestineChronicle.com. 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Protezione per i ladri di terra

Editoriale Haaretz, 27 febbraio 2018

Un governo è obbligato a proteggere i diritti delle persone sotto occupazione. Ayelet Shaked lo sta rendendo difficile.

La motivazione del recente disegno di legge, promosso dalla ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che toglie l’autorità di esaminare le petizioni dei palestinesi della Cisgiordania all’Alta Corte di Giustizia e la attribuisce alla Corte Distrettuale di Gerusalemme, è stata sintetizzata dalla ministra sulla sua pagina Facebook. In seguito alla legge, ha scritto, “Il ricorso automatico all’Alta Corte da parte dei palestinesi e dalle associazioni di sinistra finanziate da denaro straniero non avverrà più.”

Il significato del disegno di legge approvato domenica dalla Commissione Ministeriale per la Legislazione è che l’Alta Corte non sarà più il tribunale di prima istanza per i reclami palestinesi sulle decisioni relative a pianificazione e edificazione, ingresso e uscita dai territori e richieste di libertà di informazione. La rivoluzione prodotta da questa legge mira a rendere ancor più difficili le azioni dei palestinesi danneggiati da azioni governative.

Ciò che è peggio, la promessa di Shaked che la nuova legge ridurrà la pressione sulla corte non è convincente, dato che nessuno garantisce che questi casi non saranno alla fine impugnati presso la Corte Suprema. Shaked semplicemente non tollera l’intervento dell’Alta Corte contro il furto di terre e la costruzione illegale su terreni palestinesi, intervento che ha già portato alla demolizione di case di coloni e la restituzione dei terreni su cui erano state costruite quelle case ai proprietari, come è successo ad Amona e Netiv Ha’avot. Shaked intende porre una barriera tra i palestinesi e l’Alta Corte di Giustizia sotto forma della Corte Distrettuale di Gerusalemme.

Nel 2000 è stata approvata la Legge sui Tribunali per le Questioni Amministrative, in base alla quale certe questioni legali su cui la legge è chiara e coerente, e non necessita di frequenti aggiornamenti, sono state spostate dall’Alta Corte di Giustizia alle corti distrettuali. Ma qualunque caso di carattere fondamentale, o che riguardi decisioni del governo centrale, viene ancora esaminato dai giudici della più alta corte.

Nel caso dei palestinesi, che sono soggetti al governo militare in un’area sotto occupazione, il loro timore di vedere messi a repentaglio i propri diritti umani si realizza quotidianamente, da cui l’importanza di consentire all’Alta Corte di continuare ad occuparsi delle loro istanze. Lo scopo era di attribuire adeguato peso al diritto internazionale, alle iniquità perpetrate dal governo ed all’obbligo di Israele di rispettare i diritti dei palestinesi. Questi principi, che sono considerati dall’attuale governo come ostacoli al totale ed aggressivo controllo dei territori, non sono abitualmente presi in considerazione dalla corte distrettuale.

Shaked sostiene: “Non meno importante è porre fine alla discriminazione contro i residenti di Giudea e Samaria (nome storico della Cisgiordania, ndtr). I loro diritti devono essere uguali a quelli di ogni altro cittadino.” Il cinismo di Shaked non ha limiti. In un luogo in cui non vi è eguaglianza tra lo status di un residente palestinese e quello di un israeliano, ed un grande solco separa i diritti dei due gruppi di residenti, il governo è obbligato a proteggere realmente i diritti di coloro che sono soggetti all’occupazione. Questa nuova legge deve essere immediatamente abrogata.

Questo articolo è l’editoriale di apertura di Haaretz, pubblicato sui giornali ebraici e inglesi in Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Ecco come Israele gonfia [i dati] della propria maggioranza ebraica

Editoriale Haaretz| 30 Aprile, 2017

Il rapporto annuale dell’Ufficio di statistica riguardo alla popolazione è un ridicolo esempio di propaganda che comprende i coloni ma non tutti i palestinesi sotto il controllo di Israele

Ogni anno prima del giorno dell’indipendenza, l’Ufficio centrale di Statistica pubblica a ridosso della festa un rapporto che inizia con i dati della popolazione israeliana per poi affrontare diversi parametri demografici ed economici come esempio dello sviluppo dello Stato e dei suoi risultati. Quest’anno l’ufficio ha registrato 8.68 milioni di persone residenti in Israele, dei quali il 74,7% sono ebrei, il 20,8% sono arabi e i rimanenti sono “altri” (principalmente cristiani non arabi). Questa è la dimostrazione numerica del successo sionista nella costruzione di uno Stato a forte maggioranza ebraica, che è presente in una pubblicazione ufficiale di un’agenzia professionale autorizzata.

Ma la pubblicazione dell’Ufficio centrale di Statistica è ingannevole e comprende molte imprecisioni e manipolazioni che la trasformano da un arido rapporto statistico a un ridicolo atto di propaganda.

Cominciamo con il numero degli abitanti israeliani.

L’Ufficio registra gli ebrei [presenti] in tutti i territori dal fiume Giordano al Mediterraneo sotto il proprio controllo. Ma prende in considerazione solamente gli arabi presenti nei territori prima dei confini del ’67, a Gerusalemme Est e sulle Alture del Golan. Milioni di palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza sono lasciati fuori. Così i coloni di Hebron sono residenti in Israele e sono compresi nella statistica , mentre i loro vicini palestinesi non lo sono.

La questione non consiste nel fatto che l’Ufficio ignori quanti siano i palestinesi che abitano nei territori. Israele controlla il registro dell’anagrafe della Autorità Nazionale Palestinese della Cisgiordania e perfino quello della Striscia di Gaza. Ogni nascita, viaggio, matrimonio, divorzio o decesso dei palestinesi dei territori vengono registrati dalle autorità israeliane. Si possono pubblicare dati completi della popolazione sotto il controllo diretto e indiretto di Israele, una popolazione che paga con gli stessi shekel ed è legata alle medesime infrastrutture. Ma allora la maggioranza ebraica si ridurrebbe in modo sorprendente, rovinando la festa della Giornata dell’Indipendenza.

L’espediente si accentua quando l’Ufficio centrale di Statistica rappresenta il territorio dello Stato 69enne. La mappa della pubblicazione ufficiale mostra Israele con le Alture del Golan, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, senza i confini interni come i confini precedenti al ’67, le linee di separazione degli Accordi di Oslo o quelle del disimpegno da Gaza – tutta l’Eretz Israel. Invece nel rapporto la superficie dello Stato, 22,072 kmq , non comprende la Cisgiordania e Gaza.

Allora queste aree fanno parte o no di Israele? I coloni sono compresi nelle statistiche nazionali mentre il territorio delle colonie non lo è? I coloni vivono in cielo?

La manipolazione dei dati non è un trucco nuovo. L’Ufficio centrale di statistica ha incluso i coloni quali residenti di Israele fin dal 1972, quando Golda Meir era primo ministro. Fino a oggi tutti gli esperti governativi di statistica si sono prestati all’ingannevole conteggio differenziato degli ebrei e degli arabi, anche se la legge esige loro di agire “in base a considerazioni scientifiche”.

L’attuale capo dell’ufficio, Prof. Danny Pfeffermann, ha ricevuto l’anno scorso un’onorificenza: il suo titolo è stato elevato a “ Statistico nazionale”. È un peccato che egli abbia prestato il suo prestigio professionale a un tentativo di propaganda governativa volto a mostrare una larga maggioranza ebraica e a cancellare i palestinesi dalla nostra coscienza, apparentemente in nome della scienza.

L’articolo di cui sopra è l’editoriale principale di Haaretz come è stato pubblicato nelle edizioni in lingua ebraica e inglese in Israele.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Editoriale// Netanyahu, secondo le sue stesse parole

Haaretz 6 marzo 2017

Sarebbe opportuno che Netanyahu dichiarasse all’opinione pubblica che crede nella soluzione dei due Stati, che è disposto ad un compromesso sui territori e comprende che l’espansione delle colonie deve essere fermata.

Il documento redatto dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu e pubblicato da Haaretz domenica (Netanyahu ha offerto al leader dell’opposizione Herzog di insistere insieme per un’iniziativa di pace regionale – e poi ha fatto marcia indietro”, di Barak Ravid), è una buona notizia per gli israeliani che credono nella soluzione dei due Stati.

Il documento aveva il fine di rendere possibile la formazione di un governo di unità con il partito Laburista per avviare un accordo di pace regionale. Dal documento emerge che Netanyahu sostiene una soluzione diplomatica che comprende un compromesso territoriale, riconosce il popolo palestinese ed il suo diritto all’autodeterminazione e accetta che Israele debba interrompere l’attività di espansione delle colonie. Inoltre segnala che Netanyahu assume una visione positiva dello spirito generale dell’iniziativa di pace araba.

La dichiarazione di Netanyahu rivela che il primo ministro e il suo principale e rumoroso alleato della coalizione, Habayit Hayehudi (Casa Ebraica), che sostiene l’annessione dei territori occupati, hanno un’ampia divergenza ideologica. I membri di Casa Ebraica stanno approfittando di questa divergenza per condurre un’ingannevole campagna pubblicitaria, sostenendo che l’opinione pubblica ha abbandonato la soluzione dei due Stati e sogna invece l’annessione ed una nazione unica con due sistemi giuridici.

Negli ultimi anni in Israele si è sviluppata una cultura politica di basso profilo, in base alla quale i partiti politici devono mentire sui loro veri punti di vista diplomatici, o almeno essere il più possibile vaghi riguardo alla propria volontà di accettare un compromesso territoriale. Il ricordo dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin è un valido deterrente per chiunque pensi di contestare questa posizione. Sembra che anche l’alleanza tra il Likud e Casa Ebraica sia basata su questo tipo di menzogna.

Il risultato è che si crea una dinamica distruttiva: il partito dei coloni trascina a destra il governo, mentre il partito al potere è costretto a dimostrare, attraverso leggi e dichiarazioni, di essere più di destra, più estremista, più aggressivo e addirittura più razzista. Questo significa che un partito con soli otto seggi alla Knesset, che rappresenta una popolazione che vive in gran parte, se non del tutto, in un territorio al di fuori della sovranità dello Stato di Israele, sta imponendo una tragica e storica direzione, in base ai suoi propri interessi, che sono contrari a quelli della popolazione che vive all’interno di Israele nella sua totalità.

E’ possibile che Netanyahu abbia scritto il documento per prendere tempo fino al termine della presidenza di Barak Obama, oppure che abbia incominciato a preoccuparsi delle ripercussioni politiche di un processo diplomatico di così ampia portata. Ma se non è così e il documento rappresenta davvero la sua intenzione, allora sarebbe opportuno che dichiarasse all’opinione pubblica che crede nella soluzione dei due Stati, che è disposto ad un compromesso sui territori e comprende che l’espansione delle colonie deve essere fermata. Ciò renderebbe più facile riportare Israele sulla via della normalità e tendere la mano in pace ai nostri vicini. La stessa mano potrebbe dare l’addio al partito dei coloni.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)