Netanyahu se ne andrà, ma il “Bibismo” resterà

Anche se il primo ministro fosse rimosso, i suoi principi ispiratori si sono radicati nell’opinione pubblica israeliana e nei media.

Haaretz

Di Rogel Alpher, 9 luglio 2016

Anche se i più profondi desideri delle vecchie elite diventassero realtà e la loro nemesi, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, venisse esautorato, Israele non cambierebbe strada. I “Bibisti” – Yair Lapid, Naftali Bennet, Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Moshe Ya’alon e Gideon Sa’ar –  resterebbero al comando. Il “Bibismo” continuerebbe a governare lo Stato. I principi del Bibismo godono di un ampio consenso tra gli ebrei israeliani e nei mezzi di informazione importanti – canali 2 e 10, Israel Hayom, Yedioth Aaronoth, la radio dell’esercito e la radio di Israele. 

Non è stato “Bibi” a creare questo movimento, che è antico quanto lo Stato stesso. Lui ne è solo  la  somma espressione, il più grande ideologo, e colui che lo ha gestito con maggior successo. Questo movimento esiste indipendentemente da lui, ed il suo destino non è intrecciato con quello di  costui. Il Bibismo si fonda su tre principi base:

  1. L’Olocausto non è mai terminato. Come un tumore in fase di remissione, è sempre suscettibile di recidivare. Gli ebrei israeliani non possono ottenere una completa guarigione dalla maligna ed eterna Shoah e lasciarsela alle spalle. Le aggressive metastasi dell’antisemitismo compaiono in tutto il mondo, continuamente. Ogni critica alla politica del governo israeliano scaturisce da questo antisemitismo. Il movimento nazionale palestinese è la continuazione dell’Olocausto con altri mezzi. Insieme al terrorismo estremista islamico e all’Islam hitleriano, cerca di eliminare gli ebrei israeliani.

Lo scopo della vita degli ebrei israeliani è di garantire che l’Olocausto non si ripeta. Ma la Shoah non è solamente la nostra ragione di vita: è anche la conseguenza della nostra esistenza in Israele. Ne è la prova il fatto che siamo in un perenne stato di minaccia alla nostra esistenza. Gli ebrei quindi sono le eterne vittime della storia: se non ci fossero ebrei in Israele, le forze dell’Olocausto sarebbero riuscite a distruggere gli ebrei. D’altro lato, l’esistenza degli ebrei in Israele incentiva ancor di più  le forze dell’Olocausto a distruggere gli ebrei.

E’ una trappola, e la soluzione è che gli ebrei non hanno altra scelta che vivere sempre con la spada sguainata. Questo è il destino degli ebrei. Non è necessariamente una brutta cosa. Di fatto dà un senso alla nostra vita comunitaria. E’ la nostra fiamma vitale.

Dato che l’Olocausto è solo in remissione, gli ebrei israeliani si identificano anzitutto e soprattutto come ebrei, non come israeliani. Non sono una componente della nazione israeliana – il 20% dei cui membri sono arabi – ma piuttosto una parte della nazione ebraica nella Diaspora. Sono perseguitati da un perpetuo antisemitismo perché sono ebrei. Sono massacrati dai terroristi palestinesi perché sono ebrei. E questa è la prova che non vi è occupazione né apartheid. Non sono le azioni degli ebrei a scatenare il terrorismo palestinese. Le cosiddette occupazione ed apartheid altro non sono che misure preventive che hanno lo scopo di difendersi contro il terrorismo.

  1. L’Esercito Israeliano è sacro. Per impedire un’altra Shoah, Israele deve essere forte. La ragion d’essere di ogni ebreo israeliano è proteggere lo Stato. Al di sopra di ogni altra cosa, egli è un anello dell’infinita catena ebraica. L’ebreo israeliano deve essere disposto a sacrificare sé stesso per il popolo ebraico. La sua più alta aspirazione è morire da eroe, in combattimento. Ecco perché l’esercito è sacro. Esso ci protegge. E’ la sola cosa che si erge tra noi e un altro Olocausto. Ma è difficile per la gente morire per il proprio Paese se non può credere che l’esercito israeliano è, effettivamente, il braccio teso di Dio.

Dio ha promesso questa terra agli ebrei e ci ha prescelti tra tutti i popoli. L’Esercito ha realizzato la “Sua” politica. L’Esercito è la continuazione di Dio con altri mezzi.

  1. E’ un gioco a somma zero. Loro o noi. Perciò, credere totalmente o parzialmente che la narrazione palestinese sia giusta è tradimento. Il “Bibismo” è la narrazione nazionale degli ebrei di Israele.                                (traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Omicidi efferati da ambo le parti del conflitto israelo-palestinese

Si sono versate lacrime a Kiryat Arba, Sa’ir e altrove. Le ragioni sono diverse, ma i risultati sono identici ed orrendi

Haaretz

di Gideon Levy – 3 luglio 2016

“Hubb”, lo chiamavano, “Amore”, e lo portavano con loro ovunque. Era il loro figlio e fratello e lo mostravano con affetto. Era indifeso. Era nato con la sindrome di Down.

Il soldato gli ha sparato da breve distanza allo stomaco, poi se n’è andato con i suoi compagni senza controllare le condizioni di Hubb o chiamare aiuto. Lo hanno lasciato sanguinante sul terreno pietroso. Poche settimane dopo è morto in seguito alle ferite.  Arif Jaradat, del villaggio di Sa’ir, è morto a 23 anni.

Il portavoce dell’IDF [l’esercito israeliano. Ndtr.] ha detto che “i soldati hanno avvistato un palestinese che stava lanciando una bottiglia molotov” e hanno sparato “per eliminare la minaccia”. Questa affermazione è vergognosamente falsa.

Innanzitutto, i testimoni oculari hanno affermato che Arif ha solo gridato ai soldati per paura, come faceva sempre quando incontrava dei militari. E, indipendentemente dal fatto che i soldati potessero vedere o meno che si trovavano davanti un giovane affetto da sindrome di Down, era chiaro che se si fosse trattato di una bomba incendiaria, i soldati avrebbero arrestato Arif dopo averlo ferito. Ma gli hanno sparato e se ne sono andati.

A pochi kilometri da Sa’ir, a Kiryat Arba, durante il fine settimana è stato commesso lo sconvolgente omicidio di Hallel Yaffa Ariel mentre stava dormendo. Anche lei era indifesa, anche lei era giovane ed innocente. “Come puoi uccidere una tredicenne?” ha gridato sua madre. Ha ragione. E come puoi uccidere un giovane con la sindrome di Down? I cuori sono scossi, le lacrime scorrono e le gole si chiudono, sia a Kiryat Arba che a Sa’ir.

Pochi giorni fa Mahmoud Rafat Badran, un ragazzo di 15 anni, se ne stava tornando a casa con alcuni amici dopo essere stato in un parco acquatico. I soldati israeliani hanno crivellato la sua auto con 15 proiettili, pensando che i passeggeri avessero lanciato delle pietre sulla Strada 443. Rafat è rimasto ucciso e quattro suoi amici sono stati gravemente feriti dal fuoco indiscriminato. L’esercito ha affermato che si è sparato per “errore”.

Venerdì la famiglia Mark stava viaggiando a sud del monte Hebron, in Cisgiordania. Alcuni palestinesi hanno crivellato la loro auto con 19 proiettili, uccidendo il padre, Michael, e ferendo gravemente sua moglie e due figli. I primi a correre in loro aiuto sono stati dei passanti palestinesi, uno dei quali era un medico, che ha rianimato la madre, e un’ambulanza della Mezzaluna Rossa. Di nuovo una vita stroncata, di nuovo lacrime che scorrono.

Tutte queste uccisioni sono diverse, eppure simili. Per la maggior parte degli israeliani questi episodi non si possono confrontare. Il solo fatto di parlare di somiglianza  li fa infuriare. Ma la verità è che una persona indifesa è una persona indifesa, che si tratti di una ragazzina che dorme nel suo letto o di un giovane con la sindrome di Down. Ucciderli è un atto efferato.

Anche crivellare di proiettili un’auto è efferato. E’ vero, i palestinesi che hanno sparato alla macchina di Otniel volevano uccidere i passeggeri, mentre i soldati che hanno sparato contro l’auto di Beit Ur al-Tahta hanno detto di aver ucciso per sbaglio, ma il loro errore risulta inaccettabile.

Quindici proiettili per sbaglio? Hanno sparato indiscriminatamente ad un’auto senza l’intenzione di ucciderne i passeggeri? I palestinesi sparano come parte della loro resistenza all’occupazione. Gli israeliani sparano come parte della loro resistenza contro la resistenza. I motivi sono diversi, i risultati sono identici e orrendi, anche se vengono uccisi molti più palestinesi.

La maggior parte degli israeliani vive negando la realtà  in conseguenza del lavaggio del cervello a cui sono sottoposti. Il terrorismo esiste solo dalla parte dei palestinesi, solo loro agiscono con brutalità e disumanità. La realtà parallela rimane nascosta ai loro occhi – chi mai ha sentito parlare dell’uccisione di un giovane indifeso di Sa’ir? Ciò che è peggio, non c’è la volontà di prendere in considerazione l’episodio dal punto di vista palestinese.

Dietro a tutto ciò si nasconde il concetto più profondamente radicato in Israele – che i palestinesi non sono esseri umani come noi. Il loro sangue non è il nostro, versarlo non è malvagio come spargere il nostro.

Il giorno in cui più israeliani vorranno paragonare l’uccisione di Arif Jaradat a quella di Hallel Yaffa Ariel, il giorno in cui più israeliani riconosceranno l’ingiustizia ed i crimini commessi dal loro Paese, si farà il primo passo per ridurre lo spargimento di sangue. Fino ad allora continuerà. Niente lo fermerà.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il sistema giudiziario militare d’Israele sembra essersi spinto troppo lontano.

Editoriale Haaretz 6 giugno, 2016

La crescente resistenza violenta all’occupazione non deve dare a Israele e al suo apparato di sicurezza il diritto di negare la libertà a persone innocenti.

La parlamentare palestinese Khalida Jarrar è stata rilasciata venerdì dopo 14 mesi di detenzione in una prigione israeliana. Jarrar era una prigioniera politica e la sua detenzione è stata una detenzione politica.

Dapprima Israele voleva tenerla in prigione senza processarla; solamente dopo una protesta internazionale è stata giudicata da una corte militare per una serie di accuse, la maggior parte delle quali erano ridicole e assurde: aver partecipato ad una fiera del libro, aver pagato una telefonata di condoglianze a una famiglia palestinese e cose simili. Il fatto che Jarrar, in quanto rappresentante eletta, goda di un certo livello di immunità parlamentare è ininfluente per il sistema giudiziario militare; ci sono altri parlamentari palestinesi nelle carceri israeliane.

Jarrar, che presiedeva la commissione del Consiglio legislativo palestinese sui prigionieri politici, ha trascorso molti anni a lavorare a favore dei prigionieri palestinesi, cercando di ottenere il loro rilascio. Ma 700 palestinesi detenuti amministrativi sono attualmente nelle prigioni israeliane, alcuni dei quali sono stati incarcerati da lungo tempo senza processo. Mentre Jarrar era in carcere è stato raggiunto un altro record; 61 donne palestinesi, 14 delle quali sono minorenni, sono tenute nelle galere israeliane. Il Servizio israeliano delle prigioni [IPS] ha dovuto aprire una nuova ala nel carcere di Damon in aggiunta a quello di Hasharon per tenerle tutte in detenzione.

Insieme il numero totale di minori detenuti da Israele, più di 400 secondo B’Tselem, questi dati sono una prova dell’intollerabile e ignobile politica del sistema giudiziario militare nei confronti dei palestinesi. Nessuno si aspetta che agisca come un vero sistema di giustizia penale, ma persino per un sistema militare di giustizia sembra che si sia spinto troppo lontano nei mesi scorsi, [in quanto] Israele si è arrogato il diritto di negare la libertà alle persone che vivono sotto la sua occupazione in modo quasi illimitato.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Sì, Israele sta commettendo esecuzioni extragiudiziarie

Nel 2016 non c’è bisogno di essere Adolf Eichmann per essere giustiziato in Israele – basta essere un’adolescente palestinese con delle forbici.

Di Gideon Levy – Haaretz – 17 gennaio 2016

Potremmo dirlo così: Israele giustizia persone senza processo praticamente ogni giorno. Ogni altra definizione sarebbe una menzogna. Se una volta c’era qui una discussione sulla pena di morte per i terroristi, ora sono giustiziati anche senza processo (e senza che se ne discuta). Se una volta c’era un dibattito sulle regole d’ingaggio, oggi è chiaro: spariamo per uccidere ogni palestinese sospetto.

Il ministro della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan, ha illustrato chiaramente la situazione quando ha detto: “Ogni terrorista deve sapere che non sopravviverà all’attacco che sta per compiere,” e praticamente tutti i politici lo hanno seguito con nauseabonda unanimità, da Yair Lapid [fondatore del partito di centro “Yesh Atid” (C’è un futuro). Ndtr.] in su. Non erano mai stati rilasciati tante licenze di uccidere, né il dito era stato così nervoso sul grilletto.

Nel 2016, non c’è bisogno di essere Adolf Eichmann [criminale nazista rapito in Argentina, processato e giustiziato in Israele. Ndtr.] per essere giustiziati, basta essere un’adolescente palestinese con delle forbici. I plotoni d’esecuzione sono attivi ogni giorno. Soldati, poliziotti e civili sparano a quelli che hanno accoltellato israeliani, o hanno cercato di farlo o sono sospettati di averlo fatto, e anche a coloro che hanno investito israeliani con la loro auto o sembra che lo abbiano fatto.

In molti casi, non c’era bisogno di sparare, e sicuramente non di uccidere. Nella maggior parte dei casi la vita di chi ha sparato non era in pericolo. Sparano per uccidere persone che avevano un coltello o persino forbici, o gente che ha semplicemente messo le mani in tasca o ha perso il controllo della propria auto.

Li uccidono indiscriminatamente – donne, uomini, ragazzine, ragazzini. Gli sparano mentre stanno fermi, ed anche quando non sono più pericolosi. Sparano per uccidere, per punire, per sfogare la propria rabbia e per vendicarsi. Qui c’è un tale disprezzo che questi incidenti sono a malapena raccontati dai media.

Sabato scorso [16 gennaio 2016] al checkpoint di Beka’ot (chiamato Hamra dai palestinesi), nella valle del Giordano, alcuni soldati hanno ucciso l’uomo d’affari Said Abu al-Wafa , di 35 anni, padre di 4 figli, con 11 pallottole. Contemporaneamente, hanno ucciso anche Ali Abu Maryam, un bracciante agricolo e studente di 21 anni, con tre pallottole. L’esercito israeliano non ha spiegato le ragioni dell’uccisione dei due uomini, salvo sostenere che c’era il sospetto che qualcuno avesse sfoderato un coltello. Ci sono delle telecamere di sicurezza sul posto, ma l’esercito israeliano non ha mostrato il filmato dell’incidente.

Il mese scorso altri soldati dell’IDF hanno ucciso Nashat Asfur, padre di tre figli che lavorava in un mattatoio israeliano per polli. Gli hanno sparato nel suo villaggio, Sinjil, dalla distanza di 150 metri, mentre stava camminando verso casa per un matrimonio. All’inizio di questo mese, Mahdia Hammad, quarantenne madre di 4 figli, stava guidando verso casa attraverso il suo villaggio, Silwad. Ufficiali della polizia di frontiera hanno crivellato la sua macchina con dozzine di proiettili dopo aver sospettato che volesse investirli.

I soldati non hanno avuto sospetti di nessun genere sulla studentessa di cosmetologia Samah Abdallah, 18 anni. Hanno sparato all’auto di suo padre “per sbaglio”, uccidendola; hanno sospettato il pedone sedicenne Alaa al-Hashash di volerli accoltellare. Ovviamente hanno giustiziato anche lui.

Hanno ucciso anche Ashrakat Qattanani, 16 anni, che aveva un coltello e inseguiva una donna israeliana. Prima un colono l’ha investita con la sua macchina, e quando era a terra ferita, soldati e coloni le hanno sparato per almeno quattro volte. Un’esecuzione, cos’altro?

E quando i soldati hanno sparato alla schiena a Lafi Awad, 20 anni, mentre stava scappando dopo aver lanciato delle pietre, non si è trattato di un’esecuzione?

Sono solo alcuni dei casi che ho documentato nelle scorse settimane su Haaretz. Il sito web dell’associazione [israeliana] per i diritti umani B’tselem presenta un elenco di altri 12 casi di esecuzioni.

Margot Wallström, ministra degli Esteri svedese, una dei pochi ministri al mondo che hanno ancora una coscienza, ha chiesto che si indaghi su queste uccisioni. Non c’è una richiesta più morale di questa. Avrebbe dovuto essere fatta dal nostro stesso ministro della Giustizia.

Israele ha risposto con i suoi soliti ululati. Il primo ministro ha detto che ciò era “oltraggioso, immorale e ingiusto”. e Benjamin Netanyahu comprende bene questi termini: è esattamente il modo in cui descrivere la campagna di esecuzioni criminali da parte di Israele sotto la sua guida.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 8

di Alaa Tartir

Al-Shabaka Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è l’ottava parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

La parte è stata scritta da Alaa Tartir, il direttore di Al-Shabaka e anche ricercatore post dottorato al Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra

Chi proteggerà e amplierà l’ondata palestinese di collera attualmente in corso nei territori occupati e come? Dovremmo tutti essere interessati a rispondere in modo approfondito a questa domanda. Il continuo sacrificio del popolo palestinese non deve essere sfruttato, ancora una volta, dalla tradizionale elite politica palestinese come carta [da giocare] in qualche nuova tornata di negoziati destinati a fallire. Non deve nemmeno diventare semplicemente un modo per le autorità di far sfogare la rabbia dei giovani.

L’incapacità prolungata della dirigenza tradizionale palestinese di realizzare le aspirazioni dei palestinesi ha fornito un’opportunità alle nuove avanguardie, quali gli attivisti della società civile palestinese e gli oppositori dell’ANP. Peraltro costoro devono ancora sfruttare appieno quest’occasione. C’è bisogno di un completo cambiamento della classe dirigente palestinese. Ci vorranno tempo, risorse e una determinazione politica nonché una mobilitazione di massa nei momenti cruciali. Gli obiettivi politici e le forme di lotta sono le questioni fondamentali a cui dare una risposta. L’alternativa sta prendendo forma, ma è ancora giovane come i ragazzi che si stanno ribellando. È importante occuparsi di tali questioni subito: senza il sostegno necessario e gli strumenti per coordinare i tentativi e le iniziative , il movimento rapidamente morirà.

Le nuove avanguardie palestinesi devono agire ora per mettere insieme i loro sforzi per creare una strategia di lotta che faccia crescere piuttosto che prosciugare le potenzialità e le energie dell’ondata [di collera]. È un compito arduo, ma è l’unico modo per evitare un’altra delusione che aumenterebbe l’attuale frustrazione e il disorientamento. I momenti di trasformazione storica non sono mai facili.

Quest’impostazione coinvolgerà su diversi fronti momenti di scontro. In altre parole, ciò non dovrebbe essere limitato a una presenza fisica davanti ai checkpoint, ma [occorre] estenderlo all’ambito politico, economico, a quello dei media e ad altri. Indubbiamente lo scontro in una situazione di colonizzazione è l’unico modo per cambiare lo squilibrio di potere, affrontando la situazione sul terreno e costruendo un percorso per il futuro.

Gli attuali movimenti [organizzati] dai giovani e dalle nuove avanguardie della società civile incarnano le politiche dello scontro: stanno agendo collettivamente per sfidare le autorità e la loro pretesa di essere rappresentativi [della volontà del popolo palestinese]. Tuttavia abbiamo bisogno di passare da una situazione odierna di rabbia a un movimento che rappresenti la società palestinese nella sua interezza, trasformandola in una società fondata sui movimenti sociali e sulle reti trasversali che si occupano di questioni politiche, economiche e sociali. Ciò può essere fatto basandosi sulle reti sociali esistenti e su altre per proporre obiettivi di interesse generale, lavorando per la liberazione dalla colonizzazione e sfidando le autorità repressive e le elite. Ciò può trasformare l’attuale ondata di collera in una situazione permanente di scontro con il colonizzatore così come in un movimento sociale che avvicini il colonizzato alla libertà e all’autodeterminazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 7

di Belal Shobaki

Maannews .  da Al-Shabaka

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la settima parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questo pezzo è stato scritto da Belal Shobaki, assistente e professore nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Hebron, Palestina e membro dell’Associazione americana di studi politici

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L’attuale movimento popolare rende ancora più urgente che i partiti politici abbandonino i propri interessi e contribuiscano alla crescita della partecipazione della società civile. Fatah e Hamas hanno un’occasione d’oro per attivarsi al di là delle loro preoccupazioni riguardo alle questioni istituzionali della gestione dell’Autorità nazionale palestinese e per agire in modo consono alla loro identità di movimenti di liberazione sotto occupazione. Tutte le fazioni dovrebbero unirsi nel proporre un programma nazionale che faccia a meno di Oslo e delle strutture istituzionali che rendono inefficace la lotta dei palestinesi. Possono usare la loro struttura mediatica per ricostruire una cultura politica, economica e sociale che sostenga la sollevazione piuttosto che per opporsi uno all’altro e mobilitarsi per la propria fazione. Ciò comporterebbe un mutamento nelle tranquille abitudini consumistiche dei palestinesi specie in Cisgiordania.

Fatah potrebbe trovarsi in difficoltà ad agire in tal modo, dato che si identifica con le istituzioni dell’Autorità nazionale palestinese. Tuttavia, Fatah avrebbe ancora di più da perdere se non riuscisse a cambiare [atteggiamento]. L’umore complessivo dell’opinione pubblica palestinese, compreso l’elettorato di Fatah, dissente completamente dal pensiero della dirigenza politica secondo cui gli attuali avvenimenti sono solamente “un’ondata di rabbia” che può essere controllata dalle forze di sicurezza e sfruttata per riprendere i negoziati con Israele. L’incapacità delle fazioni palestinesi a mobilitarsi per un aperto scontro contro l’occupazione mentre la sollevazione dei giovani continua produrrà senza dubbio dei dirigenti sul campo che saranno più capaci di dirigere gli avvenimenti rispetto a quelli che siedono nei loro uffici. Ciò porterà a una divaricazione ancora più ampia tra le forze che stanno agendo senza condizionamenti, vincoli di appartenenza e burocrati governativi.

Un simile movimento dovrebbe guardare al di là dell’alternativa tra Fatah e Hamas. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e la Jihad islamica potrebbero promuovere cortei e manifestazioni di grande impatto contro l’occupazione. Entrambi godono del rispetto del popolo palestinese e sono più liberi di Hamas, che in Cisgiordania è stato oggetto di una campagna di repressione sia da parte di Israele che dell’ANP. Queste due organizzazioni potrebbero lavorare con altre fazioni per sostenere un confronto aperto con l’occupazione israeliana e prendere l’iniziativa per la formazione di comitati di coordinamento per gestire la sollevazione. Questi comitati dovrebbero evolvere in seguito in una dirigenza condivisa che successivamente aderirebbe all’OLP come parte del programma per riformare l’organizzazione.

Tuttavia, creare una nuova area [politica] è condizionata rispetto al superamento della passata esperienza e in particolare della formula di Oslo per una soluzione a due Stati. Coloro che attualmente hanno il monopolio delle istituzioni politiche palestinesi sono gli stessi che sostengono ancora questa ipotesi. Se l’opinione pubblica trasforma la sollevazione in un rifiuto di Oslo, oltre alla lotta contro l’occupazione, o emergeranno nuovi dirigenti che perseguiranno nuove alternative oppure gli attuali dirigenti si sentiranno obbligati a cambiare il loro comportamento a parole e nella prassi politica.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

( Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 6

da Al-Shabaka Ma’an News

di Mjiriam Abu Samra

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la sesta parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Mjiriam Abu Samra, una ricercatrice a livello di dottorato in relazioni internazionali all’università di Oxford, il cui lavoro è incentrato sul movimento transnazionale degli studenti palestinesi ed il loro contributo al più complessivo movimento di liberazione in diversi periodi.

Per affrontare il problema fondamentale sul perché i partiti politici storici non sono riusciti finora a catalizzare l’attuale frustrazione dei giovani bisogna considerare il modo in cui i politici palestinesi sono stati trasformati, e in primo luogo lo spostamento del discorso politico e la strategia dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, di cui fanno parte quasi tutti i gruppi politici palestinesi. Ndtr.] dalla lotta per la liberazione alla costruzione di uno Stato. Ciò ha privato la lotta dei suoi principi fondamentali e ha lentamente indebolito la sua strategia: una normalizzazione neocolonialista con l’occupante ha preso il posto dell’originale quadro anticoloniale che aveva modellato la lotta. In conseguenza di ciò, il movimento nazionale è rimasto paralizzato nella sua capacità di mobilitazione della base.

La relazione neocoloniale tra i colonizzatori e i colonizzati ha isolato la dirigenza palestinese dalla sua base popolare e la lotta si è bloccata. La crisi tra Hamas e Fatah è una dimostrazione della complessa condizione coloniale imposta ai palestinesi e dell’incapacità dei partiti politici palestinesi di dare la priorità alla volontà del loro popolo rispetto agli interessi neoliberali. Benché la sua manifestazione più acuta sia la crisi tra Fatah ed Hamas, il progetto neoliberale inaugurato da [gli accordi di] Oslo ha colpito tutti i partiti palestinesi a vario livello e li ha resi incapaci di rappresentare la volontà popolare.

Prendendo in considerazione questo quadro complessivo, è improbabile vedere un ruolo significativo per i partiti politici tradizionali nell’attuale rivolta – a meno che essi riprendano la visione politica e il discorso anticolonialista del movimento palestinese. D’altra parte, un tale cambiamento radicale potrebbe rappresentare la completa estinzione della classe dirigente e lo smantellamento del complesso di interessi economici e politici nei territori palestinesi occupati. E’ un rischio che la leadership palestinese per il momento non sembra intenzionata a prendersi.

Di conseguenza, qualunque altro sforzo per dare una dirigenza solida e duratura ai movimenti spontanei sul terreno ha la necessità di rimettere al centro della lotta la liberazione e la giustizia. E’ più probabile che i giovani palestinesi possano eventualmente giocare un ruolo nella ridefinizione radicale delle politiche palestinesi piuttosto che questi partiti politici tradizionali possano realmente contribuire all’attuale ribellione. A questo proposito, dobbiamo prestare attenzione ai nuovi sforzi da parte dei giovani palestinesi della diaspora (shatat) e nella Palestina storica, che stanno offrendo un solido quadro politico all’attuale rivolta e, in generale, al malcontento palestinese. E’ troppo presto per valutare il potenziale strategico di queste iniziative, comunque è importante mettere in luce il discorso radicale che stanno sostenendo.

E’ anche importante riconoscere, soprattutto, gli strenui sforzi di riunificare -quanto meno simbolicamente, per il momento – il messaggio politico di tutte le componenti della società palestinese: sotto occupazione in Cisgiordania e a Gaza, nella “Palestina del ’48 [cioè in Israele. Ndtr.]” e nella diaspora. Si veda, ad esempio, la mobilitazione transnazionale invocata dai giovani palestinesi da ogni parte del mondo il 29 novembre, che le Nazioni Unite hanno designato come il giorno internazionale di solidarietà con il popolo palestinese.

Simili sforzi rappresentano un nuovo cammino per i politici palestinesi che intendano unificare la società palestinese attorno a una visione condivisa di giustizia, liberazione e ritorno [dei profughi]. Queste incipienti iniziative possono fornire un nuovo spazio per l’emergere di una dirigenza nazionale in grado di elaborare – e sostenere – una strategia innovativa di resistenza per la lotta palestinese.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 5

da Al-Shabaka Ma’an News

di Jabel Suleiman

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la quinta parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Jabel Suleiman, un ricercatore ed esperto palestinese indipendente, attualmente consulente del programma palestinese dell’UNICEF nei campi di rifugiati palestinesi in Libano.

l movimento dei giovani in atto in Palestina solleva una serie di domande relative ai suoi motivi, alle sue cause ed alla sua natura. Si tratta dell’espressione di disperazione e frustrazione o di un rinnovato spirito nazionale? E’ stato scatenato dalla divisione tra i palestinesi, la penosa condizione dell’ANP, il fallimento del processo di Oslo e della soluzione dei due Stati, l’espansione aggressiva delle colonie israeliane, la profanazione dei luoghi santi o dal declino dell’interesse dei Paesi arabi e dall’indifferenza della comunità internazionale per la causa palestinese? Si trasformerà in una rivolta popolare come la prima Intifada o rimarrà un’espressione di collera che presto svanirà? Quali condizioni si devono verificare perché questo movimento si trasformi in una ribellione guidata da una dirigenza nazionale unificata e da un programma complessivo? Quale ruolo dovrebbero giocare le fazioni dell’OLP e la più vasta leadership palestinese per consolidare e proteggere la rivolta e sviluppare una leadership nazionale unificata, data l’istituzionalizzazione delle divisioni palestinesi? E come?

Questo movimento di giovani senza precedenti, che è portato avanti da palestinesi nati nel periodo della firma degli accordi di Oslo, è diretto contro l’occupazione. Ma include anche la collera e la protesta contro l’ANP e i suoi risultati politici, responsabile dell’attuale situazione della causa palestinese in generale e in particolare delle condizioni nei TPO [Territori Palestinesi Occupati]. Questo è il paradosso a cui ci troviamo davanti: come possono le fazioni palestinesi, dentro e fuori dall’OLP, che hanno contribuito a creare l’attuale stato di cose, aiutare a sviluppare un movimento e formare una dirigenza unificata? Di fatto, le fazioni non possono essere escluse né esentate dalle responsabilità, soprattutto a causa della mancanza di un movimento nazionale alternativo o di un blocco popolare e non di fazione (un blocco storico in senso gramsciano) in grado di elaborare una struttura nazionale complessiva che comprenda tutti i palestinesi.

L’importanza del coordinamento quotidiano tra i dirigenti politici e i giovani che stanno affrontando l’occupazione non può essere sopravvalutata. Ciò non significa che le fazioni siano libere di sviare e sfruttare il movimento per ottenere risultati diversi, non in linea con la lotta contro l’occupazione, ponendo fine alle divisioni e trovando un’uscita dall’attuale situazione palestinese di stallo, specialmente mentre il popolo palestinese continua a pagare il prezzo del modo in cui la prima Intifada è stata sfruttata per firmare gli accordi di Oslo.

Ci sono urgenti compiti nazionali da svolgere per tutti. Le fazioni non dovrebbero pesare sul movimento dei giovani o spingerlo alla militarizzazione o all’ottenimento di risultati in breve tempo come un’ immediata fine dell’occupazione, che nessuna di loro è stata in grado di ottenere. Di conseguenza, è necessario un accordo su obiettivi modesti e tattici. Le fazioni dovrebbero trattare questa ondata di proteste come un passo sul lungo e spinoso cammino della lotta, e devono contribuirvi e appoggiarlo su quelle basi. Le fazioni dovrebbero ascoltare le giovani generazioni e includerle nella leadership della lotta e nei comitati locali che dovrebbero essere creati.

I partiti dovrebbero concentrarsi nel formare una dirigenza politica unificata che rappresenti tutte le fazioni, anche prima di porre fine alle divisioni, in modo da appoggiare la tenacia del popolo palestinese e prepararsi per una lunga battaglia contro l’occupazione. Ciò è indispensabile l’evoluzione dell’attuale movimento dei giovani in una rivolta popolare e in un’ampia disobbedienza civile sul modello dello sciopero del 1936 [contro il Mandato inglese e i sionisti. Ndtr.], insieme a una battaglia diplomatica e legale sul fronte internazionale contro l’occupazione israeliana. Per ottenere risultati da questi sforzi il coordinamento sulla sicurezza con Israele deve cessare immediatamente, come passo fondamentale verso lo smantellamento della struttura amministrativa e legale di Oslo. Le funzioni dell’ANP devono essere riconsiderate e la divisione tra Hamas e Fatah dovrebbe essere superata in modo che l’OLP possa essere ricostruita su fondamenta nazionali inclusive.

Le forze contro l’occupazione, che includono le istituzioni della società civile, organizzazioni di base, sindacati, associazioni professionali, università e la campagna BDS, si devono impegnare in modo più attivo nel movimento dei giovani. Devono utilizzare i loro legami internazionali con i gruppi di solidarietà, contrari alla discriminazione e all’occupazione in tutto il mondo per appoggiare i giovani e la loro spinta volta a porre fine all’occupazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 4

di Khalil Shaheen

da Al-Shabaka, Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare la discussione pubblica sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la quarta parte di una pubblicazione in otto parti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Khalil Shaheen, giornalista palestinese, esperto di media, ricercatore e noto analista politico e dei media. È attualmente direttore di ricerca e politiche e membro del consiglio di amministrazione di Masarat – The Palestine Center for Policy Research and Strategic studies (Il centro palestinese per la ricerca di politiche e studi strategici, un istituto indipendente specializzato nell’individuazione di politiche strategiche. Ndtr.) a Ramallah.

Il sistema politico palestinese è vicino al collasso dopo che ha abbandonato la propria identità di movimento di liberazione nazionale con il riconoscimento, negli Accordi di Oslo, della legittimità di un sistema razzista di insediamenti coloniali. L’attuale ondata di collera è una ribellione contro questa relazione e l’ideologia su cui si basa. Quest’ondata è anche una prosecuzione in forma più ampia di forme di espressione e di azione politica che sono andate oltre il tradizionale sistema politico e organizzativo stabilito negli anni 1960, che ha subito a sua volta un lento e inesorabile declino.

Tuttavia bisogna prendere atto della “coesistenza” tra la tradizionale politica dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) e delle fazioni palestinesi da un lato, e le nuove forme di azione politica dall’altro, dovuta al carattere di transizione dell’attuale fase. In particolare, il movimento nazionale tradizionale continua ad avere un ruolo politico nonostante la sua incapacità di raggiungere il suo storico obbiettivo di ottenere i diritti nazionali del popolo palestinese.

La realizzazione di questo obbiettivo dovrebbe spingere i palestinesi a porsi domande strategiche riguardo alle ripercussioni di un’ideologia e di una serie di prassi fallimentari e a cosa sia necessario per rinnovare il progetto nazionale palestinese ed un’istituzione nazionale in grado di raggiungere i propri obbiettivi.

Negli ultimi anni, alcuni hanno sostenuto che non ci sia bisogno di ricostruire il movimento nazionale come prerequisito per adottare una strategia d’azione. Ritengono semmai che il reclutamento di un gran numero di soggetti in programmi di azione partecipativi sia la via giusta per ricostruire il movimento nazionale. Questo approccio è incentrato sulla creazione di un nuovo percorso basato sull’unificazione dei palestinesi in patria e nella diaspora. Il movimento globale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), il movimento per il diritto al ritorno e i comitati di resistenza popolare contro il muro di separazione sono tutte espressioni di nuove forme d’azione al di fuori dello schema tradizionale dell’azione politica di partito.

Analogamente, l’attuale ondata di rabbia è una nuova forma di azione popolare condotta dai giovani. Il tradizionale sistema dei partiti politici non ha previsto le conseguenze di questa azione in un periodo di forti divisioni e conflitti interni su potere ed influenza. Questa ondata può indebolirsi o intensificarsi, ma sembra essere parte di una serie di ondate che continueranno a verificarsi fino a quando diventeranno uno tsunami che esprimerà il riconoscimento unanime della causa palestinese come liberazione nazionale e la necessità di ricostruire le strutture nazionali ed istituzionali in grado di creare un nuovo percorso di lotta.

L’attuale ondata di collera dimostra che c’è una nuova generazione che ridefinisce il rapporto del popolo con l’occupazione israeliana come basato sul conflitto e non sulla “comprensione”. Lo fa sfidando il monopolio della politica condotta all’interno dei bantustans dall’ANP, che l’occupazione israeliana sta trasformando in un agente amministrativo, economico e di sicurezza interno di un sistema di dominazione coloniale.

Tuttavia questo non significa la fine del ruolo politico delle fazioni, nonostante la loro condizione di divisione interna e di mancanza di legittimazione popolare. Le fazioni dirigono ancora le prassi politiche e le forme di resistenza armata, soprattutto nella Striscia di Gaza. Dominano l’OLP, l’ANP, i sindacati, le associazioni professionali e le organizzazioni studentesche.

Gli attuali segnali di nascita di nuove forme di azione politica e di lotta possono sembrare simili a quelli degli ultimi anni ’50 e primi anni ’60, quando una giovane generazione ha sfruttato le favorevoli condizioni nei paesi arabi e a livello internazionale per impostare un nuovo percorso di lotta che ha rovesciato in breve tempo la leadership precedente e successiva alla Nakba (l’espulsione dei palestinesi dai territori del neonato Stato di Israele nel 1948, ndt.). Quella generazione ha sviluppato strutture politiche e gruppi armati che derivavano la propria legittimazione dal popolo, che proclamò la propria fedeltà alla nuova leadership senza una legittimazione elettorale.

Tuttavia oggi le condizioni sono diverse ed ancora mancano gli elementi chiave di questo processo. C’è ancora spazio per i soggetti tradizionali per giocare un ruolo. Non sarà possibile reimpostare una politica e un’attività organizzata con un ampio coinvolgimento popolare se non cambieranno gli obbiettivi, i metodi e le regole. Ad un certo punto, i partiti tradizionali devono confrontarsi con le nuove forme di attivismo politico che va ridisegnando il rapporto con il colonizzatore.

Questo comporterà lavorare con la generazione più giovane per stabilire gli obbiettivi e le richieste dell’attuale rivolta, invece di cercare di monopolizzarla o frenarla. Ciò aiuterebbe a trasformare le forme di azione politica dei partiti tradizionali in una lotta attiva guidata dalla generazione dei giovani e ad accelerare lo sviluppo di una vasta rivolta, capace di creare un percorso nuovo nella lotta di liberazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. L’intera versione è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 3

di Nijmeh Ali

da Al-Shabaka Ma’an News

La gioventù palestinese che è scesa nelle strade sta dando inizio ad un’importante fase nella risposta all’occupazione israeliana e all’ingiustizia, indicando il ruolo significativo che la generazione dei più giovani potrebbe svolgere, sostituendo l’attuale leadership.

Tuttavia rimane un problema: la nuova generazione è in grado di spostare la rivolta o l’ondata di rabbia dalle strade agli ambiti politici o diplomatici? Il problema sta nel fallimento della rivolta contro le tradizionali leadership palestinesi di Fatah, di Hamas e della sinistra: è questo ciò che occorre per trasformare lo spirito della rivoluzione in risultati diplomatici e politici.

I partiti politici palestinesi si comportano normalmente come i partiti di tutto il mondo: valutano i vantaggi politici che possono ricavare da questa ondata di rabbia, in termini di ripresa dei negoziati con Israele. Non agiscono come partiti rivoluzionari che combattono una lotta di liberazione, e non sono in linea con sentire popolare. Così, i partiti erigono ostacoli piuttosto che appoggiare la rivolta dei giovani o qualunque altra azione al di fuori della cornice istituzionale prestabilita, come i gruppi armati delle fazioni. Le azioni incontrollate non avvantaggiano i partiti politici, perché (i partiti) non possono dirigerle.

La questione non è creare un nuovo spazio all’interno o all’esterno dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Sta anche nel cambiare il comportamento politico dei palestinesi come popolo subordinato agli attuali apparati politici. E’ indispensabile superare le strette affiliazioni di parte che hanno rafforzato la divisione interna tra palestinesi ed indebolito l’OLP. L’ondata di rabbia popolare è un’aperta ribellione contro tali strette affiliazioni ed è un’espressione della necessità di rafforzare il livello nazionale in quanto opposto alle affiliazioni di parte.

Tuttavia, data la realtà esistente e la crescente divisione tra fazioni, sarebbe stato più opportuno che i giovani si fossero ribellati contro l’attuale leadership politica e l’avessero rimpiazzata con leader più giovani che avessero energia politica, credibilità e vigore.

I leader locali non sono mai stati isolati dalla loro leadership centrale: Fatah e Hamas, per esempio, sono movimenti politici di massa piuttosto che partiti politici in senso tradizionale. Perciò non ci si deve prospettare uno scenario in cui potrebbe emergere un movimento popolare indipendente, anche se possono essere istituiti dei comitati popolari, come successe nella prima intifada. Vale la pena di notare che la leadership nazionale unificata di quell’intifada era stata formata da attori politici che perseguivano obbiettivi politici comuni ed una visione incentrata sulla fine dell’occupazione come tappa fondamentale verso la liberazione.

In breve, abbiamo bisogno di una primavera palestinese all’interno dei partiti, piuttosto che di strutture politiche alternative che rafforzerebbero la divisione e la miope partigianeria. In assenza di una ribellione dei giovani all’interno dei partiti politici palestinesi, nessuna rivolta otterrà un reale cambiamento politico. I sacrifici del popolo palestinese andranno sprecati, aumentando la frustrazione ed il senso di impotenza. Sarebbe davvero preoccupante se questa frustrazione sopprimesse lentamente la fiducia dei palestinesi nella loro capacità di liberarsi.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. L’intera versione è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Traduzione di Cristiana Cavagna