‘Nel 1948 il lavoro non era finito. Gli arabi non erano stati cacciati dalle terre’

Shany Littman

6 ottobre 2021- Haaretz

Il più recente documentario del noto regista israeliano Avi Mograbi si basa sulle denunce dei soldati per smascherare l’occupazione israeliana. Non aspettatevi di vederlo alla tv israeliana o a qualche festival cinematografico locale

Il nuovo film di Avi Mograbi: “The First 54 Years – An Abbreviated Manual for Military Occupation,” [I primi 54 anni – un breve manuale per un’occupazione militare] non è stato fra le proposte di nessun festival cinematografico in Israele di quest’anno e, fino ad ora, neanche un canale televisivo israeliano si è offerto di trasmetterlo. Questa volta neppure le fondazioni senza fini di lucro che di solito sostengono i documentari vogliono essere coinvolte, anche se Mograbi è un regista da tempo molto apprezzato e i cui film precedenti hanno avuto un gran successo e sono stati presentati a decine di festival in tutto il mondo.

Il suo film ha comunque cominciato a fare il giro dei festival cinematografici internazionali e si è guadagnato una menzione d’onore al festival di Berlino. Ma il regista non è stato per niente sorpreso dalla sfilza di rifiuti ricevuti in Israele.

O è un brutto film o tratta di qualcosa con cui la gente non vuole fare i conti. Eppure all’estero è un enorme successo,” commenta.

Le sono state date delle spiegazioni per i rifiuti in Israele?

No. Ma non sono neanche uno di quelli che vanno a indagare. Sapevo che questo film avrebbe creato dei problemi.”

Un motivo, ipotizza, è che è basato sulle testimonianze dei soldati raccolte da Breaking the Silence, l’organizzazione israeliana contro l’occupazione fondata da veterani dell’esercito. Il gruppo raccoglie testimonianze di presunti abusi da parte dell’esercito nei territori occupati e su situazioni problematiche in cui i soldati si sono trovati durante il loro servizio militare.

Breaking the Silence non è, per usare un eufemismo, fra le organizzazioni più popolari in Israele,” aggiunge Mograbi. “Ho anche la sensazione che il personaggio che io interpreto nel film faccia arrabbiare persino quelli di sinistra, per il cinismo [del personaggio], a causa del fatto che alla sua radice c’è il male. Perché persino quando facciamo delle cose orribili, non vogliamo pensare che agiamo mossi dal male. Ma a questo personaggio tutto ciò non importa. Gli importa solo raggiungere gli scopi che si è prefissato.”

Mograbi interpreta un esperto o un oratore che spiega come attuare un’occupazione militare nel modo più efficiente. L’esperto organizza il film intorno allo sviluppo cronologico dell’occupazione nei territori, sostenendola con parecchi importanti criteri. Intrecciate con le testimonianze degli ex soldati, le spiegazioni machiavelliche dell’esperto rivelano come il processo sia metodico e agghiacciante. Il risultato è un film deliberatamente pedagogico, praticamente didattico. “Se vuoi la tua occupazione, ti aiuterò a evitare alcune delle parti più seccanti,” scherza Mograbi.

Praticamente sorvoli sulle cose poco chiare e presenti l’occupazione quasi come una formula matematica, rivelando che non c’è niente di casuale.

Quando guardi al risultato, capisci che non poteva semplicemente essere capitato così per caso. Qualcuno da qualche parte deve essersi seduto a tavolino e averlo studiato. Non sto dicendo che questo manuale esista in una cassaforte alla sezione operativa del Ministero della Difesa, ma esiste nelle menti di parecchie persone che l’hanno creata,” afferma.

A noi piace dare la colpa ai coloni, ma nella valle del Giordano hanno cominciato a costruire una fila di colonie subito dopo la guerra dei Sei Giorni. Quella linea secondo i leader ha delimitato il confine. E per tutti questi anni ci hanno venduto la storia che gli insediamenti civili lungo il Giordano stavano là come difesa. Ma per difendersi lungo il canale di Suez hanno costruito la linea Bar-Lev,” dice, facendo riferimento alle fortificazioni militari, “non si sono affidati a un manipolo di civili con trattori. E, come dice l’oratore nel film, la presenza dei civili trasmette un messaggio in termini di proprietà della terra.”

Il regista afferma che l’occupazione deve essere vista come parte di una sequenza di eventi che comporta la confisca della proprietà della terra e che risale alla guerra di Indipendenza israeliana del 1948.

Il lavoro non era stato completato nel ’48 perché la terra non fu sgombrata dagli arabi. Nella guerra del 1967, furono 250.000 le persone che fuggirono e a cui fu impedito di ritornare. Le azioni si sono sempre concluse sottraendo le terre e rendendo la vita difficile a quelli che vi erano rimasti in modo tale da incoraggiarli ad andarsene. Quando arriva qualcuno dall’estero a trovarmi lo porto ad Abu Dis che una volta era il cuore di un quartiere animato e che ora è attraversato dalle barriere di sicurezza,” dice, riferendosi alla cittadina della Cisgiordania alla periferia di Gerusalemme.

Per percorrere la stessa strada da un lato all’altro [della barriera] ci vogliono 40 minuti in auto, senza contare le attese ai checkpoint. Immagina se per venire a casa mia nel centro di Tel Aviv dovessi fare una deviazione passando da Holon quando casa tua dista appena un chilometro da qui. Se cerchi di immaginare di dover vivere così non è difficile vedervi il male.”

Quindi chi sono i cattivi? Chi è responsabile? Di chi è la colpa?

Non si tratta di una persona. Tutti i governi israeliani ne sono responsabili. Affinché Israele sia uno Stato ebraico, deve avere una maggioranza ebraica. E questa maggioranza non deve essere data per scontata. Quindi tale maggioranza deve essere rilevante e considerevole. Perché non si dà la cittadinanza agli abitanti dei territori? Perché non è dato loro un documento di identità israeliano e la possibilità di partecipare alla vita politica come cittadini a tutti gli effetti? Perché poi ci sarebbe il problema che non saremmo più la maggioranza e questo Paese smetterebbe di esistere come Stato ebraico.”

Quindi, secondo lei, quale sarebbe la soluzione?

Io non penso che i palestinesi mi stiano minacciando. Non è possibile che non si riesca a vivere insieme. Credo che la natura umana sia intrinsecamente buona, non intrinsecamente malvagia. L’idea che per vivere vicino ad altri si debba sottometterli al tuo potere secondo me non ha senso. E sono convinto che proprio com’è possibile avere eccellenti relazioni con i palestinesi a livello individuale, senza arrivare a picchiarsi, è anche possibile farlo a livello nazionale. Ma devi volerlo veramente, soprattutto quando ti trovi nel tipo di pasticcio in cui siamo. Io non vedo un briciolo di speranza che un giorno Israele non voglia più essere una potenza occupante e voglia concedere la cittadinanza a tutti i palestinesi dei territori occupati. Quindi potrebbe essere che questo finirà semplicemente in un folle bagno di sangue. Il futuro non sembra essere promettente.”

Sinistrismo come ribellione giovanile

Mograbi, 65 anni, è nato a Tel Aviv. Suo padre, Gabi, che veniva da una famiglia facoltosa arrivata dalla Siria, costruì il famoso Cinema Tel Aviv all’angolo di Ben-Yehuda e Allenby, più per un acuto senso degli affari che per un particolare amore per i film.

Negli anni ‘20 la famiglia stava costruendo un edificio al numero 72 di Herzl Street e mio zio Ya’akov, che stava supervisionando il progetto, un giorno notò che i muratori non pranzavano. Chiese il perché e gli dissero che stavano risparmiando per andare al cinema. Se gli operai saltavano i pasti per andare al cinema, doveva essere un buon affare, si disse. Così comprò il terreno e costruì il cinema.”

Mograbi dice che suo padre non era un cinefilo, ma che, senza volerlo, ha dato al figlio una cultura cinematografica molto ampia.

Aveva una qualità molto importante per un proprietario di cinema. Sentiva quali film sarebbero andati bene e quali non avrebbero avuto successo. Avevamo una relazione interessante. Lui guardava film in formato 35 mm in una piccola sala da proiezioni in Ahad Ha’am Street, prima che le copie venissero sottoposte alla censura e io mi sedevo a guardarle con lui. Ho visto cose che non avrei dovuto vedere, dato che ero un bambino,” ricorda Mograbi. “Ho lavorato nel cinema fin da ragazzo. Ma fra di noi c’era anche una grande tensione.”

Dice che suo padre si è sempre opposto ai suoi progetti di studiare cinematografia. “Quando avevo 18 anni stavo al botteghino quando proiettavamo Big Eyes di Uri Zohar, che era seduto dietro di me e poteva contare sulle dita di una mano i biglietti che avevo venduto. Mio padre entrò nel botteghino e mi disse, proprio davanti a lui: ‘È questo quello che vuoi diventare?’”

Invece di fare la scuola di cinema, Mograbi ha studiato filosofia all’università di Tel Aviv e arte presso la scuola d’arte di Hamidrasha che allora era a Ramat Hasharon. Ha cominciato a girare solo dopo la morte del padre, quando aveva 33 anni.

Fino ad ora tutti i suoi film sono stati imperniati su temi politici, a iniziare dal suo primo corto, “Deportation,” includendo il suo primo e ben noto film, “How I Learned to Overcome My Fear and Love Arik Sharon.” [Come ho fatto a superare le mie paure e amare Arik Sharon]. Sono stati seguiti da “Happy Birthday, Mr. Mograbi”, “Avenge But One of My Two Eyes” [Per uno solo dei miei due occhi], “August: A Moment Before the Eruption, [Agosto: un momento prima dell’eruzione]” “Z32” e il suo ultimo, “The First 54 Years” [I primi 54 anni]. Mograbi dice che pensava che i film potessero cambiare la realtà. Adesso non ci crede più, ma continua a farli su situazioni che sembrano cause perse, come l’occupazione.

Ho sempre pensato che se solo la gente avesse saputo quello che stava succedendo non avrebbe continuato a farlo e la realtà sarebbe cambiata. Ogni volta ero deluso che i miei film non riuscissero a fare il salto dalle pagine culturali al dibattito politico e sociale. All’estero, nel resto del mondo, avevo una fantastica carriera ed ero ammirato come regista e là, qualche volta, i miei film riuscivano persino a uscire dagli inserti culturali. Ma non qui,” osserva.

Nessuno dei miei film ci è riuscito, neppure ‘Per uno solo dei miei due occhi’ che pensavo avrebbe suscitato rabbia nei miei confronti perché alla fine del film urlo contro i soldati e non mi rivolgo a loro in modo gentile. Dopo quel film ho veramente provato un momento di disperazione, in cui mi sono chiesto se continuare a fare film.”

Il suo penultimo, “Between Fences” [Fra le recinzioni], che ha girato con il regista teatrale Chen Alon e che nessuna rete televisiva israeliana ha voluto trasmettere, è un documentario su un laboratorio teatrale per richiedenti asilo eritrei e sudanesi del centro di detenzione di Holot, basato sul metodo del “Teatro dell’oppresso” sviluppato dall’artista brasiliano Augusto Boal negli anni ’60 durante la dittatura militare in Brasile.

Il metodo stabilisce che si tratti di una produzione teatrale da parte di appartenenti a un gruppo emarginato che scrive una pièce basata sulla propria esperienza e la rappresenta davanti a un pubblico che assiste a una performance composta da due parti. La prima è l’opera teatrale in sé e nella seconda parte si scelgono volontari fra il pubblico che entrano nei panni del personaggio che sta soffrendo, recitano in una delle scene e suggeriscono una soluzione alternativa al dilemma che è stato presentato,” spiega Mograbi.

Boal diceva che questo tipo di teatro è essenzialmente una preparazione per una rivoluzione, non nel senso di imparare a fare bombe molotov e sparare, ma come tentativo di coinvolgere il pubblico, incitarlo all’azione, all’attivismo. Con il cinema non è possibile farlo, ma io vedo i miei film come un innesco, un tipo di sostegno o di servizio al cliente per quella brava gente di sinistra che non è contenta della realtà in cui sta vivendo.”

Mograbi è ben consapevole che questi film non convinceranno quelli che in partenza non lo sono già.

Le persone che vengono a vederli non appartengono mai all’opposizione. Quelli di destra non vanno a vedere i film di sinistra, non ne hanno bisogno per litigare con quelli di sinistra. Sostanzialmente il pubblico che viene a vedere il film è il coro, sono quelli che sono già stati convertiti. Ciononostante penso ancora che i film abbiano un ruolo da giocare nel rafforzare e offrire del materiale ai convertiti,” sottolinea. “La sinistra è in calo in tutto il mondo. Non è qualcosa che succede solo in Israele. Quindi io non ho più idee ingenue su come cambiare la realtà,” dice, prima di aggiungere velocemente: “Per la verità le ho ancora, ma solo nei miei sogni. A ogni film comincio pensando che questa volta lo spettatore morirà dalla voglia di agire, che non c’è altra soluzione e che è impossibile che non faranno niente dopo quello che hanno visto.”

Quindi ogni volta ti sottometti a un processo in cui menti a te stesso.

Non so farne a meno. La realtà che vedo mi addolora e mi sconvolge. Io non posso rimanere in silenzio e non esprimermi. Non penso che nessuno a cui importi veramente possa farlo. Ma sì, ogni volta che comincio a girare provo la stessa cosa: questa volta ci riuscirò. Questa volta succederà. Solo per scoprire ogni volta che la sua portata è molto più ridotta.”

Capisco che le mie possibilità di avere un impatto fuori dalla mia comunità siano minime. D’altro canto non penso che 10 anni prima della fine dell’apartheid ci fossero persone che dicevano: fra 10 anni non esisterà più. Così guardo alla realtà e cerco quel barlume di speranza che fra 10 anni l’occupazione non esisterà più. Non puoi chiamarmi un ottimista, ma uno deve avere il tipo di energia che hanno gli ottimisti che non riescono a rinunciare o a smettere di desiderare e sperare che le cose cambino,” dice Mograbi.

Perché pensa che i suoi film trovino un’accoglienza migliore all’estero?

Altrove è più facile perché non li riguarda direttamente. Sono appena stato in Francia per delle proiezioni del film [The First 54 Years], e c’era della brava gente di sinistra seduta in sala e hanno chiesto: ‘Come possono gli ebrei fare cose simili dopo tutto quello che hanno passato?’ che è una domanda logica. Come quando la gente chiede come sia possibile che i genitori abusati da piccoli possano a loro volta trasformarsi in genitori che fanno altrettanto. Ed io rispondo: ‘Come avete fatto, dopo l’occupazione tedesca in Francia, ad andare in Indocina e in Algeria e fare quello che avete fatto?’ Guardarsi dentro è molto più difficile che guardare fuori.”

Il pubblico migliore è in Francia, dice. “Quando c’è stata la prima di ‘How I Learned to Overcome My Fear and Love Arik Sharon’ al festival del documentario a Lussas nel 1997, per tre giorni dopo la proiezione ogni volta che camminavo lungo l’unica strada del paese tutti mi sorridevano. Avevano riso come matti guardando il film. L’hanno adorato. Una delle cose incredibili del festival è quanti giovani siano venuti anche se è un paesino in mezzo al nulla. Il pubblico è sempre più giovane,” nota.

La Francia è veramente l’ultima superpotenza cinematografica. Alle persone si insegna ad amare i film fin da piccoli e inoltre il governo sostiene i cinema che proiettano pellicole sperimentali e documentari, che altrimenti non potrebbero sopravvivere.”

Forse anche per noi è più facile guardare film che criticano altri posti.

Io ho un problema con i film che parlano delle sofferenze degli altri, film su persone che muoiono di fame nel terzo mondo. Questo voyeurismo necrofilo è molto inquietante. Spero di non cadere in tale necrofilia.”

Nonostante il caldo abbraccio che riceve all’estero, Mograbi non ha mai pensato di vivere altrove se non in Israele.

Nella mia situazione e con la mia posizione nel mondo potrei trasferirmi ovunque io voglia,” dice. “Ma non ho piani o desideri simili. Sono affezionato a questa città. Sono cresciuto a Tel Aviv e la conosco a menadito. Sottoterra all’angolo di Allenby e Ben-Yehuda sono sepolti tutti i miei sogni. Dove potrei andare? Anche ogni altro Paese a cui potrei pensare ha un suo passato sordido. Francia, Olanda, Belgio, America. E che tipo di film potrei fare fuori da Israele? Qui conosco le cose belle e quelle brutte. Vivo totalmente immerso nella storia e nella politica e cultura di questo posto e lo amo.”

Ma non ci sono momenti in cui si sente minacciato o emarginato?

No. Non ho mai ricevuto attacchi personali. Ho sofferto per qualcosa di persino peggiore: essere ignorato. Sono riconosciuto nella comunità cinematografica e in quella minuscola e sempre più piccola della sinistra, ma quando si fa un film che passa in televisione ci si aspetta una reazione da un po’ più di quelle centinaia o migliaia di persone che conosci già per nome. Essere ignorato può essere una cosa molto deprimente quando il tuo campo è quello dei mass media.”

Un legame molto stretto

Mograbi ha un legame molto stretto con Breaking the Silence. Fa parte del consiglio di amministrazione dell’organizzazione ed è stato uno dei suoi fondatori. “Quando l’abbiamo fondata, non avevo idea di quale fantastica organizzazione sarebbe diventata. Né immaginavamo che vasta portata avremmo ottenuto.”

Mograbi ha già fatto un film, “Z32” in cui ha usato la testimonianza data da un soldato di Breaking the Silence, ma per il suo nuovo documentario ha raccolto un gran numero di testimonianze di periodi diversi in un modo che non era mai stato fatto prima.

L’aspetto più unico viene dalle testimonianze di persone più anziane, alcune ben note, come Shlomo Gazit, l’ex capo dell’intelligence militare e Coordinatore delle attività del Governo nei Territori (che è morto l’anno scorso); l’attivista di lunga data per i diritti umani Yishai Menuhin; Guy Ben-Ner, videoartista; il musicista Ram Orion.

Originariarmente, Breaking the Silence ha raccolto testimonianze dal 2000 in poi perché quella era la loro generazione. Ma con l’avvicinarsi del 50esimo anniversario dell’occupazione abbiamo deciso di fare un progetto che avrebbe riempito le lacune degli anni precedenti, dal 1967 al 2000. Dopo che Shay Fogelman, che aveva supervisionato il progetto, e il team che aveva lavorato con lui, hanno finito di raccogliere le testimonianze, ho preso le centinaia di ore di materiale e ho cercato di metterle in un qualche ordine per decidere cosa farne. Poi mi sono reso conto che avrei potuto usarle per fare un film che descrivesse l’occupazione dai primi giorni a oggi.”

In questo film ci sono molte persone che non avevano mai parlato prima del loro incontro in quanto membri dell’esercito con una popolazione occupata.

Non ho scelto io chi intervistare. Non ho filmato o condotto le interviste. È essenzialmente basato su materiale di archivio, a parte i segmenti in cui appaio io. Una delle cose più forti sul fatto di avere a disposizione questa varietà di generazioni è la relazione padre/figlio. Da Shlomo Gazit che era andato a scuola con mio padre ai testimoni più giovani che ora hanno 30 anni. Senti cose come la mappatura delle case (per demolirle) e fare irruzione di notte nelle case e dire: ‘Questo è orribile,’ e poi scopri che è successo da sempre. Non è una pratica che è stata inventata dopo questa o quella intifada. Là è sempre stata fatta.”

Un’altra decisione chiave nel fare il film è stata quella di non includere i commenti personali e il bilancio che ne traggono gli intervistati, ma di focalizzarsi solo sulle azioni.

Tutti gli intervistati erano persone a cui il servizio militare ha provocato una qualche trasformazione. Molti di loro avevano cominciato con una posizione politica diversa da quella che hanno oggi, incluso Gazit, che è stato lì fin dall’inizio dell’occupazione. Ma ho deciso di non vederlo dal punto di vista psicologico. Mi sono concentrato solo sulla pratica concreta, sulle procedure, i meccanismi, gli ordini, le azioni. Infatti l’oratore non dice, ‘penso,’ ma dice, ‘faccio.’”

Limitandomi alle azioni, senza accorgermene ho dato vita al [personaggio del] professore e poi ho sentito la necessità di giocare con lui perché se il film avesse compreso solo testimonianze nessuno sarebbe riuscito a sopportarlo. Ho mostrato questa versione ai miei due figli che sono di sinistra, persone che pensano criticamente e persino loro alla fine tossichiavano imbarazzati.”

Originariamente Mograbi non pensava di recitare lui stesso la parte dell’esperto di occupazione, ma non è riuscito a trovare nessun altro che volesse farlo.

La cosa più incredibile è stata che tutti fin dall’inizio hanno respinto la possibilità che ci fosse un piano, che ci sia un enorme processo dietro questa cosa [l’occupazione]. Alcune delle persone con cui ho parlato sono ricercatori militari. E a un certo punto mi sono reso conto che non ci sarebbe stato nessuno dall’interno, dall’interno del sistema, che avrebbe parlato apertamente del grande piano strategico. Così mi sono offerto volontario. Ma si potrebbe dire che comunque Avi Mograbi avrebbe trovato un modo per ficcare il naso nel film, perché trovo il modo di inserirmi in tutti.”

Perché?

Deve entrarci l’ego, suppongo. È ancora un po’ un mistero.”

Devo ammettere che c’è un po’ di confusione. Parlando con lei è difficile separare i personaggi del film dalla persona reale. Quindi non è sempre chiaro se la conversazione è seria o sarcastica.

In tutti i film appaio come me stesso, ma, in molti, questo mio me stesso è lontano da quello che sono in realtà. Contribuisco con il mio magnifico corpo all’opera d’arte e fondamentalmente uso questa possibilità per guardare negli occhi lo spettatore, se si può metterla così, e parlare direttamente con lui,” aggiunge.

Ho cominciato quando ho fatto il film su Arik Sharon,” dice riferendosi all’ex primo ministro Ariel Sharon.

Ho dovuto interpretare un ruolo, non nel film, ma quando filmavo, perché ero uno dei fondatori del movimento Yesh Gvul (fondato per sostenere gli obiettori di coscienza), e sapevo che, se Sharon l’avesse scoperto, non mi avrebbe permesso di avvicinarlo. Durante le riprese mi sono comportato come questo regista che non ne sa niente. Ci sono alcune conversazioni ridicole. Non è mai a proposito delle politiche, ma solo su pecore e agnelli. Queste stupide conversazioni sono diventate il cuore del film. Hanno dato origine alla trama del film, un film su un regista e su quello che gli succede quando fa un film su Sharon,” afferma.

Da allora ogni film ha un motivo perché io ci sia. Evidentemente anche se volessi fare un film sulle molecole, troverei un modo per esserci, per nuotare fra le molecole.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Obiettrice di coscienza: “Non voglio indossare un’uniforme che simboleggia violenza e dolore”

Oren Ziv

1 settembre 2021 – +972 MAGAZINE

Shahar Perets, che è stata condannata al carcere per essersi rifiutata di arruolarsi nell’esercito israeliano, per la prima volta parla dell’incontro con i palestinesi, delle sue visite in Cisgiordania e di come la società israeliana reprime chi si trova sotto occupazione.

Martedì mattina, dopo aver comunicato il suo rifiuto di arruolarsi nell’esercito israeliano a causa delle sue politiche nei confronti dei palestinesi, l’obiettrice di coscienza israeliana Shahar Perets è stata condannata a 10 giorni di carcere militare.

Perets, 18 anni, della cittadina di Kfar Yona, è una dei 60 adolescenti che a gennaio hanno firmato la Lettera degli Shministim(iniziativa denominata con l’appellativo ebraico dato agli studenti delle superiori) in cui hanno dichiarato il loro rifiuto di prestare servizio nell’esercito in segno di protesta contro le politiche di occupazione e apartheid. Nel giugno 2020, è stata una dei 400 adolescenti israeliani che hanno firmato una lettera alla leadership israeliana chiedendo di porre fine ai suoi precedenti programmi di annettere parti della Cisgiordania occupata come parte del cosiddetto piano di pace di Trump.

Martedì mattina decine di sostenitori, tra cui il deputato della Lista Unita [formata da quattro diversi partiti arabo-israeliani, ndtr.] Ofer Cassif, hanno accompagnato sia Perets che l’obiettore di coscienza Eran Aviv – che andrà per la quarta volta dietro le sbarre – presso il nucleo di reclutamento di Tel Hashomer nel centro di Israele, dove entrambi hanno detto all’esercito che non avrebbero prestato il servizio di leva. Aviv ha trascorso un totale di 54 giorni nel carcere militare per essersi rifiutato di prestare servizio nell’esercito. Perets e Aviv sono stati condannati ciascuno a 10 giorni dietro le sbarre. Dopo essere stati rilasciati dovranno tornare al centro di reclutamento e ripetere la procedura fino a quando l’esercito non deciderà di congedarli.

Il servizio di leva è obbligatorio per la maggior parte degli ebrei israeliani

Anche il padre di Shahar, Shlomo Perets, che è stato in prigione quattro volte per essersi rifiutato di prestare servizio militare in Libano e nei territori occupati, era lì per sostenere sua figlia. Queste sono le sue scelte, fa quello che ha deciso con coscienza, scrupolo e voglia di cambiamento. La sostengo e spero che riesca a non fare le cose che vanno contro i suoi principi e rifiuti di essere ciò che non è”.

Nei giorni precedenti alla sua condanna ho parlato con Perets delle ragioni del suo rifiuto, delle sue visite nei territori occupati e di cosa intenda portare con sé in prigione.

“Ho deciso di rifiutare [il servizio di leva] dopo aver partecipato in terza media a un incontro tra palestinesi e israeliani in un campo estivo”, mi ha detto Perets. Ho fatto la conoscenza di amici palestinesi, ho capito che non voglio ferirli, non voglio incontrarli da soldatessa e diventare il loro nemico. Non voglio prendere parte a un sistema che li opprime quotidianamente».

Che esperienze hai fatto in seguito a quel primo incontro con dei palestinesi?

Ho preso coscienza di ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Ho iniziato a conoscere meglio le realtà della vita palestinese e ho preso la decisione di non arruolarmi e di farlo pubblicamente”.

Le tue visite in Cisgiordania ti hanno aiutata a prendere la decisione sul rifiuto?

Sono stata in giro e ho anche partecipato a tutti i tipi di attività, tra cui il volontariato e l’aiuto agli agricoltori [palestinesi] nelle colline del sud di Hebron e la raccolta delle olive nella Cisgiordania settentrionale.

E’ un’esperienza difficile, ritorno sempre stravolta. Sta succedendo qualcosa di brutto e deve finire. Passare dall’osservazione di foto o dall’ascolto di testimonianze alla valutazione in loco è sconvolgente. Vedere gli insediamenti coloniali dove i bambini vengono attaccati mentre vanno a scuola. Vedere i luoghi che i palestinesi non possono raggiungere, ad esempio nelle colline a sud di Hebron nell’area C [sotto il pieno dominio militare israeliano].

Ho preso la decisione ben prima di trovarmi in Cisgiordania, ma è chiaro che vedere i soldati e i coloni in piedi davanti ai palestinesi mi ha chiarito che non voglio essere uno di quei soldati, non voglio indossare questa uniforme, che simboleggia la violenza e il dolore dell’esperienza dei palestinesi”.

Nell’ultimo anno hai parlato con molti adolescenti mentre ti preparavi a pubblicare la Lettera Shministim. Che tipo di reazioni hai avuto?

La risposta iniziale è sempre un po’ di timore, dal momento che nella maggior parte dei circoli di ragazzi e ragazze, nei movimenti giovanili e nelle scuole non c’è una discussione critica sull’esercito, sul reclutamento e sull’occupazione .

Sia i miei amici più intimi che la cerchia dei conoscenti sono rimasti sorpresi. La gente non sapeva che c’era un’opzione per non arruolarsi. Allo stesso tempo molti adolescenti, ragazzi e ragazze, potrebbero improvvisamente ritrovarsi su qualcosa, firmare la lettera. Voglio credere che questi incontri siano efficaci. Che diano [alle persone] molta forza e una vera alternativa.

Speri che il tuo rifiuto permetta agli adolescenti di vedere un’altra opzione?

Gli adolescenti incontrano i palestinesi per la prima volta da soldati, quando indossano uniformi e imbracciano armi. È chiaro che se ci fossero stati degli incontri con palestinesi a scuola o conversazioni sulla narrativa palestinese, le cose sarebbero andate diversamente.

Ovviamente questo fa parte della politica del sistema, dello stesso desiderio di dividere, di creare una realtà di ‘nemici’ e ‘terroristi’, invece di guardare tutti coloro che vivono qui – palestinesi e israeliani – e dire viviamo e creiamo sicurezza per tutti. Non facciamoci del male, smettiamo di uccidere e di essere uccisi».

Come ha reagito la tua famiglia?

Nel complesso sia i miei amici che la mia famiglia mi stanno davvero a fianco. Ovviamente non tutti sono contenti che io vada in prigione. È strano rispondere alla domanda “Qual è la prossima cosa che farai?” Tra una settimana andrò in prigione. Penso che chi mi è più vicino sia stato in grado di comprendere il mio rifiuto.

C’è il desiderio di trasmettere un messaggio anche ai palestinesi?

[Il messaggio è che] sebbene il movimento del rifiuto sia in minoranza, esiste e ha un’influenza. Alcune persone non sono disposte a contribuire a ciò che sta accadendo, resistono e agiscono in modo che gli altri sappiano [cosa sta accadendo].

Negli ultimi 50 anni gli adolescenti hanno pubblicato numerose lettere in cui hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare al servizio militare sia nei territori occupati che in generale. La prima lettera Shministim è stata pubblicata nel 1970 nel bel mezzo della guerra di logoramento tra Israele ed Egitto. La lettera Shministim pubblicata quest’anno è stata firmata da adolescenti che ci si aspetta finiscano dietro le sbarre o che altrimenti vengano esentati.

Peretz inizialmente ha intrapreso la procedura di arruolamento, ma si è fermata a metà e ha scelto di non richiedere un esonero dall’esercito.

“Ho deciso di non andare davanti al comitato per gli obiettori di coscienza, a una commissione medica o all’ufficiale dell’esercito per la salute mentale”, afferma Perets, “perché è importante per me rispettare i miei principi e non creare l’impressione che sia io il problema e che dovrei essere esentata [dal servizio]. Ho scelto di andare in prigione e partecipare a una campagna perché spero che raggiunga il maggior numero di persone. Spero che attraverso il mio rifiuto le persone riflettano sulla loro posizione in questa realtà”.

Pensi che oggi le persone, soprattutto adolescenti, non sappiano cosa sta succedendo nei territori occupati? Oppure lo sanno e scelgono di rimuoverlo?

Esiste una dimensione molto ampia della rimozione; la gente non sa o sa e non lo vuole riconoscere. La rimozione non sempre è un nostro difetto, è del ministero dell’Istruzione, del governo, di tutti i tipi di altre organizzazioni che non ne parlano [dell’occupazione]. Le lezioni di storia non parlano della narrazione palestinese. Ovviamente questo scoraggia le persone. Le persone si mettono fortemente sulla difensiva quando dico loro che non ho intenzione di arruolarmi. Lo prendono sul personale e si arrabbiano. Ciò proviene chiaramente da una qualche riluttanza a confrontarsi.

Come ti stai preparando per il carcere?

Negli ultimi tre anni ho fatto parte di una rete di donne che si rifiutano di prestare il servizio militare. Ho potuto discutere e riflettere su ciò che sta accadendo in prigione. Prima della mia prigionia, ho parlato con obiettori di coscienza che sono stati in carcere. Mi hanno aiutato a mettere insieme le liste delle cose da portare. Porterò molti libri, sudoku e album da colorare. Ho iniziato a studiare l’arabo, quindi porterò qualche quaderno per continuare a esercitarmi, se me lo permetteranno”.

Come funziona in pratica la procedura di rifiuto? Cosa succede il giorno del reclutamento?

Arriverò al centro di reclutamento delle IDF [forze di difesa israeliane: l’esercito israeliano, ndtr.] e rifiuterò di passare attraverso il percorso di arruolamento. Questo è il primo confronto con il sistema. Da lì sarò inviata a tutte le categorie di ufficiali per ogni sorta di conversazioni e tentativi di persuasione finché non capiranno [la mia posizione]. Ci sarà un processo nello stesso centro, dove decideranno la mia condanna [di solito tra 10 giorni e due settimane]. Dopo il processo sarò trattenuta in stato di detenzione fino a quando non sarò trasferita in carcere.

Dopo il mio rilascio rifiuterò di nuovo e subirò quindi un altro processo e sarò rispedita in prigione. So che è quello che farò nei prossimi mesi. Festeggerò il mio 19esimo compleanno in carcere”.

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia Activestills [gruppo di fotoreporter israeliani, palestinesi e internazionali impegnati contro oppressione, razzismo e discriminazione, ndtr.] e giornalista della redazione di Local Call [sito internet di informazione in lingua ebraica che fa capo alla redazione di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità di attivisti e alle loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e gli insediamenti, sugli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulle battaglie a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli israeliani che sfidano le politiche antipalestinesi della sinistra tedesca

Mati Shemoelof

21 luglio 2021 – +972 magazine

Rifiutando l’orientamento filo-israeliano della sinistra tedesca un gruppo di ebrei israeliani di Lipsia sta sostenendo i palestinesi contro gli attacchi al loro attivismo.

Quando nel 2019 Michael Sappir si è trasferito a Lipsia, in Germania, aveva intenzione di partecipare alle attività della sinistra locale. Ma in quanto ebreo israeliano che ha passato anni in patria a militare contro l’occupazione israeliana è rimasto sorpreso di scoprire che spesso essere di sinistra in Germania significa essere schierato con lo Stato di Israele e partecipare ad attacchi violenti contro i sostenitori della causa palestinese.

Egli afferma che questi attacchi in città vengono per lo più da attivisti legati o ispirati da “Antideutsch” [Antitedesco], un movimento che fa tradizionalmente parte della sinistra radicale tedesca, ma che sta incondizionatamente dalla parte di Israele. Per Sappir la contraddizione tra i presunti valori della sinistra tedesca e sua posizione errata sui diritti dei palestinesi doveva essere affrontata.

Per questo Sappir, uno scrittore che sta conseguendo una laurea in filosofia e collabora con +972 Magazine, ha contribuito a fondare una nuova rete di ebrei israeliani di sinistra in Germania chiamata “Dissenso ebreo israeliano a Lipsia – JID”, che offre uno spazio agli attivisti ebrei per dimostrare solidarietà ai palestinesi nel criticare l’indiscusso appoggio della Germania a Israele.

Ho parlato con Sappir per la prima volta prima delle violenze scoppiate in Israele-Palestina a maggio e di nuovo un mese dopo riguardo alla creazione di JID, alla dannosa influenza di “Antideustch” a Lipsia, al fatto che la Germania mette a tacere l’attivismo filo-palestinese e al fatto di organizzarsi insieme ai palestinesi a Lipsia.

Chi ha dato vita alla rete di attivisti Jewish Israeli Dissent a Lipsia?

Ho formato il gruppo con pochi altri ebrei israeliani, la maggior parte dei quali erano politicamente attivi in Israele. Ho iniziato la scorsa estate dopo un incidente con il progetto locale di un collettivo femminista, in cui un piano dell’edificio (dove hanno la loro sede) è previsto per donne BIPOC [cioè black, indigenous e people of color, nere, indigene e di colore, ndtr.] e migranti e l’altro piano è per chiunque, per lo più tedeschi bianchi.

In pratica una rifugiata siriana è stata accusata di antisemitismo per aver criticato Israele. È stato un grande dramma, che ha incluso un comportamento minaccioso nei suoi confronti. È finita che molte donne migranti se ne sono andate.

La parte filo-israeliana l’ha avuta vinta ed ha fatto andare via le persone che volevano parlare di questo. Nella casa si è deciso di non parlare di Israele e di antisemitismo. Alcuni di noi ne hanno sentito parlare e sono rimasti orripilati.

Quindi nel luglio 2020 abbiamo deciso di organizzare un pomeriggio chiamato “Chiedeteci qualsiasi cosa”. È stata organizzata in particolare perché dei tedeschi ascoltassero il punto di vista della sinistra israeliana. Poi abbiamo deciso che avevamo bisogno di qualcosa per continuare, compreso un sito web e un nome con cui potessimo pubblicare reazioni alle cose che succedevano in città.

Quante persone ci sono nella vostra rete? Chiunque vi può partecipare?

Al momento siamo in sei. La rete è aperta a chiunque sia cresciuto in Israele e condivida i nostri principi. In termini israeliani ciò significa una prospettiva di sinistra che condivida le critiche alla storia di Israele. Se nuovi membri si vogliono unire a noi non possono dire che tutto andava bene fino al 1967 (l’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e delle Alture del Golan). Siamo molto critici riguardo a quello che è avvenuto prima.

Scegliere in nome “JID” sembra un richiamo alla parola “Yid”, un soprannome storicamente offensivo degli ebrei nell’Europa dell’est e in Russia.

Abbiamo discusso parecchio di questo. Sì, si tratta di un richiamo intenzionale, ma abbiamo capito che in effetti si sono trovate alcune interpretazioni diverse del termine. C’è la parola dell’Europa orientale “yid” – che in alcuni Paesi è un modo neutrale per dire “ebreo” e in altri è un insulto antisemita – a cui non avevamo pensato. In Paesi anglofoni in cui sono arrivate persone che parlavano in yiddish, esse chiamavano se stesse “yid”, ma quello è anche diventato (in seguito) un termine spregiativo per ebrei. Nella stessa Germania chi parlava yiddish si riferiva a se stesso come “yid”, però chi parla tedesco oggi non ha mai sentito questo termine prima. Abbiamo deciso che ci stava bene richiamarlo.

Quali sono i principali obiettivi dell’organizzazione?

Stiamo cercando di aprire uno spazio per voci come le nostre e per gente come noi, e soprattutto per i palestinesi, perché vediamo che ce n’è veramente poco per parlare di questi problemi da un punto di vista critico. È anche una questione per rafforzare noi stessi e altri, perché la sinistra a Lipsia aderisce al movimento Antideutsch. Ciò può essere molto escludente. Quando sono arrivato qui volevo proprio impegnarmi (nella sinistra), ma non è stato possibile perché c’erano troppe bandiere israeliane.

Cos’è Antideutsch?

Antideutsch è un movimento che viene dalla sinistra radicale tedesca che si concentra sull’appoggio incondizionato a Israele. A Lipsia sono dei fanatici. Alcuni non sono neppure più nella sinistra. La maggior parte di loro è vista come parte di “Antifa” [gruppo della sinistra radicale di origine statunitense, ndtr.]. E proprio come Antifa si oppone ai nazisti, Antideutsch-Antifa cerca di utilizzare le stesse tattiche contro chiunque veda come contestatore di Israele.

I gruppi antifascisti controllati da Antideutsch si oppongono alla solidarietà con i palestinesi nello stesso modo in cui si opporrebbero ai neo-nazisti: documentano tutto quello che fanno, a volte li minacciano individualmente, cercando di bloccare manifestazioni, mobilitando persone di sinistra per contro-manifestazioni. Passano un sacco di tempo in rete ad accusare gli attivisti solidali [con i palestinesi ndtr.] e a “spiegare” (spesso con argomenti dell’hasbara [la propaganda israeliana, ndtr.]) perché questo o quel gruppo o persona sia un pericoloso antisemita.

Fanno parte di un qualche partito?

Ci sono tendenze Antideutsch in tutta la sinistra, non si limitano a un partito o movimento. Di fatto oggi pochissime persone si considerano Antideutsch: alcuni si definiscono “ideologiekritisch” (critici dell’ideologia) e ce ne sono ancor di più che sono influenzati dalle loro idee ma che non fanno esplicitamente parte del movimento.

Come li contrastano i non sionisti e i palestinesi di Lipsia?

A Lipsia i palestinesi e le persone che solidarizzano con loro hanno difficoltà persino a protestare in pubblico. Gruppi Antideutsch sono riusciti a costringerli al silenzio. Ma ora c’è la sensazione che stiano perdendo forza e le manifestazioni durante la recente escalation in Israele/Palestina [si riferisce agli scontri del maggio 2021 a Gerusalemme, a Gaza e nelle città arabo-israeliane, ndtr.] lo hanno messo in evidenza: le manifestazioni filo-palestinesi sono state grandi il doppio e molto più vigorose delle contromanifestazioni filo-israeliane. In JID stiamo cercando di partecipare a questo cambiamento esponendo pubblicamente la nostra prospettiva critica di israeliani, e chiarendo che questa gente “filoisraeliana” non parla per noi e che non accettiamo quello che dicono riguardo alla nostra patria.

Come sono cambiate le cose dall’escalation a Gaza?

Abbiamo iniziato molto presto ad attivarci a maggio. In primo luogo abbiamo fatto una dichiarazione (in tedesco e in inglese) di solidarietà riguardo alla situazione. Ci siamo subito resi conto che è stata fatta circolare in giro nei circoli di attivisti e sulle reti sociali di Lipsia. Le persone l’hanno discussa, non solo in modo positivo, abbiamo avuto un sacco di reazioni negative da parte di attivisti Antideutsch. Ma quello che è importante è stato che se ne sia parlato.

Qual è stato il vostro ruolo come associazione di attivisti nelle manifestazioni che hanno appoggiato Sheikh Jarrah a maggio?

Abbiamo saputo di due manifestazioni previste a Lipsia. Una di pochi palestinesi organizzata in solidarietà con Sheikh Jarrah; alcuni di noi stavano parlando di andarci. Poi abbiamo visto che c’era una contromanifestazione organizzata con il nome “Contro l’antisemitismo: solidarietà con Israele”.

In JID abbiamo deciso che dovevamo rispondere. Tutti noi del gruppo in precedenza abbiamo partecipato alla lotta a Sheikh Jarrah, ed è stata anche molto importante per i membri delle nostre famiglie (che vivono a Gerusalemme) protestare insieme in solidarietà con il quartiere. Questa lotta è stata una questione molto personale per noi e ci siamo sentiti veramente insultati all’idea che questa lotta venisse definita “antisemita”, per cui abbiamo emesso un comunicato con un titolo provocatorio: “Il corteo in solidarietà con Israele non ha niente a che vedere con la solidarietà”.

Come hanno influenzato queste proteste la vostra dichiarazione e il vostro coinvolgimento?

Il giorno dopo ci sono state due manifestazioni nella Augustusplatz, nel centro di Lipsia. Abbiamo avuto una reazione molto positiva da parte di tedeschi di sinistra e altri di sinistra che vivono da molto tempo in Germania. Ci hanno detto che la nostra dichiarazione ha cambiato il modo di pensare di persone che (in origine) volevano andare alla manifestazione filo-israeliana, ma dopo averlo letto hanno deciso di starsene a casa.

C’era molto più vigore e il doppio di persone alla manifestazione filo-palestinese. È stata un’esperienza molto positiva. Mi sono sentito come se fossi tornato a casa in un posto che mi è molto familiare. C’è stato un contatto tra alcuni di noi e gli organizzatori. In seguito essi dal palco hanno annunciato che alla manifestazione era presente un gruppo di ebrei israeliani e che loro erano molto contenti di accoglierci e che fossimo con loro. Hanno detto molto chiaramente che il loro messaggio non è contro gli ebrei, ma contro le azioni di Israele.

All’inizio JID ha evitato di lavorare con altre organizzazioni. Cosa vi ha fatto cambiare la vostra decisione e iniziare a lavorare con gruppi palestinesi a Lipsia?

Prima di maggio ci siamo detti che non avremmo collaborato con altri gruppi. Ma appena abbiamo visto che era iniziata la (violenza) in Israele/Palestina, ci è risultato evidente che avremmo dovuto collaborare con associazioni palestinesi. Siamo qui per (essere) solidali con loro. Vogliamo lottare insieme ai palestinesi. Ci è sembrato molto naturale e giusto.

Credi che la solidarietà degli ebrei israeliani a Lipsia possa fermare la caccia alle streghe contro i militanti del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) in Germania?

Per noi è facile concentrarci su piccole cose come Antideutsch perché spesso condividiamo gli stessi spazi con loro. Ma tutto ciò rappresenta qualcosa di più grande. Essi sono molto in sintonia con la politica del governo tedesco e riflettono la risoluzione del Bundestag [il parlamento tedesco, ndtr.] sul BDS di due anni fa (nel 2019 il parlamento tedesco ha approvato una risoluzione simbolica e non vincolante che definisce antisemita il movimento BDS).

Pensiamo che parte del problema sia che tutta la discussione su Israele/Palestina stia avvenendo in un vuoto, senza le prospettive di israeliani e palestinesi. C’è qualcosa di molto cinico e perverso nel pensiero dominante nella società tedesca riguardo a Israele/Palestina. I tedeschi dicono: “Le persone responsabili dell’antisemitismo sono straniere.” Vogliono vedere se stessi come illuminati e non antisemiti. Ma ciò è paradossale perché quando concentrano tutti i loro sforzi su Israele, stanno anche dicendo che il posto per il popolo ebraico non è qui. Una cosa è essere d’accordo con Israele, un’altra è dire che Israele è l’unica risposta all’antisemitismo, il che significa che non possiamo liberarci dell’antisemitismo in Germania e l’unica soluzione è che gli ebrei se ne vadano da qui.

Perché i tedeschi hanno paura di sentire voci critiche?

Ho l’impressione che i tedeschi amino vedersi come osservatori obiettivi. Stanno mettendo a posto il mondo, anche se solo in teoria. Appena entrano in contatto con persone che vivono la situazione lì, queste teorie crollano. Le nostre voci minacciano il tipo di ordine che hanno creato nella loro mente, le loro posizioni politiche e la loro possibilità, individuale e collettiva, di dire: “Abbiamo imparato dall’Olocausto, siamo una Nazione migliore, siamo i migliori amici degli ebrei.”

Credono di essere assolutamente consapevoli dei diritti umani, ma appena sentono parlare delle cose disumane che Israele sta facendo, ciò minaccia la loro identità, la loro concezione di se stessi e la loro possibilità di presentare la Germania come la forza trainante sulla scena progressista. La Germania esporta un grande numero di armamenti ed è coinvolta in ogni forma di oppressione e interferenza (straniera) nei Paesi poveri.

In Germania il campo progressista, ponendo sopra ogni cosa la questione israelo-palestinese, come spesso fa, pregiudica la possibilità di politiche realmente progressiste nel Paese. Continuiamo a sentire di come questo problema venga utilizzato per dividere la sinistra, persino qualche giorno prima dell’annuale corteo del Primo Maggio a Berlino. Tutta la manifestazione è stata dipinta come antisemita perché sono stati coinvolti i palestinesi.

I tedeschi sono restii a partecipare a un boicottaggio di Israele per via della memoria storica tedesca. Come vi rapportate a questo?

Capisco perché i tedeschi abbiano difficoltà con l’idea di boicottare uno Stato che si definisce lo “Stato ebraico”. Ma spero proprio che comprendano che ciò non riguarda loro. Mi auguro che vedano il BDS come una questione palestinese e appoggino la causa palestinese semplicemente perché i palestinesi meritano appoggio, e che le cose che vengono fatte a loro potrebbero essere fatte a qualunque altro popolo.

Mati Shemoelof è scrittore, poeta, attivista, autore e redattore che ora vive a Berlino, in Germania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Non possiamo utilizzare l’essere stati vittime per giustificare il fatto di trasformare gli altri in vittime: un’intervista con Alice Rothchild su come affrontare il razzismo israeliano in Palestina

Nihan Duran

5 luglio 2021 – Politics Today

L’idea secondo cui in quanto vittima posso fare qualunque cosa per sopravvivere, anche se ciò significa rendere vittime gli altri, è eticamente e politicamente problematico. Finché la comunità ebraica non supererà questo particolare modo di affrontare i traumi dell’Olocausto, non supereremo mai questa psicopatologia culturale.

Mentre in tutto il mondo continuano gli echi della reazione globale alle recenti violazioni dei diritti umani a Sheikh Jarrah [quartiere arabo di Gerusalemme in cui famiglie palestinese sono a rischio di espulsione, ndtr.] e a Gaza [operazione militare israeliana “Guardiano delle mura” nel maggio 2021, ndtr.], la giornalista di Politics Today Nihan Duran ha intervistato la prestigiosa scrittrice, medico e attivista per i diritti umani Alice Rothchild su come comprendere il passaggio da oppresso a oppressore e le sfide per definire, discutere e raccontare il colonialismo di insediamento in Palestina e i modi per procedere alla promozione di una vera pace e della solidarietà.

Q. In quanto scrittrice ebrea americana, attivista per i diritti umani e medico lei svolge numerose attività in cui riflette sulla realtà concreta in Israele e Palestina. Possiamo sapere con le sue parole chi è lei e come è iniziato il suo impegno sulla situazione israelo-palestinese?

I miei nonni erano ebrei ortodossi immigrati negli USA. Sono cresciuta in una famiglia ebraica molto tradizionale, ma piuttosto laica. Sono andata in una scuola ebraica, ho celebrato il mio bat mitzvah [festa rituale ebraica, che per le femmine si festeggia a 12 anni e 1 giorno, ndtr.] e a 14 anni sono andata in Israele. Ho ancora il diario di allora, quindi so come mi sono sentita riguardo al viaggio in quel luogo magico.

Sono anche figlia degli anni Sessanta, per cui ero al college durante la guerra del Vietnam, quando ho iniziato a sentir parlare di colonialismo, razzismo e islamofobia. Quindi diventai una persona molto più consapevole dal punto di vista politico ed iniziai a vedere il mondo in un modo più politico e meno tribale, ebraico.

Fu allora che iniziai anche a inquadrare le cose che avvenivano in Israele e Palestina in termini di colonialismo e imperialismo. Nel corso degli anni ci sono state varie organizzazioni di base che i miei amici ed io abbiamo formato e a cui abbiamo partecipato. Ora sono impegnata in Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, principale gruppo ebraico USA antisionista, ndtr.] come mia associazione di riferimento, e sono molto contenta di farne parte.

Ho interpretato il mio ruolo come chi incoraggia le voci che sono sono presenti, ma che spesso non vengono ascoltate, per cui ho sentito la narrazione palestinese e cercato di approfondire la loro esperienza di perdita e occupazione. Poi ho usato la mia posizione privilegiata in quanto donna ebrea bianca per rendere più visibili tutte le storie che la gente mi ha raccontato. Sì, capisco e ho chiari in mente l’antisemitismo, l’oppressione degli ebrei in Europa e l’Olocausto. Ma penso anche che in ultima analisi i principi su cui è stato fondato Israele siano indifendibili.

Q. Quindi come ebrea americana, non solo ben consapevole del trauma dell’Olocausto, ma anche come scrittrice e medico che ha direttamente fatto esperienza della situazione materiale in Palestina, come valuta il passaggio da perseguitato a persecutore, o da oppresso a oppressore in questa vicenda?

Beh, non si tratta di una trasformazione inusuale se ci si guarda attorno nel mondo, ma è un esempio di quella trasformazione. La preoccupazione specifica è che persone che hanno vissuto qualcosa di orribile o hanno subito terribili perdite sono vittime. Ma una volta che le persone adottano l’essere vittime come una costituente fondamentale della propria identità, questo senso di vittimizzazione consente loro di fare qualunque cosa necessaria per sopravvivere. E ciò è quanto è avvenuto nella comunità ebraica.

L’idea che, in quanto vittima, io possa fare qualunque cosa per sopravvivere, anche se questo significa rendere vittima un altro popolo, è moralmente e politicamente problematico. Non possiamo utilizzare il fatto di essere stati vittime per giustificare simili comportamenti. Vedere l’Olocausto e dire “mai più a me” ma non dire “mai più a nessuno” è ingiustificabile. Inoltre questo atteggiamento non ci rende più sicuri.

Quindi, finché la comunità ebraica non supererà questo particolare modo di fare i conti con i traumi dell’Olocausto, non usciremo mai da questa psicopatologia. Dobbiamo riconoscere che non siamo più vittime.

Q. A questo punto le devo chiedere riguardo al fatto che nei discorsi dei politici in Israele oggi c’è quella che si potrebbe persino definire una terminologia “genocidaria”, che sembra anche in sintonia con una parte rilevante della popolazione israeliana. Cosa ne pensa? Da dove viene il problema?

La questione di quello che Ilan Pappé [noto storico isrealiano, ndtr.] ha chiamato il lento genocidio di Gaza non è nulla di nuovo. Se guardiamo dal punto di vista storico vediamo che il principale problema è che quando gli ebrei giunsero in Palestina non dissero “abbiamo bisogno di un posto sicuro, condividiamolo”, ma dissero “questa terra è mia; dio mi ha dato questa terra e me la prenderò comprandola, occupandola, in ogni modo possibile.”

Per come le cose si sono sviluppate, la politica regionale portò allo sviluppo dello Stato di Israele e all’opinione che gli ebrei avessero diritti su quella terra, in modo che potessero cacciare o spogliare un altro popolo. Sfortunatamente questo divenne il principio sottinteso dello Stato di Israele.

Q. Quindi lei intende dire che il colonialismo di insediamento è il principio implicito dello Stato di Israele e lo guida fino ad oggi.

Sì, se guardi al progetto di colonizzazione in Cisgiordania, esso è solo la continuazione della Nakba [la Catastrofe, cioè l’espulsione dei palestinesi, ndtr.] nel 1948. E questo è ciò che è il colonialismo di insediamento. È quello che abbiamo fatto negli Stati Uniti, in Australia, in Nuova Zelanda, in Sudafrica, ed è straziante per gli ebrei scoprirlo, perché si supponeva che Israele sarebbe stato diverso. Si pensava che sarebbe stato la “luce tra le Nazioni”.

Lo Stato incarna i principi colonialisti su cui è stato costruito, e purtroppo c’è una percentuale molto ridotta della popolazione ebraica che si oppone a questa idea. In Israele persino la maggior parte della gente di sinistra non è antisionista, credono ancora che ci dovesse essere uno Stato in cui gli ebrei si trovassero in una situazione privilegiata rispetto ai palestinesi. Non puoi essere una democrazia e privilegiare un gruppo su un altro.

Q. Lei ha anche posto l’accento sulla mancata messa in discussione delle politiche israeliane da parte della maggioranza della comunità ebraica negli USA. Alla luce della reazione globale a quanto è successo recentemente a Sheikh Jarrah e a Gaza, può parlare di un cambiamento nei confronti delle politiche di Israele in Palestina?

Penso che dobbiamo essere realistici in termini di rapporti di potere. Sia a livello federale che locale c’è parecchio di quello che definirei pensiero reazionario. La potente parte maggioritaria della comunità ebraica (e di quella cristiana evangelica) è ancora ferma allo stesso punto. Molte norme e leggi a livello locale e federale affermano che criticare Israele è antisemita e fino ad ora se dici qualcosa di sinistra o solidale con i palestinesi subisci gravi conseguenze.

Ma ci sono anche molte e influenti organizzazioni progressiste che vi si oppongono, come Jewish Voice for Peace. Nel Congresso USA ora ci sono anche parlamentari progressisti, palestinesi o musulmani. Che ci siano alcune voci nel Congresso è un fatto rivoluzionario, perché 20 anni fa avremmo potuto solo sognare una cosa del genere. Il movimento Black Lives Matter [contro la violenza della polizia nei confronti della violenza della polizia contro le minoranze, ndtr.] ha adottato una posizione solidale con i palestinesi. C’è un dibattito molto più aperto sulle reti sociali. Anche a livello locale vediamo dei cambiamenti. Per esempio, recentemente in California il sindacato dei docenti ha votato l’appoggio al boicottaggio di Israele, e anche questo è rivoluzionario.

Piccole vittorie come questa sono veramente importanti, perché nessuno cede il potere volontariamente, né lo farà la macchina politica israeliana. Dal loro punto di vista hanno avuto un grande successo, come piccolo Paese prospero con un enorme bilancio militare, e l’appoggio degli Stati Uniti. Perché rinunciarvi? Quindi dobbiamo comprendere che la politica estera USA è parte di quanto aiuta Israele a fare quello che fa e comprendere che anche noi siamo responsabili. Ci sono modi per far pressione sul Congresso e dobbiamo conquistarlo.

Q. Grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, e principalmente alle reti sociali, l’oppressione delle minoranze è diventata sempre più visibile, ma, d’altra parte, ci sono troppi doppi standard, come quelli applicati per esempio durante la recente aggressione israeliana contro Gaza ad alcuni palestinesi sia da parte delle reti sociali che dei mezzi di comunicazione più importanti. Qual è la sua opinione a questo proposito?

Penso che il doppio standard sia in parte relativo al fatto che c’è un’industria multimilionaria che si dedica a seguire le reti sociali e ad attaccare le persone con opinioni di sinistra. Il messaggio è molto chiaro e la punizione per aver trasgredito è molto pesante; ci sono state carriere professionali distrutte, docenti che hanno perso la loro posizione accademica, insegnanti che hanno perso il lavoro. C’è un costo, e l’avversario cerca di renderlo il più pesante possibile.

Sì, il controllo dei messaggi è ferreo ed è ben finanziato, ma la buona notizia è che la gente che prima era invisibile ora può esprimersi, e quindi questa guerra nei media viene combattuta. Ma, come ho detto in precedenza, benché noi vediamo l’inizio delle crepe nel muro, le redini del potere non sono ancora state abbandonate. Quindi dobbiamo ascoltare quello che il popolo palestinese sta dicendo, dobbiamo onorarlo, dobbiamo evidenziarlo ed essere solidali. Penso che questo sia un ruolo molto importante per noi, che ho cercato di intraprendere attraverso l’Health Advisory Council of Jewish Voice for Peace [Consiglio Consultivo sulla Salute di Jewish Voice for Peace, rete di militanti di JVP che si occupano di salute fisica e mentale, ndtr.].

Q. Ora che tutto il mondo sta guardando quello che avviene nella regione, lei crede che la narrazione più comune abbia perso la sua legittimità?

Penso che sicuramente sia stata messa in discussione e che lei abbia ragione: ha perso parte della sua legittimazione. Ma, di nuovo, non penso che dobbiamo sottostimare il potere delle persone che stanno difendendo questa legittimazione. Sono molto ben finanziate a livello internazionale. Ma penso che sia stata danneggiata. Però dobbiamo ancora lavorare duramente perché niente è ancora finito.

Dobbiamo appoggiare i movimenti per il boicottaggio. Dobbiamo partecipare alle manifestazioni politiche. Dobbiamo esigere informazioni sui giornali, nelle radio e sulle reti sociali. Dobbiamo continuare a documentare la situazione e porre domande serie, in modo che la gente possa conoscere le conseguenze dell’aggressione a Gaza per 11 giorni, della chiusura totale del programma di vaccinazione e del danneggiamento dell’unica clinica che fa i test [per il COVID, ndtr.]. Dobbiamo chiedere in che modo privare i gazawi dei vaccini COVID 19 renda Israele più sicuro.

Q. Ci sono notevoli tentativi all’interno della comunità ebraica: c’è chi interpreta la vicenda stessa dell’Olocausto per comprendere la difficile situazione dei palestinesi oggi e chiede la pace e l’uguaglianza. Come pensa che queste voci, come forte alternativa politica, saranno ascoltatate in modo più attento in modo da renderne l’impatto più sentito.

Penso che finalmente ci siamo resi conto che dobbiamo lavorare in solidarietà con le persone oppresse e che non dobbiamo essere gli oppressori. Abbiamo anche bisogno di essere consapevoli del nostro stesso razzismo. Questo è razzismo. Dobbiamo dirlo e poi dobbiamo affrontarlo. Una volta che inizi a pensare in questo modo, poi ci sono nuove possibilità. Penso che organizzazioni come Jewish Voice for Peace siano estremamente importanti in questo senso, ma abbiamo ancora molto lavoro da fare. Dobbiamo anche lavorare in modo intesezionale con i nostri fratelli e sorelle e amici musulmani e cristiani per creare un cambiamento politico in modo positivo.

Penso anche che i tempi stiano cambiando. C’è una crescente consapevolezza riguardo al colonialismo di insediamento e la gente ha iniziato ad applicarlo a Israele. Penso anche che le opinioni del popolo ebraico riguardo a Israele e al colonialismo d’insediamento  varino a seconda delle generazioni. Tra i più giovani troviamo sempre più persone che mettono in discussione l’intero progetto e dicono “aspetta in momento, se il razzismo è cattivo negli USA, allora come possiamo appoggiare il razzismo in Israele?” Sta avvenendo una grande frattura generazionale. Quindi penso che ci siano speranze, ma che abbiamo ancora molto lavoro da fare.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Intervista a Khaled Meshaal: l’alto dirigente sostiene che ora è Hamas a guidare la lotta palestinese

David Hearst

25 maggio 2021 – MIDDLE EAST EYE

Parlando a MEE Meshaal chiede a tutti i palestinesi di unirsi in una “rivolta totale” contro l’occupazione israeliana

Hamas è ora alla guida del popolo palestinese perché il ruolo principale di una leadership durante l’occupazione è condurre i palestinesi verso la libertà e la liberazione, ha detto a Middle East Eye Khaled Meshaal, capo dell’organizzazione nella diaspora.

Nella prima intervista in inglese del gruppo militante dal momento del cessate il fuoco con Israele di venerdì scorso, Meshaal invita ad una rivolta totale in “tutte le località” del territorio storico della Palestina: Gerusalemme e la Città Vecchia, la Cisgiordania e l’interno dello stesso Israele.

L’anziano dirigente, alla guida dell’ufficio politico di Hamas fino al 2017, afferma inoltre che il movimento sarebbe pronto a discutere con gli Stati Uniti.

Dice che è strano che l’amministrazione del presidente Joe Biden continui a parlare con i talebani, che hanno combattuto attivamente le truppe statunitensi in Afghanistan per quasi due decenni, e si rifiuti di parlare con Hamas, che non è impegnata a combattere gli Stati Uniti ma dal 1997 è ritenuta da Washington un’organizzazione terroristica.

In un messaggio diretto a Biden Meshaal ha aggiunto: Non vi consideriamo nostri nemici, anche se ci opponiamo a molte delle vostre politiche di parte a favore di Israele e contro i nostri interessi arabi e islamici. Ma non vi combattiamo. Quindi siamo pronti a comunicare con qualsiasi partito senza condizioni.”

Ma avverte che Hamas non sarebbe disposta a cambiare la sua posizione su Israele. “Non importa quanto tempo ci vorrà, questo è il mio messaggio a Biden, agli Stati Uniti e a tutti gli Stati occidentali che continuano a inserire Hamas nelle liste del terrorismo. Dico loro: non importa quanto tempo ci vorrà, Hamas non soccomberà alle vostre condizioni “

Meshaal sostiene che i Paesi arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele non solo hanno pugnalato alle spalle i palestinesi, ma hanno anche danneggiato i loro interessi rischiando di provocare una rivolta popolare.

“Ciò che sperano di ottenere da Israele è un’illusione e una fantasia”, avverte Meshaal. “Anche se non si vergognano, hanno prospettive molto limitate perché l’opinione pubblica sarà contro di loro”.

Hamas ha verificato un aumento del sostegno popolare in Palestina in seguito della sua decisione di lanciare razzi contro Israele in risposta alle aggressioni israeliane alla moschea di al-Aqsa e ai residenti di Sheikh Jarrah.

Tale sostegno viene da aree al di fuori del suo controllo tradizionale dove i suoi membri sono stati sottoposti a ripetuti arresti, ma dalla Cisgiordania e tra i cittadini palestinesi di Israele.

Alla domanda se ritenga che Mahmoud Abbas possegga ancora una qualche autorevolezza come presidente palestinese dopo l’ultimo round di combattimenti, Meshaal ha risposto: Non escludiamo nessuno e non disconosciamo il ruolo di nessuno.

Tuttavia, indubbiamente tutti hanno notato che le credenziali di Hamas e il suo status nella leadership palestinese si sono rafforzati poichè ha guidato la lotta nelle ultime fasi e specialmente in quella attuale”.

Per la prima volta in molti anni le bandiere di Hamas sono state viste sventolare accanto a quelle di Fatah in manifestazioni e proteste a Nablus, e venerdì un imam che si era rifiutato di menzionare Gaza nel suo sermone settimanale ad al-Aqsa è stato costretto a lasciare la moschea a causa della rabbia dei fedeli.

A Gerusalemme e a Umm al Fahm, nel nord di Israele, i manifestanti hanno gridato il nome di Mohamed ad-Deif, il capo dell’ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam, che Israele ha cercato di uccidere durante il recente conflitto.

Meshaal afferma che la funzione primaria della leadership in queste condizioni sia la lotta e la resistenza, e la guida dei palestinesi verso la libertà e la liberazione.

Le elezioni non sono l’unica opzione

Solo poche settimane prima che scoppiassero i combattimenti, Hamas era propenso a contestare le elezioni insieme a Fatah e ad altre fazioni palestinesi prima che le stesse fossero rinviate da Abbas.

Meshaal sostiene che Hamas ha fiducia in se stesso e che sia comunque pronto a presentarsi al ballottaggio, ma che le elezioni non rappresentino l’unica opzione.

Hamas non ha paura di proporsi alla sua gente tramite le urne. Forse altri hanno paura”, ha detto, con un’evidente stoccata ad Abbas.

Ma ha proseguito: Eppure, ancora una volta, le elezioni sono l’unica opzione? È l’unico strumento del sistema di riconciliazione ed in grado di rimettere ordine in casa palestinese? No.”

Meshaal afferma che i palestinesi sono un unico popolo con un’unica causa e invita ad una “rivolta totale in tutti i luoghi”.

A Gerusalemme, dove incombe la minaccia su al-Aqsa, su Sheikh Jarrah, sulla Città Vecchia e su tutta Gerusalemme; in Cisgiordania, dove sono presenti l’occupazione, gli insediamenti coloniali, la scissione dei legami e la confisca di terre; e nella Palestina del 1948, dove vige la discriminazione razziale, i tentativi di espellere e bandire il nostro popolo coll’uso di norme giuridiche; anche la resistenza di Gaza; fino alla diaspora. Tutti sono partecipi della responsabilità della liberazione”.

Mentre Meshaal parlava, i coloni israeliani, sostenuti dalla polizia, prendevano ancora una volta d’assalto al Aqsa.

Alla domanda su cosa abbia indotto Hamas a lanciare nuovamente razzi, Meshaal ha affermato che il cessate il fuoco non era condizionato solo alla cessazione degli attacchi israeliani a Gaza, ma alla fine delle incursioni delle forze di sicurezza israeliane ad al-Aqsa e alla fine dello sfollamento degli abitanti palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e di Gerusalemme Est.

La battaglia è scoppiata per questi motivi. A tali condizioni cesserà iI lancio da Gaza dei razzi della resistenza”, ha detto.

Tuttavia ha proseguito affermando come ogni area sotto occupazione possa scegliere la propria forma di resistenza.

“Non esiste una formula che vada bene per tutti e nello stesso momento.”

Israele “sta pagando un prezzo”

Meshaal sostiene che l’ultimo conflitto abbia evidenziato il ruolo dei palestinesi che vivono all’interno dei confini della Palestina del 1948.

“Hanno inviato il messaggio che siamo del tutto parte di questo popolo e che vengono in aiuto di al-Aqsa, del quartiere di Sheikh Jarrah e di Gaza proprio come fa ogni altro palestinese che viene in aiuto dell’altro fratello”, dice.

Aggiunge che Israele stia anche pagando il prezzo delle politiche razziste e delle violazioni dei diritti dei suoi cittadini palestinesi, tanto da mettere a nudo la “fragilità” del suo Stato.

È diventato evidente a tutte le comunità palestinesi, arabe e islamiche e alle persone libere di tutto il mondo che Israele sta contando i suoi giorni e che questa occupazione, gli insediamenti, il colonialismo, non hanno futuro nella regione”.

MEE ha chiesto a Meshaal di spiegare in che modo Hamas sia passato da una posizione di contestazione delle elezioni, anche mentre centinaia dei suoi membri venivano arrestati in Cisgiordania, al lancio dei razzi.

In quel momento c’era un acceso dibattito all’interno di Hamas sull’opportunità di contestare le elezioni, dal momento che non sarebbe stato in grado di agire liberamente come partito politico. Alla fine le elezioni sono state rinviate, molti credono annullate, da Abbas che ha usato come scusa il rifiuto di Israele di consentire ai gerosolimitani di votare.

Meshaal ha confermato che c’è stato un “dibattito interno” sull’opportunità di candidarsi alle elezioni in Cisgiordania. Ma ha insistito sul fatto che il principio riguardante la sua candidatura alle elezioni non fosse in discussione.

Spiegando il passaggio dalle urne ai razzi, Meshaal dice che la decisione di annullare le elezioni abbia creato “rabbia e frustrazione” e un senso di stupore: “Perché questo passo?”

Poi sono arrivate le violenze ad al-Aqsa contro fedeli e manifestanti e la minaccia di sfollamento degli abitanti dalle loro case a Sheikh Jarrah.

Accusa Israele di aver iniziato l’aggressione. Afferma che Hamas aveva avvertito Israele, in modo che Israele non fosse sorpreso dal lancio di razzi.

“Quando hanno assalito la moschea di al-Aqsa alla fine del Ramadan la resistenza è stata costretta a rispondere … e la battaglia è iniziata”, prosegue Meshaal.

Sostiene che non c’è contraddizione tra impegnarsi nella battaglia politica attraverso elezioni e alleanze sostenendo la causa e mobilitandosi in suo favore nei forum internazionali, e impegnarsi in combattimenti. Le due battaglie sono collegate fra loro“.

Alla domanda su chi abbia preso la decisione di lanciare i razzi, Meshaal risponde che il movimento ha un’unica leadership, ma ogni singola parte prende le sue decisioni personali.

“Quando la dirigenza di al-Qassam prende una decisione su come portare avanti la lotta decide in conformità con la strategia e l’orientamento comune del movimento. Lo stesso vale per coloro che lavorano nel campo della mobilitazione di massa o delle relazioni politiche. Queste sono decisioni complesse prese di volta in volta durante i percorsi di lavoro. Derivano dalla risoluzione stabilita a livello centrale dalla leadership del movimento”.

Reciprocità di interessi” con l’Egitto

Meshaal riserva parole gentili per l’Egitto, nonostante il presidente Abdel Fatteh el-Sisi abbia organizzato un colpo di stato militare contro il presidente eletto Mohamed Morsi sostenuto dai Fratelli Musulmani e abbia massacrato i suoi sostenitori a Rabaa, oltre ad aver rafforzato l’assedio di Gaza distruggendo i tunnel di Hamas e la parte egiziana del valico di confine di Rafah.

Meshaal dice che il ruolo dell’Egitto negli affari palestinesi è fondamentale, anche se ci sono stati disaccordi.

La reciprocità degli interessi richiede che entrambe le parti lavorino insieme e possano prevedere dei ruoli sui quali concordare e collaborare nonostante le differenti opinioni, come lei ha detto, sulla questione della Fratellanza o altro”.

“Noi di Hamas, sebbene siamo una parte essenziale della Fratellanza, costituiamo un movimento di resistenza e non interferiamo negli affari degli altri, trattando con i Paesi islamici, e con gli altri, in base alla nostra causa e ai relativi interessi, senza interferenze reciproche negli affari di ognuno.

“Pertanto, accogliamo con favore il ruolo egiziano così come accogliamo con favore i ruoli di tutti gli Stati arabi e islamici o di qualsiasi Paese del mondo fintanto che sia inteso a servire il nostro popolo fermando l’aggressione contro di esso e assecondando la sua determinazione”.

Il leader anziano di Hamas ha affermato che gli stati arabi hanno la responsabilità di elaborare una nuova strategia per recuperare la Palestina, Gerusalemme e al-Aqsa e porre fine all’occupazione.

Credo che tutti abbiano capito l’inutilità dei negoziati, l’inutilità del processo di pace e degli accordi di pace con Israele e l’inutilità della normalizzazione. Coloro che avevano visto Israele come parte naturale della regione si sono sbagliati. Alcuni pensavano di poter trarre vantaggio da Israele nel confronto con i loro diversi nemici.

“Tutti sono ormai certi che Israele costituisca il vero nemico della regione e che Israele sia un’entità fragile e che possiamo sconfiggerlo invece di lamentarci delle sue politiche”.

Sostiene che l’Egitto sia scontento delle politiche israeliane nei confronti della Diga del Rinascimento in Etiopia, che il Cairo vede come una minaccia alla sicurezza nazionale. Di certo l’Egitto è scontento delle notizie sui presunti piani israeliani di scavare un canale navigabile alternativo al Canale di Suez.

“Pertanto, invece di sentirci impotenti riguardo alle violazioni e ai piani di Israele, questa è un’opportunità … la resistenza in Palestina e questa grande rivolta del nostro popolo sta dicendo agli arabi, ‘Gente, siamo una sola Ummah [termine arabo che designa la comunità dei fedeli dell’Islam, ndtr.], abbiamo gli stessi interessi, quindi partiamo da questo risultato.’

“Combattiamo un’unica battaglia, non solo per salvare e rivendicare la Palestina, ma anche per proteggere l’intera Ummah”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“The Present” mette totalmente a nudo la realtà palestinese

William Parry

12 aprile 2021 – The Electronic Intifada

La regista anglo-palestinese Farah Nabulsi ha vissuto un paio di settimane straordinarie.

Il mese scorso il suo cortometraggio, The Present (Il Regalo) – il suo debutto come regista – è stato il primo selezionato per un premio dell’Accademia Britannica delle Arti Cinematografiche e Televisive (BAFTA), prima di ottenere, alcuni giorni dopo, la nomination per un premio oscar, che verrà assegnato a fine aprile.

Poi è giunta la notizia che Netflix stava trasmettendo in streaming il film.

Infine il 10 aprile il corto di 24 minuti ha vinto il BAFTA, aggiungendosi ai numerosi premi e riconoscimenti ricevuti dalla sua uscita lo scorso anno.

Che cosa significa tutto ciò per Nabulsi?

Per me la priorità era che il film fosse visto. È da questo che traggo veramente la mia soddisfazione. Quindi tutto questo significa una maggiore visibilità, che è già stata ampia – e per un cortometraggio, sotto molti aspetti senza precedenti nella nostra storia. In questo senso sono molto, molto soddisfatta”, ha detto a Electronic Intifada in videocollegamento.

Nabulsi si inserisce in un elenco di registi il cui lavoro è ineluttabilmente legato all’identità palestinese. La piccola storia di Nabulsi mostra, con dettagli che spezzano il cuore, il controllo fisico brutale ed umiliante che Israele esercita quotidianamente su milioni di palestinesi, e la fatica fisica, emotiva e mentale che deriva dal suo essere implacabile.

Tuttavia, curiosamente, mentre i suoi film sono inestricabilmente legati alle realtà palestinesi, Nabulsi dice che le sue influenze culturali hanno poco a che fare con la cultura palestinese ed araba.

Cresciuta a Londra e avendo frequentato una “scuola veramente inglese”, Nabulsi dice di non avere conosciuto molto l’arte o la musica araba. Pur amando gli scritti di Edward Said e la poesia di Mahmoud Darwish, dice di aver letto le loro opere “attraverso la lente di chi non legge molto bene l’arabo, ed ha quindi fatto ricorso alle traduzioni.”

Prima di diventare regista, le piacevano i film di Annemarie Jacir e Hany Abu-Assad [due registi palestinesi, ndtr.], ma ammette ridendo che William Shakespeare e altri artisti occidentali sono stati importanti e in vari modi più formativi nella sua crescita culturale.

Il modo in cui affronto il mio lavoro è leggermente diverso”, dice Nabulsi. “Che mi piaccia o no, mantengo un piede in occidente, sempre. Quindi quando scrivo e creo le mie storie e le dirigo, penso di subire una certa influenza dalla mia educazione e anche dalle mie influenze occidentali, forse più che da quelle palestinesi, se devo essere onesta. Non intendo far finta che non sia così.”

I tempi stanno cambiando?

Con un cortometraggio che mostra senza veli la brutale realtà dell’apartheid israeliano sulla vita quotidiana dei palestinesi ottenendo attenzione internazionale – e con una nuova amministrazione USA guidata da Joe Biden e la promessa di tenere quest’estate le elezioni palestinesi a lungo rimandate – Nabulsi trova motivi di ottimismo?

Non vedo reali differenze tra Biden e Trump”, dice Nabulsi. “Sono teste dello stesso serpente, solo che uno indossa una maschera e l’altro no.”

Tuttavia ritiene che i quattro anni di presidenza di Donald Trump abbiano rivelato chiare prese di posizione politiche che quelli che mantengono una posizione neutrale non possono più negare, inclusi alcuni sionisti progressisti.

È diventato molto chiaro che quando si pensa a Trump, a Netanyahu in Israele, a Orban in Ungheria, a Bolsonaro in Brasile, a Modi in India, subito si pensa ‘fascisti!’ e si vede chiaramente chi siano questi compari e che cosa stiano facendo.”

Di conseguenza, sostiene Nabulsi, “questa trasversalità tra altri movimenti per i diritti e antirazzisti è venuta sempre più allo scoperto e questa fratellanza e sorellanza sono state di aiuto. Perciò sono molto contenta dei tempi che stiamo vivendo, ma non di Biden.”

Riguardo alle elezioni palestinesi previste in estate, Nabulsi ammette che “le piace l’idea” di Marwan Barghouti candidato alla presidenza dalla sua cella di un carcere israeliano.

Certo,” dice. “Dà davvero una lieve sensazione alla (Nelson) Mandela, ma non mi faccio illusioni che ciò non possa concludersi del tutto o non vada invece a finire in niente.”

Dice che se l’attuale leadership avesse sinceramente a cuore gli interessi dei palestinesi, “dovrebbe entrare nel XXI secolo e stare al gioco.” Aggiunge che non riesce a capire perché non abbiano buttato la palla direttamente nel campo di Israele molto tempo fa.”

Perché non hanno dichiarato collettivamente: “Sapete che c’è? Ecco: un solo Stato. Prendetevi cura di noi, riprendetevi l’occupazione, riprendetevi tutto questo. Oslo? [gli Accordi di Oslo del 1993 da cui è nata l’Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.] Lo avete ucciso, è defunto ed eccone tutti i motivi: le colonie, questo, quello e quell’altro: fatto. Quindi è tutto inutile.”

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese è vuota. I leader palestinesi adesso devono chiedere agli israeliani di “vivere con voi. Devono farlo con molta sincerità e dire seriamente: ‘Ecco ciò che vogliamo!’ e mettere Israele di fronte a una scelta.”

Così devono decidere: ‘Oh no! No, no, no! Ecco il vostro Stato!’, oppure devono fare i conti con un’inequivocabile apartheid.”

I due Stati, dice, “erano una buona idea quando era praticabile, ma adesso chiaramente non lo è. Ma il peccato originale ideologico di Israele è il colonialismo di insediamento, quindi, a meno che non lo abbandonino, loro non vogliono i due Stati. Non è mai stata la loro intenzione.”

Primi germogli

Nonostante gli scenari politici che influenzano l’attuale situazione, Nabulsi scorge guadagnare terreno segni autentici di progresso – che alla fine incominceranno ad influenzare, dal basso verso l’alto, quegli stessi scenari politici.

Cita alcuni esempi recenti, compresi il rapporto “Questo è apartheid” dell’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, la recente decisione della Corte Penale Internazionale di indagare sui crimini di guerra israeliani e negli ultimi anni il cambiamento di ex sionisti progressisti come il giornalista americano Peter Beinart [noto editorialista ebreo americano che nel 2020 ha affermato di non credere più in uno Stato ebraico, ndtr.].

Sono una di quelle persone che credono che si tratti veramente di tutte le gocce dell’oceano che si uniscono. Non è un solo movimento o un individuo o un rapporto – certo, ci sono momenti di svolta e ci sono individui chiave, ma alla fine si tratta di una miscela di tutte queste cose.”

Senza questo ottimismo, dice, fare film sarebbe inutile.

William Parry è un giornalista e fotografo freelance che vive nel Regno Unito. È autore di ‘Against the wall: the art of resistance in Palestine’ [Contro il muro: l’arte della resistenza in Palestina] e coautore del documentario breve ‘Breaking the generations: palestinian prisoners and medical rights’ [Spezzare le generazioni: i prigionieri palestinesi e il diritto a cure mediche].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Intervista: Quegli israeliani che si battono a fianco dei palestinesi

Hassina Mechaï

16 marzo 2021 – Orient XXI

Mentre si preparano le elezioni legislative israeliane del 23 marzo 2021, dominate dalla competizione tra partiti di destra estrema e di estrema destra, qualche voce dissidente si fa sentire. Parliamo con una di loro, Tali Shapiro.

Visto dalla Francia il campo politico [israeliano] può sembrare totalmente dominato da un misto di nazionalismo e religione, testimoniato dalle alleanze del Likud al potere con diversi piccoli partiti religiosi. Questa ideologia si incarna in Benjamin Netanyahu. Egli è stato primo ministro senza interruzione dal 2009, ma la sua prima elezione a questa carica risale al 1996.

Di fronte a quello che si potrebbe vedere come un blocco politico monolitico, la società civile israeliana offre delle sfumature che la dicono lunga sulle sfide che il Paese si trova ad affrontare, così come sulle sue contraddizioni. In questa società civile si distinguono i militanti israeliani che hanno scelto di agire, o di vivere, a fianco dei palestinesi. A volte definiti smolanim (estremisti di sinistra), detestati dalla destra e dall’estrema destra, propongono una voce dissidente che contraddice il discorso dominante, praticano la disobbedienza civile o l’obiezione di coscienza. Tra loro Tali Shapiro, una cittadina israeliana il cui percorso, anche se particolare, illustra una tendenza sicuramente minoritaria, ma che resiste.

Hassina Mechaï. — Come e perché è diventata una militante?

Tali Shapiro. — Sono cresciuta con una certa forma di ignoranza politica, più precisamente in una famiglia ashkenazita [ebrei di origine centro-europea, ndtr.] in cui i miti sionisti erano considerati scontati. A 20 anni circa ho avuto un fidanzato cresciuto in una famiglia più a sinistra della mia. È grazie a questo rapporto che ho sentito per la prima volta un discorso diverso, contrastante con quello con cui ero cresciuta. Mi ci sono voluti parecchi anni per mettere insieme i pezzi del puzzle. Ci è voluto del tempo, perché tentavo di mettere insieme i frammenti di informazioni che mi arrivavano. Non affrontavamo la questione in modo formale. Non erano che chiacchierate, in genere commenti sulle notizie che vedevamo o uno sguardo diverso sui media israeliani. Nel 2009, quando Israele bombardò Gaza [operazione Piombo Fuso, dal dicembre 2008 al gennaio 2009, ndtr.] tutto divenne chiaro. Lo choc e la rabbia mi spinsero ad avviare un processo di comprensione più rigorosa della situazione. Da allora lì mi sono rapidamente unita alle manifestazioni a Bil’in e in altri villaggi della Cisgiordania e grazie ad amicizie e rapporti stretti laggiù, al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

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H. M.Perché questo tipo di impegno?

T. S. — Partecipare alle manifestazioni nei villaggi è stato soprattutto un atto spontaneo. Volevo incontrare queste persone che soffrono perché io possa vivere una vita soddisfacente. Volevo essere veramente lì per loro, in un modo che avesse un senso per loro. Volevo anche, in modo molto viscerale, esprimere il mio rifiuto di partecipare alla distruzione, il mio rifiuto di fronte al meccanismo di cancellazione e di controllo sistematico che è l’occupazione.

Unirmi al movimento BDS si è inserito nella logica di questo impegno. Il BDS mina il cuore stesso del sistema israeliano di oppressione attraverso il ricorso a un’analisi economica, istituzionale e culturale. Mettiamo in evidenza il modo complesso con cui le imprese, le istituzioni educative e culturali, il governo, l’esercito e le colonie sono collegati all’oppressione e la perpetuano. Esigiamo la fine di questa complicità, sottolineando che il quadro giuridico, politico e sociale esistente deve essere messo in pratica perché questa situazione cessi.

H. M.Durante queste manifestazioni come agiscono i soldati israeliani con voi? C’è una differenza di trattamento tra voi e i manifestanti palestinesi?

T. S.— La prima cosa da capire è che gli israeliani e gli attivisti internazionali non sono un bersaglio dei soldati. Quando sparano i soldati praticano il profilamento etnico, con una preferenza per i ragazzi e gli uomini. Se hai la pelle scura o la barba sei un bersaglio privilegiato. Tuttavia il solo fatto di stare insieme ai palestinesi durante una manifestazione può avere delle gravi conseguenze. Se sei troppo vicino rischi di essere arrestato o picchiato. In generale i soldati sono estremamente ostili e le loro reazioni vanno dalla villania alla brutalità. Gli israeliani che manifestano con i palestinesi sono considerati dei traditori. Ma nel complesso le conseguenze per noi sono meno pesanti e gli arresti più brevi e meno brutali.

Ciò detto, le conseguenze personali non sono trascurabili. Nei miei otto anni di proteste sono stata ferita, arrestata, imprigionata e ho visto degli amici feriti con danni permanenti. Un momento particolarmente significativo è stato quando sono stata liberata sotto cauzione grazie ad amici palestinesi. Mentre uscivamo dal posto di polizia, il comandante che mi aveva arrestata mi ha detto che avrebbe preferito sparare a me piuttosto che a loro, perché loro li capiva, mentre io ai suoi occhi ero una traditrice.

H. M.Che difficoltà e ostacoli ha trovato dal punto di vista personale, familiare, istituzionale? Il suo impegno ha avuto un impatto sulla sua vita?

T. S.— Io sono probabilmente più fortunata della maggioranza delle altre persone a questo proposito. Sono una libera professionista e non ho rapporti o legami istituzionali. Per quanto riguarda la mia famiglia ci siamo sforzati di mantenere la pace in casa. È tutt’altro che una situazione ideale, ma ci siamo posti dei limiti accettabili entro i quali possiamo vivere tutti. Il mio impegno è comunque cambiato perché, dopo aver preso coscienza della brutalità della colonizzazione, non potevo continuare lungo la strada che avevo intrapreso fino ad allora. Mi sono dedicata quasi interamente alla lotta palestinese contro la colonizzazione. Ciò ha cambiato la mia visione della vita, la cerchia di amici, il mio percorso professionale e il contesto in cui ho scelto di vivere. Sono diventata critica, non solo della violenza che mi circonda, ma anche del sistema socio-economico che la perpetua. I miei amici e le persone che mi sono vicine sono tutti militanti. Ho abbandonato il sogno della mia vita, diventare un’artista, per accettare un lavoro qualunque e poter agire in questo modo. Ho anche scelto di vivere a Ramallah. Se a 18 anni mi avessero detto che a 38 anni avrei vissuto lì sarei rimasta sconcertata.?

H. M.Nota dei punti in comune tra i militanti israeliani che frequenta?

T. S.— È un percorso molto personale, che resta unico per ciascuno di noi. Ognuno proviene da contesti socio-economici, razziali, sessuali e religiosi diversi. L’adesione al movimento è individuale, con punti di partenza differenti per ognuno. Se sapessimo come riprodurre dei fenomeni di dissidenza interna, lo faremmo.

H. M.Come siete accolti dai palestinesi? Come lavorate con militanti palestinesi?

T. S.— Viviamo una relazione tra gruppi oppressi e alleati privilegiati. I palestinesi sono stati molto gentili e pazienti. Hanno accettato le nostre azioni di solidarietà e ci hanno permesso di partecipare direttamente alle loro campagne. È un rapporto molto delicato, che si basa sul nostro impegno a non tradirli, e sulla loro fiducia. È anche un rapporto diseguale, in cui loro hanno tutto da perdere e in cui noi arriviamo con un “credito di militanza”. È una realtà che deve essere riconosciuta. Noi rifiutiamo ogni approccio feticista e insulso, che il più delle volte serve a depoliticizzare i rapporti e a perpetuare la supremazia e gli abusi. Quando gli israeliani si guadagnano la fiducia dei palestinesi stringono delle vere amicizie.

H. M.La società israeliana è ricettiva nei confronti delle vostre azioni?

T. S.— Un maggior numero di persone firma il nostro appello al boicottaggio dall’interno. Attraverso le reti sociali abbiamo anche osservato che sempre più gente di sinistra è d’accordo con l’idea del boicottaggio. Tuttavia osservo un’evoluzione nella sinistra israeliana: oggi essa ha una comprensione più vasta del rapporto tra la colonizzazione e l’economia. Ci sono delle voci nuove, delle nuove alleanze, una maggiore apertura al movimento BDS. Ciononostante, anche se la sinistra si è evoluta, rimane ancora una parte marginale della società israeliana. D’altronde è questa constatazione che può portare molti ad unirsi al movimento BDS.

H. M.Le istituzioni israeliane (polizia, esercito, servizi di sicurezza) vi permettono di agire liberamente?

T. S.— Non penso che le autorità israeliane accordino per loro stessa natura questa libertà. Per quanto riguarda il modo in cui ostacolano le nostre libertà, ciò dipende. Diverse leggi impediscono la libertà di espressione, in particolare la legge che definisce il BDS un “reato civile”. Ciò ci può portare a dover pagare multe di decine di migliaia di shekel [1 shekel = 0,25 euro]. La questione della nostra possibilità di agire dipende molto dalla visibilità o meno delle nostre azioni per le autorità. Ci sono più probabilità di essere arrestati durante una manifestazione che per aver scritto una mail nell’intimità della nostra casa a un fondo pensioni per chiedergli di disinvestire dal mercato israeliano. I meccanismi di dissuasione ci sono. Poi è solo una questione di impegno.

H. M.Lei osserva un allontanamento morale e politico degli ebrei americani rispetto alla politica israeliana?

T. S.— Non penso affatto che gli ebrei americani siano disinteressati alla politica israeliana. Sono stati educati nel sionismo quasi quanto gli israeliani. Ciò avviene attraverso la famiglia, ma anche attraverso le organizzazioni religiose e le ramificazioni dell’Agenzia Ebraica. Tra il campo filoisraeliano e i dissidenti non penso che si possa trovare un solo ebreo americano che non abbia in realtà un’opinione in proposito.

H. M.La società israeliana è comunque più complessa di come la si percepisce a volte all’estero, in particolare riguardo alla vivacità del dibattito…

T. S.— Se la società israeliana fosse disponibile alla discussione su queste questioni il dibattito ci sarebbe. Penso che ciò che è tabù viene sanzionato in modo aggressivo. È così in tutte le società. Questo non significa che noi non dovremmo cercare e che non cerchiamo di creare le condizioni per poter fare questa discussione. Ciò significa anche che, in base alle nostre risorse limitate, dobbiamo scegliere le nostre battaglie. Una vittoria ne porta un’altra. Ogni coscienza politica non è una cosa statica, ma piuttosto una dinamica continua.

H. M.Pensa che la soluzione a due Stati sia ancora possibile?

T. S.— Penso che il paradigma dei due Stati non avrebbe mai dovuto essere messo sul tavolo. È un consolidamento della colonizzazione. Ora, la colonizzazione è la dominazione o l’espulsione di una popolazione etnicamente identificata e la sua sostituzione con un’altra popolazione. Questo paradigma fallisce dopo il 1949. Israele, nonostante le apparenze, è uno Stato fallito che non riesce ad assicurare il benessere e neppure la sopravvivenza di milioni di esseri umani sotto il suo regime. Tuttavia pretende di non aver alcun obbligo giuridico nei loro confronti. Avrebbe dovuto essere creata una missione di pace per proteggere le popolazioni, permettere il ritorno immediato dei rifugiati. Avrebbero dovuto essere intraprese delle iniziative diplomatiche serie per giudicare gli autori di quei crimini. Tutto il paradigma della partizione era destinato a fallire.

H. M.Cosa pensa dell’attuale contesto politico israeliano? Sembra in grado di proporre una soluzione?

T. S.— L’attuale contesto israeliano non sembra in grado di proporre altro che un genocidio. Non è un’iperbole. Le elezioni si giocano tra Netanyahu, il promotore del piano di annessione Trump-Kushner, e Benny Ganz, che si vanta di aver “riportato Gaza all’età della pietra”, come se fosse un merito politico. Non penso che si debba chiedere a loro di trovare delle soluzioni al problema delle violenze che stanno perpetrando.

L’unica soluzione è la cessazione immediata della violenza e la rimozione dal potere degli autori di questi atti. Benché ci siano forze di opposizione, principalmente i partiti palestinesi, è poco, è come tappare con un dito una diga che sta crollando. Ma non è che a questa condizione che si potrà cominciare a prendere in considerazione delle azioni di riparazione e di responsabilizzazione. Tutto ciò dovrà essere fatto dalle vittime e incoraggiato dalla comunità internazionale.

Hassina Mechaï

Giornalista, coautrice con Sihem Zine de L’état d’urgence (permanent) [Lo stato d’emergenza (permanente)], uscito nell’aprile 2018, Edizioni Meltingbook (Parigi).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Attivisti di Palestine Action e di Extinction Rebellion bloccano una fabbrica di armi israeliana.  

Palestine Action      

 2 febbraio 2021 – Mondoweiss  

Otto attivisti di Extinction Rebellion North e Palestine Action sono stati arrestati ieri dopo avere sbarrato tre ingressi di una fabbrica di armi israeliana a Oldham, Gran Bretagna.

 

Nota dell’editore: il seguente comunicato stampa è stato rilasciato da Palestine Action il 2 febbraio 2021. Mondoweiss pubblica saltuariamente comunicati stampa e dichiarazioni di diverse organizzazioni con lo scopo di richiamare l’attenzione su temi altrimenti ignorati.

Ieri sono stati arrestati otto attivisti di Extinction Rebellion North [movimento ecologista internazionale, ndtr.] e Palestine Action per avere causato danni ammontanti a 20.000 sterline [circa 23.000 euro] dopo avere bloccato una fabbrica di armi israeliana a Oldham, Gran Bretagna. Gli attivisti hanno preso d’assalto la fabbrica nelle prime ore del mattino di lunedì 1^ febbraio – sei di loro hanno bloccato tre ingressi e altri due sono saliti sul tetto.

 

Lo stabilimento della Ferranti Technologies, proprietà di Elbit Systems, la maggiore industria bellica israeliana, è stata pitturata con vernice rossa, ha subito alcune finestre spaccate e la perdita dell’insegna “Cairo House”. L’azione ha riscosso ampi consensi, compresi quello di Roger Waters, cofondatore dei Pink Floyd, e del gruppo nazionale di Extinction Rebellion.

 

Durante le sedici ore di occupazione della fabbrica la polizia ha impedito la presenza di osservatori legali, minacciando di multarli o arrestarli in base alle vigenti normative anti-Covid 19 se non avessero sgombrato il campo. Gli attivisti che hanno resistito più a lungo sono stati i due sul tetto, i quali, dopo essersi rifiutati di scendere dalla loro posizione, sono stati trascinati giù ed arrestati mentre, avvolti in bandiere palestinesi, urlavano “Palestina Libera”. Erano circa le 6 del pomeriggio, sedici ore dopo che la fabbrica era stata occupata e la produzione interrotta.

In seguito alla protesta, martedì 1^ febbraio la pagina Facebook di Palestine Action è stata rimossa, con il pretesto che il gruppo “viola le regole della nostra comunità”. Palestine Action ha accusato Facebook di prendere di mira in modo discriminatorio gli attivisti per i diritti umani in Palestina, visto che gli unici post pubblicati lunedì erano quelli dei video in streaming condivisi con la pagina di Extinction Rebellion North, che invece non ha subito conseguenze.

 

Gli otto attivisti si trovano tuttora in stato di fermo. L’assedio della fabbrica è stato il primo caso di collaborazione fra Extinction Rebellion e Palestine Action. I due gruppi di azione diretta si sono impegnati ad intensificare i propri interventi fino alla chiusura definitiva di Elbit Systems e all’eliminazione di ogni ingiustizia sistemica.

Commentando il blocco della fabbrica di Oldham e la censura operata da Facebook contro l’attivismo per i diritti umani in Palestina, un membro di Palestine Action ha dichiarato:

“L’azione di ieri è stata un grande successo e dimostra la forza derivante dall’alleanza fra diversi movimenti, specialmente quando l’umanità e il mondo in cui viviamo si trovano ad affrontare le peggiori sfide alla propria esistenza. Questo non è che l’inizio di tali azioni, onoreremo l’impegno di continuare ad intensificare le nostre attività insieme con Extinction Rebellion per chiudere per sempre Elbit.

Facebook ha sistematicamente censurato i nostri post, dicendo che incitiamo al male, quando invece promuoviamo azioni dirette contro una fabbrica di armi colpevole di estrema violenza in quanto testa le sue armi sui bambini palestinesi prima di esportarle ad altri regimi oppressivi nel resto del mondo. Facebook non riuscirà a zittirci né fermerà il nostro fondamentale lavoro finalizzato alla chiusura di Elbit”.


Parlando dal tetto della fabbrica ieri, gli attivisti di Extinction Rebellion North hanno denunciato la produzione da parte di Elbit di armi “illegali”, il ruolo dei droni nella videosorveglianza contro i profughi e la nefasta tecnologia di simulazione prodotta nella fabbrica ad Oldham, che insegna ai piloti a bombardare gli obiettivi usando simulazioni dei bombardamenti dell’esercito israeliano a Gaza.

La dichiarazione prosegue:

Questo non riguarda solo la Cisgiordania, questo non riguarda solo Gaza, questo riguarda tutte le vite innocenti, tutti i civili innocenti uccisi dall’impresa che gestisce questo edificio.

Pertanto siamo qui in quanto partecipiamo alla collaborazione fra queste due associazioni, e siamo consapevoli della necessità di lavorare insieme come movimento di azione diretta per combattere per il cambiamento e la giustizia sociale; questo include lottare contro il sistema che permette l’esistenza dei combustibili fossili e delle industrie di armamenti.”

  

Negli ultimi sedici anni Elbit Systems UK ha creato una vasta rete nel Regno Unito con l’apertura di dieci stabilimenti in Inghilterra e nel Galles, comprese quattro fabbriche di armi. Ferranti Technologies ad Oldham è stata acquisita da Elbit Systems per 15 milioni di sterline [circa 17 milioni di euro] nel 2007. Le componenti di armi prodotte da Elbit Ferranti includono sistemi di intercettazione per droni.

  

L’obiettivo di Palestine Action è fare chiudere le attività a Elbit UK; dal suo inizio nell’agosto 2020 la campagna ha colpito circa quaranta volte le sedi della ditta, oltre a quelle di LaSalle Investment Management, proprietaria dei siti. Fra queste azioni ricordiamo la chiusura per ben tre volte di UAV Engines a Shenstone (la più clamorosa delle quali sarebbe costata 145.000 sterline [circa 165.000 euro] alla compagnia) e una serie di proteste e occupazioni del quartier generale di Elbit a Londra.

  

Extinction Rebellion è una rete internazionale apolitica che attraverso l’utilizzo di azioni dirette nonviolente cerca di persuadere i governi ad affrontare in modo corretto ed efficace l’emergenza climatica ed ecologica. In generale la missione di Extinction Rebellion North è mobilitare il 3,5% della popolazione per conseguire un cambiamento di sistema. Il gruppo costituisce e collega in tutta la regione comunità resilienti che lavorano insieme e si sostengono reciprocamente, con l’obiettivo di creare un mondo accogliente per le future generazioni.

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Il Ministro della Sanità israeliano paragona il suo obbligo di vaccinare i palestinesi a quello che hanno i palestinesi di prendersi cura dei “delfini del Mediterraneo”

Philip Weiss

24 gennaio 2021 Mondoweiss

Quando Andrew Marr, giornalista e presentatore della BBC, ha incalzato il Ministro israeliano della Sanità Yuli Edelstein chiedendogli perché Israele non estenda il suo piano di vaccinazione ai palestinesi che vivono nei territori occupati, Edelstein ha affermato che l’obbligo che Israele ha nei loro confronti è equivalente a quello del suo omologo palestinese “di prendersi cura dei delfini del Mediterraneo.” Sì, avete sentito bene. 

Ecco quello che si sono detti. Sorprende che i servizi sui media USA parlino delle percentuali israeliane di vaccinazione come qualcosa da prendere a modello. (uno per tutti, Richard Engel di NBC)

Marr: L’ONU ha dichiarato che siete legalmente tenuti ad assicurare un accesso rapido e paritario ai vaccini anti Covid-19 ai palestinesi che vivono sotto occupazione. Perché non lo fate?

Edelstein: Per quanto riguarda i vaccini, penso che l’obbligo di Israele valga prima di tutto nei confronti dei propri cittadini. Non pagano forse le tasse per questo? Ma ciò detto, ricordo pure che è nostro interesse – non un obbligo legale – che è nostro interesse fare in modo che i palestinesi abbiano il vaccino e non trasmettano il Covid-19.

Marr: Capisco, ma i palestinesi vi hanno chiesto i vaccini e voi non glieli avete dati, e secondo la Convenzione di Ginevra, la 4^ Convenzione di Ginevra, Israele ha l’obbligo di farlo. Posso leggerglielo. L’articolo 56 dice che Israele “deve adottare e fornire le misure di profilassi e prevenzione necessarie a combattere la diffusione di malattie ed epidemie in collaborazione con le autorità locali.” Ecco, questo significa il vaccino. Perché non gli fornite il vaccino?

Edelstein: Direi che prima di tutto dovremmo analizzare anche i cosiddetti Accordi di Oslo laddove si dice chiaro e tondo che i palestinesi devono badare loro alla propria salute.

Marr: Scusi se la interrompo nuovamente, ma l’ONU afferma che su questo la legge internazionale prevale sugli Accordi di Oslo.

Edelstein: Se è responsabilità del Ministro della Sanità israeliano prendersi cura dei palestinesi, allora quale è esattamente la responsabilità del Ministro della Salute palestinese? Prendersi cura dei delfini del Mediterraneo?

Marr: Scusi, lasci che le dica che anche molti dei vostri stessi cittadini pensano che dovreste fare di più. Duecento rabbini hanno dichiarato in una petizione: “Un imperativo morale dell’ebraismo richiede di non mostrarci indifferenti nei confronti delle sofferenze del prossimo, ma di mobilitarci e offrire il nostro aiuto nel momento del bisogno.” Hanno ragione i rabbini o no?

Edelstein: Direi che i rabbini hanno sempre ragione, ma aggiungo anche che è esattamente per questo motivo che quando i palestinesi e le loro unità mediche si sono rivolti a noi per questioni sanitarie, ho autorizzato la fornitura di qualche vaccino alle equipe mediche della Autorità Nazionale Palestinese che hanno in cura pazienti Covid. Come è chiaro da questa intervista, non l’ho fatto perché credo che abbiamo degli obblighi legali in tal senso, ma perché mi rendo conto che in questa fase ci sono medici ed infermieri che non ricevono il vaccino. 

 

Alcuni anni dopo un massacro israeliano a Gaza Jimmy Carter ebbe a dire che Israele tratta i gazawi come se fossero animali e per questo venne accusato di antisemitismo; stavolta il messaggio arriva direttamente da un israeliano.

Aggiungo che è impossibile immaginare che un giornalista di un’emittente USA sia duro come Marr nei confronti del Ministro della Sanità israeliano. Anche se quel giorno si avvicina.

La contraddizione fra le posizioni che prenderanno gli USA sui temi della diversità/parità e la loro relazione con il regime suprematista ebraico diventerà schiacciante nell’era Biden. Negli USA qualunque funzionario della sanità usasse un linguaggio simile a quello di Edelstein perderebbe il posto.

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




Il vaccino per il COVID-19: un’altra brutta faccia dell’apartheid israeliano

Yumna Patel

28 DICEMBRE 2020 – Mondoweiss

La distribuzione del vaccino per il COVID-19 illustra perfettamente il sistema dell’apartheid di Israele.

Quasi 400.000 israeliani sono già stati vaccinati contro il coronavirus e nelle prossime settimane altre decine di migliaia sono in procinto di esserlo.

Israele è stato uno dei primi Paesi al mondo ad iniziare a distribuire il vaccino per il COVID-19 alla sua popolazione e, secondo Our World in Data [Il nostro mondo in cifre, ndtr.], edito dall’Università di Oxford, è attualmente il secondo al mondo per numero di vaccinazioni pro capite.

Secondo i media israeliani il ministero della Sanità di Israele intende vaccinare già nel corso di questa settimana 100.000 israeliani al giorno e il primo ministro Benjamin Netanyahu si è spinto a sostenere che Israele sarà fuori pericolo “entro poche settimane”.

 

Il mese scorso Israele si è assicurato 8 milioni di dosi del vaccino Pfizer, sufficienti a coprire quasi la metà della popolazione di 9 milioni di israeliani, poiché ogni persona necessita di due dosi. Tra coloro che hanno il diritto di ricevere il vaccino dal governo israeliano ci sono i quasi 2 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

Tuttavia, gli oltre 5 milioni di palestinesi che vivono sotto il controllo dell’occupazione israeliana nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza, non sono autorizzati a ricevere il vaccino.

Le disparità tra i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana e i cittadini israeliani sono costanti, semplicemente un dato di fatto della vita quotidiana in Israele e Palestina – le leggi che favoriscono gli israeliani rispetto ai palestinesi e i sistemi che discriminano fortemente questi ultimi sono all’ordine del giorno e ampiamente documentati.

Il sistema di apartheid in base al quale Israele opera all’interno del territorio occupato, tuttavia, non potrebbe essere meglio dimostrato come nel caso del vaccino per il COVID-19: chi ottiene o no il vaccino è una semplice questione di nazionalità.

Dobbiamo in primo luogo essere molto chiari: con l’occupazione militare in Cisgiordania e con l’effettivo controllo israeliano di Gaza Israele è legalmente obbligato dal diritto internazionale a provvedere alla loro [dei palestinesi] assistenza sanitaria”, ha riferito a Mondoweiss la dott.ssa Yara Hawari, analista capo redattrice di Al -Shabaka: The Palestinian Policy Network [organo di informazione che sostiene il dibattito sui diritti e l’autodeterminazione dei palestinesi, ndtr.].

Israele è legalmente obbligato a fornire quel vaccino ai palestinesi sotto occupazione. Sappiamo che [Israele] non lo ha fatto”, dice, aggiungendo che Israele attribuisce tale responsabilità all’ANP [Autorità Nazionale Palestinese] quale fornitore dei servizi per i palestinesi.

Ciò costituisce una preoccupazione concreta“, riferisce Hawari a Mondoweiss. “Sappiamo che, se assegnato alla sola ANP, probabilmente sarà un processo molto lento.

Il “de-sviluppo” del sistema sanitario palestinese

A differenza del governo israeliano, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) non è stata in grado di garantire la quantità di vaccini necessaria per trattare gli oltre 3 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e i 2 milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza.

Mentre i funzionari dell’ANP hanno sostenuto di attendersi l’inizio dell’acquisizione dei vaccini nel corso delle prossime due settimane tramite l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), hanno [anche] affermato che potrebbero passare mesi prima che il vaccino venga distribuito alla popolazione.

Ancora non si conosce il tipo e la quantità di vaccini che i palestinesi riceveranno, poiché per la fornitura essi fanno molto affidamento sulle donazioni internazionali, e il governo palestinese non ha la capacità infrastrutturale per conservare vaccini come quello Pfizer alle basse temperature richieste.

Nel frattempo, i palestinesi continuano a vivere tra periodi interminabili di isolamento, mentre il virus imperversa in tutti i Territori Palestinesi Occupati, con tassi giornalieri di infezione dell’ordine delle migliaia e tassi di mortalità giornaliera a doppia cifra.

Hawari sostiene che l’incapacità dell’Autorità Palestinese di procurarsi e immagazzinare i vaccini, insieme al suo precario sistema sanitario, è una conseguenza dei decenni di danni che l’occupazione israeliana ha arrecato alle infrastrutture palestinesi.

“C’è questo ricorrente luogo comune secondo cui la ragione per cui il sistema sanitario palestinese o altri servizi come l’istruzione sono inefficienti e non stanno facendo il loro lavoro sarebbe legata all’incompetenza da parte del popolo palestinese o della sua cultura – questa opinione secondo cui essi sarebbero stupidi e non in grado di governare “, dice Hawari.

“Ovviamente non è così. Il regime israeliano ha sistematicamente preso di mira il sistema sanitario palestinese e ha contribuito al suo de-sviluppo“, afferma. “I palestinesi sono stati costretti a fare affidamento ad aiuti esterni e gli è stato impedito di essere autosufficienti da parte dell’occupazione [israeliana], con la compiacenza della comunità internazionale.

L’esempio più lampante di ciò, afferma Hawari, è Gaza, dove il sistema sanitario è da anni sull’orlo del collasso e non è stato in grado di resistere ad anni di bombardamenti e offensive israeliane.

Da anni gli ospedali di Gaza non sono in grado di occuparsi di ferimenti e malattie. Non potevano farcela prima del COVID, e ora il COVID ha esasperato la situazione rendendola dieci volte peggiore “.

L’apartheid in funzione

Mentre i palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana in Cisgiordania e Gaza non riceveranno vaccini dal governo israeliano, le centinaia di migliaia di coloni israeliani che vivono illegalmente in Cisgiordania vengono vaccinati ogni giorno.

Gli attivisti palestinesi e i loro sostenitori hanno lanciato l’allarme per la forte disparità tra chi viene vaccinato e chi no, affermando che questo non è altro che apartheid.

Quando si parla di cose come il vaccino per il COVID-19, “sembra esserci una falsa distinzione tra Israele e Palestina”, dice Hawari. “In realtà si tratta di un’unica entità in cui le persone [che si trovano] all’interno di quello spazio vengono trattate in modo diseguale.”

“Esiste un’enorme quantità di rapporti reciproci tra le popolazioni, ma livelli di potere totalmente squilibrati”, prosegue Hawari, indicando le decine di migliaia di lavoratori palestinesi che lavorano ogni giorno all’interno di Israele e delle colonie.

“L’economia israeliana fa affidamento su quella [forza lavoro]. Riceveranno anche il vaccino?” domanda. “In caso contrario ciò rappresenterebbe un rischio per Israele. Siamo popolazioni totalmente interconnesse, come avviene nelle popolazioni coloniali “.

È necessario fornire il vaccino a tutti e non dovrebbe esserci un’eccezione per la Palestina. Qualcuno lo ha detto perfettamente: non saremo al sicuro finché tutti non avranno accesso al vaccino. Questo non è un virus che conosce confini”.

Per quanto alcuni funzionari israeliani abbiano ventilato la possibilità di fornire in caso di necessità alcuni vaccini all’Autorità Nazionale Palestinese, Hawari ammonisce di non lasciarsi ingannare dalle false manifestazioni di generosità di Israele, affermando: “Sappiamo che presenteranno tale mossa come un grande atto di benevolenza e di cooperazione internazionale, ma essi non soddisferanno nemmeno i requisiti minimi previsti dal diritto internazionale”.

Hawari sottolinea il fatto che nel bel mezzo della pandemia i palestinesi hanno “visto molto poco dal regime israeliano in termini di aiuti e sostegno ai palestinesi e alla loro lotta contro il virus. E quando finalmente si sono coordinati per consentire forniture provenienti da donazioni internazionali, ciò è stato elogiato come una meravigliosa forma di cooperazione, quando è il minimo che gli si possa chiedere”.

“Abbiamo visto Israele fare ciò per decenni – Israele viene costantemente elogiato per aver permesso ai malati di cancro di Gaza di recarsi a Tel Aviv per il trattamento, ma fondamentalmente – dice – essi stanno imponendo l’assedio che impedisce a centinaia di abitanti di Gaza di ottenere le cure necessarie”.

“È un girare intorno molto abile su qualcosa che dovrebbero fare, ma che non fanno.”

Oltre alle domande sul destino dei palestinesi dei TPO riguardo l’arrivo del vaccino, attivisti palestinesi e organizzazioni per i diritti hanno espresso preoccupazione per la potenziale emarginazione delle comunità palestinesi in Israele in occasione della pratica della vaccinazione.

All’inizio della pandemia organizzazioni come Adalah [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.] hanno criticato il governo israeliano per aver emarginato le comunità palestinesi in luoghi come Gerusalemme est, dove gli ambulatori per i test sul coronavirus erano scarsi o addirittura inesistenti.

Hawari è certa che “assisteremo di nuovo a quei comportamenti” durante la procedura delle vaccinazioni.

“È ancora presto e il vaccino è appena uscito, ma se osserviamo la programmazione, [Israele] li distribuirà [i vaccini] negli ambulatori. E sappiamo che, naturalmente, nei villaggi e nelle città palestinesi del ’48 [cioè in territorio israeliano, ndtr.] il sistema sanitario è privato, quindi ci sono meno ambulatori e operatori sanitari, per cui – afferma – in quelle aree le procedure saranno più lente”.

“Sarà facile per il governo israeliano ignorarlo e dire ‘ogni cittadino israeliano è trattato allo stesso modo’, ma se guardiamo alla geografia, quelle comunità palestinesi sono state volontariamente ignorate riguardo le strutture sanitarie, gli ambulatori, e altre istituzioni essenziali”.

La Palestina e il sud del mondo

Mentre decine di Paesi in tutto il mondo, come Israele, Stati Uniti, Regno Unito e Paesi dell’UE iniziano a distribuire i loro vaccini alla popolazione, luoghi come la Palestina e altri Paesi del “Sud del mondo” sono rimasti indietro.

Anche prima che i vaccini arrivassero sul mercato, le Nazioni ricche hanno cominciato a fare scorta dei più promettenti vaccini contro il coronavirus. Secondo organizzazioni come Amnesty International e Oxfam si stima che, nonostante ospitino solo il 14% della popolazione mondiale, le Nazioni ricche abbiano già acquistato il 54% delle scorte totali dei vaccini più promettenti al mondo.

Amnesty International ha affermato che entro la fine del 2021 le Nazioni più ricche avranno acquistato dosi di vaccino sufficienti per “vaccinare l’intera popolazione tre volte”, mentre circa 70 Paesi poveri “saranno in grado di vaccinare contro il COVID-19 solo una persona su dieci”.

“Ciò che sta accadendo a livello globale è fortemente esplicativo delle disuguaglianze strutturali che esistono in tutto il mondo”, afferma Hawari. “Luoghi come Gaza, dove è persino difficile mantenere i requisiti sanitari di base e il distanziamento sociale, dovrebbero avere la priorità al fine di prevenire la diffusione. Ma ovviamente non avranno la priorità a causa del predominio delle strutture di oppressione”.

“Il COVID ha messo in evidenza in tutto il mondo sistemi di disuguaglianza“, continua Hawari, e afferma di ritenere “quasi impossibile avere all’interno di questi sistemi giustizia e parità in campo sanitario”.

“Un passo nella giusta direzione, in particolare per quanto riguarda la Palestina, sarebbe che i palestinesi ricevessero immediatamente il vaccino, perché vivono un’esistenza precaria e costituiscono una comunità vulnerabile”, sostiene Hawari. “Questa priorità non dovrebbe essere esclusiva dei palestinesi, ma anche di altri Paesi del Sud del mondo. L’accesso all’assistenza sanitaria non dovrebbe dipendere dal fatto che sia o meno possibile permetterselo”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)