Come le università fungono da avamposti del controllo colonialista israeliano

Josh Ruebner

11 agosto 2020 – The Electronic Intifada

Enforcing Silence: Academic Freedom, Palestine and the Criticism of Israel [Imporre il silenzio: libertà accademica, Palestina e le critiche contro Israele], David Landy, Ronit Lentin e Conor McCarthy (a cura di), Zed Books (2020).

Oggi sono poche le persone in ambito accademico che possano raccontare meglio di Rabab Abdulhadi l’oppressione amministrativa e le aggressioni giudiziarie che sono pena e tormento per molti professori.

Abdulhadi, docente associata presso la San Francisco State University [università dello Stato della California], è stata oggetto di tre fallite denunce da parte del filoisraeliano Lawfare Project [organizzazione lobbystica filoisraeliana USA, ndtr.] intese a mettere a tacere la sua militanza per i diritti dei palestinesi.

La sua introduzione a questa raccolta di saggi sui tentativi di Israele e dei suoi sostenitori di zittire il dibattito accademico è appropriata: “Non vedo la mia vicenda come una questione privata o un’esperienza individuale: riflette e rappresenta storie comuni a noti intellettuali dentro e fuori l’ambito accademico che intendano esprimersi a favore della giustizia per la e nella Palestina.”

Il fatto che non abbia potuto contribuire al volume con un capitolo, come aveva precedentemente previsto, è proprio un esempio del fenomeno descritto in dettaglio nelle pagine del libro. Il tempo che avrebbe avuto a disposizione per scriverlo è stato impegnato a rispondere a un ricorso amministrativo inviatole con la minaccia di un’azione disciplinare a causa del suo impegno.

In un altro capitolo del volume David Landy, professore associato di Sociologia al Trinity College di Dublino, fa riferimento a questa strategia come “attacchi price tag [prezzo da pagare, termine usato da coloni israeliani estremisti negli attacchi contro i palestinesi, ndtr.] contro chi critica Israele, nel senso che chi critica sarà costretto a pagare per ogni critica fatta a Israele.”

Correttamente Landy identifica questi attacchi – il termine è preso dalle aggressioni dei coloni contro i palestinesi e le loro proprietà nella Cisgiordania occupata – “come estensione delle pratiche di controllo colonialista.”

Analogamente altri contributi al libro considerano la repressione di ogni discorso accademico critico nei confronti di Israele come una logica derivazione delle politiche di dominio del colonialismo d’insediamento contro il popolo nativo palestinese.

Ronit Lentin, docente associata di sociologia in pensione, anche lei del Trinity College di Dublino, specifica come Israele abbia “reclutato con successo professori universitari israeliani come collaboratori partecipi nella colonizzazione della Palestina.” Scrive che questo modello serve come “risorsa, o schema, per ostacolare la libertà accademica e la libera discussione sulla colonizzazione israeliana della Palestina nel resto del mondo.”

Altri tentativi di esportare il controllo colonialista di Israele sul popolo palestinese sono più sottili, come documenta Hilary Aked nel suo saggio sul proliferare dei dipartimenti di studi su Israele nelle università della Gran Bretagna.

Questi dipartimenti sono ben finanziati da una piccola congrega di donatori filo-israeliani a corollario della propaganda ufficiale “Brand Israel” [Marchio Israele] che intende “approfondire il discorso su Israele in modo che il Paese non venga visto solo attraverso la prospettiva della violenza di stato,” spiega Aked.

Eliminazionismo”

In questa raccolta sono ampiamente documentati in modo persuasivo gli attacchi ben finanziati e orchestrati contro il dibattito accademico critico con Israele.

Il caso di Steven Salaita ritorna continuamente in quasi tutti i saggi del libro. Salaita venne licenziato da un incarico appena ottenuto all’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign e cacciato dal corpo accademico per i suoi tweet “incivili” in risposta al massacro di bambini palestinesi da parte di Israele a Gaza nel 2014.

Il licenziamento di Salaita fu una propaggine delle “macchinazioni punitive degli eliminazionisti del colonialismo di insediamento,” scrive nel contributo più provocatorio ed importante del libro C. Heike Schotten, che insegna scienze politiche all’università del Massachussett di Boston.

La logica è quella di eliminare i nativi attraverso la totale assimilazione nella “missione civilizzatrice” del colonizzatore o con la loro cancellazione se si rifiutano.

Assunto per insegnare nel dipartimento di studi sui nativi, Salaita venne licenziato perché rappresentava [in quanto figlio di due immigrati ispanici ma di origine palestinese e giordana, ndtr.] e insieme sosteneva l’esistenza e la resistenza dei popoli nativi (in Palestina o altrove), e sono esattamente questa rappresentatività e questo sostegno ad essere inconcepibili,” afferma Schotten (corsivo nell’originale).

Anche l’influenza neoliberista, l’integrazione nella logica di mercato e la mercificazione delle università rende il corpo insegnante suscettibile di pressioni interne ed esterne affinché righi dritto su Israele.

Nick Riemer, docente di inglese e linguistica all’Università di Sidney, sostiene che le amministrazioni delle università utilizzano le lamentele dei sionisti come “strumento per il controllo sociale nei campus.”

Quelle rimostranze forniscono “argomentazioni contro membri del corpo docente che sono in genere anche impegnati in una serie di altre attività che li mettono regolarmente in conflitto con le autorità universitarie”, come la partecipazione sindacale e lo schierarsi apertamente contro l’amministrazione dell’università.

Sinead Pembroke, che ha conseguito un dottorato in sociologia all’University College di Dublino, critica il crescente ricorso a personale docente a contratto come misura per limitare i costi, privando molti accademici di un rapporto stretto con i colleghi e di protezione legale qualora vengano presi di mira per le loro opinioni politiche. In conseguenza di ciò molti si autocensurano.

Controintuitivo

Molti dei saggi del libro mettono in dubbio l’utilità di appellarsi alla libertà accademica per proteggere il dibattito sulla Palestina.

A prima vista ciò sembra controintuitivo, in quanto i docenti universitari potrebbero sostenere in modo credibile e convincente la loro prerogativa di fare ricerca, insegnare e parlare come meglio credono senza intromissioni.

Tuttavia questi stessi principi potrebbero essere utilizzati dai sionisti nella loro opposizione al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) in appoggio ai diritti dei palestinesi.

La nozione di libertà accademica “non offre la necessaria chiarezza politica per mostrare cosa sia effettivamente in gioco nella differenza tra i sostenitori e gli oppositori del boicottaggio,” scrive Riemer.

Invece, aggiunge Riemer, “la ragione più efficace per boicottare e difendere chi boicotta è porre fine all’apartheid contro i palestinesi,” chiedendo a chi propone il BDS di favorire un discorso fondato sui valori (corsivo nell’originale).

E, come nota John Reynolds, del dipartimento giuridico dell’Università Statale d’Irlanda Maynooth, la libertà accademica è utilizzata sempre più spesso dalla destra per dare corpo a razzismo e suprematismo. “Quando si tratta di esprimere posizioni anticolonialiste e antirazziste, la libertà accademica risulta vulnerabile e condizionata,” afferma.

Al contrario, “gli argomenti riguardanti la libertà accademica messi al servizio del colonialismo” hanno avuto una rinascita “che diffonde forme e progetti di destra molto particolari,” come l’apologia di atrocità colonialiste.

Studenti e governo

Questa raccolta avrebbe potuto prestare maggiore attenzione alla repressione sia amministrativa che fuori dalle università contro studenti che si organizzano per appoggiare i diritti dei palestinesi.

Gli studenti attivisti sono sottoposti a una sopraffazione forse ancor più dura rispetto al corpo docente, attraverso misure disciplinari amministrative, con i discorsi di monitoraggio di personale professionale filo-israeliano nei campus e con la deleteria schedatura da parte di siti in rete come “Canary Mission” [che si dedica a schedare, denunciare e calunniare chi sostiene la causa palestinese, ndtr.].

Il libro collettivo avrebbe anche beneficiato di un approfondimento sui tentativi autoritari del governo USA di assimilare le critiche contro Israele al fanatismo antiebraico con lo scopo di ridurre i finanziamenti alle università considerate troppo permissive nei confronti di discorsi che critichino lo Stato.

Questa problematica intrusione e prevaricazione del governo è incarnata da Kenneth Marcus, recentemente nominato sottosegretario per i diritti civili presso il ministero dell’Educazione USA.

Marcus ha aperto la strada alla strategia di sporgere reclami, con il ministero che sostiene falsamente che gli studenti ebrei vengono maltrattati e discriminati a causa delle critiche contro Israele nei campus.

Prestando servizio nell’amministrazione Trump, Marcus ha portato avanti questo programma pretestuoso con conseguenze potenzialmente di lunga durata Se non prende in considerazione queste pressioni da parte del governo, qualunque discussione riguardo al far tacere le università sulla Palestina è incompleto.

Josh Ruebner è professore associato del Dipartimento di Studi su Giustizia e Pace presso la Georgetown University [prestigiosa università privata USA con sede a Washington, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Lo Stato d’Israele contro gli ebrei

Cypel S., L’État d’Israël contre les juifs, La Découverte, Paris, 2020.

Recensione di Amedeo Rossi

16 aprile 2020

Sylvain Cypel è un giornalista ed intellettuale francese, a lungo inviato di Le Monde negli USA ed autore nel 2006 di un altro importante libro sul conflitto israelo-palestinese: “Les emmurés : la société israélienne dans l’impasse” [I murati vivi: la società israeliana nel vicolo cieco], non tradotto in italiano. Attualmente collabora con il sito Orient XXI di Alain Gresh.

Avendo vissuto a lungo durante la giovinezza in Israele e con un padre sionista, l’autore conosce bene la società e la politica di quel Paese. Non a caso il libro inizia con un ricordo familiare: nel 1990 l’ottantenne genitore gli disse: “Vedi, alla fine abbiamo vinto”, riferendosi al sionismo. “Mi ricordo”, scrive Cypel, “di essere rimasto zitto. E di aver tristemente pensato che quella storia non era finita e che dentro di lui mio padre lo sapesse.”

È proprio di questa riflessione iniziale che parla il libro. Chi segue assiduamente le vicende israelo-palestinesi vi troverà spesso cose già note. Molti degli articoli citati si trovano sul sito di Zeitun. Tuttavia, sia per la qualità letteraria che per la profondità di analisi il lettore non rimane deluso. Ogni capitolo è introdotto da un titolo ricavato da una citazione significativa da articoli o interviste che ne sintetizza molto efficacemente il contenuto: dal molto esplicito “Orinare nella piscina dall’alto del trampolino”, per evocare la sfacciataggine di Israele nel violare leggi e regole internazionali, a “Non capiscono che questo Paese appartiene all’uomo bianco”, riguardo al razzismo che domina la politica e l’opinione pubblica israeliane, fino a “Sono stremato da Israele, questo Paese lontano ed estraneo”, in cui l’autore descrive il sentimento di molti ebrei della diaspora nei confronti dello “Stato ebraico”.

Da questi esempi si intuisce che gli argomenti toccati nelle 323 pagine del libro sono molto vari e concorrono ad una descrizione desolante della situazione, sia in Israele che all’estero, ma con qualche spiraglio di speranza.

Cypel denuncia l’incapacità dell’opinione pubblica e ancor più della politica israeliane di invertire la deriva nazionalista e etnocratica del Paese. Ne fanno le spese non solo i palestinesi e gli immigrati africani, stigmatizzati da ministri e politici di ogni colore con epiteti che farebbero impallidire Salvini, ma anche gli stessi ebrei israeliani. Non a caso uno dei capitoli si intitola “Siamo allo Stato dello Shin Bet”, il servizio di intelligence interno. Sono colpiti i dissidenti israeliani, come Ong e giornalisti, le voci che si oppongono alle politiche nei confronti dei palestinesi e delle minoranze in generale, e quelli all’estero, come i sostenitori a vario titolo del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele). Quest’ultimo viene indicato nel libro come una reale ed efficace minaccia allo strapotere internazionale della Destra, termine che include quasi tutto il quadro politico israeliano. Varie leggi proibiscono l’ingresso e cercano di impedire il finanziamento di queste voci dissidenti, mentre Israele promuove anche i gruppi più esplicitamente violenti e razzisti, tanto che Cypel parla di un “Ku Klux Klan” ebraico. A proposito di un episodio di censura a danno di B’Tselem da parte della ministra della Cultura Miri Regev, l’autore cita la presa di posizione critica persino dell’ex-capo dello Shin Bet Ami Ayalon: “La tirannia progressiva è un processo nel quale uno vive in democrazia e, un giorno, constata che non è più una democrazia.”

Ciò non intacca minimamente l’incondizionato sostegno degli USA di Trump come quello, anche se meno esplicito, dell’UE. Questa corsa verso l’estrema destra è dimostrata anche dagli ottimi rapporti tra il governo israeliano e gli esponenti più in vista del cosiddetto “sovranismo”: oltre a Trump, il libro cita altri presidenti delle ormai molte “democrazie autoritarie” in tutto il mondo. Ancora peggio avviene in Europa, dove i migliori amici di Netanyahu sono anche esplicitamente antisemiti: Orban in Ungheria e il governo polacco, persino Alternative für Deutchland, partito tedesco con tendenze esplicitamente nazistoidi, oltre a Salvini e all’estrema destra francese, hanno ottimi rapporti con i governanti israeliani. Questi personaggi sono stati accolti al Museo dell’Olocausto per mondarsi dall’accusa di antisemitismo e poter continuare a sostenere posizioni xenofobe e razziste. Non è solo l’islamofobia a cementare questa alleanza. È il comune richiamo al suprematismo etnico-religioso che fa di Israele un modello per questi movimenti di estrema destra, ed al contempo lo “Stato ebraico” ne rappresenta la legittimazione: se può disumanizzare palestinesi e immigrati e può opprimerli impunemente, violando le norme internazionali che dovrebbero impedirlo, perché non potremmo fare altrettanto in Europa e altrove contro immigrati, musulmani, nativi? Riguardo alle giustificazioni di questa imbarazzante alleanza, Cypel cita quanto affermato da una deputata del Likud: “Forse sono antisemiti, ma stanno dalla nostra parte.” “Ovviamente”, aggiunge l’autore, costei è “una militante attiva della campagna per rendere reato l’antisionismo come la forma contemporanea dell’antisemitismo.”

A queste posizioni si adeguano le comunità ebraiche europee, in particolare in Francia, Paese in cui risiede la comunità della diaspora ebraica più numerosa dopo quella statunitense. Il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF) “formalmente rappresenta l’ebraismo francese; de facto, è in primo luogo il gruppo lobbysta di uno Stato estero e si vive come tale,” afferma il libro. Cypel attribuisce questo fenomeno alla mediocrità della vita culturale ebraica in Francia ed alla tendenza a rinchiudersi in quartieri ghetto, sfuggendo alla convivenza con le altre componenti della popolazione. Inoltre la tendenza al conformismo deriva anche dalla paura di venire isolati dal resto della comunità: “Le persone preferiscono non esprimere il proprio disaccordo, per timore di essere accusate di tradimento.” L’autore cita vari episodi di censura, persino il tentativo fallito da parte dell’ambasciata israeliana a Parigi e del CRIF di impedire la messa in onda su una rete nazionale di un documentario (peraltro senza neppure averlo visto) sui giovani gazawi mutilati dai cecchini israeliani. La motivazione? “Avrebbe potuto alimentare l’antisemitismo,” ha sostenuto l’ambasciata. Purtroppo lo stesso atteggiamento caratterizza le istituzioni della comunità ebraica italiana, o di quella britannica, come dimostrato dalla campagna di diffamazione contro Corbyn. Quindi sembra trattarsi di una posizione che riguarda buona parte dell’ebraismo europeo.

L’unico spiraglio di speranza all’interno del mondo ebraico viene invece dagli USA. Non solo, sostiene Cypel, non vi si è perso il tradizionale progressismo moderato, ma anzi l’occupazione e gli stretti legami tra Trump (legato a suprematisti, razzisti e fanatici religiosi) e Netanyahu hanno allontanato molti ebrei, soprattutto tra i giovani, dal sostegno incondizionato a Israele. Nei campus, afferma l’autore, circa metà dei militanti del BDS sono ebrei. Molti intellettuali ebrei si sono dichiarati contrari alla legge sullo “Stato-Nazione”, e, dopo l’approvazione di una norma che vieta l’ingresso in Israele ai sostenitori del BDS, più di 100 personalità importanti, tra cui alcuni esplicitamente filosionisti, hanno firmato una petizione di denuncia. Questo allontanamento si manifesta anche in un sostanziale disinteresse nei confronti dello “Stato ebraico”, oppure nella dissidenza religiosa da parte degli ebrei riformati, in maggioranza negli USA, secondo i quali il ruolo del popolo ebraico è quello di migliorare il mondo e l’umanità. Un obiettivo ben lontano da quello della supremazia etnico-religiosa rivendicata da ortodossi ed ultraortodossi in Israele.

Nonostante la sua superiorità incontrastata, secondo Cypel la società israeliana è in preda all’inquietudine e al pessimismo rispetto al futuro, all’“impotenza della potenza”. L’ha espressa chiaramente lo storico Benny Morris sostenendo una tesi apparentemente paradossale: “Tra trenta o cinquant’anni [i palestinesi] ci avranno sconfitti.” È la vaga percezione di vivere una situazione segnata dalla mistificazione, che fa provare a molti israeliani un senso di precarietà e di timore per il futuro, che però al momento gioca a favore di una destra sempre più estrema.

Il libro si chiude con un omaggio a Tony Judt, il primo importante intellettuale ebreo americano a sostenere l’opzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi. Nell’ottobre 2003 definì Israele uno Stato anacronistico, nel suo nazionalismo etnico religioso ottocentesco, di fronte alla sfida della mondializzazione.

Cypel conclude con un auspicio che non si può che condividere: “Quello che si può augurare agli ebrei, che siano o meno israeliani, è che prendano coscienza di questa realtà e ne traggano le conseguenze, invece di continuare a nascondere la testa sotto la sabbia.” Questo libro contribuisce a questo svelamento, e c’è da augurarsi che venga pubblicato anche in Italia.

(Le citazioni tratte dal libro sono state tradotte in italiano dal recensore)




Apeirogon: un altro passo falso colonialista dell’editoria commerciale

Susan Abulhawa

11 marzo 2020 – Al Jazeera

L’ultimo romanzo di Colum McCann mistifica la situazione della colonizzazione della Palestina presentandola come un ‘conflitto complicato’ fra due parti eguali.

Il regista hollywoodiano Steven Spielberg ha recentemente acquistato i diritti cinematografici di un romanzo su ” Israele Palestina ” prima della sua pubblicazione, fatto che potrebbe riportarci a vivere un momento culturale di un deplorevole deja vu.

A metà degli anni ’50, i potenti produttori di Hollywood finanziarono la stesura di un romanzo di Leon Uris per vendere all’immaginazione popolare occidentale le tesi filo-israeliane.

Il resultato fu “Exodus”, un best seller che diventò un blockbuster nelle sale. Narra una storia vera (una nave che trasportava rifugiati ebrei diretta in Palestina) che fu all’origine di un mito costruito ad arte – una terra senza popolo per un popolo senza terra – che serviva a metter in ombra i custodi indigeni di quella terra.

Era il romantico lieto fine di cui l’Europa aveva bisogno dopo il genocidio della propria popolazione ebrea. Milioni di persone se lo sono bevuto e l’hanno accettato come verità assoluta, per giunta con l’autorità della Bibbia.

Ma era una bugia, come adesso tutti sanno.

La Palestina aveva un’antica e articolata organizzazione sociale e quando i sionisti europei calarono sul loro Paese, commettendo massacri e pogrom ben documentati per espellere i palestinesi, questi invocarono invano l’aiuto del resto del mondo. Solo quando ci siamo organizzati in una guerriglia armata e abbiamo dirottato degli aeroplani il mondo è stato finalmente costretto a fare i conti con la nostra esistenza.

Non potendo più sostenere la tesi che la Palestina fosse sempre stata disabitata, i sionisti hanno cambiato la narrativa tramite innumerevoli film, libri e annunci pubblicitari che caricaturizzavano i palestinesi appiattendoli nell’unica dimensione di terroristi arabi irrazionali, immagini che persistono ancora nei media popolari.

Poi è arrivato Internet e i social hanno reso il mondo più piccolo. Di colpo, le masse hanno avuto accesso a video, foto, resoconti di testimoni oculari, media indipendenti, certificazioni delle violazioni dei diritti umani e relazioni ONU che mettevano a nudo la sadica oppressione dei palestinesi.

‘È complicato’ e altri miti mutevoli

Negli ultimi vent’anni Israele si è trovato in difficoltà nel tentativo di approntare una strategia per affrontare questa scoperta nota a tutti del suo marciume coloniale. È diventato più difficile nascondere l’umanità dei palestinesi.

Israele ha siglato un accordo con Facebook e collaborato con altre grandi compagnie di social media per censurare le pagine palestinesi; ha bollato i critici di Israele come antisemiti, distruggendo carriere e anche peggio; ha messo in piedi un “Progetto di guerra giudiziaria” per trascinare studenti e attivisti in tribunale; e, con successo, ha promosso all’estero leggi che criminalizzano le critiche a Israele.

Sul fronte culturale, Israele ha utilizzato delle campagne di pubbliche relazioni con le quali i suoi sostenitori hanno impregnato il discorso pubblico con citazioni quali: “è complicato” – un “conflitto” che “va avanti da migliaia di anni “.

Purtroppo ci viene propinato il racconto delle “due parti” come se la distruzione di una società indigena indifesa sia una questione di due parti uguali che semplicemente non si capiscono, ma che avrebbero solo bisogno di una spintarella, forse un po’ più di dialogo, per amarsi, e voilà! Kumbaya [“Vieni qui”, titolo di uno spiritual degli anni ’30, ndtr.], mio Signore.

Però nessuno di questi grandi sforzi ha smorzato la crescita della campagna del BDS, Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, un movimento globale di resistenza popolare che ha coinvolto, ovunque nel mondo, milioni di persone stanche della straordinaria impunità di Israele e della ininterrotta colonizzazione della Palestina.

In breve, nulla è riuscito a replicare lo spettacolare exploit pubblicitario di “Exodus”. Fino ad ora, forse.

Apeirogon

Entra Apeirogon.

Un apeirogon è un poligono con un numero infinito di lati. È anche il titolo dell’ultimo romanzo di Colum McCann, una specie di sostegno infinito al discorso di Israele dei “due lati”.

Il romanzo è più una biografia che un’opera di narrativa. È basato su una storia vera, quella di un’amicizia fra un palestinese e un israeliano. Bassam Aramin è un palestinese la cui figlia, Abir, fu uccisa con un colpo sparato alla testa da un soldato israeliano nel 2007 e Rami Elhanan è un israeliano la cui figlia, Smadar, fu uccisa in un attacco suicida nel 1997.

Il suo messaggio centrale è quello del potere dell’empatia ed entrambi i protagonisti hanno espresso un totale sostegno al libro. Io ho parlato con Bassam Aramin che mi ha informata che loro tre andranno insieme in tournée. Ma, come Exodus, racconta una storia vera per vendere una bugia molto più grande.

Colonizzatori e nativi

Immaginate questo, per prendere a prestito lo stile narrativo di McCann: da qualche parte nella Riserva di Pine Ridge, una ragazzina della Nazione Oglala Lakota, la cui testa viene fatta esplodere dal figlio irritabile di un colonizzatore bianco, muore dissanguata tra le braccia del padre che non può far nulla per lei. Un altro colonizzatore bianco fa amicizia con il padre della fanciulla nativa (deve essere su iniziativa dell’uomo bianco, perché il padre non può lasciare la riserva) e fra i due uomini sboccia un’amicizia basata sul dolore condiviso di aver perso una figlia. La figlia del bianco è stata uccisa da un gruppo di giovani guerrieri che avevano attaccato un insediamento che aveva invaso le loro terre. L’amicizia fra i due uomini è sincera. La perdita che ogni giorno li tormenta è la stessa.

Ed ecco che arriva uno scrittore che è così commosso dalla loro insolita amicizia, dalla storia che ci sta dietro e da quello che lui pensa rappresenti una speranza per il futuro della Nazione, da decidere di scrivere un libro su di loro. È una specie di tentativo di amplificare le voci di pace, nato dalla convinzione ostinata che si possa risolvere qualsiasi cosa tramite il benevolo entusiasmo di gente ben intenzionata.

Lo scrittore non cerca di nascondere gli orrori inflitti sui corpi dei nativi. Anzi, presenta la vera faccia della violenza e dei traumi inflitti dai colonizzatori. Ma qui sta il trucco: lui presenta la violenza di una ribellione dei nativi locali nello stesso modo e descrive l’insicurezza e la paura che i colonizzatori bianchi devono tragicamente subire quale conseguenza della resistenza indigena contro le loro colonie.

Vedete? C’è un’implicita equiparazione. Tutte le paure sono le stesse, tutta la violenza è la stessa, tutta l’insicurezza è la stessa. Il padre degli Oglala Sioux racconta allo scrittore di come, attraverso questa amicizia, sia riuscito a vedere, per la prima volta, l’umanità dei bianchi. L’uomo bianco gli dice lo stesso a proposito dell’umanità degli indigeni.

E così, il motore genocida del colonialismo americano che, insieme alla schiavitù, ne ha sostenuto l’intera economia, diventa semplicemente un grande malinteso, un problema da risolvere con il dialogo, l’empatia e la semplice comprensione che, come dice McCann, citando la rivelazione del suo protagonista palestinese: “Anche loro hanno delle famiglie.”

Sostituite i palestinesi con gli Oglala Lakota, la Palestina invece della Riserva di Pine Ridge e mettete gli israeliani al posto dei colonizzatori bianchi (anche se questi non hanno bisogno di essere sostituiti) e avrete, in poche parole, il romanzo di Colum McCann, molto pubblicizzato e molto atteso, che potrebbe diventare probabilmente un film di gran successo.

Voglio chiarire che non sto paragonando, o mettendo sullo stesso piano, forme o esempi di ingiustizia. Sto cercando di ribadire, usando un momento storico orrendo che è stato compreso solo retrospettivamente, che è il massimo della menzogna suggerire che le storie di relazioni individuali in circostanze in cui le differenze fra le forze sono enormi non sono altro che la normalizzazione di un evento secondario e certamente non una critica alle macchinazioni che sostengono un’oppressione strutturale.

Si può anche fare paragoni con l’apartheid in South Africa in un bantustan [territori semiautonomi in cui venivano relegati i nativi africani, ndtr.], o con il Belgio in Congo, o con la Germana nazista nel ghetto di Varsavia o con il Ku Klux Klan nel Mississippi. Dopotutto, anche i membri di quelle orribili istituzioni avevano delle famiglie, no?

Exodus 2.0

Apeirogon potenzialmente è un Exodus 2.0, una nuova versione, riorganizzata e adeguata alla crescente consapevolezza dell’opinione pubblica delle sofferenze palestinesi sotto il giogo di un inarrestabile orrore israeliano.

Ho chiesto a Bassam se l’avesse letto. “Ho provato, ma era troppo doloroso, ” ha detto. Riesco a capire perché, dato che McCann amplia i dettagli delle uccisioni delle due ragazzine, spargendone pezzetti qui e là in centinaia di pagine, aggiungendo un nuovo dettaglio ad ogni ripetizione, fino a che uno non è più così sorpreso da quello che era straziante da leggere molte volte nelle prime pagine. È un modo interessante per descrivere la normalizzazione della violenza, se questo è quello che McCann intendeva fare.

Intervallati nella storia, ci sono cuciti insieme pezzi diversi di informazioni, dai modelli di migrazione degli uccelli ai re antichi, dalla Cappella Sistina agli esplosivi, in una specie di profondità obbligata che mira a legare insieme tutte le cose, ovunque, in ogni tempo, tutto ciò che, in qualche modo, riguarda “Israele Palestina “.

In altre parole: “tutto è così tanto, tanto complicato.”

Prendete, per esempio, l’idea che il nucleo di ‘Fat Man’, la bomba atomica usata dagli USA per sterminare ogni cosa che si muovesse, ondeggiasse, saltasse, volasse o respirasse nella città di Nagasaki avesse “le dimensioni di un sasso che può essere lanciato ” (presumibilmente dalle mani di un ragazzino palestinese).

Il centro drammatico della peggiore paura di ogni genitore è intrecciato in questo vertiginoso caleidoscopio di banalità mondiali. Queste mi sarebbero piaciute se non agissero come uno specchietto per le allodole linguistico, offuscando quella che è veramente la più semplice, vecchia vicenda nella storia dell’umanità: un potente gruppo di persone ruba una terra, la colonizza e cerca di togliere di mezzo gli indigeni.

Le paludi di Hule

McCann dedica molto spazio del libro agli uccelli – le loro singole specie, i modelli delle migrazioni e le relazioni ornitologiche. Ma da nessuna parte cita che, all’incirca nel momento in cui Leon Uris stava scrivendo Exodus, Israele stava prosciugando le paludi di Hule, che chiamava una “palude malarica”. Il progetto era pubblicizzato come ingegnosità sionista. Gli ebrei europei dichiararono che stavano ” redimendo la terra ” che, dicevano loro, era stata lasciata andare in rovina dagli arabi arretrati.

In realtà, questi nuovi coloni europei distrussero un vasto tesoro della biodiversità regionale che era stato un grande luogo di sosta dove centinaia di milioni di uccelli migratori si rifocillano. Si stima che oltre 100 specie animali scomparvero dall’area o si estinsero.

Questo episodio della storia sionista è probabilmente l’analogia migliore con il libro di McCann: un progetto ambizioso per “redimere”, concepito da stranieri, che non sapevano niente del luogo, della sua storia ed ecologia; desiderosi di rimediare, civilizzare e avanzare delle pretese, ben intenzionati; fiduciosi della loro propria gloria, ma in realità profondamente pericolosi – in modo irreparabile per le vite dei più vulnerabili.

Rafforzando il concetto di “conflitto complicato” fra “due parti”, il libro racconta una scena in cui una soldatessa israeliana, brandendo una pistola, lega, insulta e picchia Bassam Aramin, disarmato, con le mani in alto in segno di resa con una macchia rosa sui palmi. Ore dopo, quando la soldatessa si rende conto che la macchia rosa veniva dai dolcetti della figlia di Bassam ammazzata e non da un esplosivo, è veramente dispiaciuta. Chi può biasimare la padrona della piantagione se, a ragione, è un po’ impaurita dei negri con palmi macchiati? Come se picchiare i palestinesi ai checkpoint non fosse abituale, o come se i cecchini israeliani non ci ammazzassero per sport, inneggiando quando fanno centro.”

Al lettore viene detto parecchie volte che Rami Elhanan Gold proviene da una famiglia “antica”, un abitante di Gerusalemme da “sette generazioni.” Ma non ci viene detto cosa ciò significhi.

Primo, Rami proviene da una piccola minoranza di ebrei israeliani che in realtà può far risalire la propria stirpe nel Paese a prima della Seconda Guerra Mondiale. Secondo, è parte di una minoranza persino più piccola, il cui lignaggio in Palestine risale a prima della Prima Guerra Mondiale. Terzo, gli antenati di Rami, come tutti i “popoli del libro” (quelli con religioni monoteiste) erano stati accolti e protetti in Palestina sotto il governo musulmano, durato oltre 1200 anni.

Quarto, nulla di tutto ciò impedì a Rami o ai suoi genitori di impugnare le armi contro i loro vicini non-ebrei quando il sionismo promise di dar loro potere e proprietà. Che slealtà.

Le storie che McCann sceglie di non rivelare sono, beh, rivelatrici.

Per la cronaca, io sono di Gerusalemme da almeno 22 generazioni. Israele mi ha buttata fuori dalla mia patria quando avevo 13 anni. Perché ero una “illegale”.

In nessun modo sapere che anche gli israeliani “hanno una famiglia ” mi costringerà mai ad accettare il mio esilio forzato.

Tali scomode verità, o persone scomode, non hanno un posto nelle narrazioni coloniali riduzioniste di empatia e dialogo.

Chi racconta la storia

Per anni, Spielberg e la sua famiglia hanno raccolto fondi e sostenuto Israele e la sua occupazione della Palestina. Che progetti di trasporre questo libro sul grande schermo è totalmente in linea con le sue dichiarazioni secondo cui darebbe la vita per Israele.

Io non capisco perché McCann gli abbia venduto i diritti. Temo che, proprio come gli uomini bianchi privilegiati hanno usato Exodus per vendere una montatura coloniale nel 1958, un nuovo gruppo di uomini bianchi privilegiati a Hollywood userà Apeirogon per vendere un nuovo capitolo culturale contemporaneo di menzogne colonialiste.

Io non conosco McCann, anche se sospetto che abbia scritto il suo libro con un senso di solidarietà e il desiderio di promuovere il “dialogo”. Ma è possibile fare grandi danni avendo le più nobili intenzioni. La retorica del dialogo può essere attraente, l’idea che parlare per trovare un’umanità comune sia tutto quello che ci vuole per smantellare il razzismo strutturale e le nozioni di supremazia etnocentrica. Può trasformare ogni tipo di persona, persino le vittime stesse, in persone che contribuiscono a diffondere l’ingiustizia.

Come ben sanno i palestinesi, avendo fatto proprio questo per quasi trent’anni, dialogo e negoziati hanno sempre favorito i potenti.

È chiaro che McCann abbia fatto lunghe ricerche, incluse lunghe conversazioni con i personaggi principali di questo libro e forse, presentando una storia vera, ha tentato di indicare la via in merito ai temi etici che riguardano l’appropriazione. Ma c’è un messaggio coloniale complessivo che si presta alla propaganda sionista. È come Jared Kushner che, dopo aver letto 25 libri, pensa che ciò lo qualifichi a fare l’“accordo del secolo”, una “soluzione” per accontentare “tutte le parti ” del “conflitto”.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione Mirella Alessio)




Nel suo nuovo libro Khalidi affronta la “narrazione egemonica” del nazionalismo ebraico

Steve France

17 febbraio 2020 – MondoWeiss

Cover of The Hundred Years War on Palestine: A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917–2017

C’era del fervore in Rashid Khalidi quando il 10 febbraio il decano degli storici palestinesi-americani si è rivolto ad una folla gremita nella prestigiosa libreria Politics & Prose di Washington DC. Ci ha detto che nel suo nuovo libro, “La guerra dei cent’anni contro la Palestina”, si è sfilato i guanti dell’accademico. “Questo libro è più personale”, ha affermato. Si basa sull’esperienza più che centenaria della sua illustre famiglia che ha assistito, opponendovisi apertamente, all'”invasione coloniale” del suo Paese, e continua tuttora attraverso il suo impegno di studioso che dice la verità.

Qualcuno è intervenuto per contestare a Khalidi il fatto che non fosse rimasto fedele al dovere di “obiettività” dello storico. Lui ha risposto: “Il fatto è che esiste una narrazione egemonica su Israele e la Palestina che assume la prospettiva occidentale e filo-sionista. L’ottanta percento di ciò che si dice sul’argomento negli Stati Uniti è collegato alla narrazione egemonica. Non è mio compito riproporre quella narrazione. Inoltre gli storici, appunto, di solito propongono un discorso o una tesi. Non dicono semplicemente: ‘Da un lato e dall’altro.’ “

Khalidi ha affermato che il libro si rivolge deliberatamente ai “comuni lettori americani”, che spesso non sanno quasi nulla su Palestina-Israele e, nella migliore delle ipotesi, vedono il conflitto come una tragedia di due popoli che lottano per il loro legittimo destino nazionale. Ma, sostiene, la vera storia è quella di una “conquista coloniale” da parte dell’Occidente nei confronti della piccola terra della Palestina – e una successiva repressione senza fine della resistenza palestinese. “I palestinesi sono David; Israele è Golia, con i suoi sostenitori esterni. ” Dal 1917, tra i sostenitori ci sono sempre state le potenze egemoni del mondo: la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica (nel periodo della competizione per l’egemonia) e la Francia (negli anni ’50). Altrettanto essenziale è stato il sostegno materiale e politico di vaste reti etniche e religiose di sionisti (si pensi ai sionisti cristiani).

Le persone devono comprendere che Israele è uno Stato colonialista, ha detto Khalidi, ma peculiare. I coloni ebrei europei – che si definivano letteralmente colonizzatori prima che il colonialismo cadesse in discredito dopo la seconda guerra mondiale – non provenivano da una “madre patria” e non facevano parte di un’altra Nazione, come la Gran Bretagna. Piuttosto, venivano da molti Paesi e facevano parte di un “movimento nazionale del tutto moderno”. La storia degli ebrei iniziò in Palestina ai tempi biblici, ma prima dell’invenzione del sionismo alla fine del 1800 “realizzare uno Stato Nazione non era ciò che gli ebrei avevano mai voluto”.

Nel 1899 lo zio trisavolo di Khalidi, Yusuf Diya al-Din Pasha al-Khalidi, comprese i motivi e gli obiettivi dei primi coloni sionisti. Ex sindaco di Gerusalemme, con ottima padronanza di turco, tedesco, francese e inglese, conosceva l’antisemitismo europeo e gli scritti del fondatore del sionismo, Theodor Herzl, in cui veniva chiesta la creazione di uno Stato ebraico. Mandò una lunga lettera in francese al rabbino capo francese perché fosse consegnata a Herzl, che aveva vissuto a lungo a Parigi. Esprimeva simpatia e comprensione per le aspirazioni sioniste. Ma avvertiva che sarebbe stata “una follia” cercare di imporre uno Stato ebraico ai palestinesi, che abitavano a pieno titolo la Palestina. Implorava Herzl di abbandonare tali intenzioni. Sottolineava che una tale mossa avrebbe compromesso le vaste comunità ebraiche che esistevano da tempo in tutto il Medio Oriente. La risposta di Herzl fu educata, ha detto Khalidi al suo pubblico, ma “semplicemente ignorò” il punto fondamentale di Yusuf Diya secondo il quale la Palestina era già abitata da persone che non volevano essere soppiantate.

E così ebbe origine l’atteggiamento persistente dei sionisti e degli Stati loro sostenitori, che ignorano i palestinesi ritenendoli insignificanti se non inesistenti. Su questo aspetto Khalidi ha citato come punti di riferimento la Dichiarazione Balfour del 1917 [lettera scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour con la quale il governo britannico si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, ndtr.]; il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito perché governasse la Palestina; la Risoluzione delle Nazioni Unite del 1947 che fu “stravolta nell’ambito dell’Assemblea Generale dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica”[la risoluzione 181 del 29 novembre 1947 venne stravolta dalle due grandi potenze a favore dei sionisti, ndtr.]; il via libera degli Stati Uniti a Israele nel 1967 per la conquista della Cisgiordania, di Gaza e delle alture del Golan dai vicini Stati arabi; la risposta delle Nazioni Unite a tale aggressione nella risoluzione 242; fino al “piano di pace” appena comunicato dal presidente Trump.

In conclusione, Khalidi ha affermato che “tutti i nazionalismi costruiscono una storia per darsi una giustificazione”. Ma la cosa “particolare e peculiare” nel caso di Israele è che “le sofferenze e le idee che hanno generato il colonialismo ebraico hanno tutte avuto luogo in Europa, ma sono state trasferite in Palestina”. In altre parole, per più di 100 anni il popolo palestinese ha avuto a che fare con un sogno nazionalista da parte degli ebrei, coltivato fuori dalla propria terra, [che consisteva] nel sottrarre le loro proprietà ed i loro diritti, la loro dignità e la loro vita.

All’inizio c’era la Palestina. Trasformarla nella “Terra di Israele” ha significato ignorare i palestinesi che lì vivevano, farli “scomparire” fisicamente quando possibile, e nel frattempo delegittimare la loro storia. Khalidi, erede di una famiglia antica e onorata, spezza l’incantesimo del sogno nazionalista ponendoci davanti all’esistenza del popolo palestinese, allora e adesso, e raccontando la sua storia agrodolce.

Steve France

Steve France è un giornalista e avvocato in pensione della zona di Washington DC. Attivista per i diritti dei palestinesi, è membro della Episcopal Peace Fellowship Palestine-Israel Network [Fratellanza episcopale per la pace – Rete Palestina-Israele] e altri gruppi cristiani di solidarietà con i palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 




“Queste catene saranno spezzate”: il libro di Ramzy Baroud sui prigionieri palestinesi – Recensione del libro

Michael Lescher

10 febbraio 2020 – Palestine Chronicle

(These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons [Queste catene verranno spezzate: storie palestinesi di lotta e resistenza nelle carceri israeliane], di Ramzy Baroud, Clarity Press, Inc., 2020)

Fyodor Dostoevsky ha scritto che “il grado di civiltà in una società può essere giudicato visitando le sue prigioni” – un’osservazione in nessun luogo più tristemente vera che in una società la cui stessa esistenza comporti il confinamento di un altro popolo. Il nuovo libro di Ramzy Baroud, “These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons”, illustra con una straziante immediatezza il motivo per cui la Palestina contemporanea si riveli nel modo più chiaro all’interno delle prigioni che Israele ha costruito per coloro che resistono alla sua occupazione della loro terra. Viste attraverso il libro di Baroud, queste gabbie raccontano una doppia storia: da un lato, lo squallore di una società eretta sulle fondamenta di un’espropriazione; dall’altro, l’aspra determinazione dei palestinesi che, contro ogni previsione, si rifiutano di essere cancellati dalla storia.

“These Chains Will Be Broken” è una raccolta di testimonianze di prima mano che descrivono le esperienze dei detenuti palestinesi, prese o dai prigionieri stessi o da altri che li conoscono da vicino. (La storia di Faris Baroud, argomento del capitolo finale del libro e di un lontano parente dell’autore, è raccolta dagli scritti di sua madre Ria, morta nel 2017; suo figlio è morto quasi due anni dopo, ancora dietro le sbarre.)

Baroud, giornalista, studioso e consulente nel settore dei media, ha dedicato diversi precedenti libri alla lotta palestinese vista dal punto di vista degli stessi palestinesi. In “These Chains Will Be Broken”, fa un ulteriore passo avanti, tenendo sospesa la propria voce narrante in modo che i detenuti possano raccontare la propria storia a modo loro, trasportando così il lettore direttamente nella loro esperienza. Il risultato è un toccante e profondamente inquietante promemoria su come, in fondo, la storia della Palestina sia un costante ripetersi di prigionia e resistenza.

“La prigionia”, scrive Khalida Jarrar (lei stessa una dei protagonisti del libro) con una premessa illuminante, “rappresenta una posizione morale che deve essere presa ogni giorno e non può mai essere lasciata alle proprie spalle”. Che sia un avvertimento: il lettore di “These Chains Will Be Broken” è ripetutamente costretto ad assumere tale posizione morale mentre, capitolo dopo capitolo, i prigionieri palestinesi mettono a nudo le loro privazioni, le loro speranze, le loro delusioni e la loro determinazione a resistere.

Perfino quelli che hanno familiarità con le realtà della lotta possono trovarsi impreparati alle sue asprezze se le percepiscono, come accade a questi palestinesi, dietro le mura della prigione piuttosto che sepolte dentro la rete della propaganda israeliana. In un articolo denigratorio pubblicato (ahimè) dalla prestigiosa Yale University Press nel 2006, il portavoce della WINEP [organizzazione di esperti americana con sede a Washington DC che si occupa della politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, ndtr.] Matthew Levitt ha liquidato con poche parole Majdi Hamad definendolo “un terrorista di Hamas condannato all’ergastolo per aver ucciso a Gaza dei compagni palestinesi, presumibilmente sospetti informatori.” Ma quando Hamad compare per la prima volta nel libro di Baroud attraverso gli occhi del compagno prigioniero Mohammad al-Deirawi, dà un’impressione molto diversa: “Veniva trascinato nella sua cella nel carcere sotterraneo di Nafha da un buon numero di guardie armate. Lo picchiavano e lo prendevano a calci dappertutto e, nonostante le sue catene, reagiva come il leone che era. Il suo volto era coperto di sangue. “(Apprendiamo dal libro che questo “leone” è anche “dolce e gentile con i suoi compagni”.)

Allo stesso modo i lettori occidentali possono essere sorpresi della dignità dello stesso al-Deirawi, a cui, dopo aver ricevuto una condanna a 30 anni in un tribunale militare israeliano, viene chiesto dal giudice non se abbia qualcosa da dire ma se sia disposto a “chiedere scusa”.

“Non ho nulla di cui scusarmi”, così al-Deirawi riferisce di aver risposto al giudice. “Non mi scuserò mai per aver resistito all’occupazione, per aver difeso il mio popolo, per aver lottato per i miei diritti rubati. Ma dovete scusarvi voi, e devono scusarsi coloro che demoliscono le case mentre i loro proprietari sono ancora dentro. Coloro che uccidono i bambini, che occupano la terra e commettono crimini contro persone disarmate e innocenti, sono loro che devono scusarsi.” “La mia risposta non gli è piaciuta”, aggiunge al-Deirawi, in uno dei rari momenti di ironia del libro.

I racconti nella raccolta di Baroud contengono descrizioni inevitabili di torture e maltrattamenti, ma alcuni dei dettagli più sconvolgenti riguardano atti di sadismo del tutto gratuito. Una guardia si offre di portare una tazza di tè a un prigioniero e poi versa acqua bollente sulla sua mano tesa. Una caviglia ridotta in frantumi viene “trattata” con un impacco di ghiaccio. Ad un minore incarcerato viene falsamente detto, la notte prima della sua liberazione, che sta per essere condannato all’ergastolo. Una donna tenuta in isolamento è costretta ad osservare un gatto con cui ha stretto amicizia mentre muore insieme ai suoi cuccioli dopo che sono stati avvelenati dalle guardie.

Per di più, i racconti dei prigionieri confermano che queste non sono azioni isolate; nascono dalla logica di un sistema progettato per disumanizzare le sue vittime e anche per intimidirle. Prigioniero dopo prigioniero, per esempio, offrono una descrizione orribile della “bosta” – il veicolo speciale usato per trasportare i palestinesi dalla prigione al tribunale militare e viceversa. La stravagante crudeltà di questa prigione su ruote non ha uno scopo dal punto di vista giudiziario; evidentemente per i loro carcerieri tenere i palestinesi rinchiusi in posizioni anguste, ammanettati e incatenati, dentro minuscole gabbie di metallo surriscaldate per 8-12 ore ogni volta, è fine a se stesso.

Ma tutto questo è solo una parte della storia raccontata nella raccolta di Baroud. Ci sono momenti notevoli di bellezza e coraggio. Un prigioniero separato dalla sua giovane figlia per decenni descrive la felicità provata nel sentire che sua figlia, frequentando la prima elementare, ha appreso la vera ragione della sua prigionia. Sottoposti a continui tormenti, alcuni prigionieri riescono a conseguire il diploma di scuola superiore. Una donna detenuta insulta “un omone” che le guardie hanno fatto entrare nella sua cella: “Se vuoi violentarmi, vai avanti; hai violentato la mia terra e la mia gente, quindi vai avanti e violentami.” La sua sfida mette fine alle minacce sessuali anche se le guardie hanno continuato a torturarla, dice, con sigarette e scosse elettriche sul seno.

Un altro prigioniero dedica quasi tutto il suo tempo allo studio delle lingue, traducendo libri e articoli su una vasta gamma di argomenti politici – un compito che persegue con immutato zelo anche dopo che il suo intero negozio di 4.000 articoli è stato confiscato (senza spiegazione) dalle guardie israeliane con un’incursione. Ancora, un altro prigioniero descrive come lui e i suoi compagni hanno perseverato nello sciopero della fame, nonostante le aggressioni e l’alimentazione forzata, fino a quando le loro richieste sono state finalmente soddisfatte.

La decisione di Baroud di non suddividere i suoi protagonisti in base alla natura dell’azione di resistenza per la quale sono stati imprigionati, violenta o non violenta, messa in atto all’interno di Israele o nei Territori Palestinesi Occupati, metterà a disagio alcuni lettori. Ciò è chiaramente intenzionale. Nella sua introduzione, Baroud insiste sul fatto che “sarebbe assolutamente ingiusto ingabbiare i prigionieri palestinesi in comode categorie di vittime o terroristi, in quanto le classificazioni rendono un’intera Nazione sia vittima che terrorista, un concetto che non riflette la vera natura della pluridecennale lotta palestinese contro il colonialismo, l’occupazione militare e il radicato apartheid israeliano”.

La spietata forma in prima persona di queste narrazioni conferma l’intuizione di Baroud. In mezzo alle ineludibili abiezioni e ai diritti violati della reclusione prolungata, le convinzioni politiche sono destinate a essere vissute in termini di passione condivisa, non di dettagli. Questo libro sostiene che chiunque ricerchi dei parametri diversi per comprendere la Palestina e le prassi dei suoi difensori deve prima distruggere le gabbie che pongono dei confini all’agire dei palestinesi. Fintanto che l’occupazione israeliana renderà la Palestina una vasta prigione, la resistenza sarà in ogni caso l’unico criterio in base al quale una vita palestinese possa essere valutata.

E i prigionieri qui rappresentati ne sono ben consapevoli. Come la poetessa (ed ex prigioniera) Dareen Tatour esclama alla fine del suo capitolo in “These Chains Will Be Broken”:

Lo spirito non si inchinerà,

la sua tenacia non morirà…

Per lune che sorgeranno nei nostri cieli

Dobbiamo vivere in questa oscurità.

Michael Lesher, scrittore e avvocato, ha pubblicato numerosi articoli che trattano di abusi sessuali su minori e altri argomenti, incluso il conflitto Israele-Palestina. È autore del recente libro Sexual Abuse, Shonda and Concealment in Orthodox Jewish Communities (McFarland & Co., Inc.) [Abuso sessuale, vergogna e copertura nelle comunità ebree ortodosse, ndtr.], incentrato sulla copertura di casi di abuso tra ebrei ortodossi. Vive a Passaic, nel New Jersey.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Recensione di Stone Men – the Palestinians who built Israel [Uomini di pietra: i palestinesi che hanno costruito Israele] di Andrew Ross (Verso, 2019)

Ben Ehrenreich

mercoledì 1 maggio 2019 – The Guardian

Un segreto di cui nessuno vuole parlare: come le colonie in Cisgiordania vengono costruite da palestinesi espulsi dalla loro terra.

Non lontano dall’orrendo posto di controllo di Qalandia – la principale porta d’entrata attraverso la quale l’esercito israeliano controlla il passaggio di esseri umani tra Ramallah e Gerusalemme – c’è un piccolo laboratorio all’aperto di tagliatori di pietre, uno delle centinaia sparsi in tutta la Cisgiordania. Qualunque cosa accada al checkpoint, in genere si può vedere almeno un lavoratore nel cortile dove vengono tagliate le pietre, con il volto, i capelli e i vestiti incrostati della stessa polvere bianca che copre l’alto muro di cemento e la torre di guardia, dove si mescola con il fumo e il carbone neri dei pneumatici bruciati e delle bottiglie molotov che i giovani del posto, in giornate particolarmente brutte, lanciano contro il posto di controllo e le barriere che li rinchiudono.

Quando chi va a visitare la regione scrive di pietre, tende a concentrarsi su quelle che i giovani palestinesi lanciano contro soldati armati e blindati. E sui molto più letali proiettili che i soldati gli sparano contro. È facile perdersi in quel parapiglia. Andrew Ross non è né distratto né affascinato da tali scene emblematiche. È più interessato al tagliatore di pietre che in genere rimane fuori dall’inquadratura. Attraverso lui ed altri come lui, Ross esamina le strutture non visibili dell’espropriazione e dello sfruttamento che stanno alla base dell’occupazione altrettanto concretamente quanto tutti quei muri e fucili.

Stone Men” può essere asciutto, persino aspro, ma fornisce in modo coerente la comprensione dei rapporti travagliati e inquietanti tra israeliani e palestinesi che è difficile trovare altrove. Questa è soprattutto una storia di lavoro. La Palestina si trova su riserve di pietra calcarea di alta qualità valutate 20 miliardi di dollari [18 miliardi di euro], e in Cisgiordania l’attività economica per estrarla, tagliarla e lavorarla fornisce più lavoro nel settore privato di qualunque altra industria. Dato che sia i palestinesi che gli israeliani attribuiscono un’importanza mitica alla terra, concentrarsi sulla pietra che da essa viene estratta – e sulle relazioni di potere in gioco quando viene trasformata in case da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania, ndtr.] – consente a Ross di demistificare il conflitto mettendo al contempo in evidenza le basi profondamente inique su cui è stato costruito Israele. Il fatto che la maggior parte di quel Paese, le colonie in Cisgiordania e persino la stessa barriera di sicurezza [il Muro di Separazione, ndtr.] è stato costruito da palestinesi, e con materiali estratti dalla stessa ossatura della terra che hanno perduto è un segreto di cui nessuno vuole parlare.

Ross inizia dai primi anni del Mandato britannico, con la spinta sionista – attraverso il boicottaggio, i soprusi e la violenza – per creare un’economia autosufficiente libera dal “lavoro arabo”. Questa strategia avrebbe modellato persino l’architettura. Le cave erano di proprietà di palestinesi, e gli immigrati ebrei appena arrivati dall’Europa non erano esperti nella lavorazione della pietra locale. La maggior parte di Tel Aviv venne costruita in cemento e blocchi di silicato, che permisero ai costruttori ebrei di evitare di dipendere dai lavoratori palestinesi. Questi materiali avrebbero anche consentito loro di costruire una città modernista nuova di zecca, diversa – e segregata – dalla sua antica vicina, la palestinese Jaffa, che era stata costruita con pietra erosa. Nel 1948 Jaffa sarebbe stata svuotata del 97% della sua popolazione araba. Interi quartieri vennero in seguito distrutti con i bolldozer.

Il famoso centro di Tel Aviv in stile Bauhaus sarebbe in seguito stato chiamato la “Città Bianca” – il nome si riferiva al colore dei mattoni di silicato e del cemento stuccato con cui era stata costruita. Nei decenni seguenti la fondazione di Israele il lavoro arabo avrebbe cessato di essere visto come una minaccia per l’autonomia ebraica. Molte migliaia di case dovevano essere costruite sul territorio appena conquistato. I suoi precedenti abitanti sarebbero stati impiegati, con salari a buon mercato, per costruire il nuovo Stato. Ingabbiati da restrizioni negli spostamenti ed esclusi dalla maggior parte delle altre occupazioni, avevano poche alternative:

I palestinesi in Israele vennero sottoposti alla legge marziale fino al 1966. Condizioni simili avrebbero creato una classe di lavoratori da sfruttare nelle terre occupate prima della guerra del 1967. Da allora il calcare – denominato “pietra di Gerusalemme”, benché la maggior parte di essa venga estratta dalle colline della Cisgiordania – sarebbe diventato il materiale predominante utilizzato per costruire le comunità israeliane, con una funzione sia ideologica che pratica, trasmettendo un’immagine di omogeneità e di antichi legami con la terra.”

Ross non risparmia l’élite palestinese. Include un capitolo tra i più completi e approfonditi che abbia letto sull’area residenziale di Rawabi, nella zona di Ramallah. Messa in vendita per i ricchi professionisti palestinesi, Rawabi è stata costruita in collaborazione con impresari israeliani su terreni confiscati a contadini del posto dall’Autorità Nazionale Palestinese. Il discorso di Ross gli consente di tracciare la rete di complicità che ha consentito a un piccolo gruppo di ricchi palestinesi di approfittare della spoliazione dei loro compatrioti.

Le parti più tristi di “Stone Men” – e quelle in cui avrei voluto che si fosse soffermato di più e avesse consentito ai suoi interlocutori di apparire con maggiori sfumature e dettagli – si basa sulle sue interviste a lavoratori palestinesi. Uno di loro costruisce case in una colonia edificata su terreni sottratti al villaggio in cui vive. È stato in grado di sopportare le provocazioni razziste dei coloni, dice a Ross, ma quando un colono ha cercato di assumerlo per costruire una casa su un terreno di proprietà della sua stessa famiglia per lui è stato troppo. “Non l’ho potuto fare,” dice. Un’altra delle fonti di Ross, che egli identifica solo come Samir, aveva lavorato per anni in cantieri in Israele, risparmiando per costruirsi una casa, solo per vederla demolire dai soldati israeliani che hanno spianato la strada per il percorso della barriera di sicurezza. In seguito, incapace di trovare un altro impiego, ha accettato un lavoro per la costruzione della barriera. Amici d’infanzia gli hanno tirato pietre mentre stava lavorando.

Storie come questa e gli altri racconti di umiliazione e resistenza che Ross narra valgono più di intere biblioteche di discussioni astratte. Eppure, egli propone ripetutamente la tesi secondo cui, in ogni futuro accordo per uno “status finale”, il lavoro che i palestinesi hanno fatto per costruire Israele debba essere preso in considerazione, “in quanto i palestinesi si sono meritati diritti civili e politici attraverso il loro lavoro complessivo.” È un’argomentazione infelice, che segue una logica che Ross riconosce essere stata utilizzata frequentemente da “colonialisti d’insediamento…per giustificare l’espropriazione di terre dei popoli indigeni,” secondo cui il diritto sulla terra si conquista solo con il suo “miglioramento”. Condizionato dalla negazione della validità di ogni presenza palestinese nella regione prima del sionismo, ciò ripete la cancellazione storica che Ross, in tutti tranne che in pochi punti del suo libro, documenta con notevole competenza ed impegno.

– The Way to the Spring: Life and Death in Palestine [La via verso la sorgente: vita e morte in Palestina] di Ben Ehrenreich è pubblicato da Granta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il centrismo degli imbecilli

Recensione di Hannah Gurman

4 novembre 2019 – Mondoweiss

del libro How to Fight Anti-Semitism [Come lottare contro l’antisemitismo]

di Bari Weiss

224 pp.,Crown, $20.00

Nel 1971 il New York Times pubblicò un articolo sull’antisemitismo intitolato “Il socialismo degli imbecilli”. Scritto da Seymour Lipset, un eminente studioso di sociologia politica, sollecitava attenzione nei confronti dello spostamento del fenomeno. “A differenza della situazione precedente il 1945, quando le politiche antiebraiche erano ampiamente identificate con elementi di destra,” osservava Lipset,” l’attuale ondata è legata a governi, partiti e gruppi che vengono per convenzione descritti come di sinistra.” Prendendo in considerazione solo l’antisemitismo all’interno dei movimenti del nazionalismo nero e della nuova sinistra, l’articolo sosteneva che le critiche di sinistra contro Israele e il sionismo erano contagiate da luoghi comuni antisemiti e che la sinistra negli Stati Uniti e in Europa stava inconsapevolmente ripetendo la propaganda sovietica.

Lipset non era il primo ad affermare che la sinistra avesse un problema con l’antisemitismo. La frase “socialismo degli imbecilli” è attribuita ad August Bebel, un dirigente del movimento socialista tedesco alla fine del Diciannovesimo secolo. Questa critica interna tuttavia confermava la prevalente associazione tra antisemitismo ed estrema destra, che l’avvento del nazismo e gli orrori dell’Olocausto avevano reso innegabile. Tuttavia negli anni ’60 riemersero preoccupazioni riguardanti l’antisemitismo della sinistra. Questa volta gli allarmi vennero da intellettuali ebrei americani che legavano la propria analisi dell’antisemitismo a un più complessivo discorso su uno spostamento a destra nell’orientamento politico degli ebrei americani.

Molti di questi personaggi giocarono un ruolo influente nel movimento neoconservatore che emerse in opposizione con l’estremismo percepito della sinistra. Tra gli anni ’60 e ’80 importanti neoconservatori misero in relazione il loro appello a favore di uno spostamento a destra nella politica americana con problemi legati alla sopravvivenza degli ebrei. Nel 1984 Irving Kristol [giornalista noto come il “padrino del neoconservatorismo”, ndtr.] sostenne che la sinistra avesse sostanzialmente abbandonato gli ebrei. “Mentre gli ebrei bianchi americani hanno per la maggior parte conservato la propria lealtà alla politica del progressismo americano,” scrisse, “questa politica si è cortesemente e inesorabilmente allontanata da loro.” In un’intervista sul suo libro del 1984 sull’antisemitismo della sinistra, Nathan Perlmutter [dirigente del gruppo lobbystico filoisraeliano “Antidefamation League, ndtr.] sostenne che la critica della sinistra alla politica estera USA in Medio Oriente era un problema più grave del suprematismo bianco di destra. “Sono più preoccupato dell’isolazionismo che potrebbe danneggiare il maggior alleato dell’America in Medio Oriente,” affermò, “di quanto lo sia di qualche uomo del Ku Klux Klan in un pascolo per mucche nel Missouri centrale.”

Oggi una nuova generazione di intellettuali ebrei americani sta sollecitando l’attenzione sulla crescita dell’antisemitismo a sinistra. A 33 anni l’editorialista e ragazza-prodigio del New York Times Bari Weiss è una delle più giovani e al tempo stesso eminenti componenti di questo gruppo. Come Lipset, Weiss rifugge l’etichetta di neoconservatrice, identificandosi come centrista. Il suo primo libro, How to Fight Anti-Semitism [Come lottare contro l’antisemitismo], pubblicato in settembre, in apparenza mette in guardia contro la crescita dell’antisemitismo sia a sinistra che a destra. Eppure, allo stesso modo di altri recenti lavori su questa linea, come Antisemitism Here and Now [Antisemitismo qui e ora] di Deborah Lipstadt, pubblicato all’inizio di quest’anno, il punto essenziale del libro di Weiss è rimproverare la sinistra in quanto altrettanto cattiva, se non peggiore, della destra. Così facendo, continua la tradizione dei neoconservatori di calunniare la sinistra con accuse di antisemitismo. Mentre Weiss dedica attenzione ad alcune questioni di antisemitismo a sinistra, la sua analisi alla fin fine contribuisce a una pericolosa distorsione del fenomeno e a un trito tentativo di infangare i movimenti sociali progressisti nel nome del moderatismo centrista.

Nelle prime pagine del libro Weiss scrive in modo commovente del massacro avvenuto nel 2018 nella sinagoga “Tree of Life” [Albero della Vita], nella sua città natale di Pittsburgh, dove un nazionalista bianco ha ucciso undici fedeli e ne ha feriti altri sei. Si è trattato dell’attacco più letale contro ebrei nella storia degli Stati Uniti.Una buona parte della prima metà del libro è dedicata a raccontare questo ed altri atti di violenza antisemita commessi da estremisti di destra.Benché appassionate e necessarie, tale condanna di efferate atrocità non offre una visione originale sul fenomeno contemporaneo dell’antisemitismo.

Mano a mano che il libro prosegue diventa chiaro che le accuse di antisemitismo nei confronti della destra servono per lo più come preludio del vero punto cruciale del libro, che è la polemica contro l’antisemitismo della sinistra. Mentre Weiss riconosce che l’antisemitismo della destra è responsabile della grande maggioranza dell’attuale violenza fisica contro ebrei negli Stati Uniti e in Europa, osserva che tali atti sono condannati ad alta voce da pressoché tutti gli americani, incluso il presidente Trump. A differenza dell’antisemitismo di destra, che è trasparente e ovvio, sostiene lei, l’antisemitismo della sinistra è un’“iniziativa molto più sottile e sofisticata” che è “tipicamente nascosta nel…linguaggio della giustizia sociale e dell’antirazzismo, dell’uguaglianza e della liberazione.” E poiché gli ebrei sono storicamente identificati con la sinistra, il suo antisemitismo è disconosciuto, tollerato e gli viene consentito di diffondersi ancor di più. Poiché esso pone una minaccia interna ai valori e alle istituzioni progressisti, l’antisemitismo della sinistra è in ultima analisi più “insidioso e forse più radicalmente pericoloso” di quello della sua controparte di destra.

Una parte centrale dell’argomentazione di Weiss, e più in generale di quanti si autodefiniscono centristi, è l’affermazione secondo cui l’antisionismo è intrinsecamente antisemita. “Quando l’antisionismo diventa una posizione politica normativa,” scrive, “l’antisemitismo attivo diventa la norma.” Insistendo sul fatto che la lunga storia delle critiche ebraiche al sionismo non è più valida nel mondo post – Olocausto, rifiuta di accettare la possibilità che questa visione del mondo abbia un qualunque valore nell’attualità, respingendolo in modo derisorio come il programma di un misero “centinaio di anarchici impegnati a Brooklin e a Berkeley.” E mentre Weiss apparentemente riconosce che non tutte le critiche a Israele sono antisemite, dedica solo un paragrafo in tutto il libro all’anti-liberalismo dell’attuale governo israeliano e alle atrocità che ha commesso contro i palestinesi. Più in generale, ripete una pericolosa concettualizzazione dell’antisemitismo che include le critiche allo Stato di Israele. Sotto l’apparenza della neutralità politica, la “definizione provvisoria di antisemitismo” adottata dal governo del Regno Unito, dall’Unione Europea e da un’ampia gamma di organizzazioni non governative, prende di mira disordinatamente le critiche di sinistra alle violazioni israeliane dei diritti umani. Persino lo studioso americano che per primo ha stilato la definizione provvisoria ha condannato il suo uso come strumento di repressione della libertà di parola.

Ci dev’essere un legittimo dibattito sulla questione su se e perché Israele è preso di mira dalla sinistra rispetto ad altri Stati che commettono anche loro violazioni dei diritti umani e atrocità in modo sistematico. Ma mentre Weiss e altri centristi lamentano che i misfatti di Israele sono distorti e presi fuori dal contesto, essi fanno regolarmente altrettanto prendendo di mira intellettuali ed attivisti di sinistra. Rifiutando di confrontarsi con le idee di studiosi di sinistra che collocano Israele all’interno del paradigma del colonialismo d’insediamento e dell’imperialismo europeo e americano, lei al contrario sceglie esempi per evidenziare un presunto problema sistemico. Mentre cita qualche considerazione volgarmente antisemita fatta da docenti del dipartimento di studi sul Medio Oriente della Columbia University, omette i molti altri esempi in cui docenti della Columbia e altrove sono stati presi di mira da gruppi ebraici di destra, compresa “Canary Mission” [sito filoisraeliano che diffonde denunce e calunnie contro militanti filopalestinesi, ndtr.], solo perché criticano il sionismo o appoggiano il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS). Mentre descrive gli intellettuali di sinistra come un branco di prepotenti antisemiti, [l’autrice] rimane in silenzio riguardo al suo stesso ruolo in campagne che intendono distruggere la carriera e la reputazione di molti professori in nome della “libertà accademica”.

L’Islam è un’altra questione centrale della denuncia centrista dell’antisemitismo di sinistra. Weiss lamenta che la sinistra accusi di essere islamofobo chiunque denunci l’antisemitismo nella comunità musulmana. “Ci vorrà molto per spiegare perché ‘la sinistra militante’ insisterà all’infinito su una panetteria che non vuole fare una torta per un matrimonio gay, ma non ha niente da dire sul delitto d’onore.”

Benché l’eredità del colonialismo europeo possa spiegare l’esistenza dell’antisemitismo nel Medio Oriente di oggi, sostiene, non dovrebbe giustificare tali convinzioni. Ma mentre Weiss non esita a evidenziare i pericoli di basarsi eccessivamente sull’ideologia post-coloniale, rifiuta di riconoscere i modi in cui le sue stesse opinioni sono modellate sull’ideologia successiva all’11 settembre. Il libro equipara costantemente l’Islam all’estremismo islamico e riproduce le argomentazioni dell’apparato della sicurezza nazionale statunitense post- 11 settembre. Uno degli esempi che offre dell’antisemitismo musulmano negli Stati Uniti è il tentativo di attentato dinamitardo del 2009 contro due sinagoghe nel Bronx. Ripetendo i resoconti giornalistici più in voga di quegli avvenimenti, omette il fatto che quei presunti terroristi antisemiti erano vagabondi affamati, senza casa e malati mentali di Newburgh, New York, che vennero incastrati dall’FBI, che creò l’idea di un complotto, offrì grandi somme di denaro alle sue vittime e li addestrò a usare bombe. Questo è un palese esempio dei molti modi in cui Weiss e altri distorcono le opinioni e le attività di noti musulmani progressisti come Ilhan Omar e Rashida Talib [due deputate, una somala e l’altra palestinese, della sinistra del partito Democratico americano, ndtr.] che sono state accusate di antisemitismo. Ossessionata dal loro uso di luoghi comuni antisemiti, Weiss minimizza i luoghi comuni razzisti che sono stati adottati contro di loro e considera patologici i rapporti di solidarietà che si sono creati tra loro e gruppi di ebrei progressisti.

La sordità che Weiss dimostra riguardo alla sua stessa islamofobia è accompagnata dalla sua volontaria cecità per il ruolo della razza nei dibattiti riguardo all’antisemitismo contemporaneo. Sfidando la nozione secondo cui l’antisemitismo abbia qualcosa a che fare con la razza, Weiss refuta l’affermazione in base alla quale gli ebrei sono bianchi. Circa la metà degli ebrei in Israele, nota, sono sefarditi che arrivano dalla Spagna, dal Nord Africa, dalla Persia e dal Medio Oriente. Ciò può essere vero, ma non dà conto delle forme complesse in cui nonostante ciò l’ideologia razzista europea continui ad esistere in Israele, come esaminato nel lavoro di Ella Shohat. Non affronta neanche lo status razziale degli ebrei negli Stati Uniti. Nel suo libro del 1998, How Jews Became White Folks [Come gli ebrei sono diventati bianchi], Karen Brodkin esplora l’ambivalenza e l’inquietudine che accompagnarono l’accettazione degli ebrei nel proverbiale “Sogno Americano” postbellico. Al contrario Weiss formalmente riconosce i propri privilegi in quanto ebrea nell’America contemporanea, ma non come il suo status si fondi sull’essere bianca. Quindi non è in grado di fare i conti con i modi in cui le sue idee sono state modellate dalll’eredità del centrismo liberalista che si fonda sulla razza.

“Il centro è venuto meno,” lamenta Weiss. Come Arthur Schlesinger, autore del libro del 1949 The Vital Center [Il Centro Vitale], Weiss presenta il centrismo come la risposta razionale e ragionevole a un’America minacciata dall’estremismo sia di destra che di sinistra. E come Schlesinger, Weiss immagina se stessa come una voce obiettiva di moderazione che si trova al di fuori e al di sopra dell’ideologia. Mentre gli estremisti dei due estremi dello spettro ideologico adottano una pericolosa “lealtà tribale”, lei si schiera solo per la verità e la giustizia. Weiss rivolge le proprie avvertenze sui pericoli dell’antisemitismo di sinistra a quanti vedono allo stesso modo la polarizzazione della politica americana come la minaccia esistenziale per la Nazione e desiderano un ritorno al centro vitale.

Il lettore ideale del libro è un ebreo americano che si identifica come progressista ma si sente lontano e non accettato nei circoli progressisti. Il capitolo conclusivo del libro offre consigli a questo lettore su come “controbattere”: “smetti di colpevolizzarti”, “appoggia Israele”, “affidati all’ebraismo”, “racconta la tua storia”. Per contro Weiss caratterizza gli ebrei progressisti come collaboratori e complici dell’antisemitismo paragonabili agli ebrei filo-stalinisti che furono “agenti della loro stessa distruzione” in Unione Sovietica. Se sei uno di quegli individui, Weiss vuole metterti in guardia perché tu veda l’errore del tuo modo di essere prima che sia troppo tardi. Benché formulati nel linguaggio dell’attenzione e della preoccupazione, questi avvertimenti risultano calunnie politiche appena velate che ripetono la caricatura che la destra fa della sinistra.

Per molti progressisti è fin troppo facile sparlare di Weiss. Come illustrano recenti recensioni del suo libro, è una di quelle figure che la sinistra ama odiare. Ma mentre Weiss ed altri neoconservatori contrari a Trump possono essere facili bersagli, non è sufficiente deridere le risposte centriste all’antisemitismo. Benché non riescano ad avvicinarsi neanche lontanamente a fornire buone risposte, esse affrontano alcune importanti domande sul ruolo, lo status e l’esperienza degli ebrei nella politica progressista. Alcuni dei momenti più interessanti e stimolanti di How to Fight Anti-Semitism sono quelli in cui Weiss esprime la sensazione di esclusione dai circoli progressisti che, afferma, instillano un sentimento di colpa e di vergogna nell’identità ebraica contemporanea.

È un’affermazione comune che ripete i punti salienti delle critiche di Bill Maher e di altri critici di centro alla sinistra in generale. Invece di ignorare o sfottere queste sensazioni, dobbiamo analizzare come altri intellettuali ebrei le hanno elaborate in modo più produttivo. Michael Lerner, un rabbino e fondatore del movimento di rinnovamento ebraico, ne è un buon esempio. Lerner è un uomo impegnato a sinistra. Per decenni si è espresso a favore del movimento progressista per la giustizia sociale, ha criticato Israele ed ha messo in guardia contro i pericoli dei tentativi del movimento neoconservatore di corteggiare gli ebrei americani. Lui e la sua famiglia sono stati presi di mira personalmente dai sionisti militanti. Riguardo all’antisemitismo, tuttavia, Lerner non è un difensore della sinistra. Nel suo libro del 1992 The Socialism of Fools: Anti-Semitism on the Left [Il Socialismo degli Imbecilli: l’antisemitismo della sinistra], scritto in seguito ai Crown Heights Riots [i disordini di Crown Heights, zona di Brooklyn dove nel 1991 l’uccisione accidentale di un bambino da parte di un’auto guidata da ebrei scatenò una rivolta antiebraica della popolazione di colore, ndtr.] in un clima di tensioni crescenti tra ebrei e neri, egli condivideva apparentemente alcune delle preoccupazioni dei centristi. Lerner sosteneva che l’attuale movimento per la giustizia razziale si stesse ingiustificatamente inimicando gli ebrei. Era particolarmente arrabbiato per l’identificazione degli ebrei come bianchi che beneficiano del sogno americano e oppressori delle comunità di colore.

Nell’esprimere la sua frustrazione, Lerner respingeva anche l’affermazione secondo cui gli ebrei sono bianchi. Tuttavia lo fece in un modo che riformulava la concezione di bianco come forma della sua stessa oppressione. In Jews and Blacks [Ebrei e Neri] (1995), un libro con la trascrizione delle conversazioni tra Lerner e Cornel West [intellettuale militante afro-americano, ndtr.] Lerner riconosce il prezzo storico, materiale e psicologico del fatto che gli ebrei siano considerati bianchi in America: “Non solo siamo stati beneficiari della ricchezza americana (acquisita dagli americani a spese del genocidio degli indiani americani e poi della schiavitù di milioni di africani e dell’uccisione di altri milioni nel corso del processo), abbiamo avuto anche meno probabilità di diventare il principale “Altro” trasformato in vittima negli USA proprio perché quel ruolo era già assegnato agli afroamericani.” Lerner evidenziava anche come l’accettazione nell’America Bianca negli anni ’50 avesse contribuito all’accettazione sociale: “Molti ebrei americani erano interessati a normalizzare la propria vita in America…si concentrarono nel farlo e nell’accumulare benessere e potere.”

Invece di negare la realtà storica della condizione di bianco, egli la evidenziava come una forma di dipendenza materiale e psicologica che in ultima analisi è negativa per i bianchi come per i neri. Così facendo riprendeva le critiche alla condizione di bianco sviluppate da James Baldwin [scrittore e intellettuale afroamericano, ndtr.] e da altri i cui scritti hanno ispirato il campo accademico degli studi sulla condizione di bianco che sono sbocciati nelle università durante gli anni ’80 e ’90. Lerner sosteneva che la condizione di bianchi obbligò gli ebrei a concentrarsi solo sui loro interessi particolari e a dimenticare la tradizione universalistica della tikkun olam, un dovere di risanare e trasformare il mondo. Utilizzando il linguaggio della religione e della spiritualità, egli evidenziava i pericoli politici del rafforzamento dell’associazione tra ebreo e bianco: “Quelli che vedono gli ebrei come ‘privilegiati’ o ‘bianchi’ di fatto contribuiscono a rafforzare la paranoia degli ebrei di destra riguardo ad un mondo che rimarrà sempre insensibile agli ebrei, come è stato nel XX secolo del genocidio.” Invece di una politica che sminuisce l’oppressione degli ebrei e fa sentire gli ebrei a disagio con se stessi, Lerner invocava una “politica di senso” trasformatrice che venisse alimentata da un senso di solidarietà e da un desiderio condiviso di cambiare in modo fondamentale l’ordine prestabilito a favore di tutti.

L’approccio di Lerner non è privo di problemi e Cornel West giustamente mise in discussione come, tra le altre cose, questa visione potesse servire a nascondere, invece di evidenziare, le disuguaglianze del capitalismo basato sulla razza. Ma è un’importante reminiscenza del fatto che non dobbiamo negare l’esistenza dell’antisemitismo a sinistra per lottare contro le sue molto più pericolose manifestazioni nella politica della destra attuale. A livello molto elementare, possiamo riconoscere l’esistenza dell’antisemitismo nella storia del pensiero e della politica della sinistra. Sì, la figura dell’ebreo negli scritti di Marx è antisemita. Sì, Stalin massacrò migliaia di ebrei, compresi molti che erano leali alla causa. Possiamo anche riconoscere che ogni tanto il discorso attuale della sinistra, anche se per lo più involontariamente, flirta con luoghi comuni ed assunti antisemiti. Sì, è problematico escludere persone dalla Women’s March [Marcia delle Donne, manifestazioni in tutti gli USA a favore dei diritti delle donne, ndtr.] solo perché portano la stella di David.

Ma non dobbiamo neppure accettare la formulazione centrista del problema. La Women’s March è un buon esempio. Per Weiss il problema è che i sionisti non siano accettati nei circoli progressisti. Ma, per gli ebrei progressisti, il problema è il presupposto secondo cui un simbolo ebraico viene interpretato come un simbolo sionista, cancellando il ruolo degli ebrei nella storia della sinistra e lavorando contro una politica di solidarietà. Il problema con cui la sinistra deve fare i conti non è l’antisemitismo di per sé, ma piuttosto il ruolo, lo status e il senso dell’ebraismo nella politica progressista. Cercare forme migliori per includere l’ebraismo nelle politiche progressiste può essere una fonte di rafforzamento della sinistra. Gruppi come “IfNotNow” [SeNonOra, gruppo di ebrei americani contro l’occupazione, ndtr.] e Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, altro gruppo ebraico americano antisionista, ndtr.] sono testimonianze di tale possibilità trasformatrice.

In ultima analisi, Weiss e altri analisti neoconservatori dell’antisemitismo contemporaneo obbligano gli ebrei a stare all’interno di una politica cinica che pone la sopravvivenza degli ebrei in contrasto con altri movimenti per la giustizia sociale.

I progressisti hanno una visione più convincente da offrire, in cui una politica di solidarietà affronta minacce contro le comunità ebraiche non a spese di altri “Altri”, ma insieme ad essi.

Hannah Gurman

Hannah Gurman è una docente associata di storia e studi americani presso la Gallatin School per lo studio individualizzato all’università di New York.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il nazionalismo colonialista ispirato dalla religione alimenta le guerre di Israele

Rod Such

14 agosto 2019 – The Electronic Intifada

War over Peace: One Hundred Years of Israel’s Militaristic Nationalism [Guerra alla Pace: cento anni di nazionalismo militarista di Israele] di Uri Ben-Eliezer, University of California Press (2019)

War over Peace, del sociologo israeliano Uri Ben-Eliezer, solleva una serie di domande relative alla natura della società israeliana, e soprattutto sul perché Israele abbia tentato di risolvere con la guerra invece che con mezzi diplomatici praticamente ogni conflitto che ha incontrato o generato.

La sua risposta può essere brevemente sintetizzata in questo modo: la guerra e la violenza sono intrinseche all’ideologia sionista. I suoi elementi fondamentali – etno-nazionalismo e militarismo – promanano dall’imperativo di dominare e controllare la “Terra di Israele” in modo esclusivo, senza concedere potere politico agli arabi. Questo imperativo non può essere visto semplicemente da un punto di osservazione politico o economico, ma come una conseguenza della cultura colonialista di insediamento del sionismo. Quella cultura, conclude Ben-Eliezer, si basa sempre di più su una forma di nazionalismo colonialista ispirato dalla religione.

Un precedente libro di Ben-Eliezer, The Making of Israeli Militarism [La Creazione del Militarismo Israeliano] (1998), indaga la creazione di Israele come una “Nazione in armi”, un tema che riprende anche in questo libro.

War over Peace è per molti versi complementare a “Fortress Israel” [Fortezza Israele] di Patrick Tyler, solo che quest’ultimo non riesce a dar conto degli elementi di etno-nazionalismo nell’ideologia sionista individuati da Ben-Eliezer. Benché sociologo di formazione, Ben-Eliezer usa una prospettiva storica per esaminare l’evoluzione della cultura da “nazionalismo militarista” di Israele. Costruisce una narrazione che abbraccia la prima colonizzazione sionista pre-statuale, la Nakba del 1947-49, la guerra di Suez del 1956, le guerre del 1967 e del 1973 con i circostanti Paesi arabi, le due invasioni del Libano, le intifada palestinesi e le più recenti guerre contro Gaza.

In ogni capitolo egli inserisce riflessioni sul carattere etno-nazionalista che sta dietro ai conflitti, ma in questo studio tende a predominare l’inquadramento storico. Di conseguenza il lettore ne ricava un’analisi più storica che sociologica, molto probabilmente perché l’autore riconosce la necessità di smitizzare la propaganda che Israele ha utilizzato per descriversi come il debole David circondato dai Golia arabi.

Sete di potenza”

Ben-Eliezer inizia il suo racconto con un’analisi del movimento sionista pre-statuale, che divide in tre campi – laburista, revisionista e binazionale – dedicando una particolare attenzione alla critica del nazionalismo etnocentrico fatta da intellettuali del gruppo binazionale noto come “Brit Shalom”.

Notando l’affinità del campo revisionista con il fascismo europeo, egli attribuisce all’Olocausto la definitiva predominanza del sionismo laburista. Ben-Eliezer afferma che il destino degli ebrei europei sotto il fascismo nazista convinse la maggioranza dei coloni sionisti a credere che la potenza militare fosse indispensabile. Facendo citazioni dall’archivio del gruppo sionista laburista a partire dal 1943, egli evidenzia la loro convinzione della necessità di “una sete di potenza, un aumento di potenza, una smania di potenza”.

La ricerca di capacità militari portò il leader del sionismo laburista David Ben Gurion a sostenere la creazione di un esercito e poi il trasferimento di massa dei palestinesi, anticipando la fine del Mandato Britannico [sulla Palestina, ndtr.] in seguito alla raccomandazione per la partizione da parte delle Nazioni Unite.

Ben-Eliezer respinge l’affermazione dello storico israeliano Benny Morris secondo cui non c’è una prova documentaria che dimostri che ci sia stato un ordine esplicito di espulsione di massa [dei palestinesi, ndtr.]. Ben-Eliezer sostiene che l’esistenza di un simile documento non è necessaria, perché l’intenzione di espellere i palestinesi in modo massiccio era ben compresa ed accettata tra i paramilitari sionisti e scaturiva senza soluzione di continuità da una “condizione mentale, una percezione culturale, da un’ideologia.”

L’obiettivo della pulizia etnica divenne chiarissimo, aggiunge l’autore, quando le forze israeliane rifiutarono il diritto dei palestinesi a tornare alle loro case molto dopo la creazione di Israele. La continua espulsione alla fine del 1948 e all’inizio del 1949 non aveva niente a che vedere con la sicurezza, scrive. Al contrario, sostiene Ben-Eliezer, queste espulsioni evidenziano “un chiaro proposito etno-nazionale: evitare ogni possibilità di futura partizione” e quindi ogni richiesta araba sul rimanente 22% della Palestina mandataria. Anche allora i dirigenti israeliani volevano quei territori come pare del Grande Israele.

War over Peace rende evidente la tesi di altri storici o studiosi secondo cui il principale obiettivo del colonialismo di insediamento era la conquista della terra.

Lo stato maggiore dell’esercito israeliano, nota, pianificò l’acquisizione di più territorio fin dal 1963. A quel tempo l’esercito era diventato talmente potente che avrebbe potuto andare oltre la leadership civile, cosa che fece ignorando semplicemente una strategia di de-escalation appoggiata dal primo ministro Levi Eshkol e iniziando la guerra del 1967 contro le forze egiziane, una linea di condotta che più tardi divenne famosa come “la rivolta dei generali”.

Sionismo religioso

La conseguente occupazione israeliana della Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, della Striscia di Gaza, della penisola del Sinai e delle Alture del Golan siriane portò allo scoperto quello che Ben-Eliezer denomina “sionismo religioso”. Ciò che era stato un occasionale sottinteso utilizzato sia dai sionisti laici che religiosi per giustificare le azioni di Israele ora risultò essere la prevalente giustificazione per la conquista di tutta la Palestina.

Questo nuovo movimento nazionalista religioso evitò di addurre ragioni di sicurezza per la conquista e invece mise insieme argomenti religiosi e nazionalisti con l’affermazione secondo cui i territori occupati furono dati agli ebrei da dio e quindi non possono essere ceduti.

Gli insuccessi militari patiti da Israele nella guerra del 1973 con Egitto e Siria e durante le successive invasioni israeliane del Libano portarono a una ridefinizione di questo ethos religioso-nazionalista e all’emergere di gruppi contro la guerra come “Peace Now” [Pace Ora]. Le perdite subite in questi conflitti determinarono una messa in discussione pubblica sulla questione se il nazionalismo fosse coerente con l’ebraismo.

Ben-Eliezer descrive come fondamentale punto di svolta quando nel 1983 un nazionalista di destra lanciò una granata contro una manifestazione di “Peace Now”, uccidendo un israeliano: “La sua uccisione segnò uno spartiacque, dopo il quale la società israeliana non sarebbe più stata la stessa. L’epoca dell’egemonia e del consenso nei confronti del processo di costruzione della Nazione e della formazione dello Stato era giunta al termine.”

L’autore è meno efficace nello spiegare come questo momento di svolta, che vide l’apparizione di quello che Ben-Eliezer definisce “nazionalismo progressista” o “civile”, abbia rappresentato solo un breve periodo nella storia sociale di Israele.

Ben-Eliezer riconosce che l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso nel 1995 e il fatto che Israele non abbia tenuto fede agli accordi di Oslo giocarono un ruolo in quello che definisce una ritirata rispetto ad una società più progressista. Ciò coincise con il riemergere del nazionalismo religioso in una forma ancora più virulenta. Ma l’autore è meno accurato nella spiegazione del perché ciò avvenne.

Potrebbe darsi che Oslo e la prospettiva della partizione nella forma della soluzione dei due Stati abbia amplificato, invece di mettere in discussione, i fondamenti dell’etno-nazionalismo?

In ogni caso War over Peace merita attenzione per la sua penetrante analisi del ruolo della cultura e dell’ideologia nella formazione del colonialismo di insediamento israeliano.

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Book” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La forza della legge versus la legge della forza: una recensione di ‘Justice for some’ di Noura Erakat

Richard Falk

16 luglio 2019 – Mondoweiss

JUSTICE FOR SOME Law and the Question of Palestine [GIUSTIZIA PER ALCUNI. Diritto e questione palestinese]

Di Noura Erakat Pag. 352, Stanford University Press, $30.00

Non pretendo di avvicinarmi a questo libro con mente aperta. Per dirla più chiaramente, riconosco con qualche orgoglio di aver sostenuto ‘Justice for some’ ancor prima della sua pubblicazione, e il mio commento compare in quarta di copertina. Inoltre due mesi fa ho partecipato ad una presentazione del libro all’università George Mason, dove Noura Erakat è docente.

Il mio intendimento in questa recensione non è di fare una serena valutazione dei punti di forza e di debolezza del libro, ma piuttosto di consacrarlo come contributo importante e dotto alla letteratura critica volta a risolvere il conflitto israelo-palestinese secondo i dettami della giustizia piuttosto che attraverso un continuo affidarsi alla forza muscolare dell’oppressione, come ribadito dalla geopolitica. E quindi cogliere questa opportunità per invitare ad una attenta lettura di ‘Justice for some’ da parte di tutti coloro che si interessano alla lotta palestinese e di chi è curioso di [sapere] come il diritto agisca pro e contro il benessere umano, come dimostrato dal suo utilizzo in una serie di circostanze storiche e sociali.

Erakat si concentra sulle storture del militarismo e della geopolitica che sono state inflitte al popolo palestinese nel suo complesso, portando i lettori a rendersi conto di come ‘diritto’ e ingiustizia abbiano troppo spesso agito insieme per decenni. Erakat offre ai lettori questa dissertazione giurisprudenziale critica e illuminante, ma non si ferma qui. ‘Justice for some’ fa anche ricorso a una metodologia costruttivista nel seguente senso: mentre Israele ha abilmente utilizzato le leggi per opprimere il popolo palestinese, il testo di Erakat spiega ai lettori anche come il diritto possa essere, e sia, utilizzato in nome della giustizia, servendo la causa dell’emancipazione dei palestinesi come parte integrante della continua lotta per l’emancipazione del popolo palestinese.

In un certo senso, la mia partigianeria a favore della lotta palestinese è simile a quella di Erakat, che chiarisce fin dalla prefazione che la sua intenzione è di descrivere l’oppressione territoriale e nazionale dei palestinesi nel modo più trasparente possibile attraverso l’ottica delle leggi e dei diritti umani e di condannare l’uso da parte di Israele di sistemi, procedure e tattiche giuridiche per portare avanti crudelmente il progetto sionista a spese dei palestinesi.

Justice for some’ rappresenta una importante tendenza negli studi [giuridici], che cerca di affiancare l’obbiettività accademica con l’esplicito impegno etico e politico. Questo accorpamento di obbiettivi potrebbe apparire adeguato quando si tratta di un conflitto così aspro come quello israelo-palestinese, ma non è stato molto adottato nell’insegnamento prevalente. Il canone accademico nei testi di studio continua a privilegiare una posizione neutrale o di presunta obbiettività riguardo alle implicazioni politiche, che non è altro che una maschera professionale indossata da accademici ingenui o cinici che non intendono assumersi la responsabilità delle proprie opinioni personali.

Ancor peggio, l’influenza sionista sul discorso accademico e mediatico su questo argomento è talmente forte che qualunque frase esplicita contenuta nel libro di Erakat è censurata, autocensurata e attaccata come ‘di parte’. Per il pensiero dominante l’originalità di Erakat e la sua convincente analisi nella migliore delle ipotesi vengono ignorate, oppure ridicolizzate. Autori come lei sono sovente attaccati in quanto rappresentanti del cosiddetto ‘nuovo anti-semitismo’, cioè una qualifica usata per screditare i testi e gli autori che criticano le politiche e le prassi di Israele, confondendo malignamente le critiche con l’odio verso gli ebrei. Questa distorta equazione ci offre una definizione dei discorsi d’odio che equivale a emettere una sentenza di morte contro la libertà di espressione. E’ una vergogna nazionale che le istituzioni legislative americane a livello statale e federale si bevano un simile veleno!

E’ difficile comunicare l’originalità giurisprudenziale di Erakat senza discuterne in modo ampio, ma ci proverò. Molto nasce dalla sua ardita asserzione: ‘Io sostengo che il diritto è politica.” (4) Con questo intende, per dirlo in termini grossolani, che ‘la forza delle leggi’ dipende dalla ‘legge della forza’, cioè i diritti giuridici senza la possibilità di applicare a un certo livello la legge restano senza effetto, oppure l’insidioso effetto è di dare copertura legale a comportamenti disumani. Oppure, come Erakat dice attraverso una metafora, la politica procura il vento di cui la vela ha bisogno perché la nave vada avanti.

Allo stesso tempo, quando discute dei diritti e delle strategie palestinesi, Erakat ribadisce che il richiamo alla ‘forza’ non implica affidarsi o invitare alla violenza. La sua affermazione strategica di nonviolenza diventa esplicita quando parla in termini di approvazione dell’importanza della campagna BDS, come anche nel suo sostegno ai vari tentativi di criticare Israele alle Nazioni Unite o altrove.

Soprattutto Erakat argomenta in modo persuasivo ch Israele è stato più abile dei palestinesi a fare uso efficace del diritto, in parte perché ha il vento in poppa per via dei suoi legami con la geopolitica, specialmente con gli Stati Uniti, ma anche perché gli esperti giuridici israeliani hanno svolto il loro ‘lavoro legale’ meglio dei palestinesi. Il libro di Erakat può essere letto come uno stimolo ai palestinesi perché facciano un miglior uso di ciò che lei chiama ‘opportunismo basato su principi giuridici’ (19)

In senso più ampio, Israele, per via degli appoggi geopolitici e del controllo sul dibattito è riuscito ad ottenere che i suoi più flagranti crimini internazionali, compreso l’uso eccessivo della forza, le punizioni collettive e il terrorismo di Stato, siano ‘legalizzati’ sotto la dicitura ‘sicurezza’ e ‘autodifesa’, prerogative a tempo indeterminato intrinseche alla nozione stessa di Stato sovrano. Al contrario, i palestinesi che esercitano un diritto di resistenza del tutto giustificabile, persino quando è diretto contro obbiettivi militari, sono criminalizzati a livello internazionale e il loro comportamento è stigmatizzato come ‘atti di terrorismo’. Il più sinistro imbroglio ‘legale’ di Israele è stato sfidare ripetutamente e in modo flagrante il diritto internazionale senza subire alcuna conseguenza negativa. Questa dinamica di sfidare le leggi può essere illustrata dal disconoscimento da parte di Israele del parere consultivo della Corte Internazionale del 2004, nonostante l’accordo di 14 giudici su 15 (qualcuno si sorprende che l’unico contrario fosse il giudice americano?) che la costruzione del muro di separazione sul territorio palestinese occupato viola le norme fondamentali del diritto umanitario internazionale, comprese le Convenzioni di Ginevra del 1977.

Inoltre Erakat merita apprezzamento perché mantiene uno stile accademico senza al contempo moderare le parole o lasciarsi intrappolare nel linguaggio giuridico spesso confuso. Il problema del linguaggio è cruciale nella sua interpretazione delle contraddizioni tra legge e giustizia che hanno privato il popolo palestinese, e la sua nazione, dei diritti fondamentali per oltre un secolo. Erakat è chiara come pochissimi docenti di diritto internazionale nel dire che le questioni in discussione possono essere correttamente valutate solo se pienamente contestualizzate storicamente e ideologicamente.

Secondo Anthony Anghie [professore di diritto all’università di Singapore, ndtr.] e diversi altri, Erakat ritiene essenziale mostrare che le radici del moderno diritto internazionale riflettono un quadro normativo che è servito a legittimare il colonialismo europeo e le sue pratiche. Estende provocatoriamente questa generalizzazione ad Israele, identificandolo come l’ultimo Stato “coloniale di insediamento” che è stato creato. Aggiungerei che Israele è stato fondato nonostante la potente tendenza anticolonialista che si è mossa in un’unica direzione a partire dal 1945.

Erakat è parimenti pronta a sostenere che la prolungata occupazione israeliana della Palestina dopo il 1967 è diventata ‘annessione’. Avanza anche l’opinione che il modo in cui Israele controlla il popolo palestinese attraverso la frammentazione politica e gli strumenti legislativi sia una forma di ‘apartheid’. Negli approcci critici e costruttivisti evitare gli eufemismi giuridici è di centrale importanza per la fondamentale impresa di liberare i meccanismi giuridici dalle macchinazioni degli Stati. Ciò che fa il linguaggio veritiero è guardare attraverso la finzione giuridica per illuminare le questioni morali in gioco. Questa chirurgia linguistica è un prerequisito per fare chiarezza sulla relazione tra la legge e la giustizia e l’ingiustizia, non solo relativamente alla Palestina, ma in rapporto a particolari questioni, sia che coinvolgano migranti internazionali, minoranze vittime di violenza o popoli a cui si nega l’autodeterminazione.

Justice for some’ mi ha aiutato a rendermi conto che questo significato fondamentale della legge come strumento inevitabilmente politicizzato di controllo e resistenza può essere in contrasto con l’idea che io ho precedentemente evidenziato nei miei scritti giuridici, che il vero significato delle norme giuridiche può essere colto soltanto attraverso la loro corretta interpretazione. Su questa base ho argomentato la contrarietà alla guerra in Vietnam, contestando che il ruolo dell’America implicasse l’uso della forza in violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, che stabiliscono i criteri per l’uso della forza, e che questo argomento era giuridicamente superiore alle giustificazioni avanzate dal governo USA e dai suoi apologeti.

Questo paradigma normativo (o ermeneutico) riflette la retorica del diritto internazionale ed il modo in cui gli avvocati abitualmente affrontano una controversia, incluse le modalità del ragionamento giuridico usate dai giudici nei tribunali sia all’interno degli Stati che a livello internazionale per spiegare e giustificare le proprie decisioni. Si può applicare in particolar modo all’uso del diritto internazionale nell’arte di governare per approvare o meno un comportamento contestato, riflettendo indirettamente l’intensità dei venti politici che gonfiano le vele della nave dello Stato, ma anche la raffinatezza e le motivazioni di chiunque stia difendendo una causa, e per chi.

Sullo sfondo di questa interpretazione, ciò che Erekat cerca e riesce a fare, più che l’interpretazione emancipatoria delle norme giuridiche, riguarda il metterci in grado di afferrare il nesso manipolatorio sotteso al dibattito giuridico internazionale e che plasma i modelli politici di controllo e resistenza. Il paradigma normativo è complementare e di sottofondo, in quanto lo scopo principale di Erakat è sviluppare meglio di quanto facciano gli approcci tradizionali un esaustivo fondamento logico per un paradigma politico e normativo che corrisponda alla realtà della lotta palestinese, e di altre lotte simili, per i diritti fondamentali, in particolare quello dell’autodeterminazione. Questi paradigmi non si contraddicono necessariamente l’un l’altro, ma poggiano su differenti funzioni del diritto e e dei giuristi in vari contesti, e da un punto di vista giurisprudenziale possono essere considerati complementari. Il lavoro di Erakat si preoccupa non tanto di comprendere come sia il mondo, quanto di come dovrebbe essere governato e di come il diritto e la professione giuridica possano (o non possano) far sì che ciò accada. In questo senso lo spirito che caratterizza il libro di Noura Erakat richiama alla mente il famoso detto di Karl Marx: “I filosofi finora hanno interpretato il mondo in vari modi; la questione è cambiarlo.”

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’università di Princeton. È autore o co-autore di 20 libri e curatore editoriale di altri 20. Nel 2008 il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHRC) ha nominato Falk Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967” per un periodo di 6 anni.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Segni di esclusione razziale: razzializzare il colonialismo di insediamento israeliano

Andy Simons

2 aprile 2019 Middle East Monitor

Recensione del libro di Ronit Lentin

Data di pubblicazione : agosto 2018 Editore: Bloomsbury Academic , Paperback : 269 pagine

Nell’accusa politica distorta e ambigua di oggi alcuni principi rimangono immutati. Ronit Lentin, sociologa del Trinity College di Dublino, si è da tempo specializzata nei rapporti razziali e il suo libro scava nelle basi razziste di Israele. Di conseguenza il razzismo collettivo degli ebrei bianchi di Israele supera decisamente ogni confronto.

Un pregio dell’analisi è teoretico, in quanto utilizza gli scritti di Patrick Wolfe, David Theo Goldberg e Giorgio Agamben per vedere come modelli filosofici ed economici facciano leva sulla differenza razziale. Nel suo contesto universitario l’autrice deve mostrare gli esempi accademici nella condanna del sistema legale distorto dei sionisti. Si potrebbe essere tentati di andare a leggere i loro lavori.

Ma, a meno che uno non faccia parte di una università prestigiosa, non si soffermerà su tali libri ed ha il mio permesso di saltare questi passaggi. Perché spaccare il capello in quattro per esprimere una definizione esatta del “colonialismo di insediamento” quando il lettore di questo libro è già al corrente dell’ingiustizia? Fortunatamente in questo volume non ce n’è bisogno perché Lentin ha puntato i riflettori su molteplici luoghi oscuri.

Un altro filone che esplora è quello della storia politica, e in questo ha avuto da molto tempo colleghi quali lo studioso Ilan Pappé che lo scrive chiaramente, citando come lei estrae il razzismo dal profondo del cuore israeliano. La materia prima del razzismo si trova ovunque, da parte dei contabili finanziari come dei compilatori di precedenti giuridici. Per quanto riguarda il sistema giudiziario sionista, ci si chiede perché non crolli sulle sue stesse tremolanti colonne. Il primo “decreto per la protezione del popolo” di Hitler è stato permanentemente applicato al giusto tipo di persone, consentendo che la contraddizione discriminatoria procedesse indisturbata. Questa è una lezione che avrebbe dovuto essere appresa dall’Olocausto ebraico, ma la legittima potenza ebraica ha adottato la stessa fiaccola della superiorità ariana nazista.

Il libro insiste sul fatto che la razza, in politica, deve voler dire cura. In medicina, per esempio, gli ebrei arabi, essendo più scuri di pelle, sono stati maltrattati nel modo in cui un medico nazista infliggeva malattie agli ebrei del campo e come nell’esperimento Tuskegee sui maschi negri in Alabama [dal 1932 al 1972 afroamericani malati di sifilide non vennero curati con la penicillina per poter studiare l’evoluzione della malattia, ndtr.]. Uno dei dottori razzisti israeliani era parente dell’autrice. Riguardo alla cittadinanza, un altro esempio, la “Legge del Ritorno” dello Stato [di Israele] nel 1991 è stata modificata per consentire l’arrivo di un milione di ebrei russi e dei loro familiari non ebrei per incrementare la popolazione bianca di Israele. Vagliando la disciplina dell’“esercito più morale al mondo” [autodefinizione dell’esercito israeliano, ndtr.], è risultato che l’IDF [esercito israeliano] aveva organizzato stupri di massa durante la Nakba e che ci sono crescenti aggressioni sessuali persino nei confronti di donne ebree che oggi fanno il servizio militare per il governo militarista. E riguardo alla geografia, la modalità dello Stato sionista è semplicemente di accerchiare le comunità arabe sulla mappa, ai lati di ogni strada.

Come viene giustificato il razzismo? Già prima del Mandato Britannico [sulla Palestina] gli abitanti arabi erano visti come ‘inferiori’ e la colonizzazione della Palestina necessitava di essere illuminato dal progresso europeo e americano. E il giovane Israele mantenne semplicemente le “Norme di Difesa (Emergenza)” del governo del Mandato, che includevano la maggior parte delle principali perversioni dell’applicazione delle leggi degli ebrei israeliani riguardo agli autoctoni non ebrei, dai processi a civili nei tribunali militari alle efficienti demolizioni di case, alla censura.

I tribunali sionisti si aggrappano a qualunque giustificazione, compresi la stessa Dichiarazione Balfour [con cui nel 1917 il governo britannico si impegnò a favorire la creazione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndtr.], i decreti del Mandato britannico, la risoluzione 181 dell’ONU che riconosceva lo Stato di Israele e persino sentenze della Bibbia. La colonizzazione è considerata un’impresa quasi sacra, in quanto tiene fede alla cosiddetta missione e il modo di vita ebraici, imitando il patriottismo USA come una sorta di religione.

Oltre all’ingegnosa strutturazione delle leggi, c’è sempre l’azione immediata di polizia o esercito. Il caso dell’espulsione dei beduini di Umm al-Hiran del 2017 ha implicato l’intenzionale uso di armi da fuoco contro una comunità disarmata e che non stava protestando. Giornalisti e parlamentari della Knesset sono stati esclusi dalla scena. Due anni prima il villaggio di Al-Araqib era stato demolito e ai suoi abitanti erano stati addebitati dal governo i costi della demolizione! Ciò che rende questo modo di agire più di una semplice prosecuzione della ‘pulizia etnica’ è stata anche la revoca della loro cittadinanza. Questa è stata una punizione perché i beduini non se ne sono andati nel resto del Medio Oriente o non sono semplicemente morti. Non importa che siano stati rinchiusi là dal nuovo Stato militarizzato dopo il 1948.

Il capitolo sul genere deve soddisfare le esigenze della razza, e ci sono forse troppe questioni da presentare. Un aspetto imprevisto è il rapporto d’interesse dello Stato israeliano per il delitto d’onore palestinese, in quanto questo, ovviamente, ne ridurrebbe la comunità.  Ma ci sono troppe tentazioni per l’autrice, determinando una deviazione dal percorso relativo alla discriminazione razziale. La decolonizzazione della Palestina, da parte dei palestinesi o di questi ultimi insieme agli ebrei israeliani, è un indispensabile punto di discussione. Eppure il capitolo sulla teoria della liberazione si allontana dalla vera e propria questione del libro riguardo a ebrei contro i goy [non ebrei] arabi.

Qui buona parte del frutto marcio è raccolto da fonti libere in rete, molte delle quali sioniste. Non ero a conoscenza del fatto che “quasi tutti” i palestinesi cittadini di Israele che hanno espresso critiche su Facebook durante il massacro del 2014 a Gaza [operazione “Margine protettivo”, ndtr.] sono stati interrogati dai servizi di sicurezza dello Stato. E stranamente mi sono perso la dichiarazione di Netanyahu sulla manifestazione razzista-fascista del 2017 a Charlotteville, Virginia [una manifestante antirazzista venne investita e uccisa da un suprematista bianco, ndtr.]: “Riguardo a voi, ebrei americani che avete fronteggiato questi nazisti laggiù – nazisti che odiano voi democratici progressisti, insieme ai vostri amici negri, musulmani, immigrati e gente di sinistra – beh, ve la siete andata a cercare…Arrangiatevi.”

O forse la vostra disapprovazione diventerà permanente leggendo un sondaggio d’opinione Pew [istituto di ricerca Usa, ndtr.] del 2016 secondo cui il 48% degli ebrei israeliani e il 59% degli ortodossi vuole l’espulsione degli arabi. Lentin ci ricorda che il parlamentare prediletto dai coloni, Naftali Bennett, ha reso legittime risposte razziste agli esami. Un ministro dell’Educazione può fare cose del genere, un balsamo per il cosiddetto ‘trauma del colono’, e ottenere pure l’approvazione dell’opinione pubblica.

Quindi uno dei pregi di questo libro sono le molte prove raccolte su internet, incoraggiandovi a fare altrettanto. Utilizzando una serie di piattaforme pubbliche, Lentin lo ha fatto per voi: se siete un attivista antirazzista per i diritti dei palestinesi, questa è una guida per il consumatore che riempirà innumerevoli sacchetti della spesa di ingiustizie basate sulla discriminazione razziale. Se il carrello pieno di orrori di questo libro ha un difetto, è che ve ne si trovano troppi da prendere, ma i sionisti continuano semplicemente a costruire scaffali su cui impilarli.

(traduzione di Amedeo Rossi)