Morire all'”Inferno”: il destino dei medici palestinesi incarcerati da Israele

Simon Speakman Cordall

24 novembre 2024 – Aljazeera

Secondo recenti rivelazioni uno dei medici più importanti di Gaza potrebbe essere stato violentato a morte. Non è l’unico.

Attenzione: questo articolo include descrizioni o riferimenti a violenze sessuali che alcuni lettori potrebbero trovare inquietanti.

La vita del dottor Adnan Al-Bursh è in netto contrasto con il modo in cui il carismatico 49enne è morto.

A dicembre il primario di ortopedia dell’ospedale al-Shifa di Gaza stava lavorando all’ospedale al-Awda nel nord di Gaza quando lui e altri medici sono stati arrestati dall’esercito israeliano per riferite “ragioni di sicurezza nazionale”.

Secondo quanto dichiarato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked, quattro mesi dopo le guardie della prigione di Ofer hanno trascinato Al-Bursh e lo hanno scaricato nel cortile della prigione, nudo dalla vita in giù, sanguinante e incapace di stare in piedi.

Avendolo riconosciuto alcuni prigionieri hanno portato Al-Bursh in una stanza vicina, dove è morto pochi istanti dopo.

Entrare in un “Inferno”

Il dott. Al-Bursh era diventato una presenza costante nella vita di molti attraverso i video-diari che postava prima del suo arresto.

I suoi video lo mostravano con i suoi colleghi mentre scavavano fosse comuni nel cortile di al-Shifa per seppellire le persone perché Israele non permetteva che i loro corpi venissero portati in un cimitero, o mentre intervenivano su feriti e moribondi con poca o nessuna attrezzatura e aspettavano insieme l’assalto israeliano contro un ospedale dove migliaia di persone avevano cercato sicurezza.

L’assalto è avvenuto a metà novembre quando, in scene catturate dal dott. Al-Bursh, l’esercito israeliano ha ordinato ai pazienti, al personale e a circa 50.000 sfollati rifugiati ad al Shifa di andarsene.

Il dott. Al-Bursh ha raggiunto l’ospedale indonesiano nel nord di Gaza dove ha lavorato fino a quando anche quello non è stato preso di mira, a novembre, e si è trasferito all’ospedale Al-Awda.

Lì è stato arrestato e condotto in un sistema carcerario che l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem descrive come “Inferno”.

Israele spesso imprigiona operatori sanitari come il dottor Al-Bursh per “indagini” e li mantiene in condizioni orribili.

“La maggior parte dei medici e infermieri [detenuti da Israele e che hanno parlato con PHRI] ha riferito di essere stati sottoposti ad interrogatori al fine di ottenere informazioni ma senza che gli venisse rivolta alcuna accusa”, ha affermato Naji Abbas, direttore del dipartimento dei prigionieri di Physicians for Human Rights Israel [Medici per i diritti umani – Israele].

“Il nostro avvocato ha visitato decine di operatori sanitari che [sono] ancora in detenzione israeliana da lunghi mesi senza accuse o senza un giusto processo e la maggior parte di loro non ha mai visto un avvocato”, ha aggiunto.

Il Ministero della Salute palestinese a Gaza riferisce che dall’inizio della guerra a Gaza nell’ottobre 2023 Israele ha arrestato almeno 310 operatori sanitari palestinesi.

Molti di loro hanno denunciato abusi e trattamenti crudeli, tra cui l’imposizione di posizioni forzate, la privazione di cibo e acqua e la violenza sessuale, compreso lo stupro.

“Gli operatori sanitari con cui abbiamo parlato sono stati trattenuti per un periodo compreso tra sette giorni e cinque mesi”, ha affermato Milena Ansari di Human Rights Watch (HRW), il cui rapporto di agosto sulla detenzione arbitraria e la tortura degli operatori sanitari ha documentato la situazione.

“Molti non vengono nemmeno accusati, vengono solo poste loro domande generiche, come: ‘Chi è il tuo imam?’, ‘In quale moschea vai?’ o anche ‘Sei un membro di Hamas?’, ma senza fornire alcuna prova”, ha detto.

Di male in peggio e poi diventa un “Inferno”

I resoconti diffusi delle torture e dei maltrattamenti sui prigionieri palestinesi nelle prigioni israeliane sono di lunga data.

Tuttavia tutti gli analisti con cui ha parlato Al Jazeera hanno notato due fasi distinte nel drammatico deterioramento delle condizioni e nell’aumento degli abusi: la prima dopo la nomina di Itamar Ben-Gvir a ministro della sicurezza nazionale nel 2022, seguita dall’esplosione di maltrattamenti dei detenuti dopo l’inizio della guerra israeliana a Gaza nell’ottobre 2023.

“Non gli importa se sei di Gaza o di Gerusalemme, se sei un medico o un lavoratore: se sei un palestinese, sei il nemico”, ha affermato Shai Parness dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

“È brutale e sistematico”, ha detto di un sistema che il rapporto di agosto di B’Tselem, Welcome To Hell, ha descritto come “una rete di campi di tortura”.

“Non è solo violenza, umiliazione e abuso sessuale, è tutto”, ha detto Ansari.

“I resoconti di violenza fisica e sessuale sono abituali. Tra le persone abusate fisicamente le ferite alla testa, alle spalle e, nel caso degli uomini, tra le gambe e il sedere sono abbastanza comuni”, ha aggiunto Ansari.

Ha descritto nei dettagli il caso di un paramedico che ha riferito a HRW di aver incontrato un altro detenuto che sanguinava dall’ano, il quale ha raccontato come tre guardie israeliane si fossero alternate a violentarlo con i loro fucili M16.

“Ridurre i loro diritti”

A luglio, nel rispondere alle accuse di sovraffollamento da parte dello Shin Bet, l’agenzia di sicurezza interna di Israele, Ben-Gvir si è vantato delle condizioni abominevoli nei suoi sistemi carcerari, scrivendo su X: “Da quando ho assunto la carica di ministro della sicurezza nazionale, uno degli obiettivi più importanti che mi sono prefissato è quello di peggiorare le condizioni dei terroristi nelle prigioni e di ridurre i loro diritti al minimo richiesto dalla legge”.

All’inizio della stessa settimana ha pubblicato un video in cui affermava: “Si dovrebbe sparare ai prigionieri invece di dar loro da mangiare”.

“Era terribile, è sempre stato terribile”, ha detto Abbas ad Al Jazeera, “Ma le cose sono diventate molto pesanti dopo la nomina di Ben-Gvir. Da ottobre è come un altro mondo. È diventato orripilante.

“Prima della guerra c’erano centinaia di prigionieri palestinesi con malattie croniche. Ora in prigione ci sono migliaia di persone in più, il che significa molte più persone con condizioni croniche che non vengono curate”.

A luglio, in seguito all’arresto di soldati israeliani accusati di torture sistematiche e stupri presso il centro di detenzione di Sde Teiman, manifestanti israeliani, tra cui politici eletti, hanno preso d’assalto Sde Teiman e la vicina base di Beit Lid chiedendo il rilascio dei soldati arrestati.

In seguito Ben Gvir ha scritto al primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu condannando l’arresto dei soldati per stupro e tortura in quanto “vergognoso” e dicendo delle condizioni nel suo sistema carcerario: “I campi estivi e la pazienza per i terroristi sono finiti”.

Secondo una dichiarazione rilasciata dall’esercito israeliano alla Sky News del Regno Unito, il dottor Al-Bursh è stato portato da Al-Awda a Sde Teiman.

Un altro detenuto, il dottor Khalid Hamouda, ha valutato che più o meno un quarto dei circa 100 prigionieri di Sde Teiman erano operatori sanitari.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele: cosa c’è da sapere

Mat Nashed

26 novembre 2024 – Al Jazeera

È iniziato il cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele, ma quali sono i dettagli? Reggerà?

Beirut, Libano – Il Libano ha approvato un accordo sul cessate il fuoco con Israele, in rappresentanza di tutte le fazioni del popolo libanese, incluso Hezbollah.

Il governo israeliano ha approvato il cessate il fuoco martedì notte e le ostilità sono cessate alle 4 del mattino di mercoledì.

L’accordo mette fine a più di un anno di violenza, iniziata quando Hezbollah ha cominciato a lanciare attacchi contro Israele l’8 ottobre 2023, dichiarando che avrebbe continuato fino a quando Israele non avesse messo fine alla sua guerra contro la gente di Gaza.

Da ottobre 2023 in Libano Israele ha costretto alla fuga 1,2 milioni di persone e ne ha uccise 3.768, per la maggior parte negli ultimi due mesi.

Hezbollah – insieme ai suoi rivali e alleati libanesi – è favorevole a mettere fine alla guerra, ma quali sono i termini del cessate il fuoco? A che punto è al momento? Durerà?

Ecco cosa sappiamo:

Il cessate il fuoco è cominciato?

Adesso che tutte le parti lo hanno sottoscritto, il cessato il fuoco è considerato in vigore.

Le ostilità sono cessate alle 4 del mattino, sei ore prima che il Libano accettasse formalmente l’accordo.

Che cosa comporta il cessate il fuoco?

Le truppe israeliane si dovrebbero ritirare dal Libano meridionale e Hezbollah dovrebbe arretrare a nord del fiume Litani, mettendo fine alla propria presenza nel sud [del Libano].

Queste operazioni richiederebbero 60 giorni e l’esercito libanese, il quale è stato perlopiù uno spettatore nell’attuale guerra, si schiererebbe a sud per vigilare sul cessate il fuoco.

La sua implementazione dovrebbe essere supervisionata anche da una task force internazionale, guidata dagli Stati Uniti e comprendente forze di pace francesi.

L’esercito libanese sarà chiamato a espandere il proprio ruolo in Libano, soprattutto nel sud, dove diventerebbe l’unico corpo armato e assumerebbe il controllo di tutte le attività legate alle armi nel paese.

E le persone che hanno dovuto lasciare le loro case?

I civili libanesi e israeliani dovrebbero poter fare gradualmente ritorno alle proprie abitazioni.

La distruzione nel sud del Libano è tuttavia così vasta che è difficile dire quante persone proveranno a farvi ritorno.

Dal lato israeliano i residenti del nord potrebbero tornare o meno, poiché si prevede che molti non avranno fiducia nel cessate il fuoco.

Il cessate il fuoco durerà?

Beh, almeno per alcuni anni, dicono gli esperti.

“In assenza di un accordo politico complessivo che coinvolga anche l’Iran, il cessate il fuoco rischia di essere una misura temporanea” ha detto ad Al Jazeera Imad Salamey, professore di scienze politiche all’Università americana libanese.

“Anche a queste condizioni, il cessate il fuoco probabilmente permetterà diversi anni di pace relativa”, ha aggiunto.

Altri analisti sono meno ottimisti, in particolare Alon Pinkas, editorialista di Haaretz, il quale dice ad Al Jazeera che l’accordo – sulla base delle informazioni comunicate – sembra molto fragile e impossibile da attuare, in particolare per quanto riguarda l’ampliamento del ruolo dell’esercito libanese.

Le due parti sono soddisfatte dei termini?

Israele ha richiesto il diritto di colpire il Libano per “far rispettare” i termini del cessate il fuoco se l’esercito libanese e la task force internazionale non riusciranno a tenere Hezbollah fuori dalla zona lungo il confine.

Secondo gli esperti, accettare la richiesta israeliana significherebbe dare a Israele una “autorizzazione” internazionale a violare regolarmente la sovranità libanese ogni volta che lo ritenga opportuno.

“Forse stiamo entrandoin una nuova fase… la sirianizzazione (del Libano)”, ha detto Karim Émile Bitar, esperto di Libano e professore associato di relazioni internazionali all’Università Saint Joseph di Beirut.

Il Libano si è a lungo opposto all’idea che Israele possa avere il diritto di colpire il suo territorio a proprio piacimento, sostenendo che ciò costituirebbe una violazione della propria sovranità.

Non è chiaro se questa clausola sarà inclusa nel cessate il fuoco o se farà parte di un accordo separato tra Stati Uniti e Israele.

E il giorno dopo?

Israele ha distrutto circa 37 villaggi e raso al suolo Nabatieh e Tiro, i quartieri principali di Beirut.

La maggior parte degli sfollati sono musulmani sciiti – gruppo demografico dal quale Hezbollah trae la maggior parte del proprio sostegno – che non potranno tornare ai loro villaggi nell’immediato futuro.

Il protrarsi di questo sfollamento senza precedenti potrebbe logorare le relazioni con le comunità di diverso orientamento religioso che li ospitano.

Le comunità confessionali del Libano hanno sofferto gravi violenze nel corso della guerra civile libanese, dal 1975 al 1990. Quella violenza ha portato a sfollamenti di massa e alla segregazione geografica delle principali comunità confessionali del Libano.

Queste comunità saranno adesso costrette a vivere l’una con l’altra senza particolare aiuto da parte del governo provvisorio, che risente di una acuta crisi economica.

Quale sarà il futuro di Hezbollah?

La presenza della task force internazionale e l’opposizione interna al ruolo militarizzato di Hezbollah rendono difficile per il gruppo recuperare la forza che ha avuto, secondo Salamey.

“Hezbollah potrebbe essere costretto a rivolgere la propria attenzione verso l’interno, nel tentativo di consolidare la propria importanza dentro lo Stato libanese, invece di dedicarsi a operazioni militari esterne, assumendo così un ruolo nel plasmare il futuro paesaggio politico del Libano”, ha dichiarato ad Al Jazeera.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




L’UNRWA avverte che la crisi umanitaria a Gaza si sta aggravando a causa del maltempo invernale

  1. Redazione di MEMO

26 novembre 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia di stampa Anadolu ha riferito che lunedì l’UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees [Agenzia ONU Assistenza e Lavoro per i Rifugiati Palestinesi] (UNRWA) ha avvisato che l’arrivo dell’inverno sta aggravando la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza. La funzionaria dell’ufficio stampa dell’agenzia ONU Enas Hamdan ha riferito ad Anadolu che le famiglie sfollate stanno affrontando “condizioni disastrose” in seguito a forti piogge, forti venti e grandi ondate sulla costa, oltre alla continua “grave riduzione” degli aiuti umanitari.

Hamdan ha osservato che molte tende che ospitano le famiglie di sfollati sono state danneggiate dalle condizioni atmosferiche, lasciando gli abitanti senza adeguato riparo. “Stiamo parlando di una situazione umanitaria catastrofica con riduzioni critiche di forniture invernali essenziali,” ha aggiunto.

I beni di prima necessità come la farina e le scorte alimentari sono quasi esaurite, ha affermato la funzionaria UNRWA, mentre c’è una grave carenza di teli di plastica rinforzata e nylon usati per creare tende di fortuna per famiglie sfollate.

L’UNRWA ha distribuito circa 13.000 pacchi di beni essenziali invernali nella parte meridionale e centrale di Gaza, ma queste forniture coprono solo una piccola parte delle necessità. Infatti la crisi si estende oltre la disponibilità di un rifugio e colpisce anche la sanità.

Hamdan ha indicato una significativa riduzione di forniture mediche e di medicine essenziali, aggravata da sovraffollamento e condizioni di vita inadeguate. Ha inoltre avvertito che circa 1,8 milioni di persone sfollate sono a rischio di malattie accresciuto da carenza di igiene e insufficiente assistenza sanitaria.

Descrivendo la situazione umanitaria a Gaza come “estremamente dura”, la funzionaria ha evidenziato il bisogno urgente di azioni internazionali per affrontare i bisogni degli abitanti ed alleviare le loro sofferenze. Una crescente pressione sulle parti responsabili è necessaria per permettere un maggior flusso di aiuti umanitari dentro Gaza, ha affermato Hamdan, osservando che le attuali consegne di aiuti – limitate a circa 30 camion al giorno – sono insufficienti, dato l’enorme bisogno: “Questi aiuti in entrata sono solamente una goccia nell’oceano in confronto ai disperati bisogni dei palestinesi a causa di una opprimente crisi umanitaria.”

Le sfide per gli abitanti sfollati di Gaza – stimati in circa due milioni – sono aggravate dalle operazioni militari israeliane in corso e da un devastante maltempo invernale. Le municipalità locali a Gaza hanno emesso ripetuti avvisi riguardo a una situazione umanitaria in peggioramento, ma i continui attacchi aerei israeliani, un implacabile assedio e la mancanza di risorse hanno lasciato la crisi per la maggior parte irrisolta.

In precedenza lunedì l’ufficio stampa del governo di Gaza ha affermato che approssimativamente 10.000 tende che ospitano abitanti sfollati sono state distrutte o portate via delle onde negli ultimi due giorni a causa delle avverse condizioni metereologiche.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Tutta la storia delle ingiustizie del sionismo in un solo villaggio beduino

Orly Noy

20 novembre 2024 – +972 Magazine

In collaborazione con LOCAL CALL

La distruzione di Umm Al-Hiran esemplifica la visione sionista dei palestinesi come transitori; pedine di scacchi movibili in un gioco di ingegneria demografica.

La settimana scorsa lo Stato di Israele ha appeso alla sua cintura lo scalpo di un’altra comunità palestinese portando a termine la demolizione di Umm Al-Hiran. La mattina del 14 novembre centinaia di poliziotti hanno preso d’assalto il villaggio beduino – situato nel deserto del Negev/Naqab nel sud di Israele – accompagnati da ufficiali delle forze speciali ed elicotteri. Gli abitanti, cittadini israeliani che hanno a lungo temuto che ciò accadesse, avevano già distrutto essi stessi la maggior parte delle strutture nel villaggio, per evitare di dover pagare multe salate. Ciò che è rimasto da distruggere alla polizia era la moschea.

E così 25 anni di battaglie legali per salvare il villaggio sono finite e gli abitanti sono rimasti senza casa. Se si vuole capire l’intera storia delle ingiustizie del sionismo contro i palestinesi – con tutte le discriminazioni, il razzismo, le espropriazioni e la violenza radicate in una visione di supremazia ebraica e in una concomitante ossessione per la questione demografica – non c’è bisogno di guardare più in là di Umm Al-Hiran.

Nel discorso ebreo-israeliano la distruzione di una comunità beduina a malapena fa alzare un sopracciglio, non parliamo di meritare titoli di giornali. Dopotutto era un “villaggio non riconosciuto” – un espediente linguistico che Israele utilizza per dipingere i cittadini beduini come invasori nelle loro stesse terre. Il pubblico israeliano percepisce la distruzione sistematica di queste comunità come una mera repressione di trasgressori. Ma gli abitanti di Umm Al-Hiran non solo non erano invasori, ma sono stati trasferiti là dallo Stato stesso.

Prima della nascita di Israele gli abitanti della comunità diventata Umm Al-Hiran vivevano nel nordovest del Negev. Nel 1952 il governo militare di Israele li trasferì con la forza più ad est, per espropriare la loro terra per la costruzione del Kibbutz Shoyal. Quattro anni dopo lo Stato decise di sradicarli nuovamente, spingendoli in una zona appena all’interno della Linea Verde, vicina all’estremità sudoccidentale della Cisgiordania, dove sono rimasti fino alla settimana scorsa.

In tutti questi decenni lo Stato non si è preoccupato di regolarizzare lo status del villaggio. Non ha fornito agli abitanti infrastrutture o servizi basilari come elettricità, acqua, educazione o impianti igienici. Questa è l’indecente immoralità del sionismo: privare gli abitanti palestinesi del Negev delle più elementari condizioni di vita per generazioni, per rimpiazzarli un giorno con una comunità ebraica in nome del “far fiorire il deserto”.

Il Negev costituisce più della metà del territorio dello Stato di Israele e vaste aree di esso sono vuote. Eppure lo Stato insiste nel distruggere villaggi arabi “non riconosciuti” per costruirne di nuovi ebraici. Nel caso di Umm Al-Hiran la nuova comunità originariamente doveva recare la versione ebraicizzata del nome del villaggio che stava rimpiazzando: Hiran. Qualcuno ha pensato di meglio e adesso verrà chiamata Dror – “libertà”.

Ovviamente non è una novità. Israele ha distrutto le comunità palestinesi e ha insediato ebrei al loro posto fin dalla sua fondazione. Solo nel corso della Nakba del 1948 ha spopolato centinaia di città e villaggi palestinesi. Ma la storia di Umm Al- Hiran presenta un altro aspetto dell’atteggiamento di Israele verso i palestinesi, che è essenziale per comprendere il modus operandi del sionismo: la percezione della presenza dei palestinesi come provvisoria.

Questa è una delle più violente espressioni della supremazia ebraica. I palestinesi sono visti come polvere umana che può essere semplicemente spazzata via, o come pedine di scacchi che possono essere spostate da un quadrato all’altro secondo l’eterno progetto di Israele di ingegneria demografica tra il fiume e il mare. E’ un aspetto essenziale della disumanizzazione di coloro sulle cui terre lo Stato ha posto le mire: la convinzione profonda che queste persone non abbiano radici e perciò spostarle da una parte all’altra non possa assolutamente essere considerato una rimozione.

In tal modo è possibile continuare ad ignorare le rivendicazioni degli abitanti dei villaggi della Galilea Iqrit e Bir’em, dopo più di mezzo secolo da quando l’Alta Corte ha sentenziato che deve essere loro permesso ritornare alle loro terre da cui furono espulsi durante la Nakba; è possibile condurre una vasta pulizia etnica in Cisgiordania col pretesto della sicurezza e della legalità; è possibile ordinare a centinaia di migliaia di abitanti di Gaza di evacuare ancora e ancora e ancora, trasformandoli in eterni nomadi come progettato dal sionismo – e, in cima a tutto ciò, considerare questo un atto umanitario.

L’ingegneria demografica del sionismo non si limita ai palestinesi. La storia di Givat Amal, un quartiere mizrahi (ebrei orientali, provenienti da Medio Oriente e Maghreb, ndtr.) di Tel Aviv che è stato sgomberato con la forza e demolito nel 2021, presenta molti parallelismi con la storia di Umm Al-Hiran: anche là lo Stato ha costretto una comunità emarginata a spostarsi in una zona di frontiera, non ha mai regolarizzato il suo status o i diritti alla terra e appena il valore del terreno è aumentato ha espulso gli abitanti per avidità. Intanto i “comitati di ammissione” approvati dallo Stato continuano a sostenere l’apartheid in centinaia di comunità ebree nel Negev e in Galilea, garantendo che le “persone giuste” vivano nei posti giusti.

Ma sono stati i palestinesi ad essere trasformati dal sionismo in un popolo precario con un’identità transitoria. E’ questo l’assunto che sta alla base del piano di scambio di terre sostenuto dieci anni fa da Avigdor Liberman, che contemplerebbe il trasferimento di parecchie comunità palestinesi all’interno di Israele in Cisgiordania insieme all’annessione da parte di Israele di alcuni insediamenti coloniali: oggi i palestinesi possono essere cittadini di Israele, ma domani, muovendo un dito, possono smettere di esserlo. (Liberman, un tempo considerato all’estrema destra della politica israeliana, è recentemente diventato una specie di eroe del centro-sinistra).

Forse ciò su cui poggia questa determinazione sionista di strappare i palestinesi dai loro luoghi è una paura interiorizzata del loro legame profondo con la terra. Forse è l’illusione che se vengono sradicati e scacciati da un posto all’altro un numero sufficiente di volte – vuoi con le marce della morte a Gaza, la pulizia etnica in Cisgiordania, o la distruzione e l’espulsione nel Negev – alla fine si arrenderanno e se ne andranno.

Otto anni fa il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid ha scritto un tributo al movimento Hashomer Hachadash, in cui ha detto che “un uomo che pianta un albero non andrà da nessuna parte”. C’è qualcosa di notevole nei modi in cui a volte il subconscio fuoriesce dalla penna, a dispetto della persona che la impugna. Dopotutto lo Stato sa esattamente chi ha piantato gli ulivi che l’esercito bombarda a Gaza e i coloni bruciano in Cisgiordania. Ma anche dopo decenni di distruzioni, espulsioni e carneficine il sionismo rifiuta di accettare che non se ne andranno da nessuna parte.

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa Farsi. E’ capo del consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti si occupano delle linee di intersezione e definizione della sua identità come mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive entro un’incessante migrazione, e il costante dialogo tra di esse.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Il mandato di arresto della CPI contro Netanyahu: cosa ci si può aspettare dopo

Sondos Asem

21 novembre 2024 – Middle East Eye

Tutti gli Stati membri ora hanno l’obbligo di arrestare il primo ministro israeliano se dovesse arrivare sul loro territorio

I mandati di arresto della Corte Penale Internazionale contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ex-ministro della Difesa Yoav Gallant hanno un importante peso giudiziario e politico.

Hanno immediate conseguenze relative agli obblighi legali degli Stati che fanno parte dello Statuto di Roma, il trattato che ha dato vita alla Corte.

Tutti i 124 Stati membri dello Statuto di Roma ora hanno l’obbligo di arrestare Netanyahu e Gallant, così come il capo militare di Hamas Mohammed Deif, anch’egli destinatario di un mandato nonostante Israele sostenga che è stato ucciso a Gaza.

Un processo non può iniziare in assenza [degli imputati] e gli Stati membri devono consegnare l’accusato alla Corte dell’Aia.

Ma la Corte non ha poteri esecutivi. Si basa sulla collaborazione degli Stati membri perché arrestino e consegnino i sospettati.

È un passo incredibilmente importante nella lotta contro l’impunità,” dice a MEE Giulia Pinzauti, docente di diritto internazionale all’Università di Leida. “Gli Stati membri hanno l’obbligo di collaborare con la Corte e dovrebbero farlo. È un momento fondamentale per la cooperazione con la Corte.”

I firmatari dello statuto includono tutti gli Stati membri dell’UE, così come la Gran Bretagna, in Medio Oriente la Giordania, la Tunisia e la Palestina.

Tuttavia altri Stati, in particolare USA, Cina, India e Russia, non sono firmatari. La maggior parte degli Stati del Medio Oriente e del Nord Africa, tra cui Turchia e Arabia Saudita, non riconoscono la CPI.

Giovedì, in seguito all’annuncio della Prima Camera preliminare, vari Stati che aderiscono allo Statuto, tra cui Olanda, Francia, Giordania, Belgio e Irlanda, hanno annunciato la loro intenzione di applicare la decisione della Corte. Contattato da MEE per un commento, il governo britannico ha rifiutato di dire se applicherà il mandato di arresto.

È probabile che Netanyahu e Gallant, che non è più ministro della Difesa, ridurranno i loro viaggi, come ha fatto il presidente russo Vladimir Putin in seguito al mandato di arresto della CPI contro di lui.

Anche un futuro governo israeliano potrebbe scegliere di consegnarli all’Aia.

Oltretutto Stati che non sono membri dello Statuto di Roma potrebbero scegliere di consegnare all’Aia i sospettati, vietare loro di entrare nel proprio territorio o perseguirli in base al proprio ordinamento giuridico.

Triestino Marinello, avvocato di diritto internazionale per la tutela dei diritti umani che rappresenta le vittime palestinesi presso la CPI, afferma che è improbabile che Netanyahu venga estradato da Israele finché è primo ministro. “Ma ciò avrà un notevole impatto sulla sua capacità di agire come primo ministro, perché non potrà viaggiare in 124 Stati, che hanno l’obbligo legale, non la discrezionalità politica, di arrestarlo ed estradarlo,” dice Marinello a Middle East Eye.

Secondo Marinello, che definisce “storici” i mandati di arresto, avrà un impatto che va oltre quelli relativi a Netanyahu e Gallant.

I mandati potrebbero avviare cause nazionali contro altri cittadini di Israele, soprattutto con doppia nazionalità in Paesi europei, perché la Corte ha stabilito che sono stati commessi crimini. “Chiunque sia coinvolto nella commissione dei crimini deve essere portato in giudizio a livello locale ma anche internazionale,” afferma Marinello.

Benché la CPI abbia giurisdizione sul crimine di genocidio, le accuse contro i dirigenti israeliani escludono questo reato, che attualmente viene esaminato dalla Corte Internazionale di Giustizia in una causa presentata a dicembre dal Sud Africa contro Israele.

Tuttavia il procuratore ha preventivamente riconosciuto che attualmente altri crimini e la campagna di bombardamenti israeliani in corso sono attivamente indagati dalla CPI.

Le due Corti con sede all’Aia hanno competenze diverse.

La CIG, il principale organo giudicante dell’ONU, si occupa di controversie legali tra Stati e fornisce pareri consultivi presentati da organizzazioni dell’ONU e agenzie collegate.

Invece la CPI persegue singoli individui per quattro crimini internazionali: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini di aggressione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un ufficiale delle IDF scappa da Cipro temendo un arresto con accuse di crimini di guerra

Redazione di MEMO

20 novembre 2024 – Middle East Monitor

Un ufficiale riservista delle Israel Defence Forces (IDF) [l’esercito israeliano, ndt.] è fuggito da Cipro per evitare di essere “perseguito legalmente” con accuse di crimini di guerra. Secondo il quotidiano Israel Hayom Elisha Livman era in vacanza a Cipro con sua moglie, ma ha lasciato l’isola dopo che la fondazione belga Hind Rajab ha pubblicato dei video di lui che combatteva nella Striscia di Gaza. In uno dei video dice: “Noi non ci fermeremo fino a quando non avremo bruciato tutta Gaza.”

Livman ha ricevuto una chiamata urgente dal ministro israeliano degli Esteri, che si è incontrato con il ministro della Giustizia, e ha deciso che l’ufficiale doveva lasciare Cipro immediatamente prima di venire accusato di commettere crimini di guerra e genocidio.

Il sito web della fondazione Hind Rajab spiega che l’organizzazione ha sporto una denuncia formale alle autorità cipriote nella quale la fondazione “fornisce ampie prove contro Livman, inclusi dei video che lo mostrano incendiare una casa ed una proprietà civili a Gaza.” La fondazione ha anche fatto riferimento ai post sui social media dell’ufficiale israeliano durante la sua visita a Cipro, nei quali ha incitato alla violenza contro un ristorante libanese.

La fondazione ha anche sporto denuncia contro 1.000 soldati israeliani presso la Corte Internazionale di Giustizia [organismo dell’ONU, ndt.] con accuse di genocidio nella Striscia di Gaza, oltre a crimini di guerra e contro l’umanità.

Il giornale israeliano Yedioth Ahronoth ha sottolineato che Livman ha condiviso il fatto che lui e sua moglie stavano viaggiando a Cipro per vacanza. “Questo annuncio è diventato il presupposto in base al quale le organizzazioni solidali con i palestinesi, incluso il gruppo belga 30 Marzo, hanno chiesto un mandato d’arresto. Il gruppo segue i soldati israeliani con l’intento di perseguirli in Europa per presunti crimini di guerra.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Un reparto armato guidato da Hamas prende di mira le bande che saccheggiano i convogli di aiuti a Gaza

Redazione di MEMO

19 novembre 2024-Middle East Monitor

Dopo un forte aumento dei saccheggi delle scarse forniture, Reuters riporta che Combattenti di Hamas e di altre fazioni di Gaza hanno formato un reparto armato per impedire alle bande di saccheggiare i convogli di aiuti nel territorio assediato, come hanno affermato residenti e fonti vicine al gruppo.

Da quando è stato formato questo mese, in mezzo alla crescente rabbia pubblica per i sequestri di aiuti e l’aumento dei prezzi, il nuovo reparto ha organizzato ripetute operazioni tendendo imboscate ai saccheggiatori e uccidendone alcuni in scontri armati, hanno affermato le fonti.

Gli sforzi di Hamas per assumere un ruolo guida nell’assicurare le forniture di aiuti indicano le difficoltà che Israele affronterà in una Gaza postbellica viste le poche alternative fattibili a un’organizzazione che sta cercando di distruggere da oltre un anno e che afferma non potrà avere alcun ruolo di governo.

Israele accusa Hamas di dirottare gli aiuti. L’organizzazione lo nega e accusa Israele di cercare di fomentare l’anarchia a Gaza prendendo di mira la polizia che sorveglia i convogli di aiuti.

Un portavoce dell’esercito israeliano non ha risposto immediatamente alla richiesta di commento di Reuters sulle unità di Hamas che combattono i saccheggiatori. Nel caos della guerra le bande armate hanno intensificato e razzie dei convogli di rifornimenti dirottando camion e vendendo le scorte saccheggiate nei mercati di Gaza a prezzi esorbitanti.

Oltre a scatenare la rabbia nei confronti dell’esercito israeliano la penuria ha anche suscitato domande su Hamas per la sua apparente incapacità di fermare le bande. “Siamo tutti contro i banditi e i saccheggiatori, per poter vivere e mangiare […] ora sei obbligato a comprare da un ladro” ha affermato Diyaa Al-Nasara, parlando durante un funerale di un combattente di Hamas ucciso negli scontri con i saccheggiatori.

Il nuovo reparto anti-saccheggio, formato da combattenti ben equipaggiati di Hamas e gruppi alleati, è stato chiamato “Comitati popolari e rivoluzionari” ed è pronto ad aprire il fuoco sui dirottatori che non si arrendono, ha affermato una delle fonti, un funzionario del governo di Hamas. Il funzionario, che ha rifiutato di essere nominato perché Hamas non lo avrebbe autorizzato a parlarne, ha affermato che il gruppo ha operato nella parte centrale e meridionale di Gaza e ha svolto finora almeno 15 missioni durante le quali ha ucciso alcuni banditi armati.

Fame dilagante

A tredici mesi dall’inizio della devastante campagna militare di Israele a Gaza, lanciata in risposta ai mortali attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, gravi carenze di cibo, medicine e altri beni stanno causando fame e sofferenza dilaganti tra i civili.

Israele ha sospeso le importazioni di beni commerciali il mese scorso e da allora sono entrati a Gaza solo camion di aiuti trasportando una frazione di ciò che le organizzazioni umanitarie affermano sia necessario per un territorio in cui la maggior parte delle persone ha perso la casa e ha pochi soldi.

“Sta diventando sempre più difficile far arrivare gli aiuti”, ha affermato la portavoce dell’OMS, Margaret Harris, dopo una serie di saccheggi nel fine settimana. Prima della guerra, un sacco di farina veniva venduto a 10 o 15 dollari e un chilo di latte in polvere a 30 shekel (8 dollari). Ora la farina costa 100 $ e il latte in polvere 300 shekel (80 dollari), affermano i commercianti.

Alcune persone a Gaza dicono di volere che Hamas prenda di mira i saccheggiatori.

“C’è una campagna contro i ladri, lo vediamo. Se la campagna continua e gli aiuti fluiscono i prezzi scenderanno perché gli aiuti rubati appaiono sui mercati a prezzi elevati”, ha detto Shaban, un ingegnere sfollato di Gaza City, che ora vive a Deir Al-Balah nella Striscia di Gaza centrale.

Dopo che quasi 100 camion sono stati saccheggiati la scorsa settimana Hamas ha attaccato un gruppo armato che si stava radunando vicino a un valico dove di solito entrano i camion degli aiuti, ha aperto il fuoco anche con armi pesanti uccidendo almeno 20 membri di questo gruppo, secondo i residenti e la televisione di Hamas Aqsa.

I testimoni hanno descritto un altro scontro a fuoco sabato quando i combattenti di Hamas a bordo di due auto hanno inseguito uomini sospettati di saccheggio che erano su un altro veicolo con conseguente morte dei sospettati.

Il funzionario di Hamas ha detto che il reparto antisaccheggio ha dimostrato che continua ad essere in funzione il governo di Hamas a Gaza. “Hamas come movimento esiste, che piaccia o no. Hamas come governo esiste, anche se non è più forte come una volta, ma esiste e il suo personale cerca di aiutare la gente ovunque nelle aree di sfollamento”, ha affermato.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il Watermelon Index individua e denuncia le imprese complici della guerra di Israele a Gaza

Oscar Rickett

19 novembre 2024 – Middle East Eye

Progressive International ha lanciato uno strumento che consente ai lavoratori di contestare l’appoggio delle aziende a Israele

Una nuova banca dati di oltre 400 imprese che operano in Gran Bretagna e che sono considerate complici della guerra di Israele contro Gaza è stata lanciata da un collettivo di sindacati e organizzazioni guidato da Progressive International [organizzazione internazionale fondata da famosi politici di sinistra di vari Paesi, ndt.].

Il Watermelon Index [Indicatore dell’anguria, simbolo della Palestina, ndt.], che l’organizzazione di sinistra descrive come “uno strumento per la resistenza guidata dai lavoratori contro l’occupazione e il genocidio in Palestina”, consentirà ai dipendenti di mettersi in comunicazione tra loro e con attivisti per contestare i loro datori di lavoro riguardo ai rapporti con Israele. Tra le imprese inserite nella lista ci sono Barclays, la società di navigazione Maersk, il gigante del commercio in rete Amazon, l’azienda informatica Microsoft e l’agenzia di affitti per le vacanze Airbnb.

Oltre a queste multinazionali c’è una schiera di altre attività in rapporto con Israele, in attività che includono la finanza, le assicurazioni, la tecnologia, la logistica e l’energia. Progressive International sta concentrando i suoi sforzi in questi settori.

Secondo Progressive International la complicità di una compagnia con la guerra di Israele contro Gaza va misurata in base “alle diverse caratteristiche dell’appoggio, anche finanziario, militare, diplomatico, culturale, commerciale e sociale” che fornisce.

Il Watermelon Index contiene anche dettagli sulle campagne guidate dai lavoratori che sono state organizzate contro la guerra e include strumenti che permettono ai lavoratori di organizzarsi e mettersi in contatto tra loro.

Da quando Israele ha iniziato la guerra contro Gaza in seguito agli attacchi del 7 ottobre guidati da Hamas, sindacati e altre organizzazioni palestinesi hanno chiesto un embargo delle armi e dell’energia e ai lavoratori di tutto il mondo di agire contro la complicità dei loro datori di lavoro con Israele.

Le forze israeliane hanno ucciso circa 44.000 palestinesi a Gaza, devastando nel contempo l’enclave costiera ed estendendo la guerra al Libano.

Proteste di massa hanno avuto luogo con frequenza quasi settimanale nelle città dell’Occidente, tra cui Londra, ma la Gran Bretagna, gli USA e altri governi occidentali continuano ad armare Israele e a fornirgli appoggio non solo diplomatico.

È in questo contesto che è stato lanciato il Watermelon Index.

James Schneider, direttore per la comunicazione di Progressive International, dice a Middle East Eye: “Il ceto politico-mediatico dell’Occidente non vuole contestare il genocidio che arma e sostiene. Dobbiamo prendere l’iniziativa noi, ovunque siamo, per contrastare i gravissimi crimini contro i palestinesi.”

Schneider ha affermato che molte persone che lavorano per imprese presenti nella banca dati possono non essere consapevoli dei rapporti di queste con Israele e quindi potranno utilizzare il Watermelon Index come un modo per mettersi in contatto con altri lavoratori filo-palestinesi.

Lavoratori contro la guerra di Israele

Questo tipo di azioni guidate dai lavoratori si sono viste durante tutta la guerra. Secondo il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) l’11 novembre i lavoratori del porto di Tangeri si sono rifiutati di caricare una nave della Maersk con “un carico contenente equipaggiamento militare”.

“Chiunque accolga le navi israeliane non è uno di noi” hanno scandito i manifestanti in Marocco, mentre Maersk ha affermato che il carico non includeva affatto “armi da guerra o munizioni”.

Altrove portuali di Spagna, Italia, Belgio, Namibia e India si sono rifiutati di movimentare materiale militare destinato a Israele. Pressioni di sindacati e manifestanti giapponesi hanno obbligato il gigante del commercio Itochu a interrompere la collaborazione con la principale impresa militare privata israeliana, Elbit Systems.

“La macchina da guerra israeliana è in grado di agire grazie all’appoggio finanziario, militare, diplomatico e culturale che riceve da imprese di tutto il mondo. Migliaia di aziende, in misura maggiore o minore, sono complici,” afferma Kimia Talebi, promotrice del Watermelon Index di Progressive International.

“I lavoratori di queste imprese hanno il potere di mettere i bastoni tra le ruote della macchina da guerra. E molte migliaia di loro, come i lavoratori indiani di 11 porti, si stanno rifiutando di caricare armamenti che potrebbero essere usati per uccidere palestinesi.”

Talebi sostiene che la gente dovrebbe “utilizzare l’Index per trovare le campagne in corso contro la complicità aziendale o contattarci per avere supporto nell’organizzarne altre,” con Progressive International e altre associazioni che intendono agevolare campagne guidate dai lavoratori contro la complicità con le azioni di Israele.

Altre organizzazioni e sindacati coinvolti nel Watermelon Index includono Palestinian Youth Movement, Workers for a Free Palestine, Campaign Against Arms Trade, United Tech and Allied Workers, No Tech for Apartheid, Energy Embargo for Palestine, Organise Now!, Disrupt Power e il Movement Research Unit [Movimento Giovani Palestinesi, Lavoratori per una Palestina Libera, Campagna contro il Commercio di Armi, Lavoratori Uniti della Tecnologia, Nessuna Tecnologia per l’Apartheid, Embargo Energetico per la Palestina, Organizzatevi Ora!, Disturbare il Potere e il Movimento Ricerca Unita].

Il Palestinian Youth Movement ha già ottenuto un certo successo con la sua campagna Smascherare Maersk. Ciò ha incluso la pubblicazione di una ricerca critica relativa all’uso del porto di Algeciras da parte del gigante delle spedizioni navali che ha trasportato un cargo di armamenti in Israele, nonostante l’embargo sulle armi deciso dalla Spagna. Gli attivisti sono riusciti in seguito a ottenere che il governo spagnolo bloccasse la partenza di due navi di Maersk che portavano un carico di armi verso Israele.

No Tech for Apartheid, un altro collaboratore del Watermelon Index, ha guidato una campagna organizzando sit-in di massa, petizioni e picchetti che chiedevano di porre fine al progetto Nimbus, un contratto tra Google, Amazon e Israele.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Docente ebrea licenziata per post antisionisti

Nora Barrows-Friedman 

17 Novembre 2024 Electronic Intifada

Negli Stati Uniti gli studenti e i docenti continuano a resistere alle misure repressive delle amministrazioni universitarie volte a soffocare o addirittura criminalizzare ogni discorso a sostegno dei diritti dei palestinesi – mentre il genocidio a Gaza continua.

Accanto alle università statunitensi d’élite che chiamano la polizia antisommossa contro i propri studenti che fanno sit-in di protesta, o che tentano di impedire del tutto agli studenti di condurre proteste, alcune università hanno cercato di classificare l’ideologia politica del sionismo come un genere di identità protetta per definire il discorso antisionista come incitamento all’odio razzista.

“Da quando sono insegnante ho tenuto corsi sulla Palestina: è sempre stata centrale o costitutiva nel lavoro che svolgo”, ha detto Maura Finkelstein a The Electronic Intifada Podcast.

Finkelstein, studiosa di antropologia e scrittrice, ha insegnato al Muhlenberg College di Allentown, Pennsylvania, per nove anni.

Teneva un corso di Antropologia della Palestina, un corso che, dice, era stato approvato dal college. Ma nonostante fosse di ruolo è stata licenziata a maggio 2024 per i suoi post sui social media a sostegno dei diritti dei palestinesi e contro l’ideologia politica del sionismo, un provvedimento che è stato interpretato come avvertimento per gli altri professori anti-genocidio.

Il licenziamento è seguito a mesi di mirate persecuzioni da parte di gruppi di lobbisti e di singoli individui israeliani che hanno fatto pressione sull’università affinché licenziasse Finkelstein accusandola di “odio verso gli ebrei” per i suoi principi antisionisti. Finkelstein è ebrea.

The Intercept [organizzazione giornalistica americana di sinistra senza scopo di lucro, ndt.] ha riferito che Finkelstein “è stata oggetto di una campagna di migliaia di email anonime generate da bot, inviate ogni minuto per oltre 24 ore agli amministratori della scuola nonché a organi di informazione e politici locali per chiederne la rimozione”. L’amministrazione del college ha detto a Finkelstein che “numerose famiglie di studenti avevano chiamato per esprimere preoccupazione per le sue opinioni”, nota The Intercept. “Una petizione Change.org avviata a fine ottobre da anonimi ‘ex studenti e sostenitori del Muhlenberg College’ che chiedeva il licenziamento di Finkelstein per presunta retorica ‘pro-Hamas’ ha ottenuto oltre 8.000 firme”.

Finkelstein ha detto a The Electronic Intifada che uno dei suoi post sui social media, la ripubblicazione sul suo account personale della dichiarazione del poeta palestinese americano Remi Kanazi di rifiuto di normalizzare il sionismo, ha provocato la condanna di uno studente di Muhlenberg che non aveva mai frequentato le sue lezioni. “Poiché lo studente si identificava come sionista e poiché credeva che sionismo ed ebraismo fossero la stessa cosa, [lo studente ha affermato che] stavo violando la politica di non discriminazione sulle pari opportunità, il che sostanzialmente avrebbe negato allo studente l’accesso all’istruzione”, ha detto Finkelstein.

E ha spiegato che, nonostante lo studente non la conoscesse, “ha dato per scontato dai post sui social media che non sarebbe stato al sicuro nella mia classe. La cosa è passata attraverso un’indagine lunga tre mesi e mezzo, è passata attraverso vari comitati di docenti, personale e amministrativi, e mi è stato detto che ero stata licenziata per giusta causa, il che significa che non ho ricevuto il TFR”.

“Coincidenza perfetta”

Finkelstein afferma che secondo l’ Associazione Americana dei Professori Universitari (AAUP) è la prima professoressa di ruolo a essere licenziata dall’ottobre 2023 per il suo sostegno ai diritti dei palestinesi. “Certo, ci sono stati casi in passato”, nota, citando il licenziamento del professor Steven Salaita da parte dell’Università dell’Illinois nel 2014 [per tweet giudicati antisemiti di protesta contro il bombardamento di Gaza, ndt.] così come “innumerevoli professori associati, professori assistenti in visita, docenti, altri docenti a contratto che hanno perso i loro contratti, che hanno perso il lavoro senza lo stesso tipo di causa che avrebbe causato indignazione”.

La paura, dice, per gli accademici che adesso vengono sanzionati,è che se viene divulgata la vicenda non lavoreranno mai più nell’istruzione superiore. E penso che questa sia una minaccia reale”. Nel suo caso, spiega Finkelstein, si cristallizzano almeno due delle grandi criticità dell’istruzione superiore in questo momento. Una è la “costante erosione dei finanziamenti federali, del sostegno federale [che] ha fatto sì che queste istituzioni siano completamente, o quasi completamente, dipendenti dalle tasse universitarie e dal sostegno dei donatori”, il che crea un modello finanziario che “in realtà non riguarda l’istruzione ma la raccolta di fondi”, dice.

La seconda criticità è che gli amministratori sono nella condizione per cui “non sanno cosa sia l’ebraismo. Non sanno cosa sia il sionismo. Probabilmente non sanno molto delle decisioni che prendono. Ciò che sanno è [che] se si alienano la base finanziaria tracolleranno”. Finkelstein dice di capire perché alcuni professori abbiano paura di parlare in difesa della Palestina e potenzialmente perdere il lavoro. Ma, aggiunge, i suoi colleghi non dovrebbero autocensurarsi. “Dobbiamo tutti parlare della Palestina. Dobbiamo tutti fare lezioni sulla Palestina perché, teoricamente, non possono licenziarci tutti.”

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Una e-mail interna rivela che il New York Times ha bloccato un’inchiesta sugli ultras israeliani

Asa Winstanley

18 novembre 2024 – The Electronic Intifada

Il New York Times ha bloccato un’inchiesta di uno dei suoi stessi reporter sulle violenze dei facinorosi israeliani ad Amsterdam all’inizio del mese.

In una e-mail interna del Times, inavvertitamente condivisa con The Electronic Intifada, il reporter olandese Christiaan Triebert ha spiegato a un manager di aver proposto “un’indagine visiva che stavo conducendo sugli eventi del [6-8 novembre] ad Amsterdam”.

“Purtroppo il servizio è stato bloccato”, ha scritto. “Mi dispiace che la prevista indagine visiva momento per momento non sia stata portata avanti”.

“È stato molto frustrante, a dir poco”, ha scritto Triebert.

L’e-mail era indirizzata al senior manager del Times Charlie Stadtlander, ex addetto stampa dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti e dell’esercito americano.

Triebert sembrava interessato a realizzare un reportage che facesse chiarezza, rimediando alla falsa narrazione insistentemente avanzata dal suo stesso giornale secondo la quale i tifosi israeliani sarebbero stati vittime di violenze di gruppo dettate dall’odio per gli ebrei.
La corrispondenza intercorsa venerdì tra Triebert e Stadtlander è scaturita dalle richieste di commento di
The Electronic Intifada al Times in merito al resoconto altamente fuorviante che il giornale aveva fatto della violenza dei facinorosi israeliani ad Amsterdam.

Come il reporter ha spiegato mercoledì sul livestream di The Electronic Intifada, il giornale ha di fatto capovolto la realtà.

Le prove che anche un solo attacco antisemita abbia avuto luogo ad Amsterdam sono ancora esattamente zero, per non parlare del “pogrom” che i funzionari del governo israeliano hanno immediatamente evocato.

Il Times è finito sotto tiro per aver utilizzato un video di violenze di ultras israeliani ad Amsterdam la scorsa settimana per affermare l’esatto contrario di ciò che il video mostrava in realtà.

Il Times ha affermato che il filmato girato da un fotoreporter olandese mostrava “attacchi antisemiti” contro gli israeliani, anche se in realtà mostrava la violenza dei facinorosi israeliani contro un cittadino olandese.

Per diversi giorni il filmato è stato messo in cima al servizio dell’8 novembre sugli eventi di Amsterdam della sera precedente.

Ma martedì il giornale è stato costretto a rettificare dopo che la creatrice del video – la fotoreporter olandese Annet de Graaf – ha condannato pubblicamente i media internazionali per aver etichettato erroneamente il suo video come prova di “attacchi antisemiti” contro i tifosi di calcio israeliani.

In realtà, il video mostra un’orda di decine di ultras israeliani che attaccano una persona dopo che la loro squadra, il Maccabi Tel Aviv, ha perso una partita in trasferta per 5-0 contro la squadra olandese dell’Ajax il 7 novembre.

Il manager del NY Times Stadtlander ha dichiarato venerdì a The Electronic Intifada che, dopo la correzione, il giornale aveva “rimosso il video su richiesta dell’autrice”.

Ma de Graaf ribadisce che questo non è vero. “Non ho assolutamente detto questo”, ha dichiarato venerdì per telefono a The Electronic Intifada. “Non è vero quello che il capo redattore [Stadtlander] vi sta dicendo nell’e-mail. Non è vero”.

Alla richiesta di un commento Stadtlander ha rifiutato di rispondere, scrivendo solo che “la dichiarazione che vi ho rilasciato ieri sera costituisce il nostro commento sulla questione”.

Minimizzare la violenza genocida israeliana

Nessuno dei quattro autori dell’articolo – John Yoon, Christopher F. Schuetze, Jin Yu Young e Claire Moses – ha risposto alle richieste di commento di Electronic Intifada.

Stadtlander nega di aver avuto alcun ruolo nel commissionare o rivedere l’articolo.

Dopo che The Electronic Intifada ha ricevuto l’e-mail di Triebert, “inavvertitamente copiata”, Stadtlander ha inviato un’altra e-mail in quello che sembra essere un tentativo di limitare i danni.

Vi afferma che “il prezioso lavoro che Christiaan [Triebert] e altri del suo team stavano facendo non è diventato un pezzo a sé stante” perché “molto del materiale è stato incorporato” in un altro articolo che il Times aveva pubblicato.

Ma il pezzo che Stadtlander ha linkato è l’ennesimo insabbiamento della violenza israeliana ad Amsterdam – uno dei tanti pubblicati dal Times.

Offusca o inverte completamente causa ed effetto e minimizza gli attacchi israeliani contro i cittadini olandesi, basandosi quasi interamente sulle dichiarazioni degli ultras israeliani.

Inoltre sminuisce un video dei tifosi del Maccabi che tornano da Amsterdam all’aeroporto di Tel Aviv cantando uno slogan apertamente genocida, in cui esultano per il fatto che a Gaza “non ci sono più bambini”, minimizzandolo come semplici “canti provocatori contro arabi e gazawi”.

Agenda anti-palestinese

Che la redazione del Times avesse un’agenda pro-Israele fin dall’inizio della sua copertura dell’incidente è evidente dalla lettura della prima versione del pezzo, ancora disponibile negli archivi online.

Quella versione non includeva il video di Annet de Graaf e non conteneva alcuna prova – o anche solo un’accusa – di antisemitismo, a parte le affermazioni infondate di funzionari del governo israeliano.

Una delle fonti principali citate in quella versione era Itamar Ben-Gvir, ministro israeliano della Sicurezza Nazionale di estrema destra, che vuole espellere tutti i palestinesi. “I tifosi che sono andati a vedere una partita di calcio sono vittime di antisemitismo e sono stati attaccati con una crudeltà inimmaginabile solo perché ebrei”, ha dichiarato Ben-Gvir.

Tuttavia, tutti i riferimenti a Ben-Gvir sono stati rimossi dall’articolo in meno di due ore.

Ad oggi, il New York Times ha pubblicato più di una dozzina di articoli sostanzialmente incentrati sulla violenza ad Amsterdam.

Si tratta di un numero sorprendentemente alto se confrontato, ad esempio, con il modo in cui il giornale ha ignorato o costantemente minimizzato i gravi crimini perpetrati dagli israeliani in Palestina, tra cui le sistematiche e ben documentate aggressioni sessuali e gli stupri di prigionieri palestinesi da parte delle forze israeliane.

La copertura del Times non comprende solo numerosi articoli di cronaca che senza fondamento presentano le violenze di Amsterdam come “antisemite”, ma anche articoli di opinione con titoli incendiari come “Amsterdam odia gli ebrei – come Gaza”, “Una ‘caccia agli ebrei’ mondiale” e “L’era del pogrom ritorna”.

La volontà del Times di dipingere falsamente Israele e gli israeliani come vittime in questo caso ricorda il modo in cui il Times ha insistentemente avanzato la narrazione, ormai smentita, di “stupri di massa” da parte di combattenti palestinesi il 7 ottobre 2023, compreso il falso reportage del suo corrispondente di punta Jeffrey Gettleman.

Questa propaganda di atrocità mascherata da giornalismo è stata usata per giustificare il genocidio di Israele a Gaza.

Un nuovo fronte nella guerra genocida di Israele?

Nella mail interna del Times a Stadtlander, il giornalista Christiaan Triebert spiega che, dopo una conversazione con de Graaf, ha “contattato gli autori dell’articolo per affrontare le inesattezze fattuali che conteneva”.

Triebert ha scritto di non essere sicuro su “quale sia la motivazione che ha portato a cancellare il video piuttosto che includere i dettagli nell’articolo. Penso che sarebbe stato utile avere il video con il contesto che mostrava i tifosi israeliani che attaccavano un uomo”.

La stessa De Graaf ha più volte chiarito la questione, come ammette anche la rettifica del Times.

“Quello che ho spiegato a diversi canali mediatici è che i tifosi del Maccabi hanno deliberatamente scatenato la rivolta davanti alla stazione centrale al ritorno dalla partita”, ha scritto la de Graaf su X, noto anche come Twitter.

Un filmato degli stessi fatti, condiviso su un canale Telegram israeliano, mostra l’attacco degli ultras del Maccabi da un’angolazione diversa, apparentemente girato da uno di loro. Il canale ha falsamente affermato in ebraico che il video mostrava i tifosi del Maccabi Tel Aviv “violentemente attaccati nell’ultima ora da decine di rivoltosi palestinesi”.

C’è anche un video completo della furia degli ultras israeliani, realizzato dal popolare YouTuber olandese Bender, che riprende lo stesso episodio.

Il teppismo calcistico israeliano in Europa sembra essere diventato l’ultimo fronte globale di Israele nella sua guerra genocida a Gaza.

Giovedì sera, gli ultras israeliani hanno attaccato i tifosi della Francia durante una partita della Lega Europea delle Nazioni a Parigi tra le due squadre.

Il giornalista britannico Peter Allen ha riferito di essere stato testimone di “orrende violenze” da parte degli israeliani. Ha detto di aver “parlato con tre soldati fuori servizio provenienti da Tel Aviv, mentre uno indossava apertamente” una maglietta dell’esercito israeliano.

Residente a Parigi da molti anni, Allen collabora con molti media internazionali, e occasionalmente con The Electronic Intifada.

Nonostante la presenza del presidente francese Emmanuel Macron, la partita è stata pesantemente boicottata: la Reuters ha riferito che lo Stade de France era pieno per appena un quinto e che a Parigi si sono svolte proteste contro l’evento.

Si è trattato della più bassa affluenza di pubblico per una partita casalinga nella storia della nazionale francese.

Asa Winstanley è un giornalista investigativo che vive a Londra. È redattore associato di The Electronic Intifada e co-conduttore del nostro podcast.
È autore del bestseller Weaponising Anti-Semitism: How the Israel Lobby Brought Down Jeremy Corbyn [Strumentalizzare l’antisemitismo. Come la lobby israeliana ha fatto cadere Jeremy Corbin, ndt.] (OR Books, 2023).

(Traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)