Rapporto della Banca Mondiale: “Economia di Gaza in caduta libera”

25 settembre 2018, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) –Secondo un rapporto pubblicato martedì dalla Banca Mondiale, l’economia nella Striscia di Gaza assediata è in “caduta libera”; il rapporto sollecita un’azione urgente da parte di Israele e della comunità internazionale per evitare “un tracollo immediato”.

Il rapporto è stato pubblicato prima di una riunione ad alto livello del ‘Ad Hoc Liaison Committee [Commissione Ad Hoc di Collegamento] (AHLC)’ della Banca Mondiale, responsabile del coordinamento dell’assistenza allo sviluppo per i palestinesi, del 27 settembre.

Il rapporto segnala che il tasso di disoccupazione tra i giovani di Gaza è del 70%. Inoltre sottolinea le gravi difficoltà che l’economia palestinese deve affrontare ed identifica le future necessità.

Marina Wes, Direttrice Regionale della Banca Mondiale per la Cisgiordania e Gaza, ha detto che “una combinazione di guerra, isolamento e divisioni interne ha ridotto Gaza in una paralisi economica ed ha esacerbato le sofferenze della gente. Una situazione in cui la popolazione lotta per sbarcare il lunario, patisce una sempre peggiore povertà, una crescente disoccupazione e il deterioramento di servizi pubblici come la sanità, l’acqua e la rete fognaria, necessita di soluzioni urgenti, concrete e sostenibili.”

L’economia di Gaza è in caduta libera, registra una decrescita del 6% nel primo trimestre del 2018, con segnali di ulteriore deterioramento da allora in poi.”

Pur se il problema fondamentale resta l’assedio durato quasi 12 anni, un insieme di fattori ha recentemente influito sulla situazione a Gaza, che includono la decisione dell’Autorità Nazionale palestinese (ANP) di ridurre i pagamenti mensili verso Gaza di 30 milioni di dollari, la riduzione di 50-60 milioni di dollari annui del programma di aiuti ed i tagli ai programmi dell’UNRWA [Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr] da parte degli Stati Uniti.

La stessa ANP accusa un calo delle donazioni finanziarie e ha un deficit annuale di 1,24 miliardi di dollari.

Anche se la situazione attuale in Cisgiordania non è così terribile, la passata crescita dovuta ai consumi è instabile e si prevede un cospicuo rallentamento dell’economia nel prossimo futuro.

Wes ha aggiunto che “la situazione economica e sociale di Gaza è andata deteriorandosi per oltre un decennio, ma lo ha fatto in termini esponenziali nei mesi scorsi, raggiungendo un livello critico. La crescente frustrazione porta a crescenti tensioni che hanno già iniziato a sfociare in disordini e ad ostacolare lo sviluppo umano della numerosa popolazione giovanile della regione.”

Il rapporto insiste sulla necessità di un approccio equilibrato alla situazione di Gaza, che unisca un’immediata risposta alla crisi ad iniziative per costruire le condizioni per uno sviluppo sostenibile.

Tra le risposte immediate vi è il garantire la continuazione della fornitura dei servizi essenziali, come energia, acqua, educazione e salute. Servizi essenziali di questo genere sono cruciali per la vita degli abitanti e per il funzionamento dell’economia.

Un’ altra urgente necessità è “accrescere il potere d’acquisto delle famiglie, per rendere possibile un ritorno alle attività economiche di base e dare impulso a quelle tradizionali di sussistenza, estendendo la zona di pesca al di là delle molto ridotte tre miglia fino ad una distanza di 20 miglia come concordato negli anni ’90.”

La Banca Mondiale ritiene che, oltre ad una risposta alla crisi, “Israele potrebbe dare sostegno a condizioni favorevoli alla crescita economica eliminando le restrizioni al commercio e consentendo la mobilità di merci e persone, senza la quale la situazione economica a Gaza non migliorerà mai.”

Il rapporto della Banca Mondiale aggiunge che l’ANP dovrebbe dare inizio a politiche e progetti necessari allo sviluppo economico sostenibile, compreso il sostegno al commercio di servizi digitali, che potrebbero nel frattempo svolgere un ruolo trainante.

Wes ha sottolineato che “il capitale umano palestinese, con la sua popolazione giovane e relativamente ben istruita, potrebbe rappresentare un immenso potenziale. Una rinnovata attenzione verso la creazione di lavoro darà notevoli risultati in termini di sviluppo economico. È ora tempo per tutte le parti di unirsi e creare un contesto che generi opportunità per questi giovani.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Fine modulo




Come i tribunali spagnoli diventano terreno di scontro per i tentativi di Israele contro il BDS

Rebecca Stead

22 settembre 2018,Middle East Monitor

Il 4 settembre una corte distrettuale spagnola ha annullato una mozione di appoggio al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS). La risoluzione era stata portata avanti dal consiglio comunale di Ayamonte, una piccola città sul confine con il Portogallo e chiedeva il bando di ogni rapporto con imprese o organizzazioni israeliane.

A fine agosto due Comuni spagnoli, Villarrobledo e Sagunto, hanno revocato il sostegno al BDS pochi mesi dopo aver dichiarato le loro città “spazio libero dall’apartheid israeliano.” Sono solo due di circa 60 città e cittadine spagnole che hanno manifestato il proprio appoggio al movimento BDS negli ultimi due anni. Tra queste Valencia – la terza città più grande della Spagna – che si è unita al BDS facendo riferimento alle atrocità commesse da Israele contro i palestinesi che all’inizio di quest’anno hanno partecipato alla “Grande Marcia del Ritorno” nella Striscia di Gaza assediata.

Quindi, perché questo voltafaccia? Un filo rosso che unisce i tre casi succitati è ACOM, o “Acción y Comunicación sobre Oriente Medio” (Azione e Comunicazione sul Medio Oriente). ACOM si definisce un’“organizzazione a-confessionale e indipendente che intende intensificare i rapporti politici tra la Spagna e Israele lavorando con i governi, i partiti politici, i media e la società civile.” Eppure, lungi dall’agire come un’organizzazione indipendente, ACOM è stata in prima fila nei tentativi di Israele per contrastare l’appoggio al BDS, coinvolgendo nel farlo i tribunali spagnoli in un braccio di ferro.

Nel caso di Ayamonte, ACOM ha presentato una causa legale presso il tribunale distrettuale perché la risoluzione BDS del consiglio comunale venisse annullata. Villarrobledo e Sagunto sono state minacciate di azioni legali se non avessero rinunciato al loro appoggio al movimento di boicottaggio. Parlando di Sagunto, il presidente di ACOM Ángel Mas ha detto che “continueremo a impedire al movimento estremista BDS di infiltrarsi nelle istituzioni di tutti i cittadini spagnoli e di distruggere la natura democratica, pluralistica ed aperta delle nostre istituzioni.” Secondo “Times of Israel” [giornale indipendente israeliano in inglese, ndtr.] utilizzando questa strategia ACOM ha bloccato almeno 26 iniziative di consigli locali e Comuni spagnoli per promuovere una posizione a favore del BDS. Il “Jerusalem Post” [giornale di destra israeliano, ndtr.] stima che questo numero potrebbe salire a 35.

ACOM non fa nessun tentativo di nascondere il proprio progetto filo-israeliano. Il suo sito web propone di “smontare il razzismo del BDS” e cita uno strano miscuglio di “fatti su Israele”, compreso che il 20% della popolazione di Israele è araba e che non c’è stato nessun riconoscimento da parte di Hamas del diritto all’esistenza di Israele. Se si possono trarre conclusioni su un’organizzazione in base agli amici che ha, i suoi stretti legami con l’ “Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione, organizzazione della lobby filoisraeliana, ndtr.] negli USA, il “Palestine Media Watch” [Osservatorio dei Media Palestinesi] (PMW), una ONG con sede in Israele che controlla gli “incitamenti alla violenza” da parte dei mezzi di comunicazione palestinesi, e “Ong Monitor”, un gruppo con sede a Gerusalemme noto per criticare con veemenza solo le Ong di sinistra e filo-palestinesi, la dicono lunga sul programma di ACOM.

L’organizzazione ha anche stretti rapporti con il sistema politico israeliano. Nel 2017 il membro del parlamento israeliano Yair Lapid, del partito “Yesh Atid” [partito di centro, all’opposizione, ndtr.] si è unito ad una delegazione di ACOM e di “Ong Monitor” presso il parlamento spagnolo per presentare un rapporto congiunto su Ong che “portano avanti campagne politiche ostili ad Israele.” Lapid è stato a lungo in rapporto con la politica di colonizzazione del governo israeliano, e nel luglio 2017 ha partecipato a una cerimonia nella colonia illegale di Netiv HaAvot, a sud di Betlemme, persino dopo che la Corte Suprema israeliana aveva ordinato la demolizione dell’avamposto e l’evacuazione dei suoi abitanti illegali. Nel maggio 2018 Lapid ha affermato che, in base al futuro “Accordo del Secolo” del presidente USA Donald Trump, la cittadina di Abu Dis sostituirà Gerusalemme come capitale di un futuro Stato palestinese.

Questi legami con le Ong di destra e con l’elite politica israeliana hanno collocato ACOM in prima linea nella guerra di Israele contro il BDS. Sul piano interno, la spinta ha portato Israele a vietare a vari attivisti del BDS, compresa Ana Sanchez Mera, che sarebbe affiliata al Comitato Nazionale [palestinese] del BDS (BNC) e attiva nelle iniziative del BDS spagnolo, l’ingresso nel Paese. Eppure che quest’ultima battaglia si stia giocando nei tribunali spagnoli, un luogo a dir poco improbabile, dimostra che questo braccio di ferro va ben oltre i confini dello Stato ebraico. In questo modo i tribunali spagnoli sono diventati sotto molti aspetti un microcosmo di una più ampia lotta per l’opinione pubblica, una guerra per le pubbliche relazioni combattuta in un mondo torbido di Ong e di programmi solo parzialmente occulti.

Eppure nel marzo 2018 al presidente di ACOM Ángel Mas è stato dato un assaggio della sua stessa medicina. Il “Comitato di Solidarietà con la Causa Araba”, una Ong che riceve finanziamenti da molti Comuni spagnoli, ha presentato una denuncia di 70 pagine contro Mas. L’iniziativa ha rappresentato la prima volta che un ente filo-israeliano è stato chiamato in tribunale in Spagna per le sue attività. Mas ha detto di essere “sorpreso e contrariato” per la decisione del giudice di esaminare la denuncia, definendo la mossa “un tentativo futile di abusare del sistema giudiziario spagnolo con la propaganda.” Mas ha aggiunto: “Avendo subito durissime sconfitte in tribunale, il movimento BDS spagnolo sta cambiando metodi. Sta prendendo di mira singoli individui con una campagna di menzogne (…) Non avrà successo.”

Questi costanti andirivieni giuridici non mostrano alcun segno di diminuzione. Proprio questa settimana ACOM ha pubblicato un comunicato stampa vantandosi di un’azione legale pendente contro il consiglio comunale di Pamplona, nel nord della Spagna. La denuncia lo accusa di discriminazione contro israeliani ed ebrei spagnoli per la mancata istituzione di una piattaforma di rappresentanti israeliani e per l’appoggio al boicottaggio militare [di Israele], due punti fondamentali del movimento BDS. Con questi precedenti, i tentativi di ACOM e, per estensione, di Israele per distruggere la campagna di boicottaggio in Spagna hanno sempre più spinta e forza. Benché movimenti filo-BDS come CSAC abbiano iniziato a giocare lo stesso gioco di ACOM, questi tentativi rimangono ancora indietro sia per quantità che per impatto. Se il BDS desidera conservare slancio e influenza, dovrà mettere più forza in questo prolungato braccio di ferro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Secondo una delegazione di Europarlamentari, la demolizione di Khan al-Ahmar è un crimine di guerra.

Ma’an News

21 Settembre 2018, Ma’an News

Betlemme – Giovedì scorso otto membri dell’Unione Europea hanno espresso la loro opposizione al piano israeliano di demolizione del villaggio beduino di Khan al-Ahmar, a Gerusalemme Est, e hanno incoraggiato Israele a riconsiderare la sua decisione.

Gli otto europarlamentari che si oppongono alla decisione di Israele sono i delegati di Belgio, Francia, Paesi Bassi, Polonia, Svezia, Regno Unito, Germania e Italia.

L’ambasciatore olandese, Karel Van Oosterom, al termine del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha letto una dichiarazione che condanna la decisione dell’Alta Corte israeliana di demolire Khan al-Ahmar.

Continueremo a promuovere la negoziazione della soluzione a due Stati, con Gerusalemme capitale” di entrambi gli Stati israeliano e palestinese, si legge nella dichiarazione, che fa riferimento al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte dell’amministrazione Trump.

All’inizio di questa settimana, una delegazione di europarlamentari per le relazioni con la Palestina ha visitato Khan al-Ahmar, mettendo in guardia con preoccupazione che la sua demolizione potrebbe essere considerata un crimine di guerra.

L’Unione Europea e il resto della comunità internazionale hanno fortemente condannato la demolizione in quanto parte del piano di espansione degli insediamenti, e perché dividerebbe la Cisgiordania occupata, impedendo la possibile futura fondazione di uno stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale.

Neoklis Sylikiotis, a capo della delegazione, ha affermato che l’Europarlamento continuerà a opporsi alla demolizione di Khan al-Ahmar e di altri villaggi beduini nella stessa area, tutti minacciati di trasferimento forzato dai loro territori. “Il trasferimento forzato di popolazioni in stato di occupazione è una seria violazione della Quarta Convenzione di Ginevra ed è considerato un crimine di guerra”.

Sylikiotis ha aggiunto che “la delegazione sostiene la lotta palestinese per la libertà, la giustizia e l’autodeterminazione, opponendosi contemporaneamente all’occupazione e all’apartheid israeliani”, sottolineando come l’UE si opponga all’occupazione dei territori palestinesi e sostenga la soluzione a due stati.

Da luglio Khan al-Ahmar è sotto minaccia di demolizione da parte delle forze israeliane; la demolizione comporterebbe il trasferimento forzato di più di 35 famiglie palestinesi, come parte del piano israeliano di espansione del vicino insediamento illegale di Kfar Adummim.

Nonostante il diritto internazionale proibisca la demolizione del villaggio e la confisca delle proprietà private, le forze israeliane continuano nel loro piano di espansione con trasferimenti forzati e violando i diritti umani fondamentali della popolazione.

Israele ha costantemente tentato di sradicare le comunità beduine dall’area di Gerusalemme Est per permettere l’espansione degli insediamenti nella zona, che trasforme in futuro tutta la parte orientale della Cisgiordania in zona di insediamenti.

(Traduzione di Veronica Garbarini)




Ashrawi condanna “l’uccisione di 6 palestinesi in 24 ore da parte di Israele”

19 settembre 2018, Ma’an News

Ramallah (Ma’an) – Mercoledì l’esponente del Comitato Esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Hanan Ashrawi ha duramente condannato “l’uccisione di 6 palestinesi nelle ultime 24 ore da parte di Israele nell’assediata Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupata, ” accusando le forze israeliane di aver preso di mira deliberatamente i palestinesi.

In un comunicato Ashrawi ha affermato: “La deliberata uccisione di sei palestinesi da parte delle forze israeliane nelle ultime ventiquattr’ore è un’ulteriore escalation nella brutalità e inumanità dell’occupazione israeliana.”

Muhammad Zaghlul Rimawi, 24 anni, del villaggio di Beit Rima nella Cisgiordania occupata, è stato brutalmente aggredito e ripetutamente colpito nella sua casa, provocandone la morte qualche ora dopo.

Muhammad Youssef Elayyan, 26 anni, del campo di rifugiati di Qalandiya, è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane perché avrebbe tentato di perpetrare un attacco all’arma bianca a Gerusalemme est occupata.

Ahmad Mahmoud Muhsen Omar, 20 anni, e Muhammad Ahmad Abu Naji, 34 anni, sono stati colpiti ed uccisi dalle forze israeliane nella parte settentrionale della Striscia di Gaza assediata mentre partecipavano ad una protesta pacifica per chiedere la fine dell’assedio israeliano di Gaza durato quasi 12 anni.

Naji Jamil Abu Assi, 18 anni, e Alaa Ziad Abu Assi, 21 anni, sono stati presi di mira e uccisi da un attacco aereo israeliano nel sud di Gaza lunedì notte per essersi avvicinati alla barriera di sicurezza sul confine [con Israele].

Ashrawi ha evidenziato che “incoraggiato dal totale sostegno dell’amministrazione USA, Israele ha intensificato il proprio comportamento criminale e la politica di esecuzioni sommarie prendendo di mira vittime palestinesi innocenti con crudeltà e impunità deliberate.”

“La comunità internazionale è invitata a porre fine al disprezzo israeliano per le vite dei palestinesi e ad abbandonare il doppio standard quando si tratta di perdita di vite umane, indipendentemente dalla nazionalità o dalla religione.” Ashrawi ha chiesto alla Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aiya “di prendere iniziative immediate ed aprire un’inchiesta penale ufficiale su tali diffusi e palesi crimini di guerra e contro l’umanità commessi in tutta la Palestina occupata.”

Ha continuato chiedendo alle Alte Parti contraenti della Quarta Convenzione di Ginevra e all’ONU “di aprire un’indagine sulle gravissime violazioni, le illegalità e le azioni provocatorie da parte di Israele e chiamarlo a risponderne con misure punitive e sanzioni.”

“Gli assassinii sono ulteriori prove che i palestinesi hanno urgentemente bisogno di protezione dalla campagna criminale di Israele e da un’occupazione militare durata decenni,” ha aggiunto Ashrawi, che ha concluso: “La vera soluzione rimane la fine dell’occupazione e consentire al popolo palestinese di esercitare il suo diritto all’autodeterminazione in uno Stato libero e sovrano sulla sua terra con Gerusalemme come capitale.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un documentario censurato rivela la campagna segreta su Facebook di “The Israel Project ”

Ali Abunimah e Asa Winstanley

13 settembre 2018, The Electronic Intifada

The Israel Project [Progetto Israele], un importante gruppo di sostegno con base a Washington, sta portando avanti una campagna segreta per influenzare [gli utenti di] Facebook.

Ciò viene svelato in “The Lobby – USA”, un documentario in incognito di “Al Jazeera” [televisione araba anche in inglese con sede in Qatar, ndtr.] che non è mai stato mandato in onda a causa della censura da parte del Qatar in seguito a pressioni di organizzazioni filo-israeliane. Il video di cui sopra, esclusivo per “The Electronic Intifada”, mostra i brani più recenti estratti dal documentario.

Le prime immagini filtrate pubblicate da “The Electronic Intifada” e da “Grayzone Project” [sito statunitense di notizie in rete, ndtr.] hanno già rivelato subdole tattiche di gruppi anti-palestinesi pianificate e messe in pratica con la complicità del governo israeliano.

Nei nuovi video si sente David Hazony, il direttore esecutivo di “The Israel Project”, dire al giornalista infiltrato di Al Jazeera: “Ci sono anche cose che facciamo e che sono assolutamente lontano dai riflettori. Lavoriamo insieme a un sacco di altre organizzazioni.”

Produciamo contenuti che poi loro pubblicano a loro nome, “aggiunge Hazony.

Gran parte dell’operazione consiste nella creazione di una rete di “comunità” di Facebook centrate sulla storia, sull’ambiente, su questioni internazionali e femminismo che sembrano non avere alcun collegamento con il sostegno a Israele, ma sono utilizzate da “The Israel Project” per diffondere messaggi a favore di Israele.

Una cosa riservata”

In una conversazione, anch’essa rivelata dagli estratti trapelati del video, Jordan Schachtel, che all’epoca lavorava per “The Israel Project”, racconta al giornalista di Al Jazeera in incognito la logica e l’estensione dell’operazione segreta su Facebook.

Il reporter in incognito, noto come “Tony”, si presentava come tirocinante presso “The Israel Project”. “Stiamo mettendo insieme un sacco di media filo-israeliani attraverso vari canali sociali che non sono di ‘The Israel Project’, afferma Schachtel. “Così abbiamo molti progetti paralleli con cui stiamo cercando di influenzare il dibattito pubblico.”

Per questo è una cosa riservata,” aggiunge Schachtel. “Perché non vogliamo che la gente sappia che questi progetti paralleli sono associati a ‘The Israel Project’”.

Tony chiede se l’idea di “tutto quanto il materiale non [relativo a] Israele ha lo scopo di consentire che il materiale su Israele passi meglio.”

Vogliamo proprio mimetizzarlo in ogni cosa,” spiega Schachtel.

Una di queste pagine Facebook, “Cup of Jane”, [Un po’ di Jane] ha quasi mezzo milione di persone che la seguono.

La pagina di “Chi siamo” di “Cup of Jane” la descrive come relativa a “zucchero, spezie e tutto quello che è buono.” Ma non c’è nessuna informazione sul fatto che sia una pagina gestita con il proposito di promuovere Israele.

La pagina di “Chi siamo” identifica “Cup of Jane” come “una comunità creata dal progetto per i media del futuro di TIP a Washington.”

Non c’è peraltro nessuna menzione diretta ed esplicita di Israele o indicazione che “TIP” sta per “The Israel Project”.

The Electronic Intifada” è al corrente del fatto che persino questa vaga ammissione di chi ci sia dietro la pagina è stata aggiunta solo dopo che “The Israel Project” ha saputo dell’esistenza del documentario segreto di Al Jazeera e presumibilmente ha previsto di essere stato scoperto.

The Israel Project” ha anche aggiunto un’ammissione sul suo sito in rete che gestisce le pagine di Facebook. Tuttavia il suo sito web non è collegato alle sue pagine di Facebook.

Non ci sono prove nell’Archivio Internet che la pagina esistesse prima del maggio 2017 – mesi dopo che la copertura di “Tony” era stata scoperta.

Secondo Schachtel “The Israel Project” sta investendo notevoli risorse nella produzione di “Cup of Jane” e in una rete di pagine simili.

Abbiamo una squadra di circa 13 persone. Stiamo lavorando su molti video,” dice a Tony nel documentario di Al Jazeera. “Molti sono solo su argomenti casuali e poi circa il 25% di questi saranno di provenienza israeliana o ebraica centrati su Israele o sugli ebrei.”

Nel documentario Al Jazeera afferma di “aver contattato tutti quelli coinvolti in questo programma. Nessuna delle organizzazioni o degli individui a favore di Israele che lavorano per loro ha risposto alle nostre accuse.”

Falsi progressisti

Cup of Jane” cerca di dimostrarsi progressista postando foto e citazioni di icone femminili nere come Maya Angelou [poetessa, attrice e ballerina afro-americana, ndtr.] e Ida B. Wells [intellettuale afroamericana morta nel 1931, ndtr.], che la pagina celebra in occasione del suo compleanno come una “pensatrice, scrittrice e attivista rivoluzionaria.”

Ci sono anche post sull’ambientalista all’avanguardia Rachel Carson e su Emma Gonzalez, che insieme ai suoi compagni di classe ha lanciato una campagna nazionale per il controllo delle armi dopo essere sopravvissuta al massacro nella scuola superiore di Parkland, in Florida, nel febbraio 2018.

Intrecciati a un flusso di fesserie in odore di progressismo ci sono attacchi contro veri movimenti progressisti, come la “Chicago’s Dyke March” [annuale sfilata del movimento LGBT, ndtr.], i cui organizzatori hanno affrontato una campagna di calunnie della lobby israeliana dopo aver chiesto a provocatori filo-israeliani di lasciare la loro marcia nel 2017.

E un post dell’ottobre 2016, subito dopo che era stata lanciata la pagina di “Cup of Jane”, ha cercato di dipingere il militarismo di Israele come attraente e a favore dell’emancipazione delle donne.

L’aviazione israeliana ha dipinto di rosa aerei da guerra a sostegno del “Breast Cancer Awareness Month” [Mese per la Sensibilizzazione sul Cancro al Seno]. Non è fantastico?” afferma il post, accompagnato da una foto di un jet da guerra israeliano. “Questo è forte. Le donne, in ogni caso, hanno bisogno di un’aviazione tutta per loro,” aggiunge “Cup of Jane, insieme a una faccina sorridente.

Altre pagine identificate dal documentario censurato di Al Jazeera come gestite da “The Israel Project” includono Soul Mama, History Bites [Bocconi di Storia], We Have Only One Earth [Abbiamo solo una Terra] e This Explains That [Ciò spiega che]. Alcune hanno centinaia di migliaia di follower.

History Bites” non rivela la propria affiliazione a “The Israel Project”, neppure con la vaga formula utilizzata da “Cup of Jane” e dalle altre pagine.

History Bites” si definisce semplicemente come [una pagina] che diffonde “ la bellezza della storia in bocconcini masticabili!”

Questa pagina ha ri-postato i post di “Cup of Jane” che presentano come un’eroina femminista Golda Meir, la donna primo ministro israeliano che ha messo in atto politiche razziste e violente contro i nativi palestinesi e vedeva una minaccia esiziale nelle donne palestinesi che partorivano.

Un video del 2016 su “This Explains That” diffonde false affermazioni israeliane secondo cui l’agenzia dell’ONU per la cultura, l’UNESCO, “ha cancellato” la devozione di ebrei e cristiani per i luoghi sacri di Gerusalemme.

Lo scorso dicembre “History Bites” ha ri-postato il video in cui si afferma che “sembra appoggiare l’odierna dichiarazione del presidente Trump secondo cui Gerusalemme è la capitale dello Stato ebraico di Israele.” Il video ha avuto quasi cinque milioni di visualizzazioni.

Un altro video postato da “History Bites” cerca di giustificare l’attacco a sorpresa israeliano del giugno 1967 contro l’Egitto, che ha dato inizio alla guerra in cui Israele ha occupato la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, la penisola del Sinai egiziana e le Alture del Golan siriane.

Il video descrive l’occupazione militare israeliana di Gerusalemme est come se la città fosse stata “riunificata” e “liberata”.

Il marchio tossico di Israele

Il ricorso di “The Israel Project” a una proverbiale cucchiaiata di zucchero per cercare di far passare più facilmente i messaggi filo-israeliani è un riconoscimento di quanto possa essere difficile far accettare uno Stato di apartheid. Come Alì Abunimah, uno degli autori di questo articolo, afferma nel documentario di Al Jazeera, “Il marchio Israele è sempre più tossico, per cui non puoi vendere direttamente Israele. Devi avere qualcosa di contemporaneo che sia solo molto innocuo, divertente e allora ogni tanto ci puoi infilare qualcosa su Israele.”

I tentativi di “The Israel Project” di cooptare persone con una sensibilità progressista al servizio di Israele, benché le sue politiche siano di estrema destra, rientra in una più complessiva strategia di Israele, che intende dividere la sinistra e indebolire la solidarietà con la Palestina.

Diretto da Josh Block, un ex-funzionario dell’amministrazione Clinton ed ex- principale stratega presso il centro di potere della lobby israeliana “AIPAC” [American Israel Public Affairs Committee, Comitato per le Questioni Pubbliche Americano-Israeliane, ndtr.], uno dei principali obiettivi di “The Israel Project” era sabotare l’accordo internazionale sul nucleare con l’Iran.

La campagna segreta di “The Israel Project” su Facebook è evidentemente manipolatoria, ma è ancora più cinica dato che il suo ideatore è Gary Rosen.

Per anni Rosen ha diretto un account twitter violentemente omofobico e islamofobo chiamato “@ArikSharon” – il nickname dell’ex-primo ministro israeliano Ariel Sharon, che è stato responsabile dell’invasione israeliana del Libano nel 1982 e dei massacri nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila quello stesso anno.

Nelle trascrizioni di una registrazione fatta dal giornalista in incognito di Al Jazeera visionate da “The Electronic Intifada”, Rosen ammette di utilizzare @ArikSharon come un “account segreto”.

Rosen è stato impiegato presso l’agenzia pubblicitaria internazionale “Saatchi & Saatchi, ma nel novembre 2013 si è unito a “The Israel Project”, dove è responsabile della strategia digitale.

Dopo essere stato denunciato nel 2013 da uno degli autori di questo articolo come la persona che gestiva l’account, Rosen ha cancellato dal collegamento twitter @ArikSharon molti dei tweet più aggressivi.

Ma mentre utilizza pagine Facebook sotto copertura nel tentativo di normalizzare l’appoggio a Israele tra il pubblico progressista, Rosen continua ad utilizzare l’account twitter @ArikSharon per diffondere messaggi di destra filoisraeliani.

Annunci pubblicitari anonimi smascherati

Questo non è l’unico tentativo segreto della lobby israeliana per utilizzare Facebook per raggiungere i suoi obiettivi.

Un reportage di “The Forward” [uno dei principali giornali della comunità ebraica USA, ndtr.] e “ProPublica” [rivista d’inchiesta USA, ndtr.] rivela che “Israel on Campus Coalition” [Coalizione per Israele nei campus] ha condotto campagne pubblicitarie anonime su Facebook per calunniare Remi Kanazi, un poeta palestinese- americano, prima delle sue esibizioni in campus USA.

The Electronic Intifada” è stato il primo a informare sulle rivelazioni del documentario di Al Jazeera in merito a come i tentativi della “Israel on Campus Coalition” di calunniare e perseguitare gli attivisti solidali con la Palestina siano in coordinamento segreto con il governo israeliano.

Un portavoce di Facebook ha detto a “The Forward e “ProPublica” che gli annunci di “Israel on Campus Coalition” che prendono di mira Kanazi “violano la nostra politica contro le false dichiarazioni e sono stati rimossi.”

Nel 2012 “The Electronic Intifada” ha denunciato un piano dell’unione nazionale degli studenti di Israele, sostenuto dal governo, per pagare studenti che diffondano propaganda filo-israeliana su Facebook. Tuttavia gli attuali tentativi segreti guidati da “The Israel Project” sembrano essere molto più sofisticati.

Dalle elezioni presidenziali USA del 2016 Facebook è stato accusato di consentire che la sua piattaforma venga utilizzata per la propaganda di manipolazione sponsorizzata dalla Russia intesa ad influenzare la politica e l’opinione pubblica.

Nonostante il calmore propagandistico, queste accuse sono state grossolanamente esagerate o non dimostrate.

Ciononostante, Facebook si è associato con l’”Atlantic Council” [Consiglio Atlantico, ndtr.] in apparenza nel tentativo di reprimere “i falsi account” e la “disinformazione”.

L’”Atlantic Council” è un centro di ricerca di Washington che è stato fondato dalla NATO, dall’esercito USA, dai governi brutalmente repressivi di Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, da governi dell’Unione Europea e dal gotha delle società di investimento, delle compagnie petrolifere, dei produttori di armi e di altri che speculano sulle guerre.

Come apparente risultato di questa collaborazione, un certo numero di account dei media sociali totalmente innocui con pochi o nessun follower sono stati recentemente rimossi.

Più preoccupante è il fatto che pagine gestite da agenzie di informazione di sinistra che si occupavano di Paesi presi di mira dal governo USA, come “Venezuela Analysis” e “teleSUR”, sono state sospese, anche se in seguito sono state ripristinate. Ora, con solide prove della campagna ben finanziata e con vasta influenza di “The Israel Project” su Facebook, rimane da vedere se il gigante delle reti sociali agirà per garantire che utenti inconsapevoli siano informati che quello a cui sono stati esposti è propaganda intenzionata a promuovere e dare un’immagine positiva dello Stato di Israele.

In risposta alla richiesta di fare un commento, un portavoce di Facebook ha detto a “The Electronic Intifada” che l’impresa avrebbe esaminato la questione.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Romano si sarebbe piazzato davanti a un bulldozer israeliano

Secondo la sua avvocatessa, dopo uno scontro in Cisgiordania Israele trattiene il professore franco-statunitense in base alla legge militare.

Redazione di Times of Israel e agenzie

15 Settembre 2018, Times of Israel

Il fermo di Frank Romano sarebbe stato prolungato grazie a una applicazione “straordinaria” delle leggi militari; l’avvocatessa non è in grado di confermare se il suo cliente abbia iniziato lo sciopero della fame.

Secondo la sua avvocatessa, il docente universitario franco-statunitense arrestato venerdì durante una protesta in un villaggio beduino in Cisgiordania in via di demolizione da parte di Israele, rimarrà agli arresti fino a lunedì.

Sabato Gaby Lasky ha detto che il suo cliente, Frank Romano, è stato portato in una prigione di Gerusalemme e la polizia avrebbe detto che comparirà lunedì davanti a un tribunale militare israeliano.

Con una procedura straordinaria la legislazione militare applicata in Cisgiordania è stata messa in pratica per Frank Romano, accusato di aver ostacolato l’azione della polizia e dei soldati israeliani, per cui il tempo massimo prima di comparire davanti al giudice è di 96 ore,” ha detto Lasky all’AFP [agenzia di stampa francese, ndtr.].

Ha aggiunto che la legge israeliana prevede che civili e turisti vengano portati davanti a un giudice entro le 24 ore e che chiederà a un giudice israeliano di intervenire in modo che il destino del suo cliente venga deciso in base alle leggi israeliane [non a quelle militari, ndtr.].

Secondo B’Tselem, una Ong israeliana che lavora in Cisgiordania, Romano ha iniziato uno sciopero della fame e continuerà “fino al ritiro” della decisione di radere al suolo il villaggio beduino.

Lasky ha detto all’AFP di non essere in grado di confermare lo sciopero della fame.

Romano era tra le decine di attivisti a Khan al-Ahmar che cercavano di bloccare la prevista demolizione dell’accampamento. L’azione programmta da Israele ha sollevato la condanna internazionale.

Venerdì sul posto sono scoppiati tafferugli tra le forze di sicurezza israeliane e i manifestanti filo-palestinesi. Gli attivisti hanno detto che Romano si è piazzato davanti a un bulldozer che stava rimuovendo le barricate messe per rallentare la demolizione.

La polizia israeliana ha confermato che venerdì tre persone sono state arrestate per aver provocato disordini a Khan al-Ahmar, ma non ha rilasciato dettagli sulle loro identità.

La scorsa settimana l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha dato il via alla demolizione di Khan al-Ahmar respingendo un ultimo ricorso tra le crescenti proteste internazionali sul destino della comunità cisgiordana.

Israele afferma che Khan al-Ahmar, un villaggio di baracche di lamiera a est di Gerusalemme, era stato costruito illegalmente e ha proposto di risistemare gli abitanti a 12 km di distanza.

Chi si oppone alla demolizione sostiene che fa parte del tentativo di consentire l’ulteriore espansione della vicina colonia di Kfar Adumim e creare una zona di controllo israeliano da Gerusalemme fin quasi al Mar Morto, una mossa che secondo gli oppositori dividerebbe in due la Cisgiordania rendendo impossibile uno Stato palestinese con continuità territoriale.

Giovedì le forze israeliane hanno demolito cinque roulotte che erano state piazzate di recente fuori dal villaggio. Le roulotte, costituite da container da trasporto, erano state sistemate all’inizio della settimana come forma di protesta contro la prevista demolizione.

L’attivista Abdallah Abu Rahmeh ha detto che collocare le bianche strutture, su una delle quali sventola una bandiera palestinese, serviva come messaggio a Israele che “è nostro diritto costruire sulla nostra terra.”

Le Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno ripetutamente avvertito Israele che distruggere Khan al-Ahmar avrebbe minacciato i tentativi di pace con i palestinesi e costituito una violazione delle leggi internazionali.

Giovedì il parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui si afferma che mettere in atto la sentenza rappresenterebbe un “precedente negativo” per le altre comunità beduine in Cisgiordania minacciate di demolizione.

In base alla Quarta Convenzione di Ginevra, Israele ha la responsabilità assoluta di fornire i servizi necessari, compresi l’istruzione, le cure mediche e i servizi sociali, alle persone che vivono sotto la sua occupazione,” recita la risoluzione.

Israele sostiene che le strutture, per lo più baracche e tende, sono state costruite senza permessi e rappresentano una minaccia per gli abitanti del villaggio a causa della loro vicinanza a un’autostrada.

Ma gli abitanti – che hanno vissuto in questo luogo, all’epoca controllato dalla Giordania, fin dagli anni ’50, dopo che lo Stato [di Israele] li aveva cacciati dalle loro case nel Negev – affermano che non hanno alternative se non costruire senza i permessi edilizi israeliani, in quanto i permessi non vengono praticamente mai rilasciati ai palestinesi per costruire in posti, come Khan al-Ahmar, nell’Area C della Cisgiordania, dove Israele ha il pieno controllo sulle questioni civili.

In base agli accordi di Oslo la Cisgiordania è stata divisa in tre aree: A, governata dall’ANP [Autorità Nazionale Palestinese]; B, sotto il controllo misto israeliano e dell’ANP; C, sotto totale controllo israeliano.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem afferma che la demolizione è parte di un piano per ridurre al minimo la presenza palestinese nell’Area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ONU: “Il settore sanitario di Gaza sta collassando” tra l’indifferenza internazionale

Medical aid for Palestinians

14 settembre 2018

A fronte di una situazione umanitaria aggravata a Gaza e a massicci tagli agli aiuti annunciati dall’amministrazione USA, l’ONU ha evidenziato una significativa riduzione dei finanziamenti mentre tenta di affrontare le necessità umanitarie immediate a Gaza e in tutti i territori palestinesi occupati (TPO).

L’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha chiesto il sostegno internazionale per rispondere all’aumento di vittime derivante dall’uso della forza da parte di Israele nel contesto delle continue proteste per la “Grande Marcia del Ritorno”. Dal 30 marzo sono stati uccisi 179 palestinesi (compresi 29 minori), in maggioranza durante le manifestazioni. Sono stati feriti più di 19.000 palestinesi, metà dei quali portati in ospedale:

“Il gran numero di vittime tra dimostranti disarmati che non rappresentavano alcuna minaccia imminente mortale o di ferite letali per i soldati israeliani, compresa un’alta percentuale di manifestanti colpiti da proiettili veri, ha suscitato preoccupazioni riguardo all’uso eccessivo della forza.”

L’OCHA mette in guardia per la crescente disperazione a Gaza, e queste vittime vengono prese in carico da un sistema sanitario che deve affrontare difficoltà croniche:

“Il settore sanitario di Gaza sta collassando in seguito al blocco [israeliano] ormai arrivato agli 11 anni, alla crescente divisione politica tra palestinesi, alla crisi energetica, all’inconsistente e ridotto pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici e alla crescente riduzione di medicinali e sussidi medici monouso.”

Con gli ospedali che devono affrontare un gran numero di vittime e la riduzione di risorse, circa 8.000 interventi chirurgici, in alcuni casi anche gravissimi, sono stati rinviati. Questi ritardi possono avere conseguenze negative sulla salute fisica e psicologica dei pazienti e portare ad ulteriori complicanze.

L’OCHA ha chiesto 21 milioni di dollari per finanziare la cura di traumi e interventi di emergenza sanitaria, anche per l’assistenza negli ospedali pubblici a un gran numero di pazienti che necessitano di complesse cure ospedaliere e di riabilitazione postoperatoria.

Il reperimento di combustibile d’emergenza è una grave preoccupazione del sistema sanitario di Gaza. La carenza cronica di elettricità ha portato ospedali e cliniche a utilizzare l’energia di generatori di riserva per più di 20 ore al giorno, con combustibile fornito dall’ONU. Tuttavia i finanziamenti per questo si sono esauriti, con scorte che si prevede finiranno entro qualche giorno. L’OCHA informa:

  • 14 ospedali pubblici stanno lavorando con capacità ridotta per servizi fondamentali, compresi interventi chirurgici, sterilizzazione e diagnosi;

  • 4.800 pazienti quotidianamente chiedono il ricovero per cure salvavita o per malattie croniche con una continua carenza di elettricità;

  • 300 di questi pazienti devono essere costantemente collegati ad apparecchiature mediche salvavita come respiratori, dialisi, incubatori e apparecchiature anestetiche.

Inoltre l’OCHA informa che ogni interruzione o taglio della fornitura elettrica mette i pazienti a rischio immediato di danni cerebrali o di morte. L’ONU ha bisogno solo di 4,5 milioni di dollari per fornire carburante per mantenere attivi i servizi fino alla fine dell’anno.

L’economia “svuotata” di Gaza

Nel contempo l’UNCTAD, l’agenzia ONU responsabile dei problemi di commercio, investimenti e sviluppo, ha pubblicato il suo rapporto annuale sull’economia nei TPO. L’agenzia mette in guardia sull’accelerato de-sviluppo [termine coniato per Gaza dall’economista americana Sara Roy, ndtr.] di Gaza, affermando che il blocco israeliano di 11 anni ha “svuotato l’economia di Gaza e la sua base produttiva e ridotto la Striscia a un caso umanitario profondamente dipendente dagli aiuti.” Il reddito pro-capite di Gaza è ora inferiore del 30% rispetto all’inizio del secolo, e la povertà e l’insicurezza alimentare sono diffuse, con l’80% delle persone che si basa in qualche modo sull’aiuto internazionale.

Queste condizioni hanno un grave effetto sulla salute della popolazione di Gaza, e l’UNCTAD informa che “resistere alla pressione e alla deprivazione di fondamentali diritti umani, sociali ed economici infligge un pesante costo al tessuto psicologico, sociale e culturale di Gaza, come dimostrato dalla diffusione di traumi psicologici, disordini da stress post-traumatico, disperazione, alte percentuali di suicidi e tossicodipendenza.” Secondo i dati dell’ONU, nel 2017 225.000 bambini, più del 10% della popolazione di Gaza, hanno richiesto un sostegno psicologico.

Il rapporto evidenzia che gli sforzi internazionali per affrontare la situazione non sono riusciti ad invertire la tendenza, affermando: “Tentativi di ripresa sono stati deboli e ogni intervento è stato necessariamente mirato alla ricostruzione e al sostegno umanitario, lasciando poche risorse allo sviluppo o al recupero della base produttiva.”

Inoltre l’UNCTAD sottolinea le azioni necessarie per fornire una ripresa economica sostenibile per Gaza, compresi una completa eliminazione del blocco, la riunificazione politica, fiscale ed economica con la Cisgiordania, l’urgente superamento della crisi elettrica e consentire ai palestinesi di sviluppare i giacimenti di gas naturale in mare.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Tre palestinesi uccisi dalle forze israeliane a Gaza

Mee e agenzie

Venerdì 14 settembre 2018, Middle East Eye

Le truppe israeliane colpiscono a morte un ragazzino di 12 anni a est di Jabalia nel nord della Striscia di Gaza

Fonti mediche palestinesi dell’enclave assediata hanno informato che venerdì tre palestinesi, compreso un dodicenne, sono stati colpiti a morte e più di 248 sono rimasti feriti dalle forze israeliane a Gaza.

Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della Salute di Gaza, ha affermato che venerdì il ragazzino è stato colpito alla testa ed ucciso a est di Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza.

L’agenzia di notizie AFP ha informato che una fonte medica lo ha identificato come Shadi Abdel-Al.

Era solito andare ogni venerdì alle marce come migliaia di altre persone. Questo venerdì il suo destino era di morire come un martire,” ha detto il padre del ragazzino, Abdel-Aziz Abdel-Al, all’agenzia di notizie Reuter.

Un altro palestinese, il ventottenne Hashem Hassan, ha detto di aver visto Abdel-Al colpito a 70 metri dalla barriera [tra la Striscia di Gaza e Israele, ndtr.]: “Ha tirato qualche pietra, che è volata solo a qualche metro di distanza. Non rappresentava nessun pericolo.”

Il ministero ha detto che anche due ventunenni, Hani Afana e Mohammed Shaqqura, sono stati uccisi in due diversi incidenti nei pressi di Khan Yunis e di Al-Bureij.

Una fonte della sicurezza di Gaza ha affermato che un carro armato israeliano ha colpito anche un posto di vedetta di Hamas a est di Gaza City.

Da quando il 30 marzo sono iniziate le proteste settimanali della “Grande Marcia del Ritorno”, 177 palestinesi sono stati uccisi dai soldati israeliani.

L’esercito israeliano ha detto che circa 12.000 manifestanti si sono riuniti nelle proteste del venerdì. Più di 248 persone sarebbero state ferite. Sei dei feriti sarebbero in condizioni critiche.

Un giornalista presente sul posto ha affermato che le truppe israeliane hanno pesantemente sparato contro i manifestanti e che c’era molto fumo nero dei lacrimogeni.

La campagna di protesta chiede la fine del blocco israeliano contro Gaza durato 11 anni e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre da cui le loro famiglie fuggirono durante la fondazione dello Stato di Israele.

Israele mantiene un durissimo blocco della Striscia di Gaza, che secondo chi lo critica rappresenta una punizione collettiva contro i due milioni di abitanti dell’impoverita Striscia.

La strategia di Israele contro i manifestanti ha suscitato la condanna internazionale.

Ma Washington ha appoggiato il suo alleato accusando Hamas di organizzare la mobilitazione di massa, un’affermazione smentita dal gruppo e dagli organizzatori delle proteste.

L’ONU e i mediatori egiziani hanno cercato di raggiungere un accordo per rendere tranquilla [la situazione a] Gaza, in cui nell’ultimo decennio Israele ha condotto tre guerre. I tentativi di mediazione sono stati complicati dalla rivalità di Hamas con il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che ha ridotto i finanziamenti a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Khan al-Ahmar: decine di arresti e di feriti nelle proteste contro la demolizione

Redazione di MEE

venerdì 14 settembre 2018,  Middle East Eye

Manifestanti palestinesi ed internazionali hanno cercato di evitare che i bulldozer israeliani ammassassero mucchi di terra per bloccare la strada verso il villaggio.

Venerdì l’esercito israeliano ha arrestato decine di manifestanti palestinesi e un attivista franco-statunitense durante una protesta a Khan al-Ahmar, un villaggio nella Cisgiordania occupata che, nonostante l’indignazione internazionale, si prevede che nei prossimi giorni venga demolito.

Frank Romano, con doppia cittadinanza francese e statunitense, sarebbe rimasto ferito prima del suo arresto insieme a molti altri, dopo che i soldati israeliani hanno usato la forza per reprimere la protesta contro la demolizione del villaggio.

Ex-avvocato, Romano è autore di “Love and Terror in the Middle East” [“Amore e terrore in Medio Oriente”, che racconta delle sue attività di pacifista in Israele/Palestina] e, secondo un profilo in rete, attualmente lavora come docente all’università Paris Ouest [Parigi Ovest] Nanterre La Défense.

La protesta è scoppiata dopo le preghiere del venerdì, quando l’esercito israeliano ha tentato di bloccare le vie di accesso a Khan al-Ahmar con mucchi di terra, lasciando libera solo una strada nel villaggio e impedendo agli attivisti di raggiungerlo.

Video e foto circolate sulle reti sociali mostrano dimostranti in piedi davanti a un bulldozer, controllati dall’esercito israeliano, mentre altre ritraggono soldati che picchiano e trascinano manifestanti e abitanti di Khan al-Ahmar e allontanano giornalisti.

Demolire Khan al-Ahmar

Khan al-Ahmar si trova nella parte centrale della Cisgiordania occupata nei pressi della Route 1, che collega Gerusalemme est occupata alla valle del Giordano.

Il villaggio sorge nei pressi della colonia israeliana illegale di Kfar Adumim, e da molto tempo è stato sottoposto a pressioni israeliane che chiedono che la comunità venga espulsa dalla zona.

La scorsa settimana l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] ha respinto un ricorso presentato dagli abitanti di Khan al-Ahmar per bloccare la demolizione, creando le premesse per la deportazione della comunità e la distruzione dell’intero villaggio in qualunque momento dopo il 12 settembre.

Questa settimana Saeb Erekat, segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ha affermato che è stata presentata una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI) riguardo alla demolizione prevista, invitando il procuratore generale della CPI a incontrare gli abitanti prima dell’espulsione decisa dalla Corte [israeliana].

Ci auguriamo che un’inchiesta giudiziaria ufficiale possa essere aperta al più presto possibile,” ha detto Erekat.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar fanno parte della tribù Jahalin, una famiglia allargata beduina espulsa dal deserto del Naqab – noto anche come Negev – durante la guerra arabo-israeliana del 1948. All’epoca i Jahalin si insediarono sul versante orientale di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie le cui baracche e scuole, per lo più fatte di lamiera ondulata e legno, negli ultimi anni sono state demolite varie volte dall’esercito israeliano.

Israele intende distruggere il villaggio come parte del cosiddetto piano E1, che prevede la costruzione di centinaia di insediamenti abitativi per unire a Gerusalemme est le colonie Kfar Adumim e Maale Adumim nell’area C della Cisgiordania, controllata da Israele.

Se attuato integralmente, secondo chi lo critica il piano E1 dividerebbe di fatto la Cisgiordania in due parti, isolando Gerusalemme est dalle comunità palestinesi in Cisgiordania e obbligando i palestinesi a fare deviazioni ancora più lunghe per viaggiare da un posto all’altro, mentre le colonie illegali sarebbero in grado di espandersi.

In luglio fonti ufficiali israeliane hanno detto che prevedono di ricollocare i 180 residenti di Khan al-Ahmar in una zona a circa 12 km di distanza, nei pressi del villaggio palestinese di Abu Dis.

Ma il nuovo luogo è vicino a una discarica, e i difensori dei diritti umani affermano che una deportazione forzata degli abitanti violerebbe le leggi internazionali riguardanti i territori occupati.

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Punizione collettiva’ e ‘ricatto’: i palestinesi condannano la decisione di Trump di chiudere l’ufficio dell’OLP a Washington

Allison Deger eYumna Patel

10 settembre 2018 Mondoweiss

Oggi l’amministrazione Trump ha ordinato all’ufficio di rappresentanza palestinese di chiudere, ponendo fine a quasi 25 anni di presenza diplomatica della missione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) a Washington.

La portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert stamattina ha detto ai giornalisti che la decisione è stata presa dopo che i dirigenti palestinesi hanno rifiutato di “promuovere l’avvio di negoziati diretti e significativi con Israele”, promossi dal primo consigliere della Casa Bianca e genero del presidente, Jared Kushner, e dall’inviato speciale Jason Greenblatt.

Nauert ha detto che i dirigenti palestinesi hanno respinto il piano di Kushner e Greenblatt, un ampio accordo di pace che era circolato nelle scorse settimane ma non era mai stato reso pubblico dopo il rigetto da parte dei dirigenti arabi.

La dirigenza dell’OLP ha condannato un piano di pace USA che non ha ancora visto ed ha rifiutato di impegnarsi con il governo USA relativamente agli sforzi di pace e in altro modo. Stando così le cose, e recependo le preoccupazioni del Congresso, l’Amministrazione ha deciso che l’ufficio dell’OLP a Washington a questo punto dovrà chiudere”, ha proseguito Nauert.

Il Washington Post ha riferito, citando una copia preliminare del suo discorso, che il consigliere di Trump per la sicurezza nazionale John Bolton dovrebbe annunciare la chiusura in un discorso lunedì prossimo, insieme alle intenzioni del governo USA di imporre sanzioni alla Corte Penale Internazionale (CPI) se procederà con le indagini contro gli USA o Israele.

Non collaboreremo con la CPI. Non forniremo assistenza alla CPI. Lasceremo che la CPI muoia per conto suo. Del resto, all’atto pratico, per noi la CPI è già morta”, reciterebbe il testo della bozza.

L’anno scorso gli USA hanno detto che avrebbero chiuso l’ufficio dell’OLP a Washington come misura punitiva dopo che il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva chiesto alla CPI di indagare e perseguire Israele per presunti crimini di guerra.

Trump alla fine ha fatto marcia indietro, limitando le attività dell’ufficio agli “sforzi per raggiungere la pace con Israele.”

Lista dei desideri” di Israele

Dato che la missione dell’OLP a Washington era stata aperta nel 1994 durante i negoziati con Israele in base agli accordi di pace di Oslo per promuovere una soluzione di due Stati, Nauert ha detto che la chiusura di oggi non pregiudica quel percorso.

Gli Stati Uniti continuano a credere che negoziati diretti tra le due parti siano l’unica strada percorribile. Questa azione non deve essere strumentalizzata da coloro che cercano di agire come guastatori per sviare l’attenzione dall’imperativo di raggiungere un accordo di pace”, ha detto.

La reazione di Ramallah è stata dura. L’ambasciatore dell’OLP negli USA, Husam Zomlot, che lo scorso maggio è stato richiamato in Cisgiordania dopo che è stata aperta l’ambasciata USA a Gerusalemme, oggi ha detto in una dichiarazione che l’iniziativa è “ sconsiderata” e si inchina alla “lista dei desideri” di Israele.

Zomlot ha aggiunto che l’amministrazione Trump ha inteso punire i dirigenti palestinesi per aver perseguito un’ inchiesta per crimini di guerra contro Israele presso la Corte Penale Internazionale, dove sono stati inoltrati documenti su presunti crimini di Israele contro l’umanità.

Restiamo fermi nella nostra decisione di non collaborare con questa continua campagna per eliminare i nostri diritti e la nostra causa. I nostri diritti non sono in vendita e fermeremo ogni tentativo di intimidazione e ricatto affinché rinunciamo ai nostri diritti legittimi e condivisi a livello internazionale”, ha detto Zomlot.

Zomlot ha aggiunto che la chiusura dell’ufficio è un affronto al processo di pace ed ha accusato gli Stati Uniti di “minare il sistema internazionale di legittimità e legalità.” Ha promesso di “intensificare” gli sforzi nella comunità internazionale. “Questo ci conferma che siamo sulla strada giusta”, ha detto.

Il governo palestinese ha sospeso ufficialmente i contatti con i dirigenti USA dopo che Trump a dicembre ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, scatenando vaste proteste tra i palestinesi, che considerano Gerusalemme est occupata come la capitale di un futuro Stato palestinese.

L’Autorità Nazionale Palestinese da allora ha boicottato il piano di pace di Trump – il cosiddetto “accordo del secolo” – stilato principalmente da suo genero Jared Kushner, la cui famiglia è collegata al finanziamento delle colonie israeliane illegali.

In una dichiarazione il portavoce dell’ANP Yousef al-Mahmoud ha detto che la chiusura dell’ufficio dell’OLP “è una dichiarazione di guerra agli sforzi di portare pace nel nostro Paese e nella regione”, e incoraggia ulteriormente le violazioni da parte dell’occupazione israeliana contro i diritti umani dei palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate e nella Striscia di Gaza.

Il ministero degli Esteri palestinese ha definito l’iniziativa “parte della guerra aperta condotta dall’amministrazione USA e dalla sua squadra sionista contro il nostro popolo palestinese, la sua causa e i suoi giusti e legittimi diritti.”

È la continuazione della politica USA di dictat e ricatti contro il nostro popolo per costringerlo ad arrendersi”, continua la dichiarazione.

Punizione collettiva”

L’iniziativa giunge al culmine di una serie di colpi inferti dall’amministrazione ai palestinesi. Nel mese scorso gli USA hanno bloccato tutti gli aiuti all’UNRWA, hanno tagliato 200 milioni di dollari di finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese e aiuti per 25 milioni di dollari agli ospedali palestinesi a Gerusalemme est.

Recentemente, dirigenti dell’amministrazione Trump hanno anche messo pubblicamente in questione il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, che è sancito dal diritto internazionale.

I palestinesi hanno già cominciato a sentire gli effetti dei massicci tagli del budget USA, soprattutto a Gaza, dove una crescente crisi umanitaria si è aggravata nei mesi scorsi.

A luglio centinaia di dipendenti dell’UNRWA sono stati licenziati come diretta conseguenza dei tagli dei finanziamenti USA. Il mese scorso migliaia di malati di tumore a Gaza sono stati lasciati in un limbo, quando gli ospedali hanno chiuso i propri dipartimenti di oncologia, a causa di pesanti carenze di farmaci chemioterapici in seguito all’assedio israeliano contro Gaza, in continuo peggioramento.

Questa è un’altra dimostrazione della politica dell’amministrazione Trump di punizione collettiva del popolo palestinese, anche attraverso il taglio agli aiuti finanziari per i servizi umanitari, comprese salute e educazione”, ha dichiarato l’alto dirigente dell’OLP Saeb Erekat.

Questa pericolosa escalation dimostra che gli Stati Uniti intendono smantellare l’ordine internazionale per proteggere i crimini israeliani e gli attacchi contro la terra ed il popolo della Palestina, come anche contro la pace e la sicurezza nel resto della regione”, ha detto Erekat.

Inoltre ha detto: “Ammainare la bandiera della Palestina a Washington significa molto più che un nuovo schiaffo da parte dell’Amministrazione Trump alla pace e alla giustizia; rappresenta l’attacco degli USA al sistema internazionale nel suo complesso, compresi tra gli altri la convenzione di Parigi [che ha istituito l’UNESCO, agenzia dell’ONU, ndtr.], l’UNESCO e il Consiglio [ONU] per i Diritti Umani.”

Allison Deger è vice caporedattore di Mondoweiss.net

Yumna Patel è giornalista multimediale con sede a Betlemme, Palestina.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)