Tre storie incontrate per caso. Interviste da Gaza a tre feriti della Great Return March

Patrizia Cecconi

20 luglio 2018, Articolo 21

Tre piccole storie, piccole in quanto brevi da raccontare, ma lunghe tutte e tre oltre settant’anni. Più lunghe dell’età dei tre protagonisti. Il più giovane, Basel Ayoub, ne ha 18 e al momento è sulla sedia a rotelle. Il più vecchio, Mohammed E., non raggiunge i 60 e cammina sorretto da due stampelle. Come Khaled Bashir, che potrebbe essere il figlio di Mohammed e il padre di Basel e che, come loro, è stato ferito dagli snipers israeliani nel concentramento di Abu Safia, al nord della Striscia, durante i venerdì della Grande Marcia del Ritorno.

Incontrati per caso nell’ospedale Al Awda, a Jabalia, dove eravamo andati per fare il punto della situazione in attesa della marcia di domani con la quale i palestinesi riproporranno le loro richieste di rispetto delle Risoluzioni Onu e dove gli israeliani riproporranno la loro risposta negativa attraverso lacrimogeni e pallottole. Lo sanno bene tutti, eppure non si demorde. Il numero dei manifestanti si è ridotto rispetto ai primi venerdì, ma c’è uno “zoccolo duro” di notevole tenacia che ha deciso di non cedere finché i palestinesi non avranno raggiunto il loro obiettivo, peraltro legale. Questo ci dice il giovane Basel, ferito ben tre volte ma regolarmente tornato al border. Questo ci conferma il contadino Mohammed, padre di dieci figli tra a 12 e i 30 anni, i cui più grandi, ci dice con orgoglio, sono tutti laureati, uno in ingegneria, una in lingue, una in scienze mediatiche e così via.

Mohammed lo incontriamo sulla porta dell’ascensore e, nonostante si appoggi alle stampelle, ci lascia il passo invitandoci ad entrare prima di lui. E’ così che cominciamo a parlare e ci racconta la sua storia. Era il 14 maggio, il giorno della Nakba, quello in cui Trump, alleato numero uno di Israele, concretizzava il furto di Gerusalemme, e tutta la Palestina insorgeva. Lui era andato al border di Abu Safia a gridare il suo sdegno come decine di migliaia di palestinesi in altri punti del border. Quel giorno fu una vera mattanza, Israele dovrebbe portarne a lungo la vergogna, ma ancora è presto, ancora seguita a ferire e uccidere impunemente perché è comunque sostenuto da importanti alleati ai quali la sua funzione è utile.

Quel giorno Mohammed fu colpito a entrambe le gambe. Gli chiediamo se per caso si trovasse sotto la rete e la sua risposta decisa è “No, là mi avrebbero ammazzato. Ero nella zona delle tende ma i colpi arrivavano anche lì”. Lui è un rifugiato, nato nel campo profughi di Jabalia dove i genitori, cacciati dal loro villaggio, avevano avuto la tenda dell’URWA circa 70 anni fa. Nonostante la condizione difficile, anche Mohammed, come la maggior parte dei gazawi, è riuscito a far studiare i suoi figli pur essendo un semplice allevatore di polli. Ha lo sguardo vivo e il sorriso sempre accennato che fa supporre si tratti di una persona che sa bene quel che vuole. Ora vuole che l’assedio finisca, vuole libertà e lavoro adeguato per i suoi figli e per i ragazzi come loro, ma non tornerà al border i prossimi venerdì, perché non riesce a camminare e se un cecchino volesse ucciderlo sarebbe facile preda e lascerebbe la sua famiglia senza sostegno. Quindi per un po’ sarà fermo e sosterrà la Great march solo a distanza. Ci mostra il segno della prima ferita ormai cicatrizzata, mentre la seconda dovrà essere sottoposta ad altra operazione ed è qui per questo motivo. L’ospedale Al Awda, a parte la professionalità indiscussa di medici e infermieri, ha un suo statuto improntato a un’ideologia di carattere socialista (in senso proprio) e quindi medici e infermieri si pongono volontariamente a servizio dei pazienti considerando questo un dovere morale che si aggiunge a quello derivante dal giuramento di Ippocrate.

Lasciato Mohammed alle cure mediche con tanti auguri di buona fortuna, incrociamo un uomo giovane, magrissimo e con l’aria molto severa. Anche lui ha una stampella per aiutarsi a camminare. Mentre è in attesa del medico gli facciamo qualche domanda. E’ anche lui un ferito della Great March. Si trovava vicino all’ambulanza, insieme al gruppo dei paramedici che si occupavano dei soccorsi quando gli hanno sparato. Lui non è un paramedico era soltanto vicino ed offriva il suo aiuto, come fanno in tanti in un clima di grande solidarietà cui abbiamo assistito personalmente in più occasioni. L’ambulanza dovrebbe essere anche il luogo più sicuro, questo ovviamente se si rispettano le norme del diritto internazionale, e invece gli snipers israeliani hanno sparato proprio contro il personale e i veicoli di soccorso. Era il 6 giugno quando l’hanno colpito. Khaled ci tiene a specificare che per lui era una marcia veramente pacifica, che è davvero la fine dell’assedio e una vita di pace quello per cui lui era lì a dimostrare. Ci dice che si trovava abbastanza vicino alla rete di separazione, ma non tanto da rappresentare un pericolo, che poi, essendo disarmato, non avrebbe comunque potuto esserlo. Lui era vicino all’ambulanza e voleva aiutare a soccorrere i ragazzi che erano stati feriti, ma i cecchini, ci ripete, hanno sparato contro i soccorritori.

Parlando della sua vita privata, Khaled ci dice che ha due bambini e che vorrebbe vederli crescere fuori da questa galera. Loro sono nati sotto assedio e la libertà la sognano per averne sentito parlare. A Khaled l’assedio ha interrotto anche il suo sogno di diventare ingegnere perché la mancanza di denaro dovuta alla situazione lo ha costretto ad abbandonare gli studi. Frequentava l’Al Azhar University fino a dieci anni fa ma non aveva i mezzi per vivere e così ha lasciato gli studi per trovare qualche lavoro di sostentamento. Ha fatto il muratore, il bracciante, ha fatto tutti i lavori che gli capitavano e ora fa il contadino. In questo modo riesce a sbarcare il lunario con la sua famiglia. E i suoi sogni si trasferiscono sui suoi figli.

Non è pentito di essere andato al border, ci ripete che c’è andato in pace ed ora ha una doppia ferita: quella alla gamba, che sembra non voler guarire e quella nell’animo perché lui voleva per davvero andare in pace e lo hanno colpito gratuitamente sparando contro l’ambulanza, sparando nel mucchio dei soccorritori con tanto di simbolo ben evidente della Mezzaluna Rossa (la Croce Rossa locale). Questo, ce lo ripete più volte, perché riapre vecchie ferite ed è la “prova che Israele non vuole la pace, non vuole riconoscere i nostri diritti e ci spara addosso piuttosto che riconoscerli.” Khaled non potrà riprendere a studiare, ma non abbandona il sogno di vedere la Striscia di Gaza libera dall’assedio e di veder riconosciuto il diritto affermato nella Risoluzione Onu 194. Lo lasciamo appena arriva il medico che lo ha in cura e non facciamo cinque passi per raggiungere l’ufficio che ci incrociamo con un giovane su una sedia a rotelle spinta da un uomo con accanto un bambino. Si tratta Basel Ayoub, 18 anni.

Basel è stato ferito ad Abu Safia, anche lui come Mohammad e Khaled, è per questo che sono tutti nell’ospedale Al Awda, perché i feriti vengono portati negli ospedali più vicini al campo in cui si trovavano a manifestare. Infatti qui all’Al Awda hospital, come negli altri ospedali della Striscia, stanno già organizzandosi per l’emergenza perché sanno che domani ci sarà una nuova mattanza e dovranno essere pronti. Salvare una vita o salvare una gamba è questione a volte di momenti, oltre che di strumenti e medicinali che scarseggiano sempre più. Così ci ha detto Rami, il capo infermiere del settore emergenza che siamo andati a salutare prima di entrare nell’altro settore dell’ospedale.

Tornando a Basel la sua storia ha dell’incredibile. All’inizio non ha voglia di parlare ed è un po’ scostante. Rispetto la sua ritrosia, lo saluto e gli faccio i miei auguri, chiedo a suo padre da dove vengono e mi dice da Brer. Ma Brer non c’è più. Brer era un villaggio vicino all’attuale Ashkelon, quindi capisco che sono rifugiati. Infatti la domanda giusta da fare a un palestinese per sapere dove vive non è “di dove sei?” ma “dove abiti”, perché “di dove sei” è in fondo tutto compreso nelle ragioni della Grande Marcia del Ritorno. La risposta che si ha in questi casi sembra dire “sono del villaggio o della città da cui hanno cacciato la mia famiglia e in cui ho il diritto di tornare come stabilisce l’Onu nella Risoluzione 194” cioè la risposta è in uno dei due motivi per cui i palestinesi al border rischiano la vita. L’altro motivo è la fine dell’assedio.

Vive a Beitlaya, Basel, ma è di Brer, così risponde suo padre e a questo punto Basel inizia a parlare. La sua storia ha veramente dell’incredibile e forse chi legge non ci crederà. I medici confermano che è vero. Praticamente l’ultima pallottola che ha colpito questo ragazzo alla coscia aveva una potenza d’attrito tale che è uscita dalla sua gamba ed ha ferito altri tre ragazzi entrando ed uscendo dall’uno all’altro fino a fermarsi nel quarto. Gli esperti di balistica potranno fare le loro ipotesi, noi ci limitiamo a parlare con Basel visto che ora è disposto a raccontarci qualcosa di sé. Ha finito la scuola superiore ma non sa se andrà all’università, ha tanti fratelli e tutti vanno al border a prescindere dall’età, perché tutti sono… di Brer!

Ma la storia di Basel è una sorta di allegoria della storia di questo popolo. L’ultima ferita, quella per cui è sulla sedia a rotelle e ha subito e dovrà ancora subire altre operazioni chirurgiche, è un “regalo” del 16 luglio. Lui era uno dei ragazzi che rischiano la vita per proteggere se stessi e gli altri col fumo nero dei “caucciù”, come chiamano i vecchi copertoni bruciati. Ma i caucciù sono efficaci come cortina protettiva solo se il fumo è vicino ai cecchini, altrimenti non serve. Perciò qualcuno deve rischiare e Basel è uno dei tantissimi ragazzi (e anche qualche ragazza) che rischiano correndo a portare il loro pezzetto di difesa dai micidiali proiettili dei killers appostati oltre la rete.

Abbiamo detto che la storia di questo ragazzo è una sorta di allegoria di questo popolo, ma non lo è per questa ferita, ma perché questa è la terza ferita dal giorno in cui è stata lanciata la marcia. La prima, un proiettile al ginocchio destro, l’ha ricevuta il 30 marzo, ma la ferita non lo ha fermato e il 13 aprile si trovava di nuovo a manifestare quando un cecchino gli ha sparato alla spalla. Gli ha sparato alla spalla mentre correva per tornare verso il campo dopo aver lanciato il caucciù il cui fumo forse lo ha protetto. Infatti il cecchino che lo ha colpito – alle spalle è bene puntualizzare – probabilmente ha sbagliato la mira di qualche centimetro e Basel, ancora vivo e determinato, ha seguitato ad andare al border a fare quello che lui, e suo padre conferma, ritiene essere suo dovere. In questo senso la sua storia di ferite sembra un po’ il paradigma della storia della Palestina: non conta quante volte si cade, conta rialzarsi e resistere.

In ogni famiglia palestinese c’è almeno un martire, e quel che Israele non ha ancora capito – noi seguitiamo a ripeterlo sapendo che la nostra voce non è tanto forte da raggiungere Israele, ma seguitiamo a ripeterlo perché non si dimentichi – è il fatto che i martiri non nutrono la rassegnazione alla sconfitta, ma nutrono la determinazione alla resistenza e Basel ce lo dimostra dicendoci che Mohammed Ayoub, l’ultimo ragazzino di 13 o 14 anni che Israele ha ucciso alcuni giorni  fa, era suo cugino e che il dolore per la sua morte si è trasformato nella maggior convinzione che resistere sia un dovere.

Il padre di Basel accarezza il bambino che gli sta vicino e dice “anche lui viene alla marcia, tutti noi andiamo alla marcia, non abbiamo perso un solo venerdì. Noi non andiamo per farci uccidere ma per dire che vogliamo vivere e che abbiamo il diritto di vivere liberi”.

Facciamo tanti auguri a Basel e a suo padre ed io e Haneen Wishah, la bravissima coordinatrice dell’UHWC cui l’ospedale Al Awda è collegato e che mi ha fatto da guida e da interprete, riprendiamo i nostri diversi lavori.

Tutto questo succedeva ieri. Ora, dopo aver sbobinato le interviste ed aver finito di scrivere queste righe, sento il Muezzin che chiama alla preghiera. E’ la preghiera di mezzogiorno. Tra poco si comincerà ad andare al border.

Israele oggi ha minacciato ancor più violenza in risposta al lancio degli aquiloni con la codina in fiamme. Israele minacciava violenza, e rispettava la promessa, anche prima degli aquiloni. Israele pratica violenza e trova voci mediatiche pronte a giustificarla, qualunque sia la giustificazione. Sempre! I palestinesi lo sanno ma non hanno le voci sufficientemente alte per presentare al mondo la verità e, quindi, i loro diritti continuamente violati. Ma esattamente come Basel, vanno avanti convinti che prima o poi la giustizia gli aprirà le braccia.

Intanto tra poco si partirà per i vari punti del confine, laddove si va per affermare quel diritto alla libertà che Israele non riesce a conculcare neanche con i suoi aerei da guerra, gli stessi che usa contro gli uomini e contro gli aquiloni che però, ne siamo sicuri, anche oggi  seguiteranno a volare.




“Stato-Nazione ebraico”: come Israele introduce l’apartheid nel suo ordinamento

Ben White

giovedì 19 luglio 2018, Middle East Eye

La legge è solo il più recente tentativo di discriminare legalmente i palestinesi

Giovedì il governo israeliano ha formalmente approvato la legge “Stato-Nazione ebraico”. Con le vacanze estive della Knesset alle porte, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha cercato di far approvare la legge prima della pausa.

“Questo è un momento decisivo negli annali del sionismo e nella storia dello Stato di Israele,” ha detto Netanyahu alla Knesset dopo il voto.

L’iniziativa ha dominato il dibattito pubblico in Israele, con interventi di alto profilo da parte di oppositori e sostenitori. Lo scorso martedì in una lettera aperta il presidente Reuven Rivlin ha messo in guardia in merito a quelli che ritiene essere i pericoli insiti nella legge – soprattutto un articolo destinato a proteggere e promuovere l’esistenza di comunità esclusivamente ebraiche.

Tentativi di pressione

Prima del voto una serie di dirigenti ebreo-americani ha sollecitato con forza Netanyahu a cambiare idea, intensificando i tentativi di pressione per evitare l’approvazione della legge.

Purtroppo, ma prevedibilmente, queste reazioni sono state caratterizzate dalla mancata comprensione o dal fatto di non aver preso sufficientemente in considerazione quanto lo status di Israele come “Stato ebraico” si sia sempre tradotto in leggi e in prassi e, soprattutto, quanto ciò abbia colpito i palestinesi fin dal 1948.

Molte leggi discriminatorie sono già nei codici e in Israele esistono già sistemi legali per creare comunità segregate. Non c’è diritto all’uguaglianza, e Israele non è uno Stato di tutti i suoi cittadini. La spesso citata “Dichiarazione di Indipendenza” non è una legge costituzionale, e la “Legge Fondamentale” [che ha valore di costituzione, ndtr.] privilegia già la protezione dello “Stato ebraico” rispetto all’uguaglianza dei cittadini non ebrei.

Come ha spiegato nel 2012 una relatrice speciale dell’ONU [Raquel Rolnik, architetta e urbanista brasiliana, ndtr.], le autorità israeliane perseguono già “un modello di sviluppo territoriale che esclude, discrimina ed espelle le minoranze.” Allo stesso modo la commissione ONU sull’Eliminazione della Discriminazione Razziale ha evidenziato “l’adozione di una serie di leggi discriminatorie su questioni relative al territorio che colpiscono in modo sproporzionato le comunità non ebraiche.”

In effetti il problema di comunità solo ebraiche, che ha dominato le recenti critiche sulla legge approvata giovedì, è spesso discusso senza riferimenti al fatto che Israele ha già centinaia di tali comunità segregate, grazie al ruolo dei “comitati di ammissione”.

Risalire fino alla Nakba

Un decennio fa Human Rights Watch ha segnalato come questi comitati “siano formati da rappresentanti del governo e della comunità locale, così come da importanti funzionari dell’Agenzia Ebraica o dell’Organizzazione Sionista, e notoriamente siano stati utilizzati per escludere arabi da comunità rurali ebraiche.”

Questa discriminazione istituzionalizzata decenni fa, che può essere fatta risalire alla Nakba, rende risibile l’affermazione da parte di Mordechai Kremnitzer, dell’“Israel Democracy Institute” [istituto di ricerche israeliano indipendente, ndtr.], secondo cui la nuova legge costituirebbe in qualche modo “la fine di Israele come Stato ebraico e democratico.”

Tuttavia, come analizzato dal centro per i diritti giuridici “Adalah” [centro israeliano/palestinese per la difesa dei cittadini arabo-israeliani, ndtr.] in un nuovo documento di sintesi pubblicato domenica, la nuova legge rappresenta un’innovazione, sia dal punto di vista giuridico che politico; godendo dello status di legge fondamentale, la legge dello Stato-Nazione ebraico inserirebbe nella costituzione prassi razziste.

L’informazione dei media occidentali ha, nel suo complesso, riproposto le lacune delle critiche israeliane alla legge. Inoltre l’omissione dell’esperienza dei cittadini palestinesi in questo Stato “ebraico e democratico” è aggravata da un’analisi che non indaga affatto in profondità sul perché questa legge sia stata proposta.

La legge dello “Stato-Nazione ebraico” non è il prodotto di uno scontro interno alla destra tra il “Likud” [partito di destra e di maggioranza del governo, ndtr.] e “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, anch’esso al governo, ndtr.], o tra Netanyahu [capo del governo e del “Likud”, ndtr.] e Naftali Bennett [ministro dell’Educazione e leader di “Casa Ebraica”, ndtr.]. Al contrario, seguire le origini di questa proposta di legge rivela che, nella sua essenza, si tratta di una reazione ai tentativi dei cittadini palestinesi negli ultimi due decenni di affermare la propria identità nazionale e di chiedere uno Stato per tutti i cittadini.

Raddoppiare

Poco dopo che l’ex-capo dello Shin Bet [servizio di spionaggio interno di Israele, ndtr.] Avi Dichter ha iniziato i tentativi di far approvare una legge per lo “Stato-Nazione ebraico” nel 2011, il giornalista israeliano Lahav Harkov – ora caporedattore del “Jerusalem Post” [giornale israeliano di centro-destra in inglese, ndtr.] – ha lodato l’iniziativa citando “campagne per delegittimare Israele in aumento sia all’interno che fuori dal Paese.”

Quindi la risposta dal mondo politico israeliano ai cittadini palestinesi mobilitati per chiedere una vera eguaglianza è stata raddoppiare la discriminazione, affermare provocatoriamente in modo ancora più esplicito l’esistenza dello “Stato ebraico” e proteggerla dal punto di vista giuridico.

Ma ciò presenta i suoi vantaggi, come evidenziato dallo scalpore in merito alla nuova legge. Perché quello che la proposta di legge minaccia non è l’esistenza di un Israele ‘democratico’, ma piuttosto l’idea problematica di uno Stato “ebraico e democratico” (o almeno la plausibilità di sostenere quest’idea).

Con la sua rozzezza, la legge minaccia la possibilità da parte di Israele di perpetuare una discriminazione di lunga durata, istituzionalizzata, senza costi a livello internazionale, una prospettiva segnalata dagli avvertimenti della procura generale di Israele e dal leader degli ebrei americani, il rabbino Rick Jacobs.

Guerra demografica

“La vera faccia del sionismo in Israele” ha scritto la scorsa settimana sulla rivista +972 [sito di notizie israeliano, ndtr.] Orly Noy, è “una intrinseca, continua guerra demografica contro i cittadini palestinesi. Se Israele vuole essere ebraico e democratico, deve garantire concretamente una maggioranza ebraica.”

La legge dello “Stato-Nazione ebraico” è parte di questa storica e continua guerra demografica, testimoniata dall’attivismo dei cittadini palestinesi, e un tentativo di reprimerlo.

Poiché Israele consolida lo Stato unico de facto tra il fiume [Giordano] e il mare, questo non sarà l’ultimo tentativo di vedere ulteriormente riflessa nella legislazione la realtà dell’apartheid sul terreno.

– Ben White è autore del nuovo libro “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel” [Crepe nel muro: oltre l’apartheid in Israele/Palestina]. E’ un giornalista e scrittore freelance e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, the Guardian’s Comment is Free ed altri.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Legge dello Stato-Nazione’ di Israele: “L’apartheid è un processo”

Edo Konrad

19 luglio 2018, + 972

Con l’approvazione della “Legge dello Stato-Nazione ebraico” Israele ha inserito la discriminazione nei confronti della propria popolazione palestinese a livello costituzionale. “Non dobbiamo continuare a cercare politiche che assomigliano alle ‘Leggi Jim Crow’,” dice l’avvocato Fady Koury.

Nelle prime ore di giovedì il parlamento israeliano ha approvato la “Legge dello Stato-Nazione ebraico”, definendo Israele come Stato-Nazione esclusivamente del popolo ebraico e degradando lo status ufficiale dell’arabo.

Quasi immediatamente politici palestinesi e gruppi per i diritti hanno iniziato a parlare della legge in termini inequivocabili. Il segretario generale dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina] Saeb Erekat ha detto che la legge “trasforma un regime di apartheid de facto in una realtà de iure per tutta la Palestina storica”.

Hassan Jabareen, presidente di “Adalah”, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, ha affermato che la legge “contiene elementi chiave dell’apartheid” e che approvandola Israele ha “reso la discriminazione un valore costituzionale e ha affermato il proprio impegno nel favorire la supremazia ebraica come fondamento delle proprie istituzioni.”

Secondo l’avvocato di “Adalah” Fady Khoury la legge rafforza l’identità dello Stato di Israele come Stato per il popolo ebraico, trasformandolo in titolare della sovranità, escludendo al contempo la popolazione palestinese dalla stessa definizione di sovranità.

La legge stessa non menziona neppure una volta la parola ‘democrazia’,” spiega Khoury.

Psicologicamente avrà un fortissimo impatto sugli israeliani quando saranno chiamati a definire cosa sia o non sia democratico.”

La rivista +972 ha parlato con Khoury per comprendere meglio il confronto con l’apartheid, e perché la legge in generale sia così problematica.

(La seguente intervista è stata pubblicata integralmente]

La gente la chiama la ‘legge dell’apartheid’. Perché?

L’apartheid in Sud Africa è stato un processo. Era un sistema che ci ha messo degli anni a svilupparsi ed è stato costruito con il lavoro di accademici e teologi che dovevano creare le giustificazioni per la supremazia dei bianchi. Era un sistema gerarchico, in cui c’era un gruppo con tutto il potere e un altro senza alcun potere.”

In Israele la nuova legge definisce esplicitamente il popolo ebraico come il solo gruppo con l’unico potere di autodeterminazione, mentre nega i diritti del popolo autoctono. Ciò crea un sistema di gerarchia e supremazia. Non viviamo in un tempo in cui rivendicazioni esplicite di supremazia sono legittime come lo erano in Sud Africa, ma stiamo arrivando agli stessi risultati attraverso un linguaggio diverso.”

L’analogia tra Israele e Sud Africa non riguarda solo comunità o strade separate, riguarda un modo di pensare. Riguarda l’idea di classificare gruppi diversi. È l’idea di un regime di supremazia che favorisce gli interessi di un gruppo, anche se ciò avviene a spese dei più basilari diritti di un altro gruppo. Non dobbiamo continuare a cercare politiche che assomiglino alle ‘Leggi Jim Crow’ [leggi segregazioniste applicate nel Sud degli USA contro i neri, ndtr.] – quel modo di pensare non esiste solo ai margini della politica israeliana, ma anche nella sua parte maggioritaria.”

La formulazione originaria della legge includeva un articolo che consentiva alle comunità di essere segregate in base a criteri religiosi o ‘nazionali’. Cosa dice la versione finale in merito alla segregazione?

La precedente versione della legge includeva un articolo che consentiva allo Stato di autorizzare nuove comunità sulla base della religione o della nazionalità. Si basava sul principio di ‘separati ma uguali’, espresso nell’idea che così facendo sarebbe stato un bene per tutti – ebrei e palestinesi. Il linguaggio è stato cambiato in quanto era troppo vicino al tipo di palese segregazione che abbiamo visto negli USA. Hanno riscritto l’articolo in modo che lo Stato possa ‘promuovere insediamenti ebraici’. Ciò crea un tipo di paradigma segregazionista totalmente diverso, di ‘separati ma diseguali’.

Pensalo in questo modo: immagina se gli Stati Uniti abbiano approvato una legge che promuove ‘insediamenti di bianchi’ – ci farebbe rabbrividire. Ma dopo 70 anni di Stato ebraico e democratico, l’idea di insediamenti ebraici è diventata così diffusa che non sembra un problema. In questo senso il cambiamento è di facciata. Ma quello che la Destra vuole raggiungere è la stessa cosa: ebraicizzare il Paese incentivando la costruzione di comunità solo per cittadini ebrei.”

Quali sono gli effetti potenziali che questa legge potrebbe avere sul sistema giuridico?

Questa è una legge che definirà l’identità costituzionale dello Stato. Finora è stata la Corte Suprema che ha avuto il ruolo di interpretare quale fosse il vero significato della frase ‘ebraico e democratico’. Ora abbiamo una legge che assegna status costituzionale all’identità ebraica dello Stato.”

(La legge) sarà fondativa. Diventa una fonte di interpretazione delle leggi e del sistema giuridico. Le implicazioni non saranno limitate a pochi settori: avranno conseguenze sul sistema giuridico dalla radice, soprattutto se la Destra continua a nominare alla Corte Suprema giudici conservatori che utilizzeranno questa nuova norma costituzionale per interpretare le leggi.”

La nuova legge rappresenta l’accelerazione di un processo che ha avuto luogo recentemente o sancisce un regime discriminatorio che qui è sempre esistito?

Penso che stiamo assistendo a un’escalation che non inizia con la nuova Legge Fondamentale, ma è piuttosto il risultato della contraddizione tra le identità fondamentali dello Stato come ebraico e democratico. Quello a cui stiamo assistendo ora è che l’identità ebraica sta invadendo sempre più la vita sociale e politica dei cittadini di Israele, mentre l’identità ‘democratica’ dello Stato sta sperimentando una regressione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I cambiamenti nei rapporti tra palestinesi dalle due parti del muro

Rami Younis

15 luglio 2018, +972

Nonostante la separazione fisica e le divisioni interne, i palestinesi di entrambi i lati della Linea Verde stanno nuovamente parlando del futuro della loro lotta e del ruolo che i palestinesi cittadini di Israele vi possono giocare.

Lontano dagli occhi dell’opinione pubblica israeliana, anche se sotto lo sguardo attento del governo, si è scatenato un dibattito interno alla società palestinese sugli effetti devastanti della separazione fisica e delle divisioni interne che l’affliggono.

Due recenti proteste, una ad Haifa in solidarietà con Gaza e un’altra – a cui hanno partecipato anche palestinesi cittadini di Israele – a Ramallah contro il ruolo giocato dall’Autorità Nazionale Palestinese nell’assedio [di Gaza] hanno contribuito a rafforzare il confronto sul rapporto tra palestinesi dei due lati del muro di separazione e sul ruolo dei palestinesi cittadini di Israele nella lotta contro l’occupazione.

La dottoressa Huneida Ghanem, che dirige “Madar” – il Centro Palestinese di Studi Israeliani -, ha studiato questo problema per anni. Nelle sue ricerche Ghanem, che divide il suo tempo tra Israele e Ramallah, ha scoperto che, nonostante le divisioni, la maggioranza dei palestinesi concorda su una serie di punti fondamentali: che la divisione è stata loro imposta, che li indebolisce e che consente ad Israele di controllarli più facilmente.

Le divisioni non iniziano e finiscono con il muro e l’occupazione. Per anni Fatah e Hamas sono stati incapaci di riconciliarsi, nonostante le esortazioni del loro popolo. I palestinesi all’interno di Israele affrontano divisioni al proprio interno, per cause anche religiose, dispute politiche e differenze geografiche che generano divari culturali.

Nel corso degli anni tutti questi fattori hanno creato in ogni comunità situazioni politiche, sociali ed economiche diverse, portando a differenti necessità e problemi che richiedono differenti approcci e politiche. In seguito a ciò, secondo Ghanem, ogni gruppo ha sviluppato un proprio programma politico per affrontare l’occupazione.

Nei territori occupati la lotta si concentra sulla fondazione di uno Stato attraverso mezzi sia violenti che non violenti, compresi la lotta popolare e il movimento BDS. Quella in Cisgiordania si concentra sulle colonie e l’apartheid; a Gaza il fulcro è sulle difficoltà create dall’assedio, così come sulla violenza e sulle distruzioni causate dalle guerre con Israele ogni paio d’anni e sulla ricostruzione tra uno scoppio di violenza e l’altro.

I palestinesi cittadini di Israele stanno lottando per una cittadinanza uguale attraverso partiti politici e organizzazioni extraparlamentari, concentrandosi soprattutto sulla discriminazione e sulle leggi [israeliane] razziste. E fuori dalla Palestina milioni di rifugiati stanno lottando per il diritto al ritorno nelle proprie terre.

Secondo Ghanem, le due Intifada hanno rappresentato un cambiamento per i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di confine tra il territorio israeliano e la Cisgiordania e Gaza, ndtr.]. Durante la Prima Intifada, nel corso della quale centinaia di migliaia di palestinesi nei territori occupati protestarono contro l’occupazione, i palestinesi all’interno di Israele tennero manifestazioni non violente di solidarietà, chiedendo al contempo uguaglianza per tutti i cittadini israeliani. La Seconda Intifada, tuttavia, fu un punto di svolta: intere comunità palestinesi vennero coinvolte indipendentemente dalla loro collocazione geografica, e i palestinesi improvvisamente in quel momento percepirono che il destino di Giaffa [in Israele, ndtr.] era legato a quello di Gerusalemme e di Jenin [nei territori occupati, ndtr.].

Arabi o palestinesi?

Nonostante la separazione fisica e le varie divisioni, sempre più arabi in Israele si definiscono come palestinesi. Più Israele insiste a utilizzare il termine “arabi israeliani” e cerca di imporre loro un’identità, più essi dimostrano orgoglio per la propria identità nazionale. Dopotutto, l’identità è parte della lotta.

Un anno e mezzo fa ho pubblicato una serie di video reportage su Social TV relativi alla storia dell’identità nazionale tra gli arabi cittadini di Israele, e soprattutto su come il “Giorno della Terra” del 1976 [in cui 6 palestinesi cittadini israeliani vennero uccisi durante proteste contro l’esproprio di terre, ndtr.] e gli avvenimenti dell’ottobre 2000 [quando durante proteste e scontri con civili ebrei la polizia israeliana uccise 13 dimostranti palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] furono cruciali nello spingerli ad adottare un’identità palestinese.

Una delle persone da me intervistate, il dottor Marwan Darweish, docente di Studi per la Pace all’università di Coventry in Gran Bretagna, spiegò il fenomeno:

Le divisioni interne palestinesi, l’assedio, le colonie, il muro – tutto ciò ha creato diverse situazioni e divisioni tra i vari gruppi di adolescenti palestinesi. Penso sia uno degli obiettivi della politica israeliana: che le persone si definiscano palestinesi, ma che ci siano divisioni interne e differenze e in qualche modo un conflitto tra di loro, creando differenti rappresentazioni l’una dell’altra. Come i palestinesi di Gaza vedono i palestinesi di Gerusalemme o all’interno di Israele. Queste rappresentazioni e la creazione di identità differenti in un certo senso sono funzionali allo Stato, all’occupazione e al controllo israeliano sui palestinesi.

L’attivista Qamer Taha all’epoca disse: “Ci sono vari studi che mostrano come negli ultimi anni tra il 30 e il 40% degli adolescenti si sia autodefinito “palestinese” senza comprendere veramente la complessità della situazione.” Taha ha sostenuto che la generazione più giovane potrebbe aver adottato un’identità palestinese in risposta alle divisioni etniche all’interno della società palestinese in Israele. Invece che musulmani o cristiani, ci sono soltanto palestinesi.

L’uovo e la gallina

Tuttavia, nonostante il senso e l’orgoglio della loro identità palestinese, negli ultimi anni sempre meno cittadini palestinesi hanno inscenato proteste, e in qualche modo sono molto meno coinvolti politicamente.

Ci sono varie ragioni per cui meno palestinesi sono scesi in piazza. Una delle principali è la mancanza di una visione politica e di una strategia chiare,” ha detto Muhammad Younis, un attivista che vive ad Haifa. (Nessun rapporto con chi scrive). Younis è uno dei fondatori di un nuovo movimento che appoggia la costituzione di un unico Stato democratico in Israele-Palestina sulla base dell’uguaglianza tra arabi ed ebrei.

Aggiungi a ciò quello che sta succedendo in Siria e ti renderai conto della disperazione e della frustrazione collettive,” ha continuato Younis. “C’è frustrazione anche nei confronti dei nostri dirigenti – la “Lista Unitaria” [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.] e l’“Alta Commissione Araba di Monitoraggio” [composto da rappresentanti politici palestinesi sia locali che nazionali cittadini israeliani, ndtr.]. Quest’ultima ha completamente perso la fiducia dell’opinione pubblica.”

Recenti sondaggi mostrano che i cittadini palestinesi di Israele si concentrano sulle violenze (intercomunali) che infuriano nelle nostre strade, e ben a ragione. Ci stiamo concentrando sui nostri problemi immediati, per cui come possiamo portare migliaia di persone a protestare per Gaza? Ciò pone un dilemma strategico: occuparci della violenza o continuare ad opporci all’occupazione, dato che (quest’ultima) consente e trae beneficio dalla violenza? È una situazione da uovo e gallina. Cosa viene prima, la violenza o l’occupazione?

Younis dice di credere che i cittadini palestinesi di Israele si stiano allontanando dai palestinesi della Cisgiordania, catalizzati sia dagli avvenimenti nel mondo arabo, che dall’effetto a valanga della hasbara israeliana. “I palestinesi guardano alla Primavera Araba e dicono ‘forse le cose vanno meglio in Israele’. Alcuni di loro stanno iniziando a recepire gli ingannevoli discorsi sionisti contro la “Lista Unitaria”, che non farebbe niente per affrontare i problemi della società araba all’interno di Israele. Ovviamente succede a causa della violenza incontrollata. Gran parte della nostra opinione pubblica sta iniziando a fare una distinzione tra l’occupazione ed i problemi della nostra società, senza comprendere come l’occupazione approfitti di questi problemi.”

Un anno e mezzo fa ero seduto nell’ufficio della dottoressa Ghanem a Ramallah, proprio mentre l’ANP aveva iniziato a imporre sanzioni contro gli abitanti di Gaza bloccando il pagamento della loro elettricità. “La gente è terrorizzata,” ha detto Ghanem, spiegando perché praticamente nessuno fosse sceso in piazza. “Non è che gli piacciano (le politiche dell’ANP), o che non stiano male. Sono feriti e frustrati, eppure non protestano perché vedono cosa sta succedendo in Siria. In un certo modo la mancanza di opposizione ad Abbas è simile all’accettazione del male minore.”

Forse le cose comunque stanno cambiando. Negli ultimi mesi ci sono state manifestazioni di alto profilo ad Haifa (nonostante il numero relativamente basso di partecipanti) e a Ramallah (nonostante il timore a protestare contro l’ANP). È possibile che i manifestanti di Ramallah fossero ispirati da quelli di Haifa e dalle recenti proteste antigovernative in Giordania? Il fatto che attivisti di Haifa si siano uniti alle manifestazioni a Ramallah è foriero di una cooperazione da entrambi i lati del muro? Può essere che a Ramallah i timori di una Primavera Araba stiano iniziando a svanire? Il tempo lo dirà.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local call” [sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’UE stronca il ministro israeliano: così si alimenta la disinformazione e si mescolano BDS e terrorismo

Noa Landau

17 luglio 2018, Haaretz

Federica Mogherini dell’UE ha scritto una lettera molto critica al ministro della Sicurezza Pubblica di Israele Gilad Erdan, accusandolo di fare affermazioni infondate e inaccettabili secondo cui l’Unione appoggerebbe il terrorismo

La ministra degli Esteri dell’Unione Europea, Federica Mogherini, ha inviato una lettera personale molto tagliente al ministro degli Affari Strategici Gilad Erdan chiedendogli di fornire le prove delle affermazioni “vaghe e non comprovate” che l’UE stia finanziando terrorismo ed attività di boicottaggio contro Israele attraverso organizzazioni no profit.

Nella sua lettera, acquisita da Haaretz, Mogherini risponde a un rapporto diffuso in maggio dal ministero degli Affari Strategici intitolato “I milioni dati da istituzioni dell’UE a Ong legate al terrorismo e al boicottaggio contro Israele.”

Nella lettera inviata insieme al rapporto a Mogherini, Erdan scriveva: “Uno studio approfondito realizzato dal mio ministero ha rivelato che nel 2016 l’UE ha finanziato 14 Ong europee e palestinesi che promuovono esplicitamente e chiaramente il BDS.” Ha anche accusato che “molte Ong che promuovono il BDS e che ricevono finanziamenti diretti o indiretti dall’UE sono legate a organizzazioni che l’UE definisce terroristiche.” Erdan ha aggiunto che tali finanziamenti minacciano i rapporti tra l’UE e Israele ed anche “le possibilità di una pace.”

In seguito il rapporto è filtrato al giornale “Israel Hayom” [“Israele oggi”, giornale gratuito israeliano di destra, ndtr.], che lo ha pubblicato sotto il titolo “Milioni di euro di odio”. Nel giorno in cui il rapporto è stato reso noto, Erdan ha twittato: “L’Ue continua a finanziare con decine di milioni di shekel all’anno organizzazioni del BDS, alcune delle quali legate a organizzazioni terroristiche.”

Nella sua lettera, che è stata inviata a Erdan il 5 luglio, Mogherini scrive: “Le accuse secondo cui l’UE appoggerebbe l’incitamento all’odio o il terrorismo sono infondate e inaccettabili. Anche lo stesso titolo del rapporto è inopportuno e fuorviante: mette insieme il terrorismo e il tema del boicottaggio e crea nell’opinione pubblica una confusione inaccettabile riguardo a due fenomeni differenti.” Aggiunge che l’UE si oppone fermamente “a ogni insinuazione sul coinvolgimento dell’UE nel sostegno al terrore o al terrorismo,” e che “accuse vaghe e insostenibili servono solo a contribuire a campagne di disinformazione.”

Mogherini sostiene anche che il rapporto in questione contiene degli errori: “Per esempio, delle 13 organizzazioni elencate nel rapporto, 6 non ricevono finanziamenti dell’UE per attività in Palestina e nessuna di loro riceve fondi UE per attività del BDS,” scrive. Nota anche: “Inoltre, come riportato ampiamente dalla stampa israeliana nelle ultime settimane, un certo numero di organizzazioni citate nel rapporto riceve finanziamenti anche da altri donatori internazionali, compresi gli Stati Uniti.”

Riguardo al presunto appoggio al movimento BDS, Mogherini scrive a Erdan: “L’Unione Europea non ha cambiato la propria posizione riguardo al cosiddetto movimento “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” (BDS). Confermando la propria politica di chiara distinzione tra il territorio dello Stato di Israele ed i territori da esso occupati dal 1967, L’UE rifiuta ogni tentativo di isolare Israele e non appoggia appelli al boicottaggio. L’UE non finanzia azioni relative ad attività di boicottaggio. Tuttavia il semplice fatto che un’organizzazione o un singolo individuo sia in rapporto con il movimento BDS non significa che questa entità sia coinvolta nell’incitamento a commettere atti illegali, né la esclude da finanziamenti dell’UE.”

L’UE è fortemente impegnata nel rispetto della libertà di espressione e di associazione in linea con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani. La libertà di espressione è applicabile anche ad informazioni ed idee ‘che offendono, scioccano o disturbano lo Stato e qualche settore della popolazione.’ Ogni azione che abbia come risultato di chiudere lo spazio in cui operano organizzazioni della società civile, limitando indebitamente la libertà di associazione, dovrebbe essere evitata.”

Riguardo alle accuse di appoggiare il terrorismo, Mogherini scrive: “L’UE ha norme molto severe per selezionare e vagliare i beneficiari dei fondi UE. Prendiamo molto seriamente in considerazione ogni accusa di uso scorretto dei fondi UE e siamo impegnati a verificare tutte quelle che vengono presentate con prove concrete. Siamo sicuri che i finanziamenti UE non siano stati utilizzati per appoggiare il boicottaggio di Israele o attività del BDS e sicuramente non per finanziare il terrorismo.”

Alla fine della lettera Mogherini invita Erdan a Bruxelles a mostrare le prove delle sue accuse: “Lei e i suoi funzionari siete i benvenuti a Bruxelles in qualunque momento a presentare le prove che dovreste avere per sostenere queste accuse,” scrive. “Nel contempo invitiamo il vostro governo a perseguire con noi un dialogo produttivo su questioni della società civile, come previsto dal “Piano d’Azione UE-Israele”, in uno spirito di cooperazione aperta e trasparente piuttosto che con materiale senza fondamento reso pubblico senza un dialogo e un coinvolgimento preventivi.”

Nel rapporto diffuso dal ministero degli Affari Strategici si sosteneva che nel 2016 l’UE ha trasferito più di 5 milioni di euro a organizzazioni “che promuovono la delegittimazione e il boicottaggio contro Israele.” Benché il rapporto sia descritto come “approfondito”, la maggior parte delle accuse è basata su un piccolo numero di casi da fonti accessibili a tutti. Haaretz ha esaminato qualcuna delle affermazioni fatte dal rapporto ed ha scoperto che l’interpretazione di alcuni degli avvenimenti descritti si discosta dalle informazioni su cui si basa. Per esempio, un boicottaggio solo delle colonie è occasionalmente interpretato come un appoggio al BDS, anche se le organizzazioni in questione non lo sostengono necessariamente, o addirittura vi si oppongono, applicando i principi del movimento al vero e proprio Israele. Questa interpretazione si collega con il modo in cui il governo israeliano negli ultimi anni ha cercato di annullare la distinzione tra i due.

Tuttavia per l’UE questa distinzione è importante. Mentre l’UE non finanzia direttamente attività che promuovono il boicottaggio dello Stato di Israele – escludendone le colonie – vede l’appoggio ideologico al movimento come legittima libertà di espressione politica. L’UE è in grado di controllare l’uso dei suoi finanziamenti, dato che in genere sono destinati in anticipo ad attività specifiche e c’è una supervisione costante.

In altri casi il rapporto del ministero definisce come “sostegno al terrorismo” esempi specifici in cui agenti di Hamas o del Fronte Popolare [per la Liberazione della Palestina, gruppo armato palestinese di orientamento marxista, ndtr.] hanno preso parte ad altre attività sostenute da Ong che ricevono fondi UE. Su questa base Israele sta accusando l’UE di finanziare indirettamente il terrorismo. Una lettura del rapporto mostra anche che un grande numero di denunce sono una riproposizione di affermazioni fatte da organizzazioni di destra, soprattutto dall’Ong “Monitor” [Ong israeliana che si occupa di controllare le Ong internazionali da un punto di vista filo-israeliano, ndtr.].

Erdan ha risposto a questo rapporto dicendo: “È triste che il ministero degli Esteri dell’Unione Europea abbia ancora una volta scelto di nascondere la testa nella sabbia e ignorato le evidenti prove che le organizzazioni del BDS che ricevono fond, sia direttamente che indirettamente, sono legate o collaborano con organizzazioni terroristiche come Hamas e il Fronte Popolare. Mogherini ammette che la maggior parte delle organizzazioni che appaiono nel rapporto del mio ministero in effetti promuovono il boicottaggio di Israele, eppure utilizza la risibile scusa che i soldi sono dati a organizzazioni del boicottaggio ma utilizzati per altri scopi, e non per le loro attività intese a boicottare Israele.”

Purtroppo scuse come questa rappresentano la politica dell’Unione Europea anche in altre questioni, come il suo atteggiamento nei confronti dell’Iran e del terrorismo palestinese,” continua. “Anche su questi problemi l’UE ha scelto di agire come un’ostrica e si comporta come se fosse cieca nei riguardi dell’odio, dell’incitamento alla violenza e del boicottaggio.”

L’Ue ha commentato questo rapporto informativo dicendo: “In genere non commentiamo o facciamo filtrare scambi di messaggi con i Paesi che sono nostri partner, ma sulla questione delle accuse contenute nel recente rapporto pubblicato dal ministero degli Affari Strategici, i nostri uffici centrali hanno esaminato accuratamente il rapporto e sono arrivati alla conclusione che le accuse presentate nel rapporto sono infondate.”

L’Ue ha norme molto rigide per verificare e vagliare i beneficiari di fondi UE. Siamo quindi fiduciosi che i fondi UE non siano stati usati per finanziare il terrorismo.”

La nostra lotta contro il terrorismo non è mai stata così dura, ed abbiamo sempre mantenuto una posizione chiara sulle organizzazioni terroristiche. Siamo anche sicuri che i nostri fondi non sono stati usati per appoggiare il boicottaggio di Israele, in particolare non le attività del BDS,” si legge nel commento.

L’UE ripudia ogni tentativo di isolare Israele e non appoggia appelli al boicottaggio. Nel contempo l’UE rimane ferma nel proteggere la libertà di espressione e di associazione in base alla Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea. Come sempre l’UE verifica ogni seria denuncia presentata in relazione a tali attività e finanziamenti. Se ci dovesse essere una qualche prova che confermi quelle affermazioni, le autorità israeliane saranno le benvenute a presentarcele come parte di un dialogo aperto e trasparente.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Per molti giovani ebrei americani l’asse Trump-Bibi [Netanyahu] è il nemico’

Edo Konrad

2 Luglio 2018, +972

Bradley Burston ribadisce che le sue opinioni su Israele non sono cambiate da quando si è trasferito qui negli anni ’70. È Israele che è cambiato. ‘Mi piacerebbe avere due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non puoi averli’, e loro governano il Paese’, dice in un’ intervista ad ampio raggio su Israele, sulla Nakba e sulle trasformazioni nella comunità ebraica americana.

Tra gli ebrei americani ci sono sempre state correnti di dissenso a proposito di Israele. Dopotutto, sono stati gli ebrei americani progressisti, radicalizzati dalla nuova sinistra degli anni ’60, che sono diventati l’avanguardia della sinistra ebraica americana, che chiedeva che il governo di Israele tenesse colloqui con l’OLP, decenni prima che questo divenisse la politica israeliana. Sono stati gli ebrei americani che, dieci anni dopo aver manifestato contro la guerra in Vietnam, hanno incominciato a protestare di fronte alle ambasciate e ai consolati israeliani durante la prima guerra del Libano.

Decenni dopo, stiamo sentendo parlare spesso dei mutati rapporti tra gli ebrei americani ed Israele, sia da parte di chi si sente deluso, tradito dalle storie e mitologie diffuse dalle proprie stesse comunità, sia da parte di chi semplicemente si allontana del tutto dallo Stato ebraico.

Ciò di cui sentiamo parlare molto meno sono gli ebrei americani progressisti che hanno scelto di vivere in Israele. Cosa provano oggi riguardo a Israele gli americani con cittadinanza israeliana, soprattutto quegli influenti intellettuali che hanno contribuito ad informare molta gente sui cambiamenti che ribollono tra i loro parenti rimasti negli USA?

Per Bradley Burston, far sentire la propria voce ebraica americana è diventata una specie di missione – anche quando nessuno la ascoltava veramente. Burston è diventato una delle voci più importanti del sionismo progressista (lui rifiuta questo termine, definendosi “qualcosa di più di un personaggio-etichetta”), attraverso la sua rubrica su Haaretz, “Un posto speciale all’inferno”. Molto prima che ‘SeNonOra, Voci ebraiche per la pace’, J Street e Peter Beinart [giornalista liberal americano, ndtr.] sollevassero il coperchio di una crisi latente tra gli ebrei americani e Israele, i suoi scritti sono stati un rifugio per chi si sentiva preso in mezzo tra i propri valori e Israele.

Più la dittatura militare sui palestinesi si consolidava, più le rubriche di Burston diventavano taglienti, mettendo in guardia gli israeliani – ed i loro paladini ebrei americani – sulle sue tragiche conseguenze. Perciò è piuttosto incredibile sentire Burston dichiarare che le sue opinioni riguardo a Israele non sono cambiate dal 1971. Dopotutto, soprattutto per la sua indignazione, il suo nome è diventato sinonimo di una tendenza di sionismo liberale che ha lottato per continuare ad essere significativo nell’era Natanyahu – che crede nella soluzione di due Stati, in uno Stato ebraico che rispetti e dia importanza alle sue minoranze, e in un sano rapporto con il resto del mondo.

Nonostante le sconfitte politiche e le speranze svanite per i due Stati, Burston crede comunque che, in fondo, la maggioranza degli ebrei americani sia d’accordo con quell’ipotesi.

La maggioranza degli ebrei americani vuole vedere una democrazia qui, e sono terribilmente a disagio per come stanno andando le cose”, dice l’originario di Los Angeles, mentre siamo seduti per un’intervista a Giaffa, dove vive. “Sono preoccupati per la questione dei richiedenti asilo e per il rapporto tra Israele e la comunità ebraica americana. Per molti giovani ebrei americani, se non per la maggioranza, l’asse Trump-Bibi è davvero il loro nemico.”

Eppure, sulla questione palestinese, Burston crede che la maggior parte degli ebrei americani abbia ancora una strada da percorrere. E’ un processo lento, dice, ma è solo questione di tempo. “(Gli ebrei americani) hanno subito il lavaggio del cervello in modo da credere che gli israeliani sappiano qual è la cosa migliore. Ma è solo una questione di tempo. Se Netanyahu si aliena gli ebrei americani su una questione dopo l’altra, le cose cambieranno. Io spero che stiamo andando verso una situazione migliore – più sostenibile.”

Questo Paese è enormemente cambiato da quando ci sono arrivato a metà degli anni ‘70”, dice, lisciandosi la barba sale e pepe, come usa fare quando è immerso nei pensieri. “Eppure credo ancora in ciò in cui ho sempre creduto: che la soluzione migliore al conflitto israelo-palestinese sia quella dei due Stati, uno accanto all’altro. Il problema è che non penso sia più possibile.”

Come sei arrivato a renderti conto che non ci sarà una soluzione dei due Stati?

Mi piacerebbe che ci fossero due Stati. Ma centinaia di migliaia di israeliani hanno detto ‘non può essere’, e loro governano il Paese. Quando Netanyahu vinse le elezioni nel 2015 dopo una campagna razzista – è stato allora che ho capito che era finita. Ma non sarà per sempre.”

L’idea di uno Stato ebraico e democratico è sostenibile nel lungo termine?

Credo che ci possa essere una confederazione che renda possibile uno Stato ebraico e democratico. Non voglio buttare il bambino con l’acqua sporca, ma ritengo che ci sia qualcosa di positivo nella cultura ebraica e nel suo rinnovamento.

Bisogna ricordare che sta accadendo qualcosa agli ebrei in Israele – che vengano a viverci o no –  che è estremamente potente. Non si tratta dell’acqua sporca. L’acqua sporca è fascismo, è il dominio su un altro popolo. Per Netanyahu l’acqua sporca è l’essenza di questo Paese.”

Hai scritto che l’ideologia dominante del Paese è diventata simile al razzismo. Ti identifichi ancora come sionista?

Non sono sicuro di averlo mai fatto. Non ho alcun problema rispetto all’esistenza di uno Stato ebraico. Ho problemi con uno Stato ebraico oppressivo. Ho problemi con uno Stato ebraico che sopprime i propri tratti democratici. Ho problemi con uno Stato ebraico che è esclusivamente per ebrei di ogni genere. Se sionismo equivale al sostegno alle colonie o all’espulsione dei richiedenti asilo, diventa estremamente facile per me rispondere alla domanda. Se ciò è quello che [il sionismo] è, allora non sono sionista.”

Gli ebrei americani sono più che mai propensi a parlare della Nakba e dell’espulsione dei palestinesi. Come si possono conciliare idee progressiste come l’uguaglianza con la storia di come è stato fondato questo Paese?

La verità è che si tratta di un’incredibile confusione. Benny Morris ha condotto un immane studio su ciò che accadde nel 1948 e ciò che si capisce leggendolo è che ci furono circostanze di vera nobiltà e circostanze di tremende atrocità. Improvvisamente la gente ha avuto l’opportunità di essere sé stessa ed in molti casi questo ha portato ad un risultato terribile, in altri casi no.

È la tempesta perfetta. Gli ebrei erano legittimamente preoccupati di essere nuovamente sterminati. Se sono convinto che tutti stanno cercando di uccidermi, divento tremendo nei loro confronti. Ci sono abbastanza persone propense a dire che vogliono uccidere gli ebrei e che noi non abbiamo il diritto di stare qui, da fornire agli israeliani la giustificazione per usare modi terribili verso di loro.”

Questa mentalità è rimasta tale dal 1948?

Sì, e questo spiega perché oggi agli israeliani non importa nulla dei palestinesi uccisi al confine con Gaza. È stata l’idea geniale di tagliare ogni contatto tra israeliani e palestinesi, perché se davvero vuoi che la gente detesti e tema il campo avverso, allora devi assicurarti che non vi siano contatti. Ora noi non vediamo mai l’altra parte. Se io penso che l’altra parte mi vuole morto, farò cose terribili.

Nel bene o nel male, molti degli ebrei che sono venuti qui lo hanno fatto perché credevano profondamente in questo posto, di appartenere a questo posto, anche se non lo avevano mai visto. Proprio come i palestinesi che conservano le loro chiavi, che sono anch’essi di qui. L’ebreo estone che non poteva essere apertamente ebreo nell’Unione Sovietica – era di qui. Era disposto ad andare in prigione per vivere qui.”

Ma perché questo dovrebbe importare al palestinese che conserva la sua chiave?

L’unica cosa che non possiamo fare è rimuovere ingiustamente la portata del coinvolgimento totale ed emotivo di entrambe le parti rispetto a questo luogo. È il loro luogo, per entrambe le parti. E questo è il problema. Deve esserci qualche ragione per cui questo è il luogo più terribile del mondo eppure ha presa su di noi. In parte è una sorta di lavaggio del cervello che fa parte della cultura israeliana, ma non si tratta solo di questo. C’è qualche elemento mistico qui, a cui la popolazione è indissolubilmente legata. Il governo non può rovinare tutto.”

* * *

Alcune settimane dopo la nostra prima intervista, in un solo giorno i cecchini israeliani sul confine di Gaza hanno ucciso oltre 60 manifestanti che chiedevano il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, e ne hanno feriti altri mille. Sono tornato ed ho chiesto a Burston se la carneficina avesse cambiato qualcosa per lui.

Non so come conviviamo con noi stessi, sapendo quello che sta accadendo a persone che sono praticamente vicine di casa. Non sto parlando in particolare dei morti e feriti nelle proteste della ‘Marcia del Ritorno’. Sto parlando di anni e anni che le hanno precedute. L’assedio di Gaza è stato ed è un terribile errore, il peggior errore che Israele ha fatto negli ultimi 12 anni, non solo in termini morali, ma anche tattici e strategici, per il futuro di Israele e dei palestinesi. Il governo lo sa.

Ma il governo ha troppa paura per fare qualcosa in proposito. L’esercito fa continue pressioni su Netanyahu per promuovere gli aiuti umanitari e lavorare con la cooperazione internazionale per ricostruire le infrastrutture essenziali che abbiamo bombardato fino a distruggerle, impianti energetici, impianti di depurazione, il sistema di acqua potabile. Ma Netanyahu ha troppa paura. È troppo occupato a guardarsi le spalle e a cercare di dimostrare che ha più testosterone di Bennett [ministro dell’Educazione e leader del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.], il quale cerca di dimostrare la stessa cosa riguardo alla propria virilità rispetto a Lieberman [ministro della Difesa e leader di un altro partito di estrema destra nazionalista “Israele Casa Nostra”, ndtr.].”

C’è un’altra cosa per cui mi dispero. Per alcuni leader della destra israeliana un alto numero di vittime palestinesi può in realtà essere considerato come una risorsa politica. Un sondaggio condotto dopo il massacro delle prime marce ha mostrato che il 100% degli intervistati che ha votato per il partito ‘Ysrael Beiteinu’ [‘Israele casa nostra’, ndtr.] del ministro della Difesa Lieberman approvava le azioni dell’esercito. Il cento per cento.”

* * *

Non pensi mai di tornare in America?

C’è stato un periodo durante la seconda Intifada in cui eravamo terrorizzati per la nostra personale incolumità o di lasciare che nostra figlia prendesse l’autobus a Gerusalemme. Ma penso che ci sia qualcosa che ci trattiene qui. Chiunque sia qui e sia un progressista deve essere un rivoluzionario completamente matto, perché altrimenti come potrebbe sopportarlo?”

Eppure la sensazione è che le cose stiano andando peggio.

Io spero ancora in qualcosa di meglio. Quando sono venuto in Israele ho detto ‘ci vado per un anno e poi vedo che cosa succede’.”

E hai continuato a dirlo da allora.

Esattamente. Ogni anno, più o meno ad ottobre, dico ‘E va bene, gli concedo ancora un anno’, ed eccomi qui.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Attacchi aerei israeliani mortali colpiscono duramente l’enclave di Gaza

MEE e agenzie

sabato 14 luglio 2018, Middle East Eye

Almeno due adolescenti uccisi, molti palestinesi feriti in quello che il leader israeliano Netanyahu chiama “il colpo più duro” dal 2014

Fonti mediche ufficiali a Gaza affermano che attacchi aerei israeliani hanno ucciso due adolescenti e ferito almeno altri 14 palestinesi nella Striscia di Gaza assediata, in quella che l’esercito israeliano ha descritto come una delle sue più vaste operazioni dal 2014.

Sabato sera il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che Israele ha inflitto il suo “colpo più duro” ad Hamas dalla guerra del 2014 con una serie di attacchi aerei ed ha minacciato di intensificarli, se necessario.

I due morti palestinesi sono stati identificati dal portavoce del ministero della Salute di Gaza Ashraf al-Qidra come Amir al-Nimra, 15 anni, e Luay Kahil, 16 anni, entrambi colpiti da bombe degli attacchi aerei nel quartiere Katiba di Gaza City.

Al-Qidra ha aggiunto che ambulanze e strutture del ministero della Salute sono state pesantemente danneggiate dagli attacchi aerei a Katiba.

Fonti locali hanno detto a Middle East Eye che un edificio in costruzione su piazza Katiba è stato preso di mira da almeno 4 missili di aerei da combattimento F-16.

Mentre l’edificio era disabitato, la piazza centrale di Gaza City è uno spazio pubblico in cui notoriamente si riuniscono famiglie e bambini.

Stavo guidando il mio taxi sulla strada principale nei pressi dell’edificio (Katiba), quando improvvisamente potenti missili l’hanno colpito,” ha detto a MEE Iyad Hamed da un ospedale in cui è stato curato dopo l’attacco. “La bomba è scoppiata in mezzo a noi, abitanti e passanti nella zona.”

Chiediamo alla resistenza palestinese di rispondere duramente a questa arroganza e barbarie di Israele per porre fine a queste violazioni,” ha aggiunto Hamed.

Sabato mattina Israele ha detto di aver lanciato attacchi aerei che hanno preso di mira strutture di Hamas a Gaza, il giorno dopo che forze israeliane hanno sparato e ucciso due palestinesi che manifestavano nei pressi della barriera che separa l’enclave da Israele.

Più tardi in una dichiarazione in video Netanyahu ha detto: ”Durante una consultazione con il ministro della Difesa, il capo di stato maggiore (militare) e il comando di massima sicurezza dello Stato di Israele abbiamo deciso una dura azione contro il terrorismo di Hamas.”

(L’esercito) ha inferto ad Hamas il colpo più duro dall’operazione “Margine protettivo” e se necessario aumenteremo la forza dei nostri attacchi,” ha aggiunto, in riferimento all’operazione di Israele nella Striscia di Gaza del 2014.

In un comunicato postato su twitter l’esercito israeliano ha affermato che aerei da combattimento israeliani hanno colpito due “tunnel terroristici di Hamas” – uno nel sud di Gaza e l’altro a nord – così come altre infrastrutture lungo il territorio costiero.

Ha affermato che gli obiettivi hanno incluso “complessi utilizzati per preparare attacchi terroristici incendiari e una struttura di addestramento terroristico di Hamas”, e che gli attacchi sono stati effettuati “in risposta ad atti di terrorismo istigati durante le violente proteste che hanno avuto luogo lungo la barriera di sicurezza.”

L’esercito israeliano ha affermato di aver colpito più di 40 obiettivi all’interno di parecchi complessi, in quello che ha descritto come una delle più vaste operazioni dalla devastante guerra del 2014.

Secondo testimonianze a Gaza, gli attacchi aerei di sabato mattina hanno danneggiato infrastrutture militari di Hamas, mentre non sono state diffuse informazioni simili sugli attacchi avvenuti sabato sera.

L’esercito israeliano ha detto che combattenti di Gaza hanno sparato più di cinquanta colpi di mortaio e razzi verso Israele, facendo suonare le sirene di allarme e fuggire gli israeliani nei rifugi. Haaretz [giornale israeliano, ndtr.] ha informato che 16 razzi sono stati intercettati dal sistema di difesa missilistica Iron Dome.

Un portavoce della polizia israeliana ha affermato che tre israeliani sono stati portati in ospedale in seguito agli attacchi. Haaretz ha informato che quattro israeliani sono stati leggermente feriti dopo che un razzo sparato da Gaza ha colpito la loro casa nella città meridionale di Sderot.

Il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum ha rivendicato la responsabilità per i colpi di mortaio di sabato mattina contro Israele, aggiungendo che sono stati lanciati “in risposta agli attacchi aerei israeliani.”

La protezione e la difesa del nostro popolo sono un dovere nazionale e una scelta strategica,” ha sostenuto Barhoum.

Un portavoce di Hamas ha detto ad Haaretz che “l’escalation e l’intensificazione dell’aggressione israeliana non definiranno una nuova agenda,” aggiungendo che non “bloccheranno il processo di ritorno. Le forze della resistenza non permetteranno ad Israele di continuare ad attaccare il popolo palestinese, e saremo pronti a rispondere.”

Una fonte ufficiale palestinese, che ha parlato in incognito con l’agenzia di notizie [inglese] Reuter, ha affermato che l’Egitto ed altri attori internazionali erano in contatto con Israele e Gaza per cercare di ripristinare la calma. Non ci sono stati commenti immediati da fonti ufficiali al Cairo.

All’inizio della settimana Israele ha chiuso Kerem Shalom, l’unico valico commerciale della Striscia di Gaza, inasprendo l’assedio dell’enclave palestinese, mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha minacciato “passi ulteriori”.

Le autorità israeliane hanno incolpato Hamas della “Grande Marcia del Ritorno”, un’accusa che gli organizzatori della campagna hanno respinto, ed ha accusato il partito che governa Gaza di essere dietro gli aquiloni incendiari diretti al di là della barriera di sicurezza che hanno appiccato incendi in Israele.

I palestinesi di Gaza hanno partecipato alla “Grande Marcia del Ritorno” dal 30 marzo, chiedendo la fine del blocco di undici anni imposto da Israele contro Gaza e il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre che le loro famiglie hanno abbandonato durante la fondazione dello Stato di Israele nel 1948.

Secondo il ministero della Salute di Gaza, da quando allora sono scoppiati proteste e scontri lungo la barriera, almeno 139 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano.

Nessun israeliano è stato ucciso. Comunque l’esercito israeliano afferma che venerdì un soldato è stato ferito da una granata.

Nel contempo il ministero della Salute di Gaza sostiene che 220 palestinesi sono rimasti feriti nelle proteste di venerdì nei pressi della barriera di Gaza, oltre a Othman Rami Hales, 15 anni, e a Mohammed Nasser Shurrab, 20 anni, che sono stati colpiti a morte.

Informazioni aggiuntive a Gaza di Mohammed Asad.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele uccide un ragazzino mentre Gaza segna 100 giorni di proteste

Ali Abunimah

13 luglio 2018, Electronic Intifada

Venerdì i cecchini israeliani hanno ucciso un ragazzino mentre i palestinesi hanno segnato più di 100 giorni delle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

Secondo il gruppo per i diritti umani Al Mezan, Uthman Rami Hillis, 14 anni, è stato ucciso da fuoco mortale.

Il gruppo ha affermato che Hillis, del quartiere di Shujaiya, è stato colpito alla schiena dalle forze israeliane schierate lungo il confine est della Striscia di Gaza.

Più di 100 persone a Gaza sono state ferite, 65 delle quali da proiettili veri.

In seguito alla notizia della sua morte, media palestinesi hanno diffuso una foto di Hillis.

Hanno anche diffuso immagini di Hillis portato via in barella dopo essere stato colpito.

Un video mostra anche scene strazianti di parenti che piangono sul corpo di Hillis nell’obitorio dell’ospedale al-Shifa di Gaza City.

Venerdì, prima della morte di Hillis, l’OCHA, agenzia di monitoraggio umanitario dell’ONU, ha informato che sono stati 21 i minori tra i circa 150 palestinesi uccisi dalle forze israeliane a Gaza dal 30 marzo, la grande maggioranza dei quali durante le proteste. Più di 4.000 sono stati feriti da proiettili veri.

Nello stesso periodo sono stati feriti quattro israeliani.

In difesa di Khan al-Ahmar

Per il sedicesimo venerdì di seguito migliaia di palestinesi si sono diretti verso il confine orientale di Gaza.

Dal 30 marzo i palestinesi hanno organizzato proteste contro l’assedio israeliano di Gaza durato 11 anni e per chiedere il diritto dei rifugiati di tornare alle terre da cui sono stati espulsi e da cui sono esclusi da Israele perché non sono ebrei.

Israele ha risposto schierando cecchini con l’ordine di sparare contro civili disarmati, compresi minori – uccisioni e mutilazioni che la procura della Corte Penale Internazionale ha avvertito potrebbero portare i dirigenti israeliani ad essere processati per crimini di guerra.

Il tema della protesta di questo venerdì è stato la solidarietà con Khan al-Ahmar, un villaggio beduino nei pressi di Gerusalemme che deve affrontare un’imminente demolizione da parte di Israele – un crimine di guerra – per far posto a nuove colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata.

A Gaza molti palestinesi hanno rivolto messaggi alla gente di Khan al-Ahmar attraverso i media locali.

Oggi siamo qui in solidarietà con i nostri fratelli e sorelle di Khan al-Ahmar,” ha detto un uomo. “Tutta Gaza è con voi.”

Un’immagine mostra un palestinese che sventola una bandiera irlandese in onore dell’ approvazione, all’inizio di questa settimana da parte del senato irlandese, di una legge che vieta l’importazione di prodotti dalle colonie israeliane.

Israele rafforza l’assedio

Mentre i palestinesi di Gaza continuano la loro rivolta contro l’assedio, nonostante il suo terribile costo, Israele risponde rafforzando ulteriormente il blocco.

Lunedì Israele ha annunciato la chiusura dell’unico valico commerciale di Gaza.

Israele ha anche ridotto da nove a sei miglia nautiche la distanza [dalla costa] entro la quale i pescatori di Gaza possono andare in mare.

Queste iniziative sono punizioni collettive contro i due milioni di persone di Gaza per gli aquiloni e i palloncini incendiari che i palestinesi hanno lanciato, provocando incendi nei prati sul lato israeliano del confine.

L’esercito tecnologicamente avanzato di Israele ha dimostrato di non essere in grado di combattere aquiloni e palloncini.

Perciò ancora una volta le autorità dell’occupazione stanno aggiungendo ulteriori sofferenze a quelle che hanno innescato la rivolta contro una situazione in cui la popolazione di Gaza- la metà della quale composta da minorenni – può solo scegliere tra morire a causa dei proiettili e delle bombe israeliani o essere ridotti in silenzio alla disperazione ed alla morte dall’assedio.

Israele afferma che consentirà l’ingresso di prodotti “umanitari” come cibo e medicine, ma funzionari dell’ONU stanno avvertendo che la chiusura del valico commerciale renderà la situazione di Gaza molto peggiore.

Ci si può attendere che la chiusura avrà conseguenze profonde e di vasta portata per i civili già disperati,” ha affermato giovedì Chris Gunness, portavoce dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Gunness ha evidenziato che tra i beni di importazione vietati da Israele ci sono materiali da costruzione per i progetti educativi, sanitari, idrici, fognari e per l’igiene dell’ONU.

I sistemi idrici e fognari di Gaza sono già vicini al collasso in seguito ad anni di blocco e attacchi militari di Israele.

Infliggere sofferenze

Gisha”, un gruppo israeliano per i diritti umani che monitora il blocco di Gaza, ha affermato che Israele sta vietando ogni materiale da costruzione, non solo quelli destinati ai progetti dell’ONU – cosa che porterà rapidamente all’interruzione di qualunque attività edilizia a Gaza.

Anche le attività economiche già in difficoltà soffriranno gravissime perdite.

Il contadino Suleiman Zurub stava aspettando di spedire 2.000 cassette di patate dolci fuori dal valico. Questo raccolto probabilmente ora andrà in rovina. “I contadini sono i più danneggiati da questa decisione,” dice Zurub, citato da Gisha.

Anche Hasan Shehadeh, proprietario di una fabbrica di vestiti, deve far fronte a gravi perdite in quanto non può spedire i prodotti ai consumatori in Israele, nella Cisgiordania occupata e in Cina.

Se le cose continuano così, subirò pesanti perdite finanziarie, perché nei miei contratti ho firmato l’impegno a pagare per ogni articolo che rimane nella mia fabbrica,” dice Shehadeh secondo Gisha.

Shehadeh è anche preoccupato per le 200 persone che impiega: “La decisione di Israele danneggerà anche loro, ovviamente,” afferma.

Allerta preventiva

Gunness, dell’UNRWA, ha previsto che l’ultima chiusura porterà a un incremento della domanda di servizi dell’agenzia.

Ciò avverrà in un periodo in cui essa, che fornisce razioni alimentari d’emergenza, servizi sanitari ed educativi a centinaia di migliaia di persone a Gaza, affronta una crisi finanziaria senza precedenti in seguito al congelamento dei contributi degli USA all’inizio di quest’anno.

Circa l’80% della popolazione di Gaza è già obbligata a contare sull’assistenza umanitaria e la percentuale di disoccupazione è vicina al 50%.

In giugno l’UNRWA ha avvertito che dovrà fare importanti tagli ai suoi già ridotti servizi.

Anche prima delle ultime restrizioni israeliane, i funzionari dell’ONU hanno evidenziato indicatori di una situazione che va deteriorandosi profondamente.

Secondo l’OCHA, dal gennaio 2017 al giugno di quest’anno la percentuale di medicine essenziali senza riserve nei magazzini a Gaza è aumentata gradualmente da un terzo al 50% – il che significa che c’è meno di un mese di rifornimento per queste medicine.

In giugno il numero medio di ore di elettricità al giorno è stato di 4,5 ore, vicino al livello minimo dal gennaio 2017.

Nel contempo, nel corso dell’ultimo anno, il numero di persone che hanno dovuto chiedere in prestito denaro o cibo a familiari o amici è salito da circa uno su tre a quasi uno su due.

Complicità internazionale

L’Unione Europea, che raramente critica Israele e non ha condannato i suoi massacri di civili a Gaza, ha affermato venerdì di “attendersi che Israele revochi” la decisione di chiudere il valico commerciale.

La dichiarazione di Bruxelles non fa riferimento agli obblighi di Israele, in quanto potenza occupante, di attenersi alle leggi internazionali, compreso il divieto di punizioni collettive.

L’Ue ha persino tacitamente giustificato le azioni di Israele includendo la richiesta che “Hamas e altri attori a Gaza cessino e rinuncino ad azioni violente e provocazioni contro Israele, compreso il lancio di aquiloni e palloncini incendiari.”

Al contrario Gisha ha definito “sia illegale che moralmente perverso” il ricorso di Israele a “punizioni collettive di circa due milioni di persone a Gaza” chiudendo il valico commerciale.

Il gruppo palestinese per i diritti umani Al Mezan ha deplorato “la continua tolleranza della comunità internazionale nei confronti delle punizioni collettive della popolazione di Gaza in violazione degli obblighi giuridici in base alle leggi umanitarie internazionali.”

Al Mezan ha avvertito che Gaza sta assistendo “a un collasso sociale ed economico” e sta andando verso “un’esplosione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il Senato irlandese approva una proposta di legge di boicottaggio dei prodotti delle colonie israeliane

Noa Landau

12 luglio 2018, Haaretz

Il governo irlandese si è opposto alla legge, ma i parlamentari indipendenti e dell’opposizione l’hanno appoggiata. Israele: l’iniziativa ‘danneggerà anche i palestinesi’

Mercoledì il Senato irlandese ha approvato una proposta di legge per boicottare i prodotti provenienti dalle colonie della Cisgiordania.

La proposta di legge è passata con 25 voti a favore, 20 contrari e 14 astensioni. Essa vieta “l’importazione e la vendita di prodotti, servizi e risorse naturali provenienti dalle colonie illegali nei territori occupati (da Israele).”

La proposta, prima di diventare legge, deve essere approvata da entrambe le camere del parlamento.

All’inizio di quest’anno una votazione sulla proposta di legge era stata rinviata, su richiesta del governo irlandese. Il governo, dietro pressioni israeliane, ha poi cercato di mitigare il testo, ma non è riuscito a raggiungere un compromesso.

La proposta di legge è passata grazie ai voti dei parlamentari dell’opposizione e indipendenti. La senatrice Frances Black, la parlamentare indipendente che ha promosso il disegno di legge, ha recentemente postato un video che invita gli irlandesi a fare pressione sui loro rappresentanti perché lo sostengano.

Il ministero degli Esteri israeliano ha criticato duramente l’Irlanda dopo l’approvazione della proposta di legge, affermando che “il Senato irlandese ha dato il suo appoggio ad un’iniziativa di boicottaggio anti israeliana populista, pericolosa ed estremista, che nuoce alle possibilità di dialogo tra Israele e i palestinesi.”

Il ministero degli Esteri ha aggiunto che la legge “avrà un impatto negativo sul processo diplomatico in Medio Oriente”, e che “danneggerà il livello di vita di molti palestinesi che lavorano nelle aree industriali israeliane colpite dal boicottaggio.”

Il ministero ha detto che Israele sta ancora valutando la sua risposta sulla base degli sviluppi dell’iter legislativo.

L’alto dirigente palestinese Saeb Erekat si è congratulato con l’Irlanda per la decisione di approvare il disegno di legge, affermando di voler “ comunicare il nostro sincero apprezzamento al Senato irlandese per aver sostenuto a testa alta il principio della giustizia, approvando questa storica mozione che vieta il commercio con le colonie israeliane illegali nella Palestina occupata.”

Oggi il Senato irlandese ha inviato un chiaro messaggio alla comunità internazionale ed in particolare al resto dell’Unione Europea: le sole parole riguardo alla soluzione dei due Stati non bastano, se non si adottano misure concrete”, ha continuato Erekat.

Vorrei approfittare di questa occasione per ringraziare tutti coloro che sono stati coinvolti nell’approvazione di questa proposta di legge, dai partiti politici alla società civile palestinese ed irlandese ed in particolar modo alla senatrice Frances Black per il suo coraggio nel proporre questa mozione che promuove la causa della giustizia in Palestina”, ha affermato.

Le reazioni tra i parlamentari israeliani all’approvazione del disegno di legge sul boicottaggio sono state differenziate. La deputata Ayelet Nahmias Verbin (Unione Sionista [coalizione di centro sinistra, all’opposizione, ndtr.]), membro della Commissione della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa, ha detto che “il boicottaggio irlandese sui prodotti provenienti da Giudea e Samaria [denominazione israeliana della Cisgiordania, ndtr.] potrebbe facilmente slittare verso un boicottaggio sui prodotti israeliani e legittimare altri Paesi europei ad adottare una misura simile.”

Nel frattempo, la deputata Haneen Zoabi (Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, all’opposizione, ndtr.]) si è detta “felice che la proposta di legge sia passata” e che “contenga un importante messaggio politico: è tempo che l’Europa riveda il proprio approccio alla strategia di boicottaggio di Israele che sta diventando ogni giorno più fascista, e il diritto internazionale non fa che indebolirsi di fronte alla distruttività israeliana.”

La protesta di Netanyahu

Originariamente la votazione era prevista in gennaio, ma è stata rinviata dopo che il ministero degli Esteri ha convocato l’ambasciatrice di Irlanda in Israele, Alison Kelly, chiedendo spiegazioni. Il ministero ha agito su richiesta del primo ministro Benjamin Netanyahu, che è anche ministro degli Esteri.

Kelly ha detto a Rodica Radian-Gordon, responsabile dell’ufficio per l’Europa del ministero [degli Esteri israeliano], che la proposta di legge è stata promossa da parlamentari indipendenti, ma che il governo irlandese vi si è opposto. Ha anche sottolineato che il disegno di legge non era una proposta di BDS [Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni, ndtr.], ma si limitava a invitare al boicottaggio delle colonie.

Netanyahu tuttavia non ha accettato questa argomentazione. Ha denunciato la proposta di legge, dicendo che era intesa a “appoggiare il movimento BDS e danneggiare Israele.” In una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio, ha aggiunto che la proposta “fa un favore a coloro che cercano di boicottare Israele ed è assolutamente contraria ai principi di libero commercio e di giustizia.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I rapporti scomparsi sugli erbicidi a Gaza

Amira Hass

9 luglio 2018, Haaretz

Quindi stiamo distruggendo i raccolti palestinesi con le nostre irrorazioni? Che novità, fa spallucce l’israeliano medio e passa ad un altro canale.

Mentre stavo scrivendo il mio articolo sull’erbicida israeliano irrorato a Gaza, ho appreso che i profughi del 1948 dal villaggio di Salama [villaggio che si trovava nei pressi di Jaffa, nell’attuale Israele, ndtr.] vivono nel villaggio di Khuza’a [nella Striscia di Gaza, ndtr.]. Sono agricoltori, come lo erano molti dei loro genitori e nonni. All’epoca coltivavano limoni, banane e cereali e vendevano i loro raccolti a Giaffa ed anche nelle comunità ebraiche.

Noi tendiamo ad associare i rifugiati palestinesi ai campi profughi. Ma a volte si incontra qualcuno che, anche se esiliato dal proprio villaggio, è riuscito a mantenere lo stesso tipo di vita e le stesse risorse – cioè, a lavorare e vivere dei frutti della terra in Cisgiordania e persino a Gaza. La famiglia Al-Najjar di Khuza’a è uno di questi casi.

Insieme a suo padre, Saleh al-Najjar, di 53 anni, lavora 60 dunams (circa 15 acri) di terra che hanno in affitto a Khuza’a. Impiegano tre braccianti e Saleh dice che tutti e cinque lavorano 12 ore al giorno.

Con i lavori agricoli mantengono una continuità, nonostante siano rifugiati ed abbiano perduto le loro terre di Salama – su cui Israele ha costruito [la cittadina di] Kfar Shalem. Intanto Israele mantiene la continuità danneggiando le loro fonti di reddito e la loro salute. Quando la gente dice che la Nakba non è mai finita, può citare la famiglia Najjar come ulteriore esempio. Uno tra milioni.

Negli ultimi quattro anni i Najjar – come centinaia di altre famiglie nella parte orientale della Striscia di Gaza – hanno imparato a temere anche i piccoli aerei civili.

In primavera e in autunno, a volte anche in inverno, per diversi giorni al mattino compaiono gli aerei, che sorvolano la barriera di separazione. Ma le loro emissioni sono trasportate dal vento verso occidente, attraversano il confine e raggiungono i campi di Gaza. Vedendo i loro raccolti avvizziti, gli agricoltori hanno capito che gli aerei spargono erbicidi.

La paura di questi pesticidi è persino maggiore di quella dei carri armati israeliani che così spesso schiacciano la vegetazione ad ovest della barriera di separazione – dato che gli erbicidi arrivano più lontano, penetrano nel suolo e inquinano l’acqua. La Croce Rossa dice che le coltivazioni fino a 2 km e 200 metri ad ovest della barriera di confine vengono colpite dall’irrorazione. Quelle che si trovano tra i 100 e i 900 metri di distanza sono state totalmente distrutte. I pozzi d’irrigazione situati a distanza di un chilometro sono stati contaminati.

I rapporti di fonte palestinese sui pesticidi che distruggono l’agricoltura di Gaza sono comparsi per la prima volta alla fine del 2014. Un frutto della fantasia? A fine 2015 il portavoce dell’esercito israeliano ha confermato al sito web +972 che si stava effettuando l’irrorazione di pesticidi. Il Centro Al Mezan per i diritti umani, un’organizzazione di Gaza, ha inviato campioni di terra per le analisi di laboratorio. L’esercito non gli ha riferito che cosa venisse irrorato.

L’irrorazione di erbicidi allo scopo di distruggere i raccolti non è il genere di cose su cui il servizio stampa dell’esercito israeliano o il Coordinamento delle Attività di Governo nei Territori [l’ente militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndtr.] sono contenti di parlare o fornire volontariamente informazioni. Né è il tipo di informazione che preoccupa molto gli israeliani, sia sui social media che come usuale argomento di conversazione nelle case israeliane.

“Quindi stiamo distruggendo i raccolti palestinesi irrorando pesticidi – che c’è di nuovo? Abbiamo fatto lo stesso coi raccolti dei beduini nel Negev (prima che l’Alta Corte di Giustizia lo vietasse in seguito ad una petizione di Adala) e coi terreni di Akraba [villaggio nella zona di Nablus, nei territori palestinesi occupati, ndtr.] negli anni ’70. Se i nostri bravi ragazzi hanno deciso di farlo, deve essere necessario”, dice facendo spallucce l’israeliano medio, prima di cambiare canale. Ecco perché sto cercando di tornare sul canale precedente.

La Divisione di Gaza dell’esercito israeliano decide; il ministero della Difesa paga le compagnie aeree civili per farlo. I campi di spinaci appassiti e le piante avvizzite di prezzemolo occupano la mia mente. Penso anche ai figli di questi piloti: lo sanno che il vento trasporta i prodotti chimici che i loro papà hanno spruzzato e che un altro papà non può comprare le scarpe ed altre cose ai suoi figli a causa dei raccolti distrutti per questo?

Richiesto di un commento, il ministero della Difesa afferma: “L’irrorazione viene eseguita da compagnie debitamente autorizzate in base alla legge del 1956 relativa alla protezione delle piante.” È vero che le due compagnie civili che trasportano i pesticidi al di sopra della barriera di confine – Chim-Nir e Telem Aviation – sono professionisti riconosciuti in questo campo. Il ministero della Difesa dice anche: “L’irrorazione dei campi è identica a quella effettuata in tutto Israele.”

Chiunque abbia scritto quella dichiarazione, o offende l’intelligenza dei lettori israeliani, oppure confida che prenderanno per buone le sue parole e non si preoccuperanno. Entrambe le cose sono vere

Il ministero della Difesa ha solamente rivelato quali sono gli “identici” erbicidi utilizzati, in risposta ad un’inchiesta di Gisha, il Centro Legale per la Libertà di Movimento, in base alla legge per la libertà di informazione. I componenti chimici sono il glifosato, l’oxifluorfen e il diuron.

Nonostante le numerose scoperte riguardo ai rischi ambientali e per la salute posti dal glifosato, esso viene ancora usato in Israele. Ma il portavoce del ministero della Difesa ignora il fatto che, pur con tutto il dibattito su quanto siano dannose queste sostanze per l’ambiente e per la salute della popolazione, il loro scopo è contribuire a proteggere i mezzi di sostentamento degli agricoltori – non distruggere le loro coltivazioni, come stiamo facendo a Gaza.

L’esercito ed il ministero della Difesa sanno che queste sostanze chimiche irrorate non conoscono confine. Il danno sistematico portato ai raccolti palestinesi dall’irrorazione non è casuale, è voluto. Un’altra forma di guerra contro la salute e il benessere dei palestinesi, e tutto sotto la logora copertura della sicurezza.

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)