I dati presentati dall’esercito mostrano che in Israele, Cisgiordania e Gaza vivono più arabi che ebrei

Yotam Berger

26 marzo 2018, Haaretz

Ai parlamentari sono stati presentati numeri che mostrano che 5 milioni di palestinesi vivono a Gaza e in Cisgiordania, 1.8 milioni di arabi vivono in Israele e centinaia di migliaia a Gerusalemme Est. 6.5 milioni di ebrei vivono in Israele.

Lunedì, durante un dibattito alla Knesset, l’esercito israeliano ha presentato alcuni dati che mostrano come siano più arabi che ebrei a vivere tra il Mediterraneo e il fiume Giordano.

Secondo il vice-comandante dell’Amministrazione Civile [l’organismo militare israeliano che governa i territori palestinesi occupati, ndt.], colonnello Haim Mendes, cinque milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questo numero non include le centinaia di migliaia di palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, o l’1.8 milioni di arabi israeliani. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica israeliano, a settembre 2017 erano 6.5 milioni gli ebrei che vivono in Israele.

I dati presentati da Mendes durante la sessione della commissione Difesa e Affari Esteri della Knesset si basano su statistiche redatte dall’Ufficio palestinese di statistica. In passato l’affidabilità dei dati è stata messa in dubbio, e i servizi di sicurezza israeliani spesso evitano di farvi affidamento.

I parlamentari di destra che hanno presenziato alla sessione affermano che i dati sono falsi e dicono che Mendes non ha presentato una documentazione a supporto. Il comitato ha dunque chiesto all’Amministrazione Civile di produrre tale documentazione.

I dati presentati da Mendes mostrano un significativo incremento nel numero di palestinesi che vivono tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Nel maggio 2012, un documento ufficiale redatto dall’Amministrazione Civile ha affermato che 2.7 milioni di palestinesi vivevano in Cisgiordania – un incremento del 29% rispetto al 2000.

Il parlamentare Moti Yogev (Habayit Hayehudi [partito di estrema destra dei coloni, ndt.]), che sta a capo della sottocommissione per la Giudea e la Samaria [definizione israeliana della Cisgiordania, ndt.], durante la discussione ha affermato che Mendes ha gonfiato i numeri, poiché, secondo Yogev, nel 2017 “sono state rilevate circa 80.000 nuove nascite e 8.000 decessi – un’aspettativa di vita che non esiste in nessun’altra parte del mondo”.

Le divergenze sull’argomento riflettono una disputa accesa sul numero dei palestinesi che vivono nei territori [palestinesi occupati, ndt.]. Un centro di ricerca noto come “American-Israel Demographic Research Group” [Gruppo Israelo-Americano di Ricerca Demografica] ha provato in passato a dimostrare che i palestinesi sono riusciti ad aggiungere, grazie a una significativa falsificazione dei dati, circa 1 milione di persone in più rispetto al loro numero del 2012. Secondo loro, quell’anno viveva in Cisgiordania 1.5 milione di palestinesi, un numero nettamente inferiore a quello presentato dall’Amministrazione Civile.

Anche se le affermazioni del gruppo non sono supportate dagli esperti in demografia né in Israele né all’estero, erano molto diffuse ed accettate tra i portavoce e i politici della destra. Secondo loro, il tempo e la demografia volgono in favore di Israele piuttosto che dei palestinesi, e concludono che, se il numero dei palestinesi in Cisgiordania è relativamente basso e la minaccia demografica non esiste, non c’è bisogno di intraprendere negoziati riguardo alla fondazione di uno Stato palestinese, ed è giunto il momento di discutere come annettere i territori e gli abitanti.

Il parlamentare Ayman Odeh, capo della Joint List [Lista Unita, la coalizione dei vari partiti arabo israeliani che si sono presentati insieme alle ultime elezioni, ndt.], ha ha risposto twittando che “tra il fiume Giordano e il Mediterraneo c’è un numero eguale di palestinesi ed ebrei, e non c’è nulla di nuovo in questo. Ecco perché il bivio a cui ci troviamo è chiaro: due Stati in base al 1967 [cioè ai confini precedenti la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione militare israeliana, ndt.], oppure uno Stato che sia di apartheid, o ancora uno Stato democratico in cui tutti abbiano il diritto al voto. Non ci sono altre opzioni, e almeno questa semplice verità deve essere sottolineata chiaramente”.

(Traduzione di Veronica Garbarini)

 




Plasmare la storia coi bulldozer: come Israele utilizza l’archeologia per consolidare l’occupazione

Yara Hawari

6 marzo 2018, Middle East Eye

Dopo aver conquistato Gerusalemme ovest nel 1948, Israele ha occupato l’intera città meno di vent’anni dopo, nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni. Da allora, ha creato delle “realtà sul terreno”, attraverso l’annessione e la costruzione di colonie volte a consolidare le sue rivendicazioni nei confronti dell’intera città.

Di fatto, nella sua stessa essenza di progetto coloniale, Israele è ad un tempo ferocemente espansionista ed esclusivista. Il “progetto di legge sulla Grande Gerusalemme”, che è stato recentemente votato e che mira ad estendere i confini della municipalità di Gerusalemme per includervi ulteriori colonie illegali ed escludere quartieri palestinesi, testimonia questo espansionismo.

Allo stesso tempo, la dichiarazione del presidente Donald Trump sullo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme non solo viola il diritto internazionale, ma appoggia la continua colonizzazione della città da parte di Israele.

Cancellato dalla carta

Tuttavia Israele non si accontenta di esercitare un controllo assoluto sulla città attraverso l’annessione e la costruzione di colonie. Conduce anche una campagna aggressiva per appropriarsi dei siti del patrimonio palestinese o distruggerli, in modo da consolidare le sue rivendicazioni di proprietà esclusiva. Questa campagna si è intensificata dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967.

Queste rivendicazioni si appoggiano fortemente su un discorso biblico che mira deliberatamente a fare della religione un elemento di grave conflitto. Questo è oltremodo evidente nella città vecchia di Gerusalemme che – in base al diritto internazionale – è considerata inequivocabilmente territorio palestinese.

Infatti Israele ha cominciato a modificare il paesaggio di Gerusalemme fin dall’indomani della sua occupazione della città, distruggendo uno dei quartieri più vecchi.

Harat al Magharibeh (il quartiere marocchino), che si trova di fronte al muro occidentale della città vecchia, è stato raso al suolo appena qualche giorno dopo l’occupazione israeliana della città. Le autorità israeliane hanno giustificato questa iniziativa con la necessità di creare spazio per i fedeli ebrei.

Il quartiere aveva circa 800 anni e non ospitava soltanto edifici ayyubidi [antica dinastia curdo-musulmana, ndtr.] e mamelucchi [sultanato egiziano dal XIII al XVI, ndtr.], ma anche 650 persone. Gli abitanti hanno avuto poche ore di tempo per lasciare le loro case prima che venissero distrutte. Del resto, si dice spesso che gli archeologi israeliani sono i soli al mondo a servirsi di bulldozer.

Haram al-Sharif [ la Spianata delle Moschee, ndtr.) in pericolo

Più di recente, Israele ha condotto scavi nella zona che si trova al di sotto e intorno a Haram al-Sharif – il complesso che ospita la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa. Questi scavi sono stati condannati dall’UNESCO, che nel 2016 ha emesso una risoluzione che critica Israele per la sua politica generale nei confronti del complesso.

Israele ha moltiplicato i tentativi di controllare Haram al-Sharif, che resta sotto la custodia della Giordania, nel quadro del Waqf [fondazione che gestisce i beni religiosi, tra cui il complesso delle moschee a Gerusalemme, ndtr.]. Questi tentativi sono intrapresi sia dal governo che dai gruppi di coloni fanatici che sperano di distruggere la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa per costruire un Terzo Tempio ebraico.

Nell’estate 2017 la situazione ha raggiunto il parossismo, quando le autorità israeliane hanno istallato dei metal detector all’entrata del complesso. Dopo parecchie settimane di dure proteste da parte dei palestinesi, i dispositivi sono stati finalmente rimossi.

La situazione resta comunque tesa ed i palestinesi temono che Haram al-Sharif sia in pericolo.

Dal punto di vista della prassi archeologica, il diritto internazionale è chiaro: Israele non è autorizzato ad effettuare scavi in siti nei territori occupati. Tuttavia, secondo un rapporto dell’Ong svedese Diakonia, dal 1967 Israele ha eseguito scavi in 980 siti archeologici nella Cisgiordania occupata e si è appropriato di numerosi reperti archeologici.

Tra i siti oggetto degli scavi più aggressivi vi è quello di Silwan, un quartiere di Gerusalemme est situato appena fuori dalle mura della città vecchia e a sud di Haram al-Sharif.

Lunedì gli abitanti del quartiere di Silwan hanno protestato contro i nuovi danni strutturali provocati alle abitazioni da ciò che denunciano come scavi archeologici israeliani.

Gli abitanti di Wadi al-Hilweh si sono scontrati con i lavoratori dell’Autorità delle antichità di Israele e della fondazione Ir David, due istituzioni che effettuano scavi nella zona vicina alla moschea al-Aqsa e al muro meridionale della città vecchia.

L’archeologia ad oltranza

La narrazione biblica considera Silwan come il sito originario della città di Davide ed i primi scavi effettuati allo scopo di ricercare questa città originaria sono stati condotti dai coloni britannici alla fine del XIX secolo.

Attualmente la zona degli scavi è gestita dall’organizzazione di estrema destra El-Ad, che cerca di prendere il controllo di Silwan e di ebraizzare il quartiere. L’organizzazione dispone di fondi considerevoli e gli oligarchi ebrei russi Lev Leviev e Roman Abramovich hanno contribuito ai loro sviluppi.

El-Ad effettua “scavi selvaggi” che le hanno consentito di evitare di procurarsi dei permessi del governo.

Queste operazioni implicano scavi e tunnel ricavati sotto Silwan e si estendono fino ai terreni che circondano la moschea di al-Aqsa. Molte case palestinesi nella collina hanno quindi iniziato a sprofondare.

L’archeologia è solo uno dei numerosi meccanismi attraverso cui Israele mantiene il suo dominio sul popolo palestinese. Il ricorso a questa narrazione biblica è manipolato in modo da creare una cortina fumogena per il progetto sionista di colonizzazione.

Israele prosegue la prassi iniziata dagli archeologi coloniali britannici, che consiste nel tenere la bibbia in una mano e una cazzuola nell’altra. Il suo obbiettivo è manipolare la narrazione storica del passato per servire i suoi attuali interessi ed eliminare la possibilità di un futuro palestinese.

Yara Hawari è esperta di politica palestinese per “Al-Shabaka, The Palestinian Policy Network.” In possesso di un dottorato in politica del Medio Oriente all’università di Exeter, scrive spesso per diversi organi di informazione.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solamente l’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele:centinaia di lavoratori palestinesi arrestati:”Pulizia di Pasqua”

Redazione di Nena News

28 marzo 2018 Nena News

Da sabato fermati 468 palestinesi senza permesso in territorio israeliano in un’operazione che la polizia di Tel Aviv ha chiamato “Rimuovere il Chametz”, i cibi proibiti durante la festa. Adalah: “Razzismo”

Roma, 28 marzo 2018, Nena News – Sul campo lo Stato di Israele ha dispiegato 2.300 uomini, tra poliziotti e volontari. E anche l’aviazione. Sabato scorso il lancio dell’operazione, ribattezzata “Removing Chametz”, rimuovere il chametz, per la religione ebraica tutti la pulizia e l’eliminazione dalle proprie case dei cibi proibiti durante la Pasqua ebraica, cibi non kosher e cibi prodotti da grano o cereali, mescolati con acqua e lasciati a lievitare.

I chametz in questione sono i lavoratori palestinesi illegali in Israele, provenienti dalla Cisgiordania: in pochi giorni ne sono stati arrestati almeno 468, fa sapere la polizia israeliana. Fermati e multati anche 8 datori di lavoro 17 caporali e 24 “trasportatori”, quelli che vanno a prendere gli operai al confine e li distribuiscono nei cantieri e nelle aziende agricole.

Il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, ha parlato di perquisizioni in decine di luoghi di lavoro in Israele e annunciato che “l’operazione continuerò fino a quando sarà necessario”. In vista della Pasqua ebraica (che inizierà il 30 marzo, quest’anno coincidente con la Giornata della Terra, la commemorazione dell’uccisione di sei palestinesi in Galilea nel 1976, mentre difendevano la propria terra dalla confisca). Ha poi aggiunto che 14 dei quasi 500 arrestati sono accusati di “attività terroristiche” e altri nove residenti ad Umm al Fahem – nel triangolo nel nord est di Israele, a maggioranza palestinese – di aver condotto i palestinesi della Cisgiordania illegalmente in territorio israeliano.

L’operazione non stupisce troppo: da sempre le autorità israeliane ne compiono di simili prima e durante le feste ebraiche. Arresti generalizzati ma anche la chiusura dei checkpoint tra i Territori Occupati e Israele, di fatto impedendo ai pochi palestinesi muniti di permesso israeliano di recarsi al lavoro per giorni, a volte per settimane. Succederà anche stavolta: da domani per otto giorni Gaza e Cisgiordania saranno completamente sigillate al transito palestinesi, restando aperto solo a quello dei coloni israeliani.

Subito si è sollevata la protesta delle organizzazioni legali e per i diritti umani. Adalah, nota associazione che si occupa della minoranza palestinese in Israele, ha condannato l’operazione in sé, ma anche il nome razzista che gli è stato attribuito: “La terminologia della polizia israeliana verso persone che come il cibo devono essere rimosse dimostra il carattere razzista della sua attività – si legge in una nota – Alla fine si tratta di pulizia etnica”.

Secondo il Cogat, l’ente israeliano responsabile per i Territori Occupati, ogni giorno transitano legalmente 70mila lavoratori palestinesi, un numero molto più basso rispetto ai livelli pre-Seconda Intifada: con la costruzione del muro e l’implementazione del regime dei permessi, il numero di lavoratori legali si è drasticamente ridotto, anche a causa di una volontaria politica da parte israeliana di loro sostituzione con immigrati stranieri, in particolare dall’Asia dell’Est. Sarebbero invece almeno 50mila i palestinesi lavoratori illegali sia in Israele che nelle colonie, persone che attraversano la Linea Verde con l’aiuto di passeur e caporali, sborsando denaro per poter essere impiegati per qualche settimana nei cantieri o nelle aziende agricole.

Privi di qualsiasi diritto e forma di tutela, senza protezioni durante lo svolgimento del loro lavoro, sono sottopagati rispetto al salario minimo israeliano e lo “stipendio” è spesso decurtato dai datori di lavoro che chiedono denaro per l’alloggio. Alloggio che spesso è lo stesso cantiere in cui lavorano, costantemente in fuga dai controlli della polizia: abusi e violazioni sono casi comuni, fino al carcere per chi viene sorpreso senza documenti.

Ma le forze armate operano solo in casi particolari, come l’attuale operazione: esercito, polizia e governo conoscono benissimo la tratta dei lavoratori e luoghi di la

voro, ma chiudono un occhio. Dopotutto si tratta di manodopera a basso costo e zero diritti. Che non merita nemmeno un minimo di sicurezza: le organizzazioni palestinesi denunciano casi di morti bianche o infortuni di illegali,di lavoratori  abbandonati dai datori di lavoro. E se riescono a raggiungere un ospedale, si vedono recapitare a casa conti salatissimi. Nena News




Israele condanna centinaia di palestinesi alla disoccupazione – a causa del loro cognome

Gideon Levy, Alex Levac |

23 marzo 2018, Haaretz

Le autorità israeliane hanno revocato i permessi di lavoro a più di mille palestinesi per il solo motivo che hanno lo stesso cognome dell’autore di un’aggressione col coltello.

Se questa non è una punizione collettiva, allora che cos’ è una punizione collettiva? Se questo non è arbitrio, allora che cos’ è un arbitrio? E se questa misura non innesca il fuoco nella relativamente tranquilla cittadina di Yatta, in Cisgiordania, allora a che cosa mira questo provvedimento? Yatta è sconvolta, la sua economia minaccia di collassare, e tutto per via di una persona che ha compiuto un reato, a causa del quale Israele sta punendo un’intera città.

Fino a pochi mesi fa più di 7000 residenti di questa cittadina a sud delle colline di Hebron avevano permessi di lavoro. Secondo l’ufficio palestinese di Coordinamento e Contatto [con gli occupanti israeliani] di Yatta, 915 di loro, con il cognome Abu Aram, lavoravano in Israele ed altre centinaia nelle colonie. Ma poi quei lavoratori hanno perso il lavoro in Israele e nelle colonie, solo a causa del loro cognome, in seguito ad un’ incredibile, draconiana decisione dell’Amministrazione Civile, l’ente israeliano che governa in Cisgiordania. Disperati, decine di loro hanno addirittura cambiato i loro cognomi sulle carte di identità, ma è stato inutile. Il loro ingresso per lavorare in Israele, dove per anni hanno avuto un impiego, è bloccato, benché non abbiano fatto niente di male. Ecco ciò che è successo.

Lo scorso 2 agosto un diciannovenne residente a Yatta, Ismail Abu Aram, accoltellò Niv Nehemia, vicedirettore di un supermercato nella città israeliana di Yavneh, ferendolo gravemente. L’aggressore fu arrestato. Il giorno seguente le autorità decisero – in base alla procedura standard dopo un attacco terroristico – di vietare alla famiglia dell’aggressore l’ingresso in Israele. Il divieto venne revocato 10 giorni dopo, i membri della famiglia tornarono ai loro impieghi in Israele e nelle colonie e Yatta riprese la sua vita normale.

Tuttavia, il 14 dicembre, senza ragioni apparenti, Israele improvvisamente si è ricordato dell’incidente e ha reintrodotto un divieto generalizzato nei confronti di migliaia di persone, senza preavviso né spiegazione.

Benché simili misure siano prassi consueta di Israele dopo gli attacchi, questa volta le dimensioni [del provvedimento] non hanno precedenti. Abu Aram è la più numerosa hamula (clan) di Yatta. Secondo gli attivisti, il lavoro in Israele e nelle colonie dà sostentamento a migliaia di residenti. I lavoratori e le loro famiglie sono ora condannati alla disoccupazione e agli stenti a causa dell’accoltellamento compiuto da Ismail, anche se la maggior parte di loro non lo conosce nemmeno.

Dal momento del divieto, la città è sconvolta e la sua economia in grave pericolo. Migliaia di lavoratori sono rimasti a casa inattivi per quattro mesi, si sono accumulati debiti e annullati matrimoni, gli assegni vengono respinti, i magazzini sono vuoti e i ragazzi hanno abbandonato la scuola. In base a caute stime, la cittadina, i cui residenti sono quasi interamente dipendenti dal lavoro in Israele, al momento ha una riduzione di centinaia di migliaia di shekel [100.000 ILS= 23.000 €, ndtr.] di entrate al mese.

Questa settimana gli abitanti di Yatta si sono riuniti per sfogare la loro angoscia e protestare. Più di 100 uomini si sono recati in un ristorante all’ingresso della città. In vista del nostro arrivo, qualcuno aveva preparato dei poster in un ebraico approssimativo per esprimere la loro protesta: “Lavoratori contro la punizione”, “No alla politica delle rappresaglie”. Dalla collina su cui è arroccata una moschea sono scesi sempre più uomini, in maggioranza di mezza età, i volti bruciati dal sole e non rasati, le mani da lavoratori, al polso orologi di plastica di poco valore – i muratori e gli asfaltatori, a cui ora si nega questa possibilità.

Sono gli uomini che si alzano alle tre del mattino per iniziare il lavoro alle sette, a Tel Aviv, Be’er Sheva, Gerusalemme, Beit Shemesh o Ashdod, e tornano a casa quando è buio. Ora languiscono a casa, arrabbiati e frustrati. Quasi tutti parlano ebraico. Mostrano i loro permessi di lavoro. I documenti rosa si accumulano sul tavolo; alcuni sono ancora validi, altri sono scaduti e non possono essere rinnovati e nessuno di essi ora consentirà loro di entrare in Israele a lavorare. Non sono colpiti solo i lavoratori manuali: commercianti e anche persone che hanno bisogno di cure mediche hanno il divieto di ingresso in Israele a causa del blocco “Abu Aram”.

Qui useremo solo il loro nome, perché hanno tutti lo stesso cognome, per loro disgrazia. Naim, di 52 anni, padre di otto figli, lavora per la Bardarian Brothers di Gerusalemme, impresa che si occupa di progettazione di infrastrutture e movimento terra. Di fatto, circa 300 membri della famiglia [allargata] lavorano per questa impresa. Naim vi ha lavorato per 13 anni. Il giorno dopo l’aggressione di Yavneh, si è alzato a notte fonda per andare a lavorare, ma al checkpoint 300 di Betlemme è stato rimandato a casa insieme ad altre centinaia di persone del clan. Gli è stato detto che il divieto sarebbe stato revocato dopo 10 giorni.

Ed è stato così. Dopo una settimana e mezza tutti sono tornati al lavoro, felici e sollevati. Poi è arrivato quel giorno nero di dicembre, quattro mesi dopo. Quella notte, ai checkpoint che attraversano andando al lavoro – Tarqumiya, Meitar e Checkpoint 300 – gli è stato detto: “ Tutti quelli della famiglia Abu Aram tornino a casa.” Almeno per sei mesi. Anche ai loro datori di lavoro israeliani è stato intimato: non assumete nessuno con il cognome proibito.

I lavoratori erano sconvolti, anche Naim. “Siamo andati a casa e vi siamo rimasti da allora”, dice, imbarazzato. Solo pochi di loro hanno nuovamente tentato la fortuna ai checkpoint negli ultimi mesi, e tutti sono stati mandati a casa. A quelli che hanno fatto molti tentativi sono stati anche confiscati i permessi – non che sarebbero serviti a qualcosa.

Abitualmente i permessi di lavoro devono essere rinnovati ogni sei mesi. Ecco il permesso di Sabar, valido fino al 10 marzo. Il permesso di Mohammed era valido fino al 14 febbraio. Gettano i documenti sul tavolo allo stesso modo in cui le carte da gioco vengono buttate sul tappeto verde di un tavolo di casinò; magari accadrà una magia e ritorneranno validi. “Permesso di uscita per lavoro in Israele. Il lavoro dura tutto il giorno. In Israele, tranne che a Eilat [città del sud di Israele, ndtr.]. Firmato Yitzhak Levy, ufficiale responsabile per l’impiego.”

Gli uomini sono andati negli uffici dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.] ed all’unità distrettuale di Coordinamento e Contatto [ente locale dell’ANP, ndtr.], a Hebron, ed alle principali sedi amministrative di Beit El. Nessuno li ha neppure ascoltati, tantomeno gli ha dato spiegazioni. Solo un impiegato si è preso la briga di dirgli che l’ordine era arrivato dall’alto. Quanto in alto? Non si può sapere. Hanno anche tentato la fortuna al municipio di Hebron, ma ovviamente nessuno là li ha potuti aiutare.

Nasser, un commerciante di rottami di ferro, è disoccupato. Ha 51 anni e nove figli. Con sei anni di lavoro nello stesso posto, dice: “È davvero brutto, fratello. Stiamo male.” Mahmoud, di 43 anni e cinque figli, ha lavorato come fattorino per la Levy Brothers negli ultimi 11 anni: “Uno abituato a stare in Israele per tutta la vita, può lavorare nei territori? Non c’è lavoro a Yatta. All’inizio ci alzavamo al mattino e andavamo al checkpoint. Adesso io mi alzo al mattino e litigo con mia moglie. Vogliamo che ciò che diciamo giunga (alle autorità israeliane).”

Anche Mohammed, 42 anni, passa le giornate in casa. Lavora per Y.D. Barzani, una ditta di costruzioni di Gerusalemme che ogni giorno faceva arrivare 10 lavoratori da Yatta per i suoi cantieri; adesso sono tutti qui, bloccati in casa. In base ai loro permessi, dovrebbero lavorare nelle costruzioni a Har Hotzvim, la zona di alta tecnologia industriale a Gerusalemme. Si avvicina suo figlio di 12 anni; ci avevano detto che ha lasciato la scuola perché i suoi genitori non hanno i soldi per comprargli i quaderni. “Non ci sono nemmeno 2 shekel ( 0,46 €) per comprare qualcosa per la ricreazione”, dice uno degli uomini. Altri dicono che alcuni residenti sono stati arrestati dalla polizia palestinese a causa di assegni a vuoto e debiti non pagati.

Alcuni disoccupati di Yatta più intraprendenti sono andati alla sede locale del ministero dell’Interno palestinese per modificare i propri nomi. Sabri Abu Aram è diventato Sabri Hassin, Mahmoud Abu Aram è diventato Mahmoud Mahmed, Radi Abu Aram si è trasformato in Radi Gabrin. I nomi sono stati modificati sulla loro carta d’identità – eccoli qui, per farceli controllare – ma al checkpoint israeliano non è cambiato niente: il numero di carta di identità era lo stesso.

Nasser, il commerciante di rottami di ferro, fa una domanda: “Metti che adesso andiamo sulla strada principale. Vogliamo fare una manifestazione pacifica. Vogliamo solo dire che vogliamo vivere. L’esercito è vicino. Sulla collina, a cinque minuti di distanza. C’è la possibilità che vengano qui e voi possiate parlare con loro?”

Ibrahim dice che se c’è un cespuglio spinoso nel giardino, tu sradichi il cespuglio, non l’intero giardino. Ibrahim, di 52 anni, si definisce un attivista per la pace, che probabilmente è il motivo per cui gli è stato negato l’ingresso in Israele negli ultimi 20 anni. Calcola che 30.000 persone siano colpite dal divieto, e di conseguenza tutta la città di Yatta, in quanto non vi è più entrato denaro. I negozi sono vuoti, dice.

“Ci vedono come nemici. Ma questa è una politica che accresce il livello di violenza. La vostra gente non lo capisce? Noi siamo a favore della vicinanza e della pace – ma questo agisce nel senso opposto”, dice Ibrahim. “Vorremmo che la sinistra israeliana sentisse la pressione, sollevasse la questione anche alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. Abbiamo già scritto lettere a tutte le organizzazioni per la pace.”

Interrogato sul tema, il portavoce del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori ha detto a Haaretz: “Il 2 agosto 2017 Ismail Abu Aram del villaggio di Yatta ha compiuto un’aggressione col coltello a Yavneh, durante la quale un civile è stato ferito gravemente. Come conseguenza, i permessi rilasciati ai membri del clan Abu Aram sono stati immediatamente sospesi.”

A Yatta dicono che prima del 1967 c’erano molti più cognomi in città. Dopo la conquista israeliana tutti i rami del grande clan vennero registrati col nome del mukhtar, il capo, Abu Aram. Ora vengono puniti.

Il lavoratore disoccupato Radi chiede se gli israeliani hanno trattato gli assassini (ebrei) della famiglia Dawabsheh a Duma [un bambino di 18 mesi, sua madre e suo padre sono morti arsi vivi in seguito all’attacco di coloni, ndtr.] nello stesso modo.

Io chiedo a Radi: “Almeno dormi fino tardi al mattino adesso?”

“Che cosa intendi con dormire, abbiamo ogni genere di pensieri e preoccupazioni.”

Raccolgono i loro permessi dal tavolo e li infilano in fondo alle tasche, il loro tesoro nascosto, e lentamente tornano a casa.

Ibrahim, quello che si definisce attivista, ha telefonato giovedì per dirci che il giorno prima quattro uomini del clan Abu Aram di Yatta hanno fatto un’escursione sui Monti della Giudea. Nel tardo pomeriggio, mentre scendevano in una gola che conduce al Mar Morto, hanno sentito grida di aiuto. Si sono imbattuti in una coppia di giovani escursionisti israeliani, di Be’er Sheva, che si erano persi ed erano sfiniti. Gli uomini se li sono caricati sulle spalle e li hanno portati dal letto del fiume fino alla loro macchina. Dopo aver raggiunto la strada principale, la coppia ha chiamato l’unità di sicurezza della vicina colonia di Carmel per chiedere aiuto.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




È l’economia, bellezza: la trattativa riservata di Israele con i palestinesi

Noa Landau

24 marzo 2018, Haaretz

Il ministro delle finanze Moshe Kahlon ha sviluppato legami diplomatici più profondi con Ramallah di quanto non voglia rivelare.

La tensione dei giorni di rabbia che seguirono il riconoscimento da parte dell’America di Gerusalemme come capitale di Israele rimane palpabile. I palestinesi hanno tagliato del tutto i rapporti con l’amministrazione Trump. Un accordo di pace sembra più lontano che mai. E un anziano ministro israeliano è entrato a passo di marcia nella Muqata [il quartier generale dell’ANP ndt] a Ramallah e, con un grande sorriso sul volto, ha dichiarato in arabo “Rahat a-Quds!” (“Avete perso Gerusalemme!”)

In un altro luogo e in un altro tempo, questo sicuramente sarebbe stato un casus belli, ma in questa storia, che è accaduta alla fine del mese scorso, i presenti hanno risposto divertiti e tolleranti e hanno stretto la mano al loro ospite – il ministro delle finanze e membro del gabinetto di sicurezza Moshe Kahlon.

Non era la prima visita di Kahlon a Ramallah, né il suo primo incontro con alti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il suo gesto è stato accettato con leggerezza perché hanno familiarità con lo stile diretto ma accattivante di Kahlon. Da quando è diventato ministro delle finanze, questo ex membro del Likud – che ora guida un partito, Kulanu, che non ha una chiara agenda diplomatica – è riuscito a sviluppare un canale riservato con la leadership palestinese. In primo luogo è stato per la cooperazione economica e il coordinamento sotto l’egida del sistema della sicurezza, mentre in seguito sono state affrontate altre questioni, mosse dall’abbraccio dell’orso americano. In sostanza, poiché i palestinesi hanno dichiarato che non siederanno al tavolo dei negoziati se Washington resta il mediatore, Kahlon è attualmente l’unico canale diplomatico attivo.

Alcuni funzionari palestinesi si riferiscono a lui con ironia come ministro del campo profughi, perché durante uno dei suoi incontri ha raccontato della difficile infanzia nei quartieri popolari di Givat Olga. Le sue conversazioni sono inframmezzate dall’arabo che ha imparato dai genitori tripolitani. Questo dettaglio ha attirato l’attenzione delle agenzie di stampa straniere, che lo hanno etichettato come “l’oratore arabo che potrebbe guidare Israele”. Solo Kahlon comprende veramente l’arabo: così hanno raccontato ad Haaretz persone al corrente di questi incontri, con una frecciata chiaramente rivolta al ministro della Difesa Avigdor Lieberman, ma si affrettano ad aggiungere che l’arabo di Kahlon è molto semplice e le sue conversazioni con i funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese sono condotte con l’aiuto di interpreti o in inglese.

Sebbene questi incontri non siano mai stati veramente segreti, anche se tutti i dettagli non sono noti, il presidente di Kulanu si sforza molto di nascondere questo aspetto del suo lavoro. Su tutti i suoi vivaci social network, tra le centinaia di annunci sui nuovi benefici finanziari e le immagini della anziana madre (che vive ancora a Givat Olga), troverete solo una manciata di riferimenti agli affari diplomatici o di sicurezza in generale e ai suoi legami con Ramallah in particolare. Non è una coincidenza, ovviamente. Kahlon è orgoglioso del suo lavoro in quest’area, ma ha anche paura di erodere la propria immagine di destra.

Misure restrittive’

I contatti sono iniziati quando ha assunto il Ministero delle Finanze nel 2015, con una telefonata dal suo omologo palestinese Shukri Bishara, che ha portato a un incontro a cui ha preso parte anche il Ministro per gli affari civili dell’ANP Hussein al-Sheikh. Questo non era un gesto insolito né una dimostrazione di buona volontà. Con il Protocollo di Parigi che regola le relazioni economiche tra Israele e ANP – che è stato perfino aggiornato nel 2012 dal primo ministro Benjamin Netanyahu, il quale ha dichiarato che era finalizzato a “sostenere la società palestinese e a rafforzare la sua economia” – Israele è obbligato a coordinare varie attività economiche con l’ANP, compreso il trasferimento delle imposte raccolte da Israele per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Nel corso degli anni, i governi israeliani hanno tenuto in ostaggio questi fondi palestinesi, ritardando o congelando il loro trasferimento come forma di pressione o di punizione. Stando così le cose, anche una decisione che regoli il trasferimento di fondi diventa una decisione diplomatica significativa, com’è la decisione del livello dei funzionari che partecipano alle riunioni. I colleghi di Kahlon dicono che anche il precedente ministro delle finanze, Yair Lapid, aveva incontrato Bishara nelle stesse circostanze, ma la relazione non fu mai così e non si riuscì ad affrontare [il problema] dei debiti.

Nel 2017 Kahlon ha iniziato a incontrare anche il primo ministro palestinese Rami Hamdallah, con il beneplacito e la benedizione di Netanyahu. I due si sono incontrati tre volte a Ramallah e si prevede che terranno un altro incontro a Gerusalemme. I due, insieme ai propri collaboratori, si connettono anche telefonicamente. A questi incontri parteciperà il Coordinatore delle attività del governo nei Territori, il generale Yoav Mordechai, che è responsabile anche dei meccanismi del coordinamento finanziario e della sicurezza. A volte ha partecipato anche il capo dell’intelligence palestinese Majid Faraj.

In assenza di un autentico processo diplomatico, le Forze di Difesa israeliane si sono da tempo concepite come l’adulto responsabile, mantenendo aperti i canali di dialogo con la Cisgiordania e Gaza nella maggior parte dei settori vitali. Ciò è sempre rappresentato come uno sforzo per mantenere il controllo sulla sicurezza. L’esercito ritiene che le misure di costruzione della fiducia siano un modo significativo per prevenire proteste violente. “Misure restrittive”, le chiamano gli alti funzionari della sicurezza.

Di tanto in tanto l’esercito coinvolge anche i politici, e Kahlon era un candidato perfetto. Il suo nuovo partito era sufficientemente libero dai tradizionali lacci politici, ha manifestato il desiderio di essere coinvolto e possiede un certo fascino personale. E poi, non aveva esperienza diplomatica. Gli incontri iniziati nel quadro degli Accordi di Oslo sono proseguiti, sotto la direzione di Mordechai, su altre questioni, principalmente l’accordo per risolvere il debito dell’Autorità Nazionale Palestinese verso l’Israel Electric Corp. e per regolare il settore energetico dell’Autorità Nazionale Palestinese, accordo che Kahlon ha firmato nel settembre 2016 e che includeva complesse garanzie e disposizioni.

Il primo incontro fra Kahlon e Hamdallah è avvenuto nel mese di giugno 2017 a Ramallah, quando hanno condiviso il pasto iftar che rompe il digiuno del Ramadan. Erano passati più di 10 anni da quando un funzionario israeliano di così alto livello aveva visitato il territorio dell’Autorità Nazionale Palestinese. Da allora le discussioni tra i loro staff hanno toccato questioni come facilitare le condizioni per le costruzioni palestinesi nell’area C della Cisgiordania, che è sotto il completo controllo israeliano, o gli insediamenti, la situazione a Gaza, la riconciliazione tra le fazioni palestinesi e il terrorismo.

Ma i temi principali sono stati quelli economici, questioni come aumentare il numero di palestinesi che possono lavorare in Israele; affrontare la crisi idrica e fognaria; il potenziamento della copertura per i cellulari; l’installazione di un sistema informatico comune che bloccherebbe l’evasione fiscale ai terminali commerciali; la regolamentazione delle pensioni per i lavoratori palestinesi in Israele; l’ipotesi di una zona industriale congiunta nell’insediamento di Betar Illit che impiegherebbe 2.000 lavoratori ultraortodossi e palestinesi; un terminale di carburante; i risarcimenti da Israele alle banche che forniscono servizi all’ANP, in base alle leggi internazionali contro il riciclaggio di denaro sporco, e un fondo comune che sarà finanziato con le tasse di gestione che Israele raccoglie sulle imposte della ANP, che saranno utilizzate per incoraggiare iniziative congiunte ad alta tecnologia. (“Diciamo che un’azienda di Ra’anana che voglia lavorare con una compagnia di Ramallah otterrà dei finanziamenti”, dicono le fonti).

Fonti a conoscenza del contenuto degli incontri hanno detto ad Haaretz che, durante una delle discussioni sull’eliminazione dei debiti di riscossione, è scoppiato un litigio sull’ammontare totale. I palestinesi non avevano fatture da presentare, quindi le due parti si sono accordate sullo stesso importo dell’anno prima. Durante la discussione Kahlon gli ha detto: “Mi hanno riferito che non ci sono soldi per medicine o insegnanti. Vengo da una casa dove non si toglie il cibo di bocca ai bambini, e non importa se sono ebrei o palestinesi “. Questo commento ha facilitato il resto della conversazione.

Ma alcuni funzionari palestinesi sono meno entusiasti. Dicono che il rapporto con Kahlon è totalmente professionale e deriva dalla necessità di gestire gli accordi economici con Israele. Gli alti funzionari dell’ANP sottolineano che non hanno inclinazioni fra chi gestisce i contatti con loro, purché non sia un colono. Dicono che i palestinesi “comuni” preferirebbero tagliare tutti i contatti con Israele, ma non capiscono che l’ANP non può farlo perché ha degli obblighi.

Poco dopo che Donald Trump ha prestato giuramento come presidente degli Stati Uniti, il suo inviato speciale in Medio Oriente, Jason Greenblatt, si è inserito in questa relazione complessa e in via di sviluppo. Cominciò a incontrare Mordechai e in seguito capì il ruolo che stava giocando Kahlon. Il perseguimento della “pace economica” era qualcosa che Greenblatt aveva sempre sostenuto, ma la sua importanza crebbe quando divenne l’unica opzione sul tavolo a causa della brusca interruzione voluta dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas.

Greenblatt e il segretario al tesoro degli Stati Uniti Steven Mnuchin hanno incontrato Kahlon alcune volte e hanno iniziato a insistere per aumentare la cooperazione e ottenere risultati. Le poche immagini disponibili di questi incontri si trovano sull’account Twitter di Greenblatt, che in qualche misura ha spesso portato entrambe le parti fuori dall’armadio dove avrebbero preferito rimanere nascosti.

Il secondo incontro Kahlon-Hamdallah, svoltosi in ottobre, è stato tenuto segreto fino a quando non è stato rivelato dalla Radio dell’esercito. I due, con l’incoraggiamento americano, hanno discusso di aumentare le ore di apertura dell’Allenby Bridge e degli altri valichi della Cisgiordania da e verso la Giordania.. Più o meno nello stesso periodo, una delegazione guidata dal direttore generale del ministero delle Finanze, Shai Babad, ha visitato la nuova città palestinese di Rawabi per far avanzare la pavimentazione di una strada di accesso alla città. Il ministro dell’Economia e dell’Industria Eli Cohen, anch’egli [membro] di Kulanu, ha visitato la Cisgiordania per mandare avanti la creazione di una zona industriale congiunta. Successivamente, Cohen si è anche incontrato a Parigi con il suo omologo palestinese, Abeer Odeh.

A gennaio Kahlon è apparso con rappresentanti americani e palestinesi in un servizio fotografico per l’inaugurazione di una nuova postazione di controllo con scansione presso il ponte Allenby, acquistata con gli aiuti europei. Alla cerimonia, Kahlon ha detto: “Sono arrivato al ministero delle finanze dopo che c’era stato un lungo blocco nelle relazioni tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Abbiamo deciso di assumerci le nostre responsabilità e portare avanti una serie di progetti comuni. Il progetto che stiamo inaugurando qui è un esempio di come una piccola cosa può operare un grande cambiamento. Abbiamo molti progetti per continuare la cooperazione economica con l’Autorità Nazionale Palestinese”.

Le fonti israeliane, tuttavia, minimizzavano il significato del progetto Allenby. “Non ci sarà più passaggio lì, ma gli americani volevano un risultato subito”, ha detto uno.

Durante il suo terzo incontro con Hamdallah, dopo il riconoscimento degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale di Israele, Kahlon era già diventato un canale significativo nelle comunicazioni tra l’amministrazione e i palestinesi. “Tornate a negoziare con gli americani, sono l’unico mediatore onesto nella regione”, avrebbe all’epoca detto Kahlon.

Sia Netanyahu che Abbas sono consapevoli di ciò che accade in questi incontri; a volte viene riferito anche agli altri membri del gabinetto di sicurezza. Avere là Kahlon, davanti e di fronte, fa bene a tutti. Quando c’è qualcosa di cui vantarsi, Netanyahu, che per anni ha promosso l’idea di “pace economica”, può farsi bello con l’amministrazione americana. Quando c’è una critica da destra, può dare la colpa a Kahlon.

Ma come sta progettando Kahlon di mantenere questo suo nuovo ruolo? Non è emerso alcun progetto diplomatico, nemmeno parziale. L’uomo che in passato ha detto a un intervistatore che la pace con i palestinesi potrebbe anche iniziare con “concorsi di cucina”, come per la diplomazia del ping-pong del presidente statunitense Richard Nixon, sta acquistando una significativa esperienza diplomatica, ma sta mantenendo le sue conclusioni per se stesso.

Né gli uffici di Kahlon né quelli di Hamdallah hanno reagito a questo articolo.

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




Per Israele Bolton è Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”, per chiunque altro è il dottor Stranamore dentro “Apocalypse Now”

Chemi Shalev

23 marzo 2018, Haaretz

Per il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump non c’è una guerra che non gli piaccia, un nemico che non voglia distruggere o un accordo diplomatico che valga la carta su cui è scritto.

Il licenziamento di H.R. McMaster e la nomina di John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sono stati accolti con gioia a Gerusalemme, con terrore nelle altre capitali. Israele spera che Bolton metta a posto i suoi nemici, mentre il mondo oggi ha maggiori timori di imminenti tensioni e guerre. Israele vede Bolton come Gary Cooper in “Mezzogiorno di fuoco”, arrivato per sparare ai cattivi, ma per la maggior parte del mondo è il dottor Stranamore [personaggio dello scienziato pazzo e criminale nell’omonimo film di Kubrik, ndt.], con un pizzico di “Apocalypse Now” [omonimo film di Coppola, ambientato durante la guerra del Vietnam, ndt.]. Se non altro l’esplosione di festeggiamenti in onore della nomina di Bolton nella coalizione di Netanyahu evidenzia la collocazione di Israele all’estrema destra dello spettro politico mondiale.

Bolton ha legami di lungo tempo e profondi con molti politici e funzionari israeliani. È un “vero amico”, come ha detto la ministra della Giustizia Ayelet Shaked [del partito di estrema destra dei coloni “Casa ebraica”, ndt.], uno che appoggerà incondizionatamente i sogni e le illusioni del suo campo, a differenza di scocciatori come Barack Obama e gli europei, che di tanto in tanto osano suggerire che è tempo di ricredersi. Netanyahu può essere soddisfatto, ma dovrebbe essere più cauto: la nomina di Bolton gli renderà più difficile limitare le richieste degli alleati della sua coalizione con la scusa che gli USA vi si oppongono. La nomina di Bolton rafforza il blocco di destra – messianico – evangelico in entrambi i Paesi, a cui Netanyahu racconta ancora a se stesso di non appartenere.

Per Bolton non c’è una guerra che non gli piaccia, un rivale che non voglia distruggere, un nemico che non voglia ridurre in mille pezzi e un conflitto internazionale che non creda si possa risolvere con le armi. Disprezza la diplomazia, denigra le organizzazioni multilaterali, vuole tornare ai giorni, se mai sono esistiti, in cui l’America diceva al mondo che cosa fare e tutti le davano retta. Bolton voleva attaccare la Corea del Nord, bombardare, bombardare e ancora bombardare l’Iran, seppellire le aspirazioni nazionali dei palestinesi. Non ha mai ritrattato il suo appoggio alla fallimentare guerra all’Iraq, e probabilmente sogna di trovare il nascondiglio in cui Saddam Hussein ha occultato le sue inesistenti armi di distruzione di massa.

Il passaggio da McMaster a Bolton sostituisce i freni della Casa Bianca con un acceleratore premuto a fondo; acuisce l’immagine bellicosa e aggressiva dell’amministrazione Trump in tutto il mondo. La nomina consolida la trasformazione, che Trump ha iniziato con la sostituzione del segretario di Stato Rex Tillerson con il più aggressivo [ex] direttore della CIA Mike Pompeo, da una politica estera americana rude ma tradizionale a un approccio radicale basato su politiche umorali, l’uso della forza e il totale disprezzo nei confronti dell’opinione pubblica internazionale. Il Pentagono rimane nelle mani del più cauto James Mattis, che probabilmente si unirà al generale e capo di stato maggiore John Kelly per formare un fronte comune, ma sarà Bolton che d’ora in poi indicherà la linea della Casa Bianca. Non è assurdo supporre che le ore siano contate anche per la partenza di Mattis e Kelly.

Trump, che trae profitto dai conflitti, probabilmente si rallegra delle reazioni contrarie alla nomina di Bolton. Deve aver superato la sua avversione per i famosi baffi del suo nuovo consigliere. Ma Bolton deve anche il suo nuovo incarico a due miliardari di estrema destra a cui il presidente dà retta. Il primo è il riservato commerciante di algoritmi Robert Mercer, che ha finanziato il Bolton’s PAC [comitato di Bolton, istituto per la sicurezza nazionale USAda lui fondato, ndt.] e i rapporti di questo con l’ora discussa [impresa di analisi informatica, ndt.] Cambridge Analytica. Bolton è il secondo consigliere per la sicurezza nazionale che Mercer ha sponsorizzato: il primo è stato Michael Flynn, che poi è stato coinvolto nell’inchiesta sul Russiagate [scandalo sulle interferenze russe nelle elezioni vinte da Trump, ndt.] di Robert Mueller [procuratore speciale che si occupa del caso, ndt.] ed ha ammesso di aver mentito all’FBI.

L’altro magnate che si congratula con se stesso è Sheldon Adelson, che ha preso Bolton sotto la sua ala e che da molto tempo finanzia lautamente le sue attività. L’ex-ambasciatore USA all’ONU, che ha abbandonato il suo incarico un decennio fa dopo che le sue opinioni sono state giudicate troppo estremiste per essere confermato dal Senato, deve essere stato una delle poche persone al mondo ad aver approvato la proposta di Adelson di far scoppiare una bomba nucleare nel deserto iraniano, solo a scopo dimostrativo. Si dice che Adelson sia rimasto scontento di Tillerson e di McMaster e che abbia fatto presente a Trump le sue opinioni. Il suo braccio destro alla “Coalizione Repubblicana Ebraica” [gruppo lobbystico che mette in contatto la comunità ebraica con i parlamentari repubblicani, ndt.], Elliott Broidy – il finanziere californiano noto in Israele per il fallimento del suo fondo “Markstone”, che ha privato molti israeliani dei loro fondi pensione – è stato ora denunciato per aver preso 2.7 milioni di dollari dagli Emirati Arabi Uniti per promuovere i loro interessi a Washington. Broidy ha invitato Trump a mollare Tillerson; McMaster era il suo ostacolo alla Casa Bianca. Ora entrambi se ne sono andati.

La “Sheldonizzazione” dell’amministrazione Trump in generale e la nomina di Bolton in particolare riducono le già scarse possibilità che Trump non voglia abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano, intensificando inevitabilmente le tensioni regionali e creando forse le condizioni per una guerra. La presenza di Bolton alla Casa Bianca cancella anche ogni possibilità di riportare i palestinesi al tavolo dei negoziati, non solo per le opinioni del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, ma anche a causa della legge Taylor ora approvata, che è apparentemente intesa a bloccare i sussidi dell’Autorità Nazionale Palestinese ai terroristi in carcere, ma che in realtà avrà come conseguenza una notevole riduzione dell’aiuto USA ai palestinesi.

Ma l’esultanza scoppiata nella destra israeliana va ben oltre lo scontro armato con l’Iran o il fatto di mettere la parola fine sulla bara del processo di pace. Riflette la rinnovata speranza, che ha conosciuto alti e bassi durante i primi 15 mesi di Trump al potere, che i tempi siano ora più maturi che mai prima d’ora per passi audaci ed irreversibili, compresa l’annessione [dei territori palestinesi occupati, ndt.]. Ma, mentre gli entusiasti di Bolton in Israele e negli USA stanno ascoltando estasiati le trombe che annunciano l’arrivo del Messia, il resto del mondo sta udendo sirene che danno l’allarme che non si tratta di un’esercitazione.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La giovane palestinese Ahed Tamimi raggiunge un patteggiamento per restare otto mesi in un carcere israeliano

Yotam Berger

21 marzo 2018, Haaretz

Anche la cugina e la madre di Tamimi ottengono un patteggiamento – l’avvocato afferma che l’accordo è una prova che l’esercito ha voluto ‘ un regolamento di conti’.

Mercoledì la giovane palestinese Ahed Tamimi ha raggiunto un patteggiamento con la procura militare, in base al quale verrà condannata a otto mesi di prigione. Il tribunale militare che si occupava del suo caso ha approvato il patteggiamento mercoledì, trasformandolo in sentenza ufficiale.

Come parte dell’accordo, la diciassettenne si è dichiarata colpevole di quattro aggressioni, compresi gli schiaffi, ripresi in un video, a un soldato israeliano. Oltre alla condanna ad otto mesi di prigione, dovrà pagare una multa di 5.000 shekels (1.437 dollari).

La procura ha raggiunto il patteggiamento anche con Nur e Nariman Tamimi, cugina e madre di Ahed Tamimi, entrambe coinvolte nell’attacco al soldato ripreso dal video. L’accordo, anch’esso approvato dal tribunale, condanna Nur Tamimi a passare 16 giorni in prigione e ad una multa di 2.000 shekels (575 dollari). La condanna di Nariman Tamimi è di otto mesi di prigione ed una multa di 6.000 shekels (1.725 dollari).

Il caso di Ahed Tamimi è stato discusso a porte chiuse. Il tribunale militare ha respinto una richiesta, da lei presentata questa settimana, di tenere il procedimento in pubblico.

Precedentemente l’avvocato di Tamimi, Gaby Lasky, ha confermato che era stata raggiunta un’ammissione di colpevolezza. “Il fatto che il patteggiamento preveda la riduzione di tutti i capi di imputazione che hanno reso possibile tenerla in prigione fino alla fine del procedimento è la prova che l’arresto di Tamimi in piena notte e il processo contro di lei erano atti finalizzati ad un regolamento di conti”, ha detto Lasky.

Prima che la sentenza fosse confermata dal tribunale, alcune fonti hanno riferito a Haaretz che, in base al patteggiamento, Tamimi sarebbe stata dichiarata colpevole dell’aggressione di dicembre ripresa dal video, di incitamento alla violenza per aver postato il video, e di due altre aggressioni a soldati. Ulteriori accuse per aggressione e lancio di pietre sarebbero state ritirate.

Secondo una delle fonti, nel caso di Ahed Tamimi la punizione non viene considerata né particolarmente mite né particolarmente severa. L’esercito israeliano ha sentito la necessità di porre fine alla questione legale, ha detto la fonte, in quanto essa ha danneggiato la reputazione dell’esercito sui media e a livello internazionale, il che potrebbe essere il motivo per cui il patteggiamento è stato fortemente voluto.

Inizialmente, in gennaio, l’imputazione di Tamimi comprendeva 12 capi d’accusa, a partire dal 2016. Includeva cinque aggressioni contro le forze di sicurezza, compreso il lancio di pietre. E’ stata accusata di aggressione, di minacce e di intralcio ad un soldato nell’esercizio delle sue funzioni, di incitamento e lancio di oggetti contro persone o proprietà.

La madre di Tamimi, Nariman, è stata anche accusata di istigazione sui social media – ha filmato l’incidente degli schiaffi – e di aggressione. La cugina di Tamimi, Nur, è stata accusata di aggressione aggravata.

Nur Tamimi ha detto che lei e Ahed hanno preso a schiaffi i soldati in parte perché loro avevano invaso il cortile di Ahed il 15 dicembre, il giorno in cui sono state filmate – ma la ragione principale è stata che avevano appena letto su Facebook che un cugino, Mohammed Tamimi, aveva riportato una ferita alla testa apparentemente letale provocata da un proiettile [sparato da] un soldato israeliano. In realtà lui è sopravvissuto allo sparo.

Bassem Tamimi, padre di Ahed, ha detto che sua moglie e sua figlia non hanno fatto niente di male e che stanno“ lottando per la libertà e la giustizia.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Israele pensa di revocare la residenza ai deputati palestinesi di Hamas

Lee Yaron, Jack Khoury

20 marzo 2018 Haaretz

L’iniziativa del ministro dell’interno in base alla nuova legge farebbe perdere a 12 palestinesi coinvolti nel terrorismo il proprio status giuridico; quattro di loro sono membri del parlamento di Hamas.

Israele sta prendendo in considerazione la revoca della residenza permanente a 12 palestinesi di Gerusalemme est, a causa del loro coinvolgimento in attività terroristiche. Tra i 12 vi sono quattro rappresentanti di Hamas nel Parlamento palestinese.

In una dichiarazione si afferma che il ministro dell’Interno Arve Dery ha iniziato a considerare questo passo dopo che la Knesset (Parlamento israeliano) due settimane fa ha approvato la legge necessaria. La nuova legge consente al ministro di togliere a tutti i residenti permanenti, inclusi i palestinesi di Gerusalemme est, i loro diritti di residenza, se coinvolti in attività terroristiche o in altre azioni contro lo Stato di Israele.

La legge è stata approvata in risposta ad una sentenza dell’Alta Corte di Giustizia dello scorso settembre, che ha ribaltato una decisione, di oltre un decennio fa, di revocare la residenza permanente a quattro parlamentari. I quattro – Mohammed Abu Tir, Ahmed Atoun, Mohammed Totah e Khaled Abu Arafeh – hanno tutti ricoperto ruoli chiave nelle istituzioni di Hamas.

Dery sta anche considerando di revocare la residenza a Mohammed Abu Kef, Walid Atrash e Abed Dawiat, che hanno ucciso un israeliano quando, alla vigilia di Rosh Hashanah (uno dei tre capodanno religiosi ebraici, ndtr) del 2015, hanno preso a sassate la sua automobile a Gerusalemme. Nella lista compare anche Bilal Abu Ghanem, che nel 2015 ha compiuto un attacco su un autobus a Gerusalemme, uccidendo tre israeliani.

Avil Qassam, Asem Abbasi, Mohammed Odeh e Ali Abbasi sono nella lista perché facevano parte di una cellula coinvolta in diversi attacchi terroristici, compresa la bomba al caffè Moment di Gerusalemme nel 2002, che uccise 11 israeliani.

“L’uccisione di israeliani ed il coinvolgimento in attacchi contro civili è la più grave rottura della fiducia tra un residente e il suo Paese”, ha detto Dery. “Lo stesso vale per il coinvolgimento attivo e significativo in organizzazioni terroristiche. Residenti e cittadini che mettono a rischio la popolazione israeliana e costituiscono una minaccia alla sua sicurezza devono sapere che il loro status è in pericolo, al di là di altre punizioni previste dalla legge. Io lavorerò con tutte le mie forze e con tutti i mezzi a mia disposizione per combattere i terroristi e chiunque sia coinvolto o fiancheggi il terrorismo.”

L’avvocato Osama Saadi, che rappresenta i quattro parlamentari di Hamas, ha detto: “L’emendamento in questione è incostituzionale e persino il pubblico ministero vi si è opposto. Inoltre, la legge stabilisce che in ogni caso non è possibile revocare la residenza ai residenti di Gerusalemme est, che hanno uno status speciale, e lasciarli senza alcuna residenza.

Inoltreremo una petizione all’Alta Corte a favore di queste quattro persone che, come ricorderete, hanno condotto una battaglia legale contro la revoca della loro residenza fin dal 2006 ed hanno vinto la causa pochi mesi fa”, ha aggiunto. “Questo emendamento viola il diritto internazionale e le revoche cumulative, come sta avvenendo oggi, dimostrano che questa è una legge politica fatta da un governo folle.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un bambino palestinese è rimasto orfano del padre disabile ucciso dall’esercito israeliano

Gideon Levy, Alex Levac

16 marzo 2018, Haaretz

A Hebron i soldati hanno ucciso Mohammed Jabri, un uomo mentalmente disabile incapace di parlare, che stava crescendo da solo il figlio di quattro anni.

Zain, poco più di 4 anni, fissa lo spazio nella sua piccola stanza con occhi spenti, senza emettere alcun suono. È seduto sulle ginocchia della nonna – anche se pensa che sia sua madre, perché così gli è stato detto. Ora gli hanno detto anche che suo padre è stato ucciso, anche se è improbabile che sia in grado di cogliere l’enormità della nuova catastrofe che lo ha colpito.

Tre anni fa, appena neonato, ha perso sua madre. Lo scorso venerdì ha perso anche suo padre, un giovane mentalmente disabile incapace di parlare. Con un gesto insensato, i soldati delle Forze di Difesa Israeliane, usando veri proiettili, gli hanno sparato al petto da una distanza di 20 metri, uccidendolo.

Abbiamo incontrato Zain tre giorni dopo la tragedia, seduto in silenzio in grembo alla nonna. A causa della terribile situazione economica della famiglia, il bimbo finirà probabilmente in un orfanotrofio, dice la nonna, che promette di andare regolarmente a trovarlo.

Mancano le parole in questa casa di dolore; è un momento di angoscia e lacrime. La casa è una struttura in pietra nella città vecchia di Hebron, sopra la Tomba dei Patriarchi e il quartiere dei coloni, ma in H1 – l’area che dovrebbe essere sotto il controllo palestinese. La penombra regna in casa.

Mentre gli occhi si abituano all’oscurità, una realtà incredibile prende forma. In questa casa vivono una coppia ed i loro 12 figli, quattro dei quali sono disabili, insieme ad alcuni giovani nipoti, tutti stretti in tre piccole stanze. I figli disabili soffrono di una varietà di problemi, tra cui malattia mentale e epilessia.

In questa casa viveva anche la giovane madre, morta a 18 anni di cancro, circa un anno dopo la nascita del suo unico figlio. E in questa casa viveva suo marito, Mohammed Jabri, 24 anni, che stava crescendo il loro giovane figlio, Zain, da solo. Adesso anche il padre è morto. Ucciso dalle forze di difesa israeliane.

Nel dimesso soggiorno vanno e vengono gli abitanti della casa, dando vita a scene indescrivibili. Ci sono il ventunenne Iyad, che ha l’epilessia e anche un handicap mentale; le sorelle Anwar, 20 anni, e Isra, 17, entrambe incapaci di parlare e che emettono solo suoni incomprensibili, esattamente come il loro fratello morto.

Ora sono tutti sconvolti dal dolore per Mohammed, figlio e fratello, ucciso vicino al recinto del liceo femminile in King Faisal Street a Hebron. Tre soldati, nascosti dietro il tronco di un ulivo secolare, stavano tendendo un agguato ai lanciatori di pietre nel cortile della scuola; improvvisamente sono balzati fuori dal loro nascondiglio e hanno sparato a Mohammed. Suo padre dice che non era in grado di cogliere un pericolo in arrivo.

“Mohammed era un semplice. Non si sarebbe accorto, per esempio, del pericolo di soldati che sparavano.” dice il padre Zain, col cui nome è stato chiamato il nipote. Né conosceva la differenza tra una banconota da cinquanta shekel e una moneta da mezzo shekel, in questa casa poverissima. “Per lui tutto era mezzo shekel”, aggiunge Zain.

A Hebron tutti conoscevano Mohammed a causa del suo strano comportamento, ed era chiamato “Akha, Akha” – un’eco dei suoni privi di significato che emetteva. “Akha, Akha” era ciò che abitualmente gridava ai soldati israeliani, alcuni dei quali sapevano anche chi fosse. Spesso li scherniva ai checkpoint tra le due parti della città, urlando loro suoni gutturali, a volte anche tirando pietre.

Era già stato arrestato due volte, ma in entrambe le occasioni fu rapidamente trasferito alla custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese, che lo ha riportato a casa dai suoi genitori a causa delle sue condizioni. L’ultima volta è successo un anno e mezzo fa. È stato anche ferito tre volte da spari alle gambe mentre lanciava pietre, ma le ferite non erano gravi.

Quindi “Akha, Akha” ha continuato a provocare i soldati, come lo scorso venerdì, in quello che si rivelò essere l’ultimo giorno della sua vita. “Il governo israeliano e l’esercito sapevano esattamente chi era Mohammed. Dopo tutto, lo hanno arrestato e rilasciato” ci dice Zain, durante la nostra visita di questa settimana.

Ablaa, la madre, piange mentre suo marito racconta la storia. Hanno entrambi 51 anni. Zain lavora in un garage nel villaggio di Husan, i cui clienti provengono per la maggior parte dal grande insediamento ultra-ortodosso di Betar Ilit, nelle vicinanze. Mohammed faceva occasionalmente lavori saltuari come la pavimentazione stradale, per quanto consentito dalle sue disabilità. Dopo che Duah, sua moglie e madre del piccolo Zain, morì, si risposò, ma la sua seconda moglie, Amal, lo lasciò dopo un anno. Probabilmente trovava difficile vivere insieme al marito disabile in questa triste e affollata casa di tragedie.

Solo il padre e una delle sue sorelle, Asma, riuscivano a capire cosa c’era nel cuore di Mohammed e a decifrare le sue strane espressioni. Mohammed non sapeva nemmeno leggere o scrivere, e comunicare con lui era difficile.

Suo padre racconta che Mohammed era triste dopo che Amal lo aveva lasciato e aveva mandato degli intermediari alla sua famiglia, per convincerla a tornare; chiese anche a Zain di riportarla indietro, ma fu inutile. Ablaa ricorda che l’ultima sera della sua vita Mohammed era particolarmente triste. Andò a dormire prima del solito e si alzò più tardi del solito il giorno seguente. Era così preoccupata per lui che andò a controllarlo alcune volte durante la notte per assicurarsi che stesse ancora respirando, dice ora tra le lacrime.

Erano già passate le 10 venerdì quando Mohammed si è svegliato. Suo padre era da tempo andato al lavoro al garage; sua madre mandò Mohammed a comprare del pollo. Dopo di che è andato alla moschea per pregare, ma non è mai tornato. Ablaa ricorda che aveva preparato il maqluba, un piatto tradizionale a base di carne e riso; poiché era in ritardo per il pranzo, gli aveva tenuto la sua porzione sul tavolo.

“Era così sensibile”, dice ora. “Non sapevi mai dove fosse.”

Mohammed non era ancora tornato quando Zain tornò a casa dal lavoro, si lavò le mani e si sedette a mangiare. Un parente chiamò Asma per dire che Mohammed era stato ferito alle gambe. “Possa Dio avere pietà di lui”, esclamò il padre sentita la notizia, aggiungendo adesso che aveva già il sentore che la situazione fosse più seria. Lui e Ablaa andarono in fretta all’ospedale Alia di Hebron, mentre lui recitava sottovoce i versetti da pronunciare in caso di morte: “Possa Dio compensarci.” Sua moglie cercava di calmarlo. Adesso dice: “Possa Dio punire i soldati che hanno ucciso Mohammed!” e ricomincia a piangere.

Dozzine di residenti locali stavano già affollando il pronto soccorso quando sono arrivati all’ospedale. Zain dice di essere stato l’ultimo a conoscere la verità sulle condizioni di suo figlio.

Lasciata la macchina in mezzo alla strada, era corso dentro. I medici gli chiesero chi fosse e lui si identificò. In quel momento stavano ancora cercando di rianimare suo figlio. Zain dice di non aver mai visto una cosa simile: l’intero corpo di suo figlio era coperto di sangue, anche il viso. Anche il pavimento era intriso di sangue. Riusciva a malapena a identificare Mohammed e chiese ai dottori di dirgli la verità. Uno di loro disse: “Possa Dio compensarti”.

In seguito, ricorda Zain, i soldati dell’ esercito israeliano sono arrivati in ospedale per arrestare Mohammed. La famiglia in fretta e furia ha fatto uscire di nascosto il corpo su un’auto privata e l’ha trasportato nell’altro ospedale della città, Al-Ahli.

L’unità portavoce dell’esercito ha dichiarato, in risposta a una domanda di Haaretz: “Venerdì 9 marzo 2018 è scoppiato un violento disordine nella città di Hebron, con dozzine di partecipanti palestinesi che lanciavano pietre, macigni e bottiglie molotov alle forze dell’esercito.

“Da una prima indagine, sembra che durante l’evento, i soldati abbiano sparato a un dimostrante che ha sollevato una bottiglia Molotov da distanza ravvicinata con l’intenzione di colpirli. Il dimostrante fu ferito dagli spari e in seguito, all’ospedale, fu dichiarato morto. Si continua a investigare sulle circostanze dei fatti.

“Diversamente da quanto affermato [nell’articolo], in nessun momento le forze dell’esercito sono venute in ospedale in merito al corpo del defunto.”

In lutto, il fratello epilettico di Mohammed, Iyad, arriva nella stanza. Quanti anni hai? Iyad risponde “Ho 16 anni”, in realtà ne ha 21. Sembra sconvolto. “Ho perso Mohammed, ho perso Mohammed”, mormora in continuazione, e si siede. Qualche minuto dopo si alza, evidentemente agitato – molto agitato, anche se non minaccioso – finché il padre non riesce a calmarlo.

Dice Zain: “Quando vogliono uccidere qualcuno, non fanno differenza tra ricchi e poveri, sani e malati, normali e malati di mente. Avrebbero potuto arrestarlo, avrebbero potuto sparargli alle gambe, ma hanno deciso di colpirlo con quel proiettile.

Si capisce che Mohammed è stato colpito da una pallottola vera entrata nel petto sul lato destro e uscita dalla schiena sul lato sinistro. Zain dice di voler sporgere denuncia alle autorità militari per l’uccisione di suo figlio, ma teme di veder confiscare i permessi di lavoro israeliani ad alcuni membri della famiglia.

Siamo quindi andati sul luogo dell’uccisione. Alcune ragazze vagano nel campo di basket della scuola. Bisogna ricordare che questa parte di Hebron non è controllata da Israele. I soldati hanno invaso il sito, come al solito, all’inseguimento di persone che lanciavano pietre dal tetto di una casa sul vicino posto di blocco.

L’insediamento di Tel Rumeida si staglia sulla collina di fronte. King Faisal Street, via principale e rumorosa. Secondo Musa Abu Hashhash, ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che ha indagato sull’incidente, erano solo Mohammed e altri tre o quattro giovani a fronteggiare i soldati in quel fatidico giorno, non di più.

Si vede un foro di proiettile sul cancello di ferro grigio argento della scuola femminile. Sulla strada c’è una macchia di sangue, ora secca.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Droni e disaffezione nella causa palestinese

Ramona Wadi

14 marzo 2018,Middle East Monitor

Sui media israeliani sono comparse immagini di droni che lo scorso venerdì hanno fatto cadere candelotti lacrimogeni su manifestanti palestinesi nei pressi del confine a sud di Gaza. Il “Times of Israel” [giornale israeliano on line che si pretende “apolitico”, ndt.] e “Haaretz” hanno entrambi informato, con racconti leggermente diversi, del fatto che la protesta è stata presa di mira.

Il primo ha raccontato che un portavoce dell’esercito israeliano (IDF) ha negato responsabilità per l’operazione con il drone, affermando che era stata la polizia di frontiera israeliana. Invece Haaretz ha attribuito l’uso del drone all’IDF, riportando fonti militari che hanno affermato: “Questo metodo di controllo della folla è al momento sperimentale e non è ancora stato reso operativo.”

Da queste informazioni si possono ricavare due importanti conclusioni. C’è una chiara ammissione che Israele sperimenta nuovi armamenti sulla popolazione palestinese di Gaza. Inoltre, che Israele sta continuamente cercando sistemi per evitare di essere considerato responsabile rendendo normale la propria violenza contro civili palestinesi. Utilizzare droni per lanciare gas lacrimogeno durante proteste legittime evita la necessità della presenza di militari sul posto. Ciò consentirà ad Israele di intensificare anche la propria narrazione sulla sicurezza, giustificando l’uso dei droni – finora sperimentale – per evitare vittime tra le truppe dell’IDF.

Essendo questa ancora una nuova forma di oppressione in nome della sicurezza, questo sviluppo consentirà inoltre a Israele di aggiungere un’ulteriore forma di violenza su cui la comunità internazionale chiuderà un occhio. L’assenza di uno scontro aperto ha molte conseguenze sui civili palestinesi. Israele non si sta astenendo dal prendere di mira i palestinesi, sta semplicemente affinando i propri metodi per farlo e lo sta sommando al disequilibrio di un’entità coloniale con potere militare preponderante che viola i diritti di una popolazione colonizzata che non ha l’opportunità di avvalersi del proprio diritto all’autodeterminazione.

Con l’uso dei droni Israele sta occultando agli occhi del mondo la sua violenza più visibile, come esemplificata dall’[intervento dell’] esercito. I media più importanti saranno in grado di sfruttare la falsa narrazione diffusa ovunque della resistenza palestinese come “terrorismo”. L’ONU e altre istituzioni internazionali faranno altrettanto, seppure all’inizio con una strategia più velata. Nel momento in cui il colonizzatore elimina dall’equazione la parte più violenta e visibile del colonialismo, la narrazione israeliana sul “terrorismo” diventa più accettabile per la comunità internazionale. In fin dei conti non sta stabilendo un precedente in termini di uso dei droni, ma estendendo la giustificazione per un simile uso, attraverso la sua stessa narrazione, proteggendo il proprio personale militare dal giudizio riguardo a palestinesi uccisi o feriti.

Israele può essere certo che il suo utilizzo dei droni per colpire i manifestanti palestinesi non metterà in allarme la comunità internazionale. In fin dei conti ha commesso azioni peggiori contro i civili palestinesi di Gaza. Mentre la guerra con i droni diventa un’opzione ideale, il mondo è diventato così insensibile alle vittime palestinesi che non solo non ha compassione per i civili, ma è anche incapace di sdegno nei confronti dei responsabili.

Per i palestinesi non si tratta solo di massacri. La più recente sperimentazione da parte di Israele non si limita alle ferite visibili, sta anche cercando l’approvazione internazionale per i suoi metodi. Una minore attenzione alla resistenza di Gaza è fondamentale per i progetti israeliani di imporre l’oblio sull’enclave. Aggiungere un’ulteriore forma di violenza alla lista delle misure già messe in atto non farà arrabbiare la comunità internazionale, ma fornirà semplicemente più materiale per statistiche e rapporti. Nel frattempo Gaza rimane imprigionata nella sua implosione, la sua voce viene eliminata da fonti ufficiali palestinesi o estere che diffondono la narrazione israeliana, mentre sostengono di parlare a favore di una popolazione civile imprigionata.

(traduzione di Amedeo Rossi)